Televisione e sistemi politici
La televisione generalista commerciale, il broadcasting, che ha profondamente condizionato la vita politica nei sistemi democratici del 20° sec. (personalizzazione, aumento dei costi della comunicazione e propaganda, superficialità della discussione pubblica, frammentazione, drammatizzazione, frettolosità dell’informazione dei telegiornali), sembrava giunta all’apice di questa influenza negli anni Novanta, mentre si annunciava una nuova fase della storia della televisione con il passaggio alle tecnologie digitali, con Internet e con l’arrivo di una enorme quantità di canali specializzati: il narrowcasting. Una vasta letteratura è dedicata al declino della comunicazione di massa e alla segmentazione della domanda, alla interattività e alle nuove offerte tecnologiche, ma il più delle volte essa esprime wishful thinking, molte speranze. In verità, nonostante gli effettivi e influenti mutamenti tecnici, la vecchia televisione proietta il suo influsso potente anche sul primo decennio del nuovo secolo e la linea di un diagramma ideale che registri la sua influenza nel mondo ha continuato a salire. Il broadcasting rimane di gran lunga la prima, e per molti esclusiva, fonte di informazione per gli abitanti del pianeta. Le influenti televisioni americane all-news via cavo e satellite, CNN (Cable News Network) e Fox-News, non hanno voluto rovesciare la tendenza. La seconda, in particolare, che ha raggiunto la prima per livello di ascolti negli Stati Uniti durante la guerra in ῾Irāq, ha anzi aperto il nuovo secolo riproponendo a sorpresa qualcosa di molto déjà vu sulle vecchie frequenze dell’etere, ossia una radicale partigianeria.
Nel frattempo, in quasi tutta l’Europa, le aziende di servizio pubblico televisivo attraversano una crisi di identità: con l’eccezione dell’inglese BBC (British Broadcasting Corporation), esse sono preda degli appetiti della politica e, nella competizione con le televisioni commerciali, sono diventate loro simili e hanno compromesso la propria ragione d’essere. Tuttavia i rapporti di forza tra comunicazione televisiva massmediatica, verticale, top-down, one-to-many, e le alternative orizzontali, many-to-many, offerte dalla tecnologia di rete, sono una questione aperta, risolta per ora a vantaggio della prima: ma nei prossimi anni le cose potrebbero cambiare.
Non sarà in ogni caso un processo spontaneo dal momento che i poteri costituiti e le concentrazioni economiche di mass media, editoria, web, computer, intrattenimento tendono largamente a condizionare anche il possibile scenario alternativo. Una novità significativa è la crescita delle iniziative televisive internazionali, l’affermarsi di televisioni all-news in lingua araba. Una di queste, Al Jazeera, dal 2006 si presenta anche come una potente all-news in lingua inglese. La fine del decennio vede anche un intensificarsi di iniziative televisive in arabo proiettate verso il Sud del Mediterraneo e il Golfo (BBC, France 24, Deutsche Welle, Russia Today) che tendono alla promozione delle relazioni culturali, economiche e politiche. In questo scenario, l’Italia risulta assente.
Il primo decennio del 21° sec. vede una intensa e accelerata trasformazione della televisione, che sta passando definitivamente e irreversibilmente dalla tecnologia analogica a quella digitale in tutti i Paesi del mondo, secondo una tabella di marcia che vedrà la completa sospensione della trasmissione via etere sulle frequenze che hanno fatto la fortuna della televisione generalista pubblica e privata nel secondo cinquantennio del 20° secolo. I governi tendono a prorogare questo momento (che rende obbligatorio l’acquisto di un convertitore digitale o di un nuovo televisore) per farlo coincidere il più possibile con la fisiologica sostituzione dei vecchi apparecchi. Paesi Bassi, Finlandia, Svezia, Svizzera hanno già compiuto il passaggio; gli Stati Uniti, tra i primi a fissare il termine della conversione, hanno fatto slittare la data dello switch-off dell’analogico fino al 2009, l’Italia fino al 2012. Tuttavia, altre proroghe non sono da escludere. Entro la fine del secondo decennio la televisione analogica sarà comunque probabilmente scomparsa ovunque. E in tutto il mondo – salvo restrizioni politiche di regimi autoritari – sarà possibile ricevere una quantità pressoché illimitata di canali, sia gratuiti sia a pagamento, attraverso il digitale terrestre, satellitare oppure via cavo. Il cambiamento riguarderà dunque la sostanza, i contenuti, i modi, le abitudini della fruizione della televisione e tutto questo dovrebbe avere dei riflessi molto importanti sulla formazione dell’opinione pubblica e sulla vita politica, dal momento che la ‘televisione generalista analogica finanziata dalla pubblicità’ (questa la definizione più completa del broadcasting) ha profondamente condizionato la scena in questi ultimi sessant’anni.
I primi anni del secolo in corso corrispondono in modo ben marcato all’inizio di una fase nuova nella storia della televisione perché l’offerta, che si è già enormemente allargata attraverso il cavo (come negli Stati Uniti, in Inghilterra, Australia o in Svizzera) integrandosi con il digitale satellitare e la diffusione in tutto il mondo delle antenne paraboliche, rende accessibili ovunque canali specializzati e televisioni di altri Paesi e altre lingue. Il che significa, tra le altre cose, che chi si trasferisce in un Paese straniero potrà in ogni momento seguire la produzione televisiva del proprio Paese di origine senza limiti di distanza (ciò che ora accade solo in misura parziale). Con notevoli conseguenze nel costume e nelle relazioni psicologiche nelle e tra le comunità: gli italiani potranno seguire senza alcuna interruzione la loro squadra di calcio anche in Asia, così come gli indiani potranno continuare a guardare i campionati di hockey su prato in Arabia. E ciascuno continuerà a vedere, se lo desidera, i telegiornali e i talk show del proprio Paese.
