TEDALDO DI CANOSSA
DI CANOSSA. – Fu figlio di Adalberto Atto, considerato il capostipite dei Canossa, e di Ildegarda, che appartenne all’alta aristocrazia italica, ma di cui non sono certe le ascendenze.
La denominazione de Canussa per designare sia Tedaldo sia il padre, che è sintomo di una precoce formazione cognominale volta a identificare la linea agnatizia di Adalberto Atto, è attestata per la prima volta nella Rethorimachia di Anselmo da Besate (a cura di K. Manitius, 1958, II, cap. 2, p. 141), che menziona il matrimonio di Prangarda, figlia di Adalberto Atto e sorella di Tedaldo, e il marchese arduinico Manfredo. Questo matrimonio, che fu il nodo di un’alleanza politica importante fra due dei gruppi parentali più aggressivi della nuova aristocrazia italica, promossa prima da Ugo di Arles e poi da Ottone I, è testimoniato anche da una carta di compravendita (991) e dai racconti della Cronaca di Novalesa (a cura di G.C. Alessio, 1982, p. 272).
La data di nascita non è precisabile, ma la si può ragionevolmente collocare alla fine degli anni Cinquanta del X secolo (compare infatti nella documentazione, a fianco del padre, già nei primi anni Settanta). Ebbe due fratelli maschi: Gotefredo, che fu vescovo di Brescia (970-979) e poi, forse, di Luni (981), e Rodolfo – il più giovane dei tre, probabilmente –, che morì però prima del padre, lasciando quindi Tedaldo quale unico erede di Adalberto Atto.
Il ritratto dei tre fratelli insieme è offerto dai versi 435-440 del poema del monaco Donizone, noto come Vita Mathildis, dedicato nella sua prima parte ai ‘principi canossiani’, cioè agli antenati della contessa Matilde: in questa descrizione Tedaldo emerge sui fratelli quale erede del padre, di cui servavit honorem (conservò cioè le cariche pubbliche). Nella miniatura che illustra questi versi nel codice Vat. lat. 4922 (c. 20v), Tedaldo è l’ultimo a destra dei tre fratelli e porta in mano, quale segno dell’eredità di quell’incarico pubblico, un giglio stilizzato, simbolo del potere regio. In un’altra miniatura (c. 21v), egli siede su un trono e appoggia i piedi su uno sgabello insieme con la moglie Guilla e, al di sotto, si trovano i tre figli della coppia (vedi infra).
A questa doppia rappresentazione grafica non corrisponde però altrettanta attenzione narrativa: nel poema di Donizone, infatti, appena trentasette versi sono dedicati a Tedaldo e alle vicende che lo impegnarono. La reticenza del monaco, primo e unico biografo della discendenza canossana, ha pesato sulla scarsa fortuna storiografica di Tedaldo anche nei secoli a venire: a oggi infatti non è protagonista di alcuna trattazione storica dedicata.
Per la prima attestazione dell’attività di Tedaldo soccorre la documentazione notarile: nel 973 egli presenziò insieme con il padre e il fratello Rodolfo a una compravendita operata da una loro cugina, Adelchinda, moglie di tale Bugo che apparteneva ai da Belusco (o Erbusco), un gruppo parentale attivo nel bergamasco e fedele di Ottone I (Le pergamene..., a cura di M. Cortesi, 1988, n. 129). Adelchinda era figlia di Sigefredo, fratello di Adalberto Atto e sorella quindi del vescovo di Parma, Sigefredo egli pure: la presenza alla compravendita di Tedaldo, insieme con il padre e il fratello, rispondeva alla legge di tradizione longobarda che pretendeva che i parenti prossimi di una donna intervenissero agli atti di compravendita o donazione che la vedevano protagonista per garantire la sua effettiva libertà d’azione, anche dalle pressioni del mundoaldo, il marito in questo caso.
Tale presenza evidenzia pure una larga solidarietà orizzontale fra Adalberto Azzo e i suoi fratelli, così come fra i loro figli nella gestione delle reti di alleanza che andavano stringendo tramite accordi matrimoniali con altre importanti famiglie aristocratiche del Regno italico.
