Teismo e ateismo
Il confronto tra teismi e ateismo: contesto storico-sociale
Agli inizi del 21° sec. il confronto tra le impostazioni teistiche e quelle atee, che si era sviluppato ampiamente negli ultimi tre secoli, è continuato vivace. Ovviamente il confronto di cui ci occupiamo non è quello di tipo politico, ma piuttosto quello che si è sviluppato sul piano critico della filosofia e che dunque chiama in causa la verità e la compiutezza delle dottrine di volta in volta presentate.
Precisiamo subito che per concezioni teistiche intendiamo quelle che ritengono ineliminabile il riferimento a qualche rivelazione religiosa (prevalentemente nelle tre forme monoteistiche dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islamismo: sulle cui diversità e convergenze, v. Küng 1992; Barnavi 2006). Intendiamo invece con atee tutte quelle concezioni che non ritengono né possibile né necessario il riferimento all’esistenza di qualche Dio trascendente al fine di comprendere l’universo e tanto meno il rinvio a qualche rivelazione storica di questo Dio. Laddove concezioni teistiche di diversa forma sono state rivendicate per secoli, le rivendicazioni pubbliche di ateismo sono molto più recenti e limitate – anche perché gli atei sono stati spesso sottoposti a persecuzioni – e in genere confinate nel campo della filosofia (per una ricostruzione anche storica dell’ateismo, Onfray 2005). Uno dei tratti significativi del recente confronto tra teismo e ateismo deriva dal fatto che numerose, e senza reticenze e infingimenti, sono attualmente le difese pubbliche ed esplicite delle concezioni atee, non limitate a un piano puramente negativo e critico nei confronti dell’accettabilità delle pretese dei teisti, ma anche costruttive di visioni generali più adeguate. Inoltre nel dibattito recente risultano meno presenti quelle concezioni deiste che invece per lungo tempo – e in particolare nel corso del 18° sec. – si sono presentate come una forma razionale di religiosità in grado di identificare un contenuto minimo di una sorta di religione naturale o universale che poco aggiunge al riconoscimento dell’esistenza di una causa prima intelligente dell’universo. La forma religiosa di vita, agli inizi del 21° sec., sembra proporsi non tanto come una credenza universalistica in grado di superare le diversità culturali, quanto piuttosto come uno strumento capace di fornire componenti forti di identità a una cultura e una comunità storicamente determinate, laddove essa si riconosca in un Libro o in una Chiesa.
Venendo agli anni più vicini a noi il confronto tra teismo e ateismo, come vedremo in seguito, ha investito in particolare tre ambiti problematici. In primo luogo la capacità di queste concezioni di interpretare in maniera complessiva e unitaria l’ordine dell’universo, con particolare riferimento al mondo dei viventi (all’interno di questo orizzonte problematico sono state nuovamente affrontate questioni tradizionali,quali l’argomento del disegno, le leggi di natura e i miracoli, ma si è soprattutto imposta la discussione sul modo di spiegare la fase iniziale dell’universo e la genesi della vita nei termini dell’evoluzionismo erede di Charles Darwin). In secondo luogo, entra in gioco nei dibattiti, la capacità delle concezioni rispettivamente teiste e atee di rendere conto dello spazio della morale nella vita umana (confronto che ha coinvolto tematiche quali il fondazionalismo e l’alternativa al nichilismo, la precisa formulazione dell’universalismo, il senso del relativismo e del pluralismo, la capacità delle concezioni teistiche di salvaguardare l’autonomia della morale e il libero confronto in presenza di disaccordi etici). Infine, in terzo luogo, si è andato recentemente sviluppando anche un confronto tra teisti e atei sulla rispettiva capacità di esprimere le dimensioni di senso e significato della vita (in questo caso ci si riferisce non solo alla questione delle emozioni che si legano alle diverse credenze nel teismo e nell’ateismo, ma anche alla stessa possibilità di indagare l’origine del fenomeno religioso, il suo senso nonché la completa autosufficienza di una spiegazione naturalistica e secolare).