La situazione paradossale è che mentre possiamo descrivere con realismo queste tendenze che fanno immaginare la creazione di relazioni televisive internazionali, e di sfere pubbliche nella diaspora (A. Appadurai, Modernity at large. Cultural dimensions of globalization, 1996; trad. it. Modernità in polvere, 2001) molto importanti per comunità di forte emigrazione come gli arabi dell’Africa settentrionale, gli asiatici e gli europei dell’Est, siamo ancora pienamente coinvolti nella evoluzione della televisione commerciale generalista. È verosimile che il picco di questa influenza si possa far coincidere con le elezioni presidenziali americane svoltesi nel 2004 (e per quanto riguarda l’Italia con quelle del 2006, in Francia del 2007) in un periodo che ha visto contemporaneamente a) il declino del peso della stampa specialmente negli Stati Uniti (sul quale cfr. i rapporti del Pew Research Center, http://people-press.org); b) lo stato depressivo dei servizi pubblici televisivi europei in crisi di identità; c) l’aumento preoccupante del controllo politico sull’informazione televisiva sia nelle televisioni commerciali sia in quelle pubbliche (Television across Europe, 2005, pp. 49 e sgg.); d) la deformazione frastornante dei telegiornali, spinti dalla competizione commerciale per l’audience a diventare «turbo-telegiornali» (Bosetti 2007, p. 20); e) l’aumento della faziosità e della ‘canalizzazione’ del pubblico per preferenza politica (canali di destra per telespettatori di destra e di sinistra per telespettatori di sinistra) con un indebolimento serio della discussione pubblica che si basa nei sistemi democratici sul confronto tra opzioni politiche diverse (Larcinese 2005, pp. 3-5 e 20).
Negli ultimi anni del 20° secolo lo sviluppo del broadcasting ha spinto la marcia trionfale della idiot box – la scatola idiota di cui trattano gli scritti polemici, tra gli altri, di Karl Popper (Cattiva maestra televisione, 1994, nuova ed. aggiornata 2002) e Giovanni Sartori (Homo videns. Televisione e post-pensiero, 1997, 20079) – fino alle sue estreme conseguenze: i modelli di informazione e intrattenimento, basati sulla ricerca di ascolti con gli ingredienti più superficiali, fatui e violenti (la tabloidization), hanno progressivamente invaso anche l’area dell’informazione politica, che ha assunto i ritmi tambureggianti dello spettacolo di attualità, con una velocità e un taglio dei tempi che hanno frammentato l’informazione. I canali televisivi specializzati cominciavano a raccogliere quote di spettatori segmentate secondo profili specifici di consumo televisivo (sport, bambini, cinema, fiction, news, documentari, cultura ecc.) e nel frattempo il web cominciava a guadagnare una parte del tempo dei cittadini attratti dal computer come fonte di relazioni, scambio, informazione e intrattenimento. Ma si trattava, e si tratta tuttora, di un processo in fase ascendente. La televisione generalista, infatti, ha continuato ad accentuare la sua influenza totalizzante sulla vita politica: i costi della pubblicità televisiva nelle campagne elettorali sono sempre più alti in tutti i Paesi del mondo, dagli Stati Uniti a Israele passando per i Paesi europei; e la raccolta dei fondi per sostenerli condiziona sempre di più la scena politica ed è fonte di corruzione. È stato vero per le presidenziali americane del 2004 (dove Howard Dean, il candidato democratico più orientato all’uso del web, è stato nettamente sconfitto nelle primarie) e ancora per quelle del 2008, dove la competizione per i finanziamenti si è fatta ossessiva e ha raggiunto nuovi record, anche se questa volta il web è stato molto più efficace come veicolo, integrativo della televisione, per diffondere pubblicità (con video arrivati via YouTube: potenti le campagne di Barack Obama, con la canzone Yes, we can) e soprattutto come mezzo per raccogliere rapidamente denaro non solo tra i grandi donors, ma tra i piccoli con contributi mediante carta di credito.
Prima di celebrare il congedo dalla televisione generalista, è bene essere prudenti, ancora a lungo. L’influenza politica del presunto mammuth (G. Gilder, Life after television, 1990; trad. it. 1995) si è spinta fino al primo decennio del 21° sec., quando gli utenti di Internet hanno superato la cifra di un miliardo e trecento milioni. E riempirà di sé molto probabilmente anche il secondo. Il transito al digitale, la cui importanza non può essere certo sottovalutata perché modifica sostanzialmente natura e qualità dell’offerta, sarà per molti aspetti semplicemente il transito dei grandi canali televisivi (cui i pubblici nazionali sono molto affezionati per la loro identità linguistica, nazionale e culturale) su una nuova base tecnologica. Ed essi continueranno, come continuano, ad avere molti dei caratteri della vecchia televisione. Sarà un broadcasting per via digitale. È stato stimato che circa due miliardi e mezzo di persone abbiano assistito ai funerali di lady Diana in diretta nel 1997 e si calcola che il numero delle persone che hanno accesso alla televisione nel mondo oscilli tra i 4 e i 5 miliardi. Nonostante abbia raggiunto la sua piena maturità tecnica e abbia rallentato la sua espansione perché nei Paesi sviluppati si è da diversi decenni avvicinata al cento per cento, il mezzo televisivo non ha ancora finito di crescere nelle aree povere del mondo dove raggiunge una parte della popolazione (in India tra il 35% nelle aree rurali e il 70% nelle aree urbane) che forse non accederà mai al computer. E non c’è dubbio che, indipendentemente dalla base tecnica, i momenti televisivi culminanti della vita nazionale americana, dalla finale del superbowl (un record recente di 97 milioni di spettatori) al discorso annuale del presidente ai membri del Congresso sullo stato dell’Unione (tra i 30 e i 40 milioni) continueranno a radunare un pubblico ‘generalista’, così come i confronti televisivi decisivi delle elezioni politiche europee (tra i 12 e i 16 milioni il confronto Prodi-Berlusconi, nel 2006).