Appena due anni dopo, nel dicembre del 975, Tedaldo appare insignito del titolo di comes e pienamente in grado di agire da solo: si recò infatti a Roma e, a nome proprio e del padre, richiese a papa Benedetto VII un privilegio che consentiva loro di istituire un collegio di canonici presso la chiesa del castello di Canossa, intitolata a s. Apollonio (Papsturkunden..., a cura di H. Zimmermann, 1984, I, n. 240). Ancora prima della morte del padre, egli esercitò pienamente l’attività giurisdizionale connessa alla carica di conte di Brescia: si tratta di una testimonianza indiretta ma che non consente equivoci. Nel 1001 a Farfengo (nel Bresciano), presiedette un placito che doveva dirimere la controversia sorta fra il monastero di Nonantola e il conte Bosone per il possesso della cappella di Santa Maria di Solara (I placiti del Regnum Italiae, a cura di C. Manaresi, 1957-1958, II, 1, n. 259). Dal testo del placito si evince che già in precedenza la controversia era stata discussa e che Tedaldo aveva pronunciato una sentenza simile a quella emessa nel 1001, già nel 986 (ibid., II, 2, Placiti perduti, n. 30).
Adalberto Atto morì il 13 febbraio 988, come ricorda un necrologio della chiesa di Modena (P. Bortolotti, Antiche vite di S. Geminiano..., 1886) e la prima attestazione diretta di Tedaldo quale marchio – e anche conte del comitato di Modena – è del 3 gennaio 989 e appare in una permuta conclusasi a Pavia, a cui partecipò un suo messo (Rinaldi, 2003, p. 59, nota 84).
A quei tempi doveva essere già sposato, come suggeriscono le date di attestazione dei figli: il matrimonio di Tedaldo con Guilla degli Hucpoldingi testimonia la volontà e l’abilità di affermazione di Adalberto Atto.
L’unione matrimoniale con una donna che apparteneva a una discendenza di rango marchionale proiettò Tedaldo nel novero della più alta aristocrazia del regno italico: Guilla è detta ducatrix da Donizone, con piena coscienza dinastica, e un suo cugino di nome Bonifacio fu titolare della marca di Tuscia proprio nei primissimi anni del Mille. La donna portò in dote a Tedaldo terre e castelli posti lungo le aree di strada fra la Romagna e la Tuscia, insieme con il nome Bonifacio, che fu dato al figlio della coppia che, sulla base di queste premesse parentali e patrimoniali, fu nominato marchese di Tuscia da Corrado II (1027-28), pochi anni dopo che il fratello Tedaldo era diventato vescovo ad Arezzo (1023).
Cinque anni dopo la morte del padre, nel 993, Tedaldo fu citato in giudizio dal vescovo di Verona Otberto, che lamentava davanti al tribunale regio il fatto che egli, insieme con tale Berta cognata sua (probabilmente vedova del fratello Rodolfo e coinvolta nella controversia per via della sua dote maritale: Rinaldi, 2003) aveva occupato illegittimamente la curtis di Riva del Garda. Tedaldo non si presentò in giudizio e il vescovo ottenne così facilmente ragione (I placiti del Regnum Italiae, cit., II, 1, n. 218).
Nel placito, che è conservato in originale, Tedaldo è definito «olim marchio» – un tempo marchese – e ciò ha suscitato dubbi sulla sua identificazione con il canossano, perché egli rimase marchese per tutta la durata della sua vita, ma il contesto geografico e cronologico avvalora invece in modo difficilmente discutibile l’identificazione (Golinelli, 1991).
Nel 996, Tedaldo fu presente alla corte di Ottone III a Verona, per perorare la nomina del nuovo vescovo di Brescia, Adalberto e la sua vicinanza all’imperatore è testimoniata anche dall’intervento che due anni dopo, nel 998, condusse contro il conte Lamberto di Sarsina, ribelle contro l’imperatore e l’arcivescovo di Ravenna (D’Acunto, 2002). Uno schieramento filoimperiale che mantenne con fermezza durante la lunga crisi politica e militare che coinvolse il Regno italico dopo la morte di Ottone III (1002): egli infatti si schierò apertamente e senza esitazioni fra i sostenitori dell’imperatore Enrico II, contro Arduino, eletto re del Regno italico (1002-14) da numerosi esponenti dell’aristocrazia. Tale scelta è testimoniata da cronache transalpine che raccontano di un suo viaggio presso la corte germanica negli anni 1002-03 (Thietmari Chronicon, a cura di G.H. Pertz, 1839, V, p. 798), accompagnato dal cugino Sigefredo, allora vescovo di Parma e dell’accoglienza offerta a Enrico II nel 1004, quando giunse a Verona, dove trovò ad accoglierlo truppe inviate da Tedaldo (ibid., VI, p. 805). Nel 1003, il vescovo Sigefredo ottenne così dall’imperatore, grazie all’intercessione di Tedaldo, l’abbazia di Nonantola e l’intero suo patrimonio, fatta eccezione per una porzione lungo il corso dell’Adige che era stata concessa al vescovo di Verona Otberto (Die Urkunden Heinrichs II..., a cura di H. Bresslan - H. Bloch, 1957, n. 41).