Prima di entrare nel merito dei diversi punti in discussione si possono avanzare alcuni rilievi di ordine generale sulle condizioni storiche e sociali in cui questo confronto si sviluppa agli inizi del 21° secolo. Diverse sono le condizioni nelle differenti aree del mondo a seconda della concezione teistica prevalente e del sistema politico che regge ogni Paese; ma certo il contesto nel quale ci muoviamo ha influito anche spingendo spesso il confronto tra teisti e atei a reagire non tanto ai diversi contesti nazionali, quanto piuttosto a una sorta di ambiente umano globale (su questo orizzonte globale, Singer 2002): ambiente globale che non è determinato solo dalle condizioni dell’economia di mercato, ma anche dall’unificazione nella diffusione delle informazioni e delle idee, favorita da strumenti quali la televisione e Internet. Non potendo dare una panoramica in modo sistematico delle specificità nelle diverse parti del mondo, ci limitiamo a individuare le condizioni in cui questo confronto si sviluppa nel mondo occidentale, che proprio per questa condizione globale di scambio delle comunicazioni ha finito spesso con l’influenzare l’insieme dell’umanità. Così, come si diceva, sembra ormai ammessa l’esplicita espressione e difesa di punti di vista atei, anche se non mancano Paesi nei quali tale espressione risulta ancora un crimine perseguito dalla legge. Non sembrano poi esserci società del mondo occidentale (comprendente gli ex Paesi dell’URSS) in cui sia manifestamente imposta una qualche forma statuale di ateismo dottrinale con un rifiuto di tutte le forme di religione (sulla storia degli ateismi di Stato, nazista e sovietico, Burleigh 2006); mentre continuano a essere presenti, nel mondo, società sorrette da leggi ispirate a qualche forma di rivelazione religiosa. Ma le società occidentali risultano essere più tolleranti nei confronti di coloro che negano l’esistenza di Dio, in quanto spesso si trovano di fronte a diversi teismi, ovvero a diversi modi di identificare Dio e la vera rivelazione, così come hanno maggiore opportunità di frequentare forme di vita diffuse che sono impregnate di secolarizzazione e abitudini che vedono ridotte le pratiche di culto religiose.
Un caso esemplare delle condizioni attuali del confronto tra teismo e ateismo può considerarsi la discussione che si è svolta in Europa sulle radici cristiane o meno della storia dei Paesi che si riconoscono nell’unità europea e dunque sulla possibilità, o meno, di indicare esplicitamente nella Costituzione europea la comune origine cristiana, come una identità. La questione del confronto tra teismo e ateismo si incrocia qui in parte con quanto le società laiche possano riconoscere la loro identità in una unica versione della religiosità (sui due punti di vista differenti che si confrontano: Rossi 2007; Pera 2008).
Le spiegazioni dell’universo e del mondo dei viventi: l’argomento del disegno?
È continuato, tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec., il confronto sui rispettivi meriti delle concezioni teiste e atee relativamente a una spiegazione unitaria dell’universo e specificamente alla presenza degli esseri viventi sulla Terra. Naturalmente non si tratta della capacità di fornire spiegazioni unitarie e sistematiche di tipo metafisico o teologico. Questa capacità non viene certo negata alle concezioni teistiche mentre altri filosofi testimoniano nella storia del pensiero la possibilità di coerenti sistemi atei. Il punto decisivo è il confronto con l’esperienza e la plausibilità di spiegazioni che ricorrono a cause invisibili, trascendenti ed extranaturali.
Le spiegazioni cosmologiche che rinviano a cause trascendenti sono state criticate già in modo deciso nel 18° sec. da David Hume e Immanuel Kant e le argomentazioni scettiche elaborate da questi pensatori non hanno trovato una risposta. Pur tuttavia la cultura recente ha continuato a documentare in modo reiterato pretese di spiegazioni sistematiche dell’universo, che fanno ricorso a principi del tutto estranei al piano dell’esperienza, della scienza e dell’argomentazione filosofica razionale. Veri e propri movimenti si sono diffusi nel mondo occidentale per difendere la verità letterale della spiegazione creazionistica dell’origine dell’universo, contenuta nell’Antico Testamento (i cosiddetti creazionisti scientifici): cosa che secondo alcuni rappresenterebbe un chiaro segno della crisi delle cosiddette concezioni illuministiche. Altrettanto forte è stata la presenza di movimenti di opinione che non ritenevano accettabile una ricerca scientifica che escludesse l’accettazione di quell’argomento del disegno, per il quale l’universo è visto come il progetto intenzionale di un Essere razionale intelligente (per una panoramica di queste posizioni, Dessì 2004). In effetti, una ripresa di tali cosmologie ha avuto dalla sua il sostegno di forze politiche (in parte identificabili con quel movimento etichettato come teocon), ma le difficoltà teoriche di queste posizioni restano immutate e non sono state superate con la mera risorsa dell’adesione di masse di fedeli. Dunque, agli inizi del 21° sec. non sono mancati tentativi – specialmente negli Stati Uniti e in alcuni Paesi cattolici – di riproporre la concezione creazionista come unica spiegazione adeguata dell’universo, accompagnati anche dalla proposta di mettere fuori legge le spiegazioni secolari, principalmente quelle scientifiche ed evoluzioniste. Ma tali fenomeni – per altro con scarso successo nel loro proposito di ridurre la libertà di insegnamento – fanno parte della storia dei movimenti politici o popolari e non della ricostruzione delle vicende filosofiche ed epistemologiche al centro di questa trattazione.