L’attenzione degli analisti sugli effetti politici della televisione si è concentrata sull’informazione e sui telegiornali. Essi rimangono la fonte principale da cui i cittadini prendono le informazioni e ne sono soprattutto influenzati, non direttamente nelle loro preferenze ma nel determinare quel che è da considerarsi rilevante per l’agenda degli affari pubblici e nel framing delle notizie e dei problemi in discussione (Lakoff 2004). Bisogna sottolineare l’importanza dei telegiornali, che registrano nel prime-time ascolti enormemente più elevati delle trasmissioni di approfondimento. In Italia i due principali telegiornali della sera (il Tg1 della RAI e il Tg5 di Mediaset) raggiungono da soli (e calcolando soltanto la principale edizione serale) circa 15 milioni di ascoltatori. A essi si devono aggiungere i telegiornali delle altre edizioni e delle altre reti RAI e Mediaset, più i telegiornali delle emittenti locali, il che porta gli ascolti vicino a saturare la capacità fisiologica di ascolto dell’intera popolazione. Negli Stati Uniti quasi il 60% della popolazione dichiara di seguire regolarmente i telegiornali delle televisioni locali, il 34% i telegiornali nazionali della sera dei tre principali network ABC (American Broadcasting Company), CBS (Columbia Broadcasting System), NBC (National Broadcasting Company), il 38% i telegiornali delle cable-news, e cioè soprattutto CNN e Fox-News (vedi più avanti). Mentre una percentuale superiore al 20% dichiara di prendere informazioni dal web (rapporti Pew).
Non solo è prematura la pretesa di archiviare come un reperto di altri tempi il tema dell’influenza politica della televisione generalista e soprattutto dei telegiornali della fascia di massimo ascolto, quelli del peak-time serale (che tale è anche per il mercato della pubblicità). Ma forse quel momento non verrà mai. L’amministrazione Bush, appoggiata dal governo di Tony Blair, dopo l’11 settembre 2001, sotto la regia del consigliere Karl Rove, ha gestito l’informazione in modo da giustificare l’invasione dell’Irāq sulla base di argomenti che si sono rapidamente dimostrati infondati: la presunta connessione tra il terrorismo di Ibn Lādin e il regime di Ṣaddām Ḥusayn e il possesso da parte del dittatore di armamenti di distruzione di massa che configuravano un immediato pericolo per il mondo. La guerra, che ha provocato un inasprimento delle relazioni internazionali, un aggravamento della crisi mediorientale, nonché un’intensificazione dei fenomeni terroristici di matrice islamista, e ha fornito lo sfondo di un più intenso risentimento antiamericano, è diventata un caso di studio nel campo della manipolazione dell’opinione pubblica, della pressione esercitata dai governi sui media e del mutamento politico dell’informazione televisiva in connessione con la sua intrinseca struttura commerciale.
Le tendenze evolutive dell’informazione politica televisiva indotte dalla natura del mezzo si possono così sintetizzare: a) la personalizzazione, che è una caratteristica propria del medium televisivo, agisce come fattore di semplificazione: non fatti né tanto meno concetti, ma persone, volti, espressioni sottoposte a una valutazione di simpatia o antipatia in ragione del loro maggiore o minore fascino in video; b) l’accelerazione delle argomentazioni in modo parossistico; si calcola che la dichiarazione media di un dirigente politico durante un telegiornale sia scesa già dalla fine degli anni Ottanta negli Stati Uniti sotto i dieci secondi (facendo diventare i sound bites, ossia le brevi frasi a effetto, una pratica comune: Gitlin 2001; trad. it. 2003, pp. 98-99); c) la cosiddetta americanizzazione delle campagne elettorali: la necessità di guidare la comunicazione dei leader in modo da massimizzare i benefici e ridurre i danni televisivi di comportamenti malaccorti si è imposta fin dall’epoca del mitico confronto Kennedy-Nixon in televisione nel 1960, perso dal secondo anche perché in video appariva impacciato e sudato. Crescente, di conseguenza, è stata l’influenza degli specialisti e dei consulenti della materia, degli strateghi o spin-doctors (il termine inglese spin viene dal linguaggio sportivo, in particolare da quello del cricket, e significa «dare l’effetto» alla palla per ingannare l’avversario), cui è affidato il compito di formulare temi e interpretazioni degli eventi secondo un frame linguistico e concettuale che favorisca l’una o l’altra parte e indirizzi l’attenzione e le emozioni degli spettatori nel modo desiderato; d) la copertura giornalistica horse race, stile corsa dei cavalli, orientata a un trattamento agonistico degli eventi politici e delle campagne elettorali, secondo lo stile del giornalismo sportivo, che aumenta l’interesse dell’audience spostando tutta l’attenzione sui sondaggi, sulle strategie del loro quartier generale, a discapito del trattamento dei programmi politici e delle proposte sui temi principali dell’agenda pubblica; e) la frammentazione e la decontestualizzazione delle informazioni prodotta dalla brevità del tempo e dalla velocità espositiva, che impedisce di approfondire la notizia, sviluppandola da vari punti di vista e fornendo un background di informazioni nella quale essa solo potrebbe essere compresa in modo più circostanziato; f) la drammatizzazione indotta dal fatto che i criteri in base ai quali vengono selezionati gli eventi da inserire in un telegiornale tendono inevitabilmente a favorire notizie relative a episodi estremi, sanguinosi, conflittuali che vengono perciò sovrarappresentati, lasciando da parte comportamenti pacifici e situazioni ‘normali’ con la conseguenza di far prevalere una visione del mondo allarmante e violenta; g) la drammatizzazione è accompagnata dall’uso frequente, e generalmente indotto dagli interessi politici dei governi, dei fattori di disordine, allarme, paura per indurre un atteggiamento favorevole al ristabilimento dell’ordine (per l’insieme di questi fattori cfr. Bennett 20077, pp. 36-47).