Nel giugno del 1007, infine, Tedaldo fondò il monastero di San Benedetto di Polirone, al quale attribuì in usufrutto numerosi e ampi beni del suo patrimonio privato, vincolando l’ente al dominio e alla tutela degli eredi e dedicandolo alla salvezza della propria anima, e di quelle della moglie defunta e dei figli (Codice diplomatico polironiano..., a cura di P. Golinelli - R. Rinaldi - C. Villani, 1993, n. 14). Fu l’ultimo atto noto della sua esistenza: Tedaldo morì il giorno 8 di maggio, come testimonia il calendario polironiano (G.A. Gradenigo, Calendario polironiano..., 1759, p. 11), di un anno compreso fra il 1008 e il 1012. La sua ultima attestazione da vivo risale appunto al giugno 1007, mentre era già morto nel luglio del 1012 (Codice diplomatico polironiano..., cit., n. 16).
Il citato poema di Donizone dedica a Tedaldo, come accennato, pochi versi, che sottolineano quanto della sua attività si voleva fosse ricordato nei primi decenni del XII secolo, quando il monaco scrisse, in un contesto politico radicalmente mutato. Tedaldo aveva conservato gli incarichi del padre, aveva aumentato il patrimonio privato ed era stato ricchissimo, secondo Donizone. Aveva avuto stretti rapporti con i re ed era stato a loro molto caro: un solo verso è dedicato alla fedeltà strettissima che Tedaldo mantenne nei confronti di Enrico II nei duri anni dello scontro con Arduino, e nessuna parola su quelle vicende che avrebbero potuto essere narrate, invece, con toni epici. Donizone aggiunge invece, subito dopo, che era stato molto amato anche dal papa di Roma, che gli aveva concesso il potere su Ferrara, fatto che conosce quest’unica attestazione e che ha destato molte e giustificate perplessità fra gli storici (Vasina, in Canossa prima di Matilde, 1990). Sfumata la fedeltà all’Impero e sottolineato il rapporto di fiducia con Roma, Donizone aggiunge soltanto il ricordo della fondazione del monastero di San Benedetto di Polirone e la volontà di essere sepolto accanto al padre, a Canossa.
Dal matrimonio con Guilla, Tedaldo ebbe tre figli (raffigurati come si è detto nella seconda miniatura del cod. Vat. lat. 4922): Tedaldo, che prese il nome del padre e fu vescovo di Arezzo (1023-36), e che appoggiò s. Romualdo nella fondazione dell’eremo di Camaldoli; e inoltre Bonifacio e Corrado, che – a prestar fede a Donizone – si scontrarono duramente dopo la morte del padre per la successione. La morte di Corrado a seguito delle ferite riportate nella battaglia di Coviolo (1021), lasciò Bonifacio unico erede.
Fonti e Bibl.: G.A. Gradenigo, Calendario polironiano del XII secolo, Venezia 1759; Thietmari Chronicon, a cura di G.H. Pertz, in MGH, Scriptores, III, Hannover 1839; Donizonis Vita Mathildis, a cura di L. Bethmann, ibid., XII, Hannover 1866; P. Bortolotti, Antiche vite di S. Geminiano, vescovo e protettore di Modena, Modena 1886, p. 119; Die Urkunden Heinrichs II und Arduins, a cura di H. Bresslau - H. Bloch, in MGH, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, Berlin 1957; I placiti del Regnum Italiae, a cura di C. Manaresi, II, 1-2, Roma 1957-1958; Anselmus de Besate, Rhetorimachia, a cura di K. Manitius, in MGH, Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, II, Weimar 1958; Cronaca di Novalesa, a cura di G.C. Alessio, Torino 1982; Papstrurkunden 896-1046, I, 896-996, a cura di H. Zimmermann, Wien 1984; Le pergamene degli archivi di Bergamo a. 740-1000, a cura di M. Cortesi, Bergamo 1988; Codice diplomatico polironiano (961-1125), a cura di P. Golinelli - R. Rinaldi - C. Villani, Bologna 1993.
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