Più rilevanti sono quei confronti che hanno visto fautori del teismo avanzare la tesi dell’incapacità della scienza di fornire una spiegazione sistematica, unitaria e convincente dell’universo e, specialmente, dei viventi. Sul piano negativo si è sottolineato che le spiegazioni scientifiche dell’origine dell’universo, come quella del big bang, sono del tutto inadeguate, parziali e lacunose, in quanto rinviano alla ricerca di una causa precedente il big bang. Ed egualmente lacunosa si è considerata la spiegazione naturalistica che ha cercato di ricostruire, come un processo universale cosmico, l’evoluzione che si è spinta dal big bang fino ai giorni nostri. Chi ha sollevato questo tipo di obiezione ha indicato una serie di momenti del processo cosmico in cui il passaggio dalle realtà inferiori a quelle superiori non potrebbe essere spiegato dal principio evoluzionistico del consolidarsi delle forme di vita in grado di adattarsi alle condizioni ambientali; sarebbe invece necessario l’intervento di qualche causa trascendente, che governa la trasformazione e realizza un risultato che segna la presenza di una realtà ontologicamente, categorialmente e qualitativamente superiore (Küng 2006; Facchini 2006). Questo tipo di difficoltà, propria dei dati forniti dalle scienze, riguarderebbe vari momenti e in particolare il passaggio dalla materia inerte a quella in movimento, il passaggio dalla materia non vivente a quella vivente e il passaggio dalle specie viventi inferiori a quelle superiori, in particolare la specie umana (per questo tipo di obiezione al quadro fornito dall’evoluzionismo scientifico, v. Franceschelli 2005, 2007). La tesi è che una concezione atea dell’universo, basata su una spiegazione naturalistica, è intrinsecamente debole, destinata al fallimento e rinvia di necessità, concettualmente, a qualche intervento divino.
Risposte atee sono venute su due piani diversi uno più debole e l’altro più forte (per entrambe le risposte, v. Pievani 2006). La risposta più debole è quella che ha ritenuto inaccettabile la pretesa dei teisti di disporre di una concezione unitaria dell’universo: essi in realtà, riempirebbero gli spazi vuoti delle concezioni cosmologiche, in quanto abbandonano indebitamente il piano di ciò che è empiricamente comprovato. La ricerca scientifica, invece, procedendo con i suoi propri mezzi sperimentali, si può trovare di fronte a eventi non ancora pienamente spiegati, ma ciò non comporta che essi debbano essere letti sul piano ontologico, come misteri o tracce dell’intervento di un Essere intelligente trascendente nella serie di successioni naturali. I teisti, insomma, non si limitano a indicare dei punti non sufficientemente elaborati delle spiegazioni scientifiche, ma fanno intervenire delle spiegazioni o delle presupposizioni alternative, che non hanno alcuna base empirica. Una risposta più forte viene poi data da coloro che ritengono che su tutti i punti denunciati dai teisti come inattingibili dalle spiegazioni scientifiche e naturalistiche, una tale spiegazione invece è del tutto disponibile ed esclude completamente qualsiasi intervento divino. Questo per es. è quello che hanno provato a fare sistematicamente sia Daniel C. Dennett (1995) sia Richard Dawkins (2006).