Questi fenomeni non sono una novità degli ultimi anni: la novità è che la loro intensificazione continua. Essi hanno accompagnato il cammino della televisione generalista nei suoi due modelli fondamentali: quello americano, basato sulla televisione privata e commerciale fin dagli inizi (e seguito dall’America Latina), e quello basato sul servizio pubblico (il modello inglese seguito dai Paesi europei e, in parte, da Australia, Canada e Nuova Zelanda); ma lungo il cammino c’è stata un’accelerazione che è continuata finora. Una svolta determinante è stata impressa (negli Stati Uniti con conseguenze in tutto il mondo) dall’amministrazione Reagan, in due fasi: prima con il Deregulation act del 1981, che ha allungato la durata delle concessioni televisive e ha favorito le concentrazioni, e poi nel 1987 con l’abolizione della Fairness doctrine, un insieme di regole che imponeva criteri di equilibrio nell’informazione sulle questioni controverse. Negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso un processo di deregulation si è esteso anche all’Europa con l’avvento della televisione commerciale, con una crescita impetuosa dell’offerta televisiva e con l’inizio di un fenomeno che avrebbe coinvolto, con l’eccezione della BBC, tutti i sistemi televisivi nazionali d’Europa (dopo il 1989 anche dei Paesi dell’Est): il servizio pubblico, entrando in competizione con le reti private, avrebbe abbandonato quei tratti paternalistici e pedagogici degli inizi, si sarebbe ammodernato migliorando la qualità dei suoi prodotti, ma inseguendo gli ascolti della televisione commerciale avrebbe anche progressivamente abbandonato la sua missione.
Nonostante l’affacciarsi delle alternative ‘intelligenti’ e specializzate, delle televisioni all-news, dei canali a pagamento e di Internet, a partire dalla metà degli anni Novanta l’intensificazione della ‘stupidità’ televisiva, dei reality show, si è rivelata una tendenza in crescita, che non si è affatto esaurita con la fine del secolo, ma risulta tuttora in corso. E se sosteniamo che essa ha raggiunto il suo apice, in realtà esprimiamo, con qualche ottimismo, ancora una volta più una speranza che una fondata previsione. Non è affatto certo che l’erosione del mercato televisivo generalista da parte della televisione digitale con le sue centinaia di canali spinga la televisione generalista pubblica e privata in una direzione diversa da quella del passato: dall’americano Jerry Springer show, all’italiana Isola dei famosi e al Big brother della multinazionale Endemol. Così come non esiste nessuna garanzia che l’informazione dei telegiornali acquisti profondità, sviluppi background, abbandoni lo schema ‘turbo’. È possibile al contrario che la sua natura residuale di televisione per un’audience restia ad acquistare contenuti a pagamento, più povera e più generalista, ne accentui il carattere ‘idiota’. Potrebbe infine stabilizzarsi un dualismo tra televisione scadente generalista per le audience povere e televisione di qualità più elevata e specializzata per le fasce ricche.
Un fenomeno mediaticamente sconcertante di questo inizio di secolo è stato il perdurare della convinzione di una maggioranza di americani che vi fosse un legame operativo tra gli attentati dell’11 settembre 2001 e il regime dittatoriale iracheno e che questo disponesse di armi di distruzione di massa. Nonostante le evidenze acquisite da tempo, ancora nel febbraio del 2005 il 64% degli americani credeva nel legame diretto tra Ṣaddām Ḥusayn e Ibn Lādin e nella partecipazione dell’Irāq all’attentato. Più di un terzo credeva ancora nell’esistenza di armi di distruzione di massa nascoste. Alla fine dello stesso anno la percentuale era scesa al 41%, una minoranza ancora molto consistente (per i sondaggi sulle convinzioni degli americani sull’Irāq cfr. http://www.harrisinteractive.com). L’evidenza si stava imponendo con una straordinaria lentezza, e con un notevole ritardo sull’emergere delle informazioni che avrebbero consentito, già all’epoca dell’invasione, di dissipare i dubbi. L’attenzione delle ricerche si è concentrata sui fenomeni legati a questa lentezza e su quello che viene considerato un fallimento della stampa americana, di tutto il giornalismo, stampato, televisivo e web, che non ha saputo, come avrebbe dovuto nella sua leggendaria funzione di watchdog (cane da guardia), rovesciare la percezione erronea di quei fatti che era stata indotta dal governo americano per giustificare l’invasione (Bennett, Lawrence, Livingston 2007, cap. 1). La televisione e i telegiornali sono stati lo strumento di comunicazione di gran lunga prevalente nell’influenzare l’opinione pubblica sul tema sia in America sia in Europa. Sullo sfondo di una riduzione dell’attenzione dedicata agli affari internazionali – tendenza di lungo periodo ben documentata (Bennett 20077, p. 23) –, il fenomeno di una nuova credulità di massa, determinante per il risultato delle presidenziali del 2004 che hanno riconfermato George W. Bush, è attribuibile alla mancanza di un bilanciamento della propaganda del governo da parte di voci contrastanti. La televisione risulta secondo queste analisi capace di condizionare il mainstream, ossia il flusso principale, dell’informazione, e l’indexing, cioè l’ordine di arrivo delle notizie e dei titoli nei telegiornali, e dunque le cose cui si presta attenzione. Essenziale per individuare il funzionamento della formazione dell’opinione pubblica in questi anni è il fatto che sia stata tendenzialmente neutralizzata la capacità critica di contrastare un argomento con argomenti opposti. Non siamo evidentemente in presenza, come in regimi non democratici, di una censura che impedisca la critica. Negli Stati Uniti come nei Paesi europei la critica ha libero corso, ma non è sufficiente a imporre una reale e influente discussione. Non è sufficiente che l’argomento decisivo sia pubblicato oppure venga enunciato in televisione. Perché esso possa bilanciare la tesi avversa e prevalente deve riuscire a entrare con continuità nel mainstream dell’informazione.
Se il governo riesce con l’abilità dei suoi strateghi della comunicazione a guadagnare le prime posizioni nell’indexing (i titoli di testa dei telegiornali) anche con dei diversivi, non ha bisogno di replicare agli argomenti contrari. La discussione tra argomenti favorevoli o contrari circa, per es., i rapporti tra il regime di Ṣaddām Ḥusayn e al-Qā῾ida non avrà mai luogo, perché il governo impone attraverso nuove iniziative altri temi, un altro frame. La discussione critica ha luogo nei circoli delle persone bene informate e anche sulla stampa più qualificata, ma non entra nel mainstream e di conseguenza non è in grado di condizionare la formazione dell’opinione.
