telecomunicazioni
Trasmissione a distanza di informazioni (documenti scritti o stampati, immagini fisse o mobili, parole, musica, segnali visibili o udibili ecc.) bidirezionale (telefonia) e unidirezionale (televisione).
L’industria telefonica si è sviluppata nel corso del 20° sec. come un monopolio legale complesso, che comprendeva tutti i servizi forniti tramite la rete telefonica e tutti gli apparecchi necessari agli utenti per poterne usufruire (terminali telefonici, modem ecc.). Tale regime monopolistico non aveva una vera giustificazione tecnologica, anche se, per poter funzionare correttamente, apparecchi e rete dovevano essere strettamente compatibili. Proprio per questo motivo, il mercato dei terminali telefonici è stato il primo a essere aperto alla concorrenza, con la direttiva 1988/301/CEE. Dieci anni dopo, il 1° gennaio 1998, si è conseguita la piena liberalizzazione di tutti i mercati (telefonia fissa, telefonia mobile, trasmissione dati ecc.). Tuttavia, per le caratteristiche peculiari del servizio (difficile duplicabilità della rete telefonica, per lo meno nelle vicinanze degli utenti; ➔ anche sunk cost), l’ingresso di nuovi operatori poteva avvenire solo imponendo al proprietario della rete l’obbligo di dare l’accesso ai concorrenti a condizioni eque, non discriminatorie e trasparenti. In Italia, le direttive comunitarie sono state ritenute in questo senso insufficienti e nel 2008 l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha reso vincolante un regime di separazione operativa (➔ separazione) della rete telefonica, al fine di evitare che l’ex monopolista legale (Telecom Italia) adottasse modalità di gestione volte a impedire l’accesso al mercato di aziende concorrenti. La regolazione europea è peraltro intervenuta anche dal lato della domanda, garantendo la portabilità del numero telefonico e rendendo indifferente l’utente rispetto al cambiamento di gestore. Di conseguenza, soprattutto nei nuovi servizi della telefonia cellulare e dei servizi internet, Telecom e i concorrenti hanno raggiunto posizioni di mercato relativamente simmetriche. ● Per promuovere lo sviluppo del settore, e in particolare l’integrazione delle comunicazioni voce e dati per utenza mobile e senza filo e i servizi sempre più complessi e avanzati promessi dalle Information Communication Technologies (➔ ICT), il progetto europeo di sviluppo della banda larga prevede la disponibilità, entro il 2020 e per tutti i cittadini dell’Unione, di una connessione internet veloce (30 megabyte per secondo). Si tratta indubbiamente di un obiettivo ambizioso (in Italia, nel dicembre 2010, solo l’8% degli accessi a larga banda avveniva a velocità superiori a 10 mbps), che richiede investimenti cospicui, e in cui il ruolo dello Stato non è ancora chiaro né definito.
La regolazione del settore radiotelevisivo risponde all’esigenza di tutelare il pluralismo dell’informazione, un interesse pubblico che è diverso e distinto dalla concorrenza e rispetto al quale conta, in primo luogo, la disponibilità effettiva per l’utente di fonti di informazione alternative e sostanzialmente diverse. Un regime concorrenziale, infatti, non garantisce di per sé il pluralismo dell’informazione. In ogni caso occorre che sia garantita alle minoranze la possibilità di esprimersi. ● In Italia, la l. 223/1990 (legge Mammì), la prima a intervenire nella materia dopo la fine del monopolio legale esercitato dalla RAI (➔), aveva stabilito che un singolo soggetto non potesse detenere più del 25% dei canali nazionali disponibili, il cui numero veniva fissato (arbitrariamente) a 12. Da un punto di vista generale, il vincolo era stabilito in termini quantitativi (numero di canali televisivi e di giornali), senza fare riferimento alle quote di mercato degli operatori, e individuava un numero minimo (4) di imprese televisive tra loro indipendenti. La l. 249/1997 (legge Maccanico), modificando quel criterio, ha imposto alle imprese televisive il rispetto di determinate quote relativamente alle risorse disponibili, in mercati rigidamente definiti, pregiudicandone in tal modo le possibilità di crescita, senza peraltro riuscire a perseguire l’obiettivo del pluralismo dell’informazione. Successivamente è intervenuta la l. 112/2004 (legge Gasparri), che ha in parte ripreso l’impostazione quantitativa della legge Mammì, vietando alle imprese di ottenere autorizzazioni tali da consentire la diffusione di più del 20% del totale dei programmi televisivi o radiofonici irradiabili su frequenze terrestri. Inoltre, riprendendo l’approccio concorrenziale della legge Maccanico, la legge Gasparri ha imposto a ogni impresa attiva nel settore il limite del 20% dei ricavi dell’intero sistema integrato delle comunicazioni, allentando così, rispetto alla legge Maccanico, il controllo del potere di mercato cui le imprese televisive sono sottoposte. Per garantire agli utenti un adeguato ventaglio di opinioni e punti di vista occorre stabilire un numero massimo di autorizzazioni cumulabili da una singola impresa, senza introdurre quote massime sulle risorse complessive, il cui rispetto condurrebbe a situazioni inefficienti dal punto di vista dell’innovazione e della differenziazione del prodotto. La legge Gasparri, fissando un numero di autorizzazioni pari al 20% del totale dei programmi televisivi irradiabili, costituisce, da questo punto di vista, l’inizio di un percorso verso una regolazione del pluralismo dell’informazione eventualmente più dettagliata, che tenga anche conto del progresso tecnologico e, in particolare, della moltiplicazione dei canali televisivi associata alla digitalizzazione del segnale.