La posizione più aperta nei confronti della ricerca scientifica avanzata dai teisti non è certo quella creazionista, già ricordata, che ritiene sia letteralmente da sottoscrivere la genealogia dell’universo offerta nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Una posizione che specialmente nella cultura del Nord America si è spinta fino ad abbracciare in alcune sette cristiane la sottoscrizione precisa della stessa cronologia presente nei testi biblici e a richiedere alla politica solo l’insegnamento delle concezioni creazioniste nelle scuole pubbliche, mettendo al bando l’evoluzionismo. Ma accanto a queste si sono presentate posizioni più liberali, che si sono limitate a rilevare che per dare un senso alla stessa ricerca scientifica un qualche implicito riferimento al quadro dell’argomento del disegno deve essere ammesso. Infatti, secondo i sostenitori di un ‘teismo evoluzionistico’, per es., sarebbe necessario inserire il modello esplicativo evoluzionistico nel contesto dell’argomento del disegno, l’unico a garantire quell’aspettativa generale di ordine razionale nell’universo che rappresenta il motore della ricerca scientifica (per queste posizioni, v. Southgate 2005). A tale obiezione, naturalmente, si può rispondere richiamando la distinzione già formulata da Kant nella sua Kritik der reinen Vernunft (1781) tra piano regolativo e costitutivo: l’attesa di una regolarità razionale dell’universo è solo regolativa nelle scienze e non già costitutiva come viene invece trasformata dai sostenitori dell’argomento del disegno che vi aggiungono poi quasi sempre elementi provvidenzialistici.
Un altro piano di confronto tra teisti e atei si è avuto sul tema specifico della possibilità o meno di conciliare l’impostazione evoluzionista con credenze religiose. Si tratta di un problema che probabilmente va affidato alla sfera individuale e di coscienza, in quanto a ciascuna persona, nella propria libertà personale spetta strutturare le proprie credenze nell’ordine che accetta. Sul piano pubblico, invece, difficilmente si può realizzare un’analoga conciliabilità, laddove la decisione su di essa venga affidata a qualche autorità religiosa che, di volta in volta, escluderebbe le conclusioni della scienza oppure giungerebbe lentamente ad accettarle – quando forse il momento è ritenuto opportuno – ammettendo di aver errato nel passato censurandole. Questo modo pubblico di procedere alla conciliazione sembra in realtà inaccettabile a un’impostazione centrata sulla libertà e sulla responsabilità individuale.
Autonomia della vita morale e credenze religiose
Molto vivace è stato il confronto tra teisti e atei, negli ultimi anni, sulla questione della possibilità di conciliare il riconoscimento della libertà e della responsabilità morale con un quadro che accetta la visione religiosa dell’universo (Küng 2006; Dennett 2006; Dawkins 2006).
Gli attacchi dei teisti alla capacità di un pensiero secolare e ateo di rendere conto della moralità sono noti e sono stati di frequente ripetuti anche nel 21° sec., come se fossero del tutto nuovi. In realtà la maggior parte di questi attacchi hanno solo una forza retorica e persuasiva, quasi nessuna forza argomentativa, e in particolare riguardano la presunta incapacità del pensiero ateo e secolare di dare un fondamento universale alla moralità e di trovare una motivazione adeguata per la condotta morale, una volta messa da parte la sanzione che agli obblighi morali può fornire il riferimento a una qualche divinità che premia o punisce nell’altra vita. L’accusa secondo la quale il pensiero ateo non potrebbe che avere come suo esito, per quanto riguarda la moralità, una forma di nichilismo e relativismo, è stata ripresa dai difensori del fondamento religioso della moralità soprattutto per fronteggiare situazioni socialmente molto diffuse quali il pluralismo dei valori e delle fedi religiose, o i profondi disaccordi nati a proposito delle questioni della bioetica (questa posizione è espressa, tra l’altro, da J. Ratzinger: con M. Pera, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, 2004; e con J. Habermas, Etica, religione e Stato liberale, a cura di M. Nicoletti, 2005, pubblicato originariamente in «Zur Debatte», 2004,1). È inoltre stato ripetuto l’argomento che le società – come per es. quelle secolari dell’Occidente – nelle quali le pratiche religiose hanno una minore incidenza, segnano anche una maggiore corruzione dei costumi e addirittura una maggiore criminalità, in quanto le persone non sarebbero più internamente controllate dagli obblighi morali, ovvero dal rispetto di leggi e doveri sanzionati da qualche orizzonte religioso.