Il fenomeno del controllo del mainstream è stato analizzato, in particolare, da Robert M. Entman che, con il suo modello teorico a cascata (cascading: cfr. Entman 2004), sottolinea l’influenza dei fattori gerarchici ed egemonici nella formazione e nel controllo dei frame che condizionano l’opinione. La capacità delle élites politiche di determinare il corso dell’opinione attraverso i media si manifesta nel massimo grado quando si allineano i fattori della congruenza culturale, del potere stesso, della strategia comunicativa e della convergenza emotiva, come è accaduto in occasione della guerra in ῾Irāq. L’opinione pubblica è diventata prigioniera dei media e i media a loro volta della Casa Bianca, al punto che le loro informazioni si sono trasformate in propaganda. Quando i media presentano le cose secondo un’angolatura unilaterale in modo schiacciante, le manifestazioni dell’opinione pubblica cui i leader prestano attenzione appaiono esse stesse unilaterali nella stessa direzione. La medesima cosa è accaduta anche per le torture ai prigionieri di Abū Ghraib per i quali i media hanno fatto diventare mainstream il frame degli ‘abusi’ occasionali scoraggiando e di fatto eliminando la definizione di ‘torture’. Le manifestazioni di opinione di segno opposto finiscono ai margini e non riescono a farsi sentire finché non innescano un processo abbastanza potente e tale da contrastare la direzione del cascading (Bennett, Lawrence, Livingston 2007, cap. 3). Tutto questo non è accaduto invece per il disastro provocato dall’uragano Katrina, quando la disattenzione e il fallimento della macchina governativa sono finiti nel mainstream della critica, a causa della natura catastrofica e della rapidità dell’evento, di fronte al quale lo spin governativo non ha avuto il tempo di coordinare una regia (Bennett, Lawrence, Livingston 2007, pp. XI, 10-11). Tuttavia, perché questo rovesciamento della ‘cascata’ avvenga devono combinarsi i fattori necessari e devono acquistare la potenza di contrasto necessaria.
Una rottura e una inversione, esemplarmente televisive, sono accadute con il caso di Cindy Sheehan, la madre di un soldato, Casey, morto in ῾Irāq, che, nell’estate del 2005, si è accampata per protesta davanti al ranch di G.W. Bush a Crawford nel Texas, con una tenacia e determinazione che hanno ben corrisposto al bisogno del mezzo televisivo della continuità. In poche ore Camp Casey è diventato il luogo di riferimento, negli Stati Uniti e sul piano internazionale, per la protesta contro la guerra. Le televisioni hanno cominciato la copertura quotidiana del luogo con servizi e interviste. Un nuovo frame della guerra aveva acquistato forza nel flusso centrale dell’informazione, che si era fino a quel momento preoccupato di lasciare ai margini le vittime (Bennett, Lawrence, Livingston 2007, pp. 68-70). Ciò sarebbe stato probabilmente possibile già nel 2004, quando tutti gli elementi per giudicare l’andamento della guerra erano largamente a disposizione dell’opinione pubblica. Tuttavia il frame egemonico aveva resistito. Soltanto con le elezioni di mezzo termine del 2006, in corrispondenza anche con questa novità, il giudizio degli elettori avrebbe modificato gli equilibri politici.
I riflessi televisivi della guerra in ῾Irāq e del clima di opinione americano, in modo più contrastato e sfumato, si sono manifestati in Europa con molte somiglianze e analogie. Ma qui, nell’estate del 2003, c’è stato un drammatico scontro tra la BBC e lo spin-doctor di T. Blair, Alastair Campbell, accusato dalla televisione di avere sexed-up, di avere reso cioè più conforme ai desideri del governo (la giustificazione della guerra) un documento dell’intelligence che attribuiva a Ṣaddām Ḥusayn la capacità di dispiegare armi di distruzione di massa chimiche e biologiche in 45 minuti. L’esperto David Kelly, fonte dell’informazione che smentiva il governo, si suicidò prima di deporre pubblicamente. Un processo avrebbe poi scagionato il governo e condannato la BBC. L’episodio ha lasciato, tuttavia, una traccia dolorosa e ha confermato che l’Europa, nonostante la solidità dell’alleanza della Gran Bretagna con gli Stati Uniti, è stata terreno più impervio al cascading unilaterale che fino al 2005 ha condizionato l’opinione americana.
L’analisi comparata condotta nel 2005 sui servizi pubblici televisivi di tutta Europa ha mostrato molti tratti comuni, al punto che è facile individuare la natura sistematica della problematica televisiva del nostro tempo, sia sul versante pubblico sia su quello privato. I cambiamenti a ritmo accelerato in corso in Europa presentano sfide senza precedenti per reti televisive di pubblica proprietà che sono sottoposte alla competizione con quelle private. L’obiettivo essenziale di realizzare un’informazione imparziale, pluralistica, con una ricca varietà di contenuti di qualità e garantendo l’accesso alle minoranze, si trova, da una parte, sotto la pressione crescente della spinta commerciale dei competitori privati e dei mutamenti tecnologici, dall’altra, sotto la pressione sempre più invasiva dei governi e dei partiti che tentano di controllare sia le aziende televisive pubbliche sia gli organismi indipendenti di garanzia. Sempre più spesso le nomine dei direttori generali e dei consigli di amministrazione riflettono indicazioni dirette della politica, e questo accade anche per le nomine dei favoriti dei governi nelle commissioni che dovrebbero avere funzioni regolatorie super partes e che, peraltro, spesso sono lasciate senza mezzi per operare e con scarsi o nulli poteri sanzionatori (Television across Europe, 2005, pp. 11-12).
La competizione per l’audience con le televisioni commerciali ha accentuato il processo di istupidimento. Quasi dovunque, con l’eccezione della BBC e parzialmente della televisione tedesca, si segnala il fatto che la distinzione tra televisioni pubbliche in termini di qualità dei programmi si fa sempre più confusa, e la tabloidizzazione dei telegiornali avanza senza che si vedano attuate contromisure. In tutti i Paesi si affaccia il tema corrente che le promesse di qualità, imparzialità, approfondimento dell’informazione, deluse in misura crescente dal servizio pubblico, saranno mantenute dalle nuove forme televisive digitali, specializzate, e dai nuovi bouquet di canali che stanno raggiungendo tutta l’Europa. Questa promessa viene continuamente rinnovata ma per niente mantenuta e, nel frattempo, i servizi pubblici continuano ad aggravare la loro crisi di identità, formula che appare un eufemismo nel caso italiano.
La situazione italiana si caratterizza per l’elevatissimo livello di concentrazione del versante privato della televisione commerciale (il gruppo Mediaset dei Berlusconi lo occupa quasi interamente); per l’eccezionale quota di raccolta pubblicitaria a beneficio della televisione generalista (intorno al 55% nel 2006, contro il 24% negli Stati Uniti; per i dati sugli ascolti italiani cfr. http://it.nielsen.com/site/index.shtml) e a danno della stampa che si conferma in vari sensi un contropotere debole; per l’aggressiva invadenza politica dei partiti che sono riusciti negli ultimi anni a liquidare definitivamente il tentativo, risalente al governo di Carlo Azeglio Ciampi, di neutralizzazione delle nomine (la presidenza di Claudio De Matté e la ‘Rai dei professori’ del 1993) e a realizzare un consiglio di amministrazione rigorosamente e interamente ‘lottizzato’ (nessun consigliere che non rappresenti un partito o una corrente); per il persistere da un quindicennio della posizione di Silvio Berlusconi, leader politico in palese conflitto di interesse. La legge Gasparri sembra non corrispondere agli standard europei di pluralismo e compare nel citato studio comparativo europeo non come un modo per regolare il conflitto di interesse, bensì come un suo ‘prodotto’ (Television across Europe, 2005, p. 256). Anche in questo caso si deve dunque dare per acquisito che, mentre l’immaginario tende a valorizzare il mutamento di scena indotto dagli sviluppi tecnologici, la realtà ci costringe a prendere atto di una accentuazione ed estremizzazione del trend iniziato negli anni Ottanta. A tal punto che è necessario ricordare come la posizione dell’Italia nella classifica di Freedom House (http://www.freedomhouse.org/), per il settore libertà di stampa, sia stata qualificata come «PF», parzialmente libera, dal 2004 (anno di entrata in vigore della legge Gasparri) fino al 2006, pur riconoscendo che in Italia sono fatte salve le garanzie costituzionali generali. Il livello di concentrazione della televisione commerciale che fa capo a Berlusconi, sia pure attraverso i familiari, appare di nuovo al centro delle critiche di coloro che fanno riferimento ai canoni costituzionali europei standard. Nei Paesi dell’Est europeo la transizione al postcomunismo ha lasciato in eredità forti aziende televisive di Stato esposte agli appetiti dei partiti e a un’agguerrita concorrenza privata che cerca di agganciare e conseguentemente condizionare con estrema disinvoltura il potere politico.
Di fronte a questa erosione e a questa crisi dei servizi pubblici, la risposta più ragionevole e realistica sarebbe quella di rimetterli in linea con le esigenze di moderne democrazie in quanto strumenti di un’opinione pubblica libera e informata da una pluralità di voci. Una difficoltà è rappresentata dal fatto che la difesa del servizio pubblico è generalmente sostenuta dai partiti per accrescere il proprio controllo e garantirsi una quota di visibilità. D’altra parte la via della privatizzazione, in larga misura necessaria, non può però contentarsi di una terapia che consiste nel guarire l’organo amputandolo. Mentre anche negli Stati Uniti si guarda con crescente interesse alla necessità di tornare a regolare le concentrazioni reintroducendo dei limiti anche alle fusioni tra settori diversi della comunicazione, televisione, stampa, computer, software, web, telecomunicazioni, intrattenimento (Baker 2007, pp. 171 e sgg.), è impensabile, e improbabile, che i Paesi europei smantellino i grandi broadcasters pubblici. Gli obiettivi rimangono quelli di fornire un’informazione equilibrata, di proteggere e dare voce al pluralismo garantendo diversità di punti di vista. La sfida odierna per le classi dirigenti dei Paesi europei è quella di trarre fuori i servizi pubblici dallo stato parzialmente confusionale in cui sono precipitati, attraverso un’azione esplicita e di urto, al fine di riscoprire la missione originaria. In tal senso è da valutare con interesse, anche se soggetta a interpretazioni contrastanti, la decisione (gennaio 2009) del presidente francese Nicolas Sarkozy di abolire la pubblicità sui canali pubblici dalle 6 alle 20, compensando le minori entrate con una nuova tassa sulle telecomunicazioni.