Il pensiero secolare e non religioso non solo ha risposto a queste obiezioni, ma ha argomentato la tesi di una radicale incompatibilità tra prospettiva teistica e punto di vista morale. Infatti si sono riprese le argomentazioni già formulate nel 18° sec., per es. da Kant, che rilevano come la via teistica alla morale è quella che costringe a una concezione eteronoma, incapace di trovare uno spazio per quella responsabilità individuale e autonoma che è costitutiva della moralità. Inoltre, il teista finirebbe con l’indirizzare sulla strada sbagliata la ricerca dei valori decisivi, spingendo a una fedeltà nei confronti di leggi morali promulgate dalla divinità e favorendo una mentalità legalistica, che confonde la moralità con le convenzioni trasmesseci dalla tradizione.
Molti pensatori atei e secolari hanno dunque individuato uno specifico problema delle concezioni teistiche, quando impegnate a rispettare la libertà morale delle persone. Una libertà essenziale questa, poiché a livello della moralità umana una cosa è giusta in quanto fa del bene agli esseri umani e non già in quanto è ciò che Dio vuole noi si faccia. Il teismo sarebbe quindi inestricabilmente coinvolto nel dilemma tra obbedienza a Dio e obbedienza alla propria coscienza e il tentativo di fare coincidere le due specie di obbedienza è una pretesa vuota (per una formulazione di queste varie critiche alle concezioni teistiche della morale, v. Blackburn 2001; Onfray 2005; Nielsen 2005).
Ma il pensiero ateo e secolare impegnato in una riflessione sulla moralità ha ampiamente lavorato negli ultimi decenni per sostenere la sua completa autosufficienza anche sul piano fondazionale. Così è stato obiettato che dietro l’accusa di nichilismo ai sostenitori di un’etica secolare si nasconda solo una mal riposta patologia fondazionalista del teista, il quale presuppone erroneamente che la moralità debba essere caratterizzata da valori assoluti ed eterni. Qualsiasi tentativo di dare corpo a questi valori assoluti ed eterni si dissolve nella presentazione di norme tanto generiche e astratte da non riuscire in alcun modo a incidere sulla condotta effettiva degli esseri umani. La diagnosi di nichilismo, quindi, è solo un sintomo proiettivo della inadeguatezza di una concezione a fare i conti con la variabilità e fragilità della condizione umana (per una critica alla concezione ottocentesca del nichilismo, v. Williams 2002).
Per quanto riguarda la critica secondo la quale un intrinseco orizzonte relativista sarebbe proprio dell’approccio secolare o ateo alla moralità, la risposta è passata attraverso la distinzione tra relativismo descrittivo e normativo (una tesi già ampiamente delineata negli ultimi decenni del 20° sec. da Richard Mervyn Hare, divenuta corrente nella riflessione sulla morale, v. Nussbaum 2000). Il pensiero secolare e naturalistico riconosce – del tutto plausibilmente e contro le semplificazioni delle concezioni religiose – che la storia umana presenta delle variazioni sia storiche sia geografiche dei codici di valore morale, ma questo riconoscimento di fatto non è in contrasto con l-articolazione di posizioni normative che, in quanto morali, si presentano con la pretesa di valere per tutti coloro che si troveranno in situazioni analoghe. A proposito di questa esigenza di ‘universalizzabilità’, che accompagna il non relativismo normativo della moralità, la difficoltà maggiore è proprio quella dei teisti, che cercano di proporre le loro tesi normative come un patrimonio esclusivo dei membri della loro chiesa, cui sono state comunicate dal loro Dio.
Il relativismo caratterizzerebbe dunque le concezioni teistiche: infatti legando la validità etica alla appartenenza a una qualche comunità religiosa, esse non riescono in alcun modo a rendere possibile un’etica universale. Il bene e il male sono attingibili esclusivamente dai membri di una certa chiesa e non vi è la possibilità di spiegare l’etica come una pratica alla portata di tutti gli esseri umani in quanto tali e non già riservata in modo speciale agli adepti di una fede. La tendenza delle diverse religioni e chiese di considerarsi uniche depositarie della moralità sembra difficilmente conciliabile con una pratica della moralità nella quale le tensioni particolaristiche delle singole concezioni normative risultino temperate dalla comune appartenenza al genere umano.