Il paradosso di una previsione generale che immagina un’evoluzione della televisione verso la specializzazione, la competenza, il pluralismo, e una realtà contrastante fatta di vecchi vizi che si accentuano riguarda non solo le sorti della televisione generalista in questi anni, ma anche le televisioni all-news. C’è da chiedersi se sia indicativo sul piano internazionale quel che accade negli Stati Uniti, e si è visto che spesso è così quando si tratta di televisione: la CNN, fondata nel 1980 da Ted Turner, ha guadagnato un notevole peso negli Stati Uniti attraverso il cavo e in tutto il mondo con la trasmissione satellitare. Ha conquistato una vastissima fama, e audience, con la prima guerra del Golfo, nel 1991, e si è consolidata venendo poi ceduta al gruppo Time Warner. Ma questo trend, che identificava la grande cable-news come un modello per il futuro, è stato contrastato – e in qualche momento superato – da un trend opposto, quello rappresentato da Fox-News. Quest’altra televisione via cavo è stata fondata, sedici anni dopo la CNN, da Rupert Murdoch, è stata affidata a un direttore, Roger Ailes, già spin-doctor di Richard Nixon e Ronald Reagan, e si caratterizza per un profilo radicalmente partisan. Se si può prendere in considerazione con cautela l’ipotesi che la creatura di Turner mostri talvolta preferenze di tipo liberal (cosa che tuttavia viene contestata proprio a proposito della guerra in ῾Irāq), è d’altra parte evidente oltre ogni dubbio la faziosità, la retorica patriottica, l’esplicita presa di parte che caratterizzano la programmazione di Fox-News. Nata nel 1996 e diffusa attraverso il cavo e il satellite, essa ha conquistato dopo l’11 settembre 2001 e specialmente con la guerra in ῾Irāq il primo posto negli ascolti negli Stati Uniti, superando per un certo periodo la CNN, con la quale la competizione è permanente. Lo stile e il ritmo dei telegiornali di Fox-News hanno accentuato la velocità, il carattere di eccitazione e allarme permanente (Bosetti 2007, pp. 160 e sgg.) che caratterizzano quelli che abbiamo definito turbo-telegiornali. È da prendere atto, dunque, che la formula televisiva che appare vincente in questo momento nel campo dei canali specializzati destinati a fornire informazione non stop 24 ore su 24 ha un indirizzo politico molto pronunciato e, in alcuni momenti, è diventata strumento di mobilitazione a sostegno della guerra, identificandosi totalmente non solo con il governo degli Stati Uniti, ma con l’esercito: i cronisti di Fox-News si presentavano nei loro servizi dal fronte come se prendessero parte alle stesse operazioni militari, identificando in un ‘noi’ collettivo sé stessi, i soldati americani e i telespettatori, e mostrandosi non come operatori di una televisione che descrive la guerra, ma di una televisione che è in guerra. Lo sfrontato slogan della casa «we report, you decide» è considerato una provocazione per irritare gli avversari politici.
Con la nascita nel 1996 di Al Jazeera, la televisione satellitare panaraba, su iniziativa dell’emirato del Qaṭar che l’ha finanziata e la ospita nella sua capitale, Doha, si è aperta una pagina nuova, per quanto controversa, nelle relazioni mediatiche internazionali che accompagnano un processo di polarizzazione e di conflitto caratterizzante l’epoca segnata dall’11 settembre 2001, dalle guerre in Afghānistān e in ῾Irāq, e dall’aggravarsi della crisi israeliano-palestinese. Le televisioni satellitari, di per sé, avvicinano realtà geografiche e culturali distanti che aprono problematiche di compatibilità di linguaggi, abitudini e codici di interpretazione. E aprono situazioni critiche mettendo in comunicazione universi mediatici che, nell’epoca della televisione analogica, rimanevano per l’ordinario molto più isolati l’uno dall’altro. Indicativo di questa nuova situazione l’episodio delle caricature di Maometto, apparse sul giornale danese «Jyllands-Posten» il 30 settembre del 2005, che provocarono incandescenti reazioni di protesta in tutto il mondo musulmano. Ma ancora più indicativo della rapidità televisiva con cui si è creato un violento corto circuito è stato l’episodio dell’apparizione di un ministro italiano leghista sulla prima rete della RAI, intervistato dal direttore del Tg1 la sera del 15 febbraio 2006. Con il suo gesto di mostrare la maglietta indossata sotto la camicia sulla quale era stata stampata una delle vignette in questione suscitò una vibrante protesta che provocò la morte di undici persone, vittime degli scontri con la polizia libica davanti al consolato italiano a Bengasi. Le immagini del Tg1 erano state, infatti, immediatamente riprese dalle televisioni arabe. Nuovi compiti di ordine internazionale si profilano dunque anche per le televisioni nazionali, che si trovano ad avere responsabilità nei confronti di audience assai più vaste e multiculturali rispetto al passato. Le relazioni televisive globali fanno affiorare il fatto che ci sono visioni della realtà internazionale in conflitto e tali da spingere a valutare gli stessi eventi in modo diverso (nel caso delle vignette danesi per gli occidentali si trattava di un oltraggio alle loro abitudini liberali, per gli arabi si trattava di una umiliante offesa alla dignità della loro religione; nel caso dei conflitti mediorientali la diversità dei framings rende le audience occidentali e arabe, quando si tratta, per es., di Gaza, Israele, Libano, quasi partecipi di eventi diversi, accaduti su pianeti diversi). La retorica polarizzante che tende a prevalere dalle due parti rinforza la distanza e spinge le due tunnel-visions in direzioni sempre più lontane (Pintak 2006, pp. XIV-XV).
La presenza di Al Jazeera, che fin dall’origine ha un forte carattere internazionale, avendo ereditato molti giornalisti provenienti dalle file del disciolto Arabic television service della BBC, è insieme uno dei fattori della polarizzazione nei confronti del mondo occidentale, e in particolare degli Stati Uniti, ma svolge anche altre funzioni: modernizza i sistemi informativi e giornalistici del mondo arabo, apre la strada a una informazione senza censure in una parte del globo dove era finora strettamente controllata dai governi. Novità contraddittoria e fonte di infinite discussioni in Occidente e tra gli arabi, Al Jazeera unisce alla sua anima islamica (che dà voce anche a rappresentanti della Fratellanza musulmana come Yūsuf al-Qaraḍāwī) una vocazione potenzialmente liberalizzante nei confronti di democrazie ‘in transizione’ e di sistemi politici autoritari. E, infatti, vari governi arabi (saudita ed egiziano in primo luogo) esercitano una forte pressione sull’emirato del Qaṭar perché controlli i giornalisti e impedisca loro di dare voce alle critiche delle loro opposizioni. A seguito della nascita di Al Jazeera da parte saudita è stata finanziata e incoraggiata la nascita di Al Arabija, una televisione meno provocatoria della prima, ma che sta riscuotendo anch’essa un certo successo. L’effetto di queste televisioni introduce un’altra potente novità, quella del costituirsi in misura molto più forte che in passato di una identità panaraba, al di sopra delle distinzioni nazionali, che rimangono tuttavia molto forti.
La nascita di Al-Jazeera International in inglese, nel novembre del 2006, ha introdotto una voce di parte araba nel mondo della televisione satellitare all-news. Diversa dalla sorella araba, di cui condivide tratti professionali di matrice BBC che qui si fanno decisamente più marcati, si rivolge al pubblico globale di lingua inglese offrendo un’angolatura diversa rispetto a quella occidentale, non solo per il diverso frame sulle situazioni di conflitto (l’Irāq raccontato dalla parte della popolazione, Gaza dalla parte dei palestinesi), ma anche per una maggiore apertura dello sguardo sul Sud del mondo. Negli Stati Uniti Al Jazeera non è accessibile attraverso il televisore, perché finora nessun distributore l’ha inserita nella sua offerta, ma può essere vista sul web con il computer.
Nella situazione segnata da queste potenti iniziative, le classi dirigenti europee danno segni di una maggiore attenzione nei confronti di progetti televisivi internazionali, focalizzati non solo, come avveniva tradizionalmente, sui propri emigrati all’estero e sulla tutela della propria lingua nazionale, ma sui Paesi arabi del Mediterraneo e del Golfo. Dopo numerosi rinvii sono iniziate nel marzo 2008 le trasmissioni di BBC Arabic Tv che, con dodici ore al giorno di news (destinate a diventare in pochi mesi 24 su 24), si candida a essere il più potente canale televisivo occidentale in lingua araba. France 24 in arabo è già attiva dall’aprile del 2007, così come Deutsche Welle dal febbraio del 2005 e Russia Today dal febbraio del 2006. In Italia la classe dirigente non sembra finora percepire il problema.
Negli anni dell’ascesa della rete era molto diffusa la speranza che la sua anarchia, la sua orizzontalità e intelligenza, contrapposte rispettivamente alla gerarchia, alla verticalità e alla stupidità della televisione potessero aprire una pagina nuova nella vita della democrazia, introducendo nuovi strumenti di informazione e partecipazione che consentissero una interattività più continua tra i vertici del potere politico e della burocrazia e i cittadini. Molte di queste speranze si sono tradotte in iniziative di vario genere e hanno, in effetti, portato a miglioramenti nei servizi pubblici, nelle relazioni tra i cittadini e i comuni e nella stessa vita politica. Se l’età della televisione generalista, con le sue audience di massa nelle serate domestiche sui divani di tutto il mondo, ha dato il colpo determinante alla vita organizzata dei partiti politici e al declino del capitale sociale (Putnam 2000, pp. 267 e sgg.), la diffusione di Internet sembra in effetti non togliere ma aggiungere qualche cosa alla vita politica: riduzione dei costi della comunicazione, possibilità di organizzare rapidamente mobilitazioni o di effettuare la ricostruzione di eventi o lanciare un dibattito attraverso i blog, i forum, i newsgroups, e semplicemente attraverso l’uso delle e-mail, con un incremento delle relazioni e degli scambi verbali che il mass medium televisivo aveva essenzialmente depresso. A Internet si deve aggiungere l’apporto fornito alla comunicazione politica anche dalla telefonia mobile, la quale incrementa l’uso del web in mobilità, e da tutti gli altri sviluppi di Internet e dell’elettronica (iPod, YouTube, MySpace, Second life, Facebook) e specialmente dei blog, dai più piccoli a quelli di maggiore successo. È ragionevole ipotizzare che si configurino delle alternative al tradizionale sistema di informazione delle moderne democrazie, in cui l’agenda si forma nella relazione tra le élites politiche, la stampa e la televisione mainstream per riversare un flusso informativo sulla popolazione ricevendone un feedback periodico attraverso le elezioni, le risposte di mercato dei giornali, i riscontri di audience e i sondaggi. Lo sviluppo di una comunicazione orizzontale, rapida, flessibile, non troppo costosa da gestire, ha determinato quella che Manuel Castells (2007, pp. 246 e sgg.) definisce la mass self-communication (in altre parole la comunicazione individuale di massa), la quale rende possibile immaginare che movimenti sociali e, in determinati contesti non democratici, politiche insurrezionali possano sorgere e realizzarsi in un nuovo spazio di comunicazione.
Secondo questa prospettiva la sfera pubblica nell’età dell’informazione e della rete si starebbe spostando dall’universo istituzionale allo spazio dei flussi. A questo scenario, che contiene alcune ragionevoli aspettative, va però contrapposta la constatazione che i poteri istituzionali e soprattutto le concentrazioni economiche cui fanno capo l’elettronica, l’intrattenimento, l’informazione si organizzano in quel medesimo spazio, il quale, dunque, non appare abitato soltanto dalla mass self-communication dei blog, ma anche dai tradizionali e dai nuovi potentati dei consumi. Per di più la produzione professionale di informazione si va concentrando ulteriormente dando luogo a un’oligarchia che si divide una quota crescente di audience: le ultime ricerche dimostrano che i blog e i siti che si occupano di questioni politiche generali hanno meno contatti di quanto ci si aspettasse e sono prodotti da persone che provengono da una élite più ristretta di quella dei giornalisti. Il dato indubbiamente più allarmante, quale emerge dall’ultimo rapporto Pew (State of the news media, 2008), è che il consumo di informazioni si sta effettivamente spostando sul web, erodendo progressivamente il numero di copie vendute dai giornali, ma la pubblicità non accompagna questo spostamento. Tale separazione tra informazione e pubblicità prospetta una crisi delle aziende giornalistiche, che dovranno affrontare nuove impegnative ristrutturazioni e reinventare gli attuali modelli di business.
Dal punto di vista dei rapporti tra forme di comunicazione e democrazia occidentale è per ora da registrare che la più importante vicenda politico-mediatica di inizio secolo – la guerra in ῾Irāq – ha visto prevalere in misura schiacciante una forma tradizionale di comunicazione di massa, televisiva, generalista, verticale, con un pronunciato effetto a cascata, quando già un notevole potenziale alternativo, orizzontale, era a disposizione. In conclusione il broadcasting sembra imprimere il marchio del suo massimo dispiegarsi sul primo decennio del secolo nuovo, mentre per il narrowcasting dobbiamo limitarci a prorogare l’annuncio della speranza di una sua egemonia.
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