Il senso della vita e le sue radici religiose e naturali
In questo inizio di 21° sec. che apparecaratterizzato da profonde insicurezze, crisi, contrasti e trasformazioni, è stata molto diffusa la rivendicazione da parte delle concezioni teistiche di una sorta di marcia in più di forza e certezza che esse sarebbero in grado di fornire ai credenti, rispetto alla freddezza emotiva e ai dubbi che accompagnerebbero le visioni laiche e secolari.
Le concezioni teistiche pretendono dunque di riuscire a fornire ai credenti quell’orizzonte di senso, significato e speranza per l’esistenza umana, che invece mancherebbe completamente a quanti si trovano all’interno di una prospettiva secolare naturalistica. Una tematica che, tra il 18° e il 19° sec., fu affrontata nelle riflessioni sociologiche di Max Weber o da quelle di psicologia filosofica di William James. Il credente si trova inserito in una narrazione che gli spiegherebbe sia il senso della sua esistenza individuale, sia il senso delle sue sofferenze, mentre liberato dalla paura della morte, si vedrebbe aprire la prospettiva dell’immortalità. Dunque solo le concezioni teistiche sarebbero in grado di fornire risorse per soddisfare quelle condizioni psicologiche essenziali per l’essere umano, come riuscire a dare senso a ciò che accade e sperare in un futuro di riscatto e di realizzazione dei fini ritenuti rilevanti. Una prima osservazione da fare è che eventuali risposte – sia religiose, sia ideologiche o altro – a questi possibili bisogni psicologici risultano del tutto inoffensive se limitate al contesto della vita personale. Meno facile da gestire, in termini sociali e politici, sono invece le pretese di fare valere sul piano pubblico, in modo esclusivo, un qualunque tipo di concezione che pretenda di fornire una risposta a queste più profonde esigenze di senso, significato e felicità della vita umana. Risulta infatti chiaro che una volta trasformati sul piano pubblico in risposte totalizzanti questi investimenti non rappresentano un contributo alla convivenza pacifica, si presentano come non inclusivi e non condivisibili, in quanto escludono coloro che coniugano il loro orizzonte di senso, di speranza e di felicità sulla base di altre fedi religiose e concezioni ideologiche. Proiettato in un piano pubblico queste pretese possono dunque accompagnarsi a forme di intolleranza e di fondamentalismo, che costringono a una condizione marginale o addirittura di discriminazione i credenti in altre fedi o ideologie.
Ma la risposta dei naturalisti e degli atei alle pretese teistiche di avere un quadro capace di confortare psicologicamente gli esseri umani è passata negli ultimi decenni dal livello meramente critico a uno più costruttivo. Non sono quindi mancati i tentativi di spiegazioni naturalistiche delle stesse pulsioni psicologiche, che portano ad abbracciare come una forma di rassicurazione le fedi religiose (o, in senso più generale, ideologiche). Vengono così perfezionate sul piano filosofico, psicologico, sociale e biologico le spiegazioni già delineate tra il 17° e il 18° sec. da pensatori quali Thomas Hobbes e D. Hume, che interpretavano le credenze religiose come proiezioni cristallizzate del desiderio di superare la paura della morte. Recentemente sono stati sviluppati tentativi di rendere conto in termini evoluzionistici della genesi del bisogno umano che sarebbe alla base delle credenze religiose (Dennett 2006; Girotto, Pievani, Vallortigara 2008); né mancano tentativi di ricostruire sul piano psicologico le basi della capacità attrattiva delle credenze religiose sul piano motivazionale (Nichols 2004).
Le concezioni secolari e atee insistono poi sulle potenzialità positive che esse hanno anche quando si tratta di fare ipotesi sul senso della vita e di nutrire speranze nel futuro, senza ricorrere alle componenti illusorie e fallaci che accompagnano le interpretazioni che le religioni offrono di queste esigenze (per questo aspetto, v. Martin 2002). La fiducia nelle possibilità degli esseri umani di costruire una storia meno crudele e più giusta, che non si nasconda le difficoltà delle condizioni in cui essi vivono – sia per quanto riguarda la scarsità delle risorse sia per quanto riguarda la difficoltà di controllare lo sviluppo complessivo dell’universo, sia per quanto riguarda la plausibilità di una previsione dell’estinzione della specie umana – è un orizzonte sufficientemente confortante per chi voglia muoversi in un contesto di esperienze e non su un piano di illusioni.
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