Televisione
(XXXIII, p. 439; App. II, ii, p. 964; III, ii, p. 914; IV, iii, p. 600; V, v, p. 435; v. radiodiffusione, App. II, ii, p. 656; III, ii, p. 564; IV, iii, p. 136; v. rai - radiotelevisione italiana, App. IV, iii, p. 146; V, iv, p. 396)
Nuovi sistemi televisivi
di Luigi Rocchi
Le nuove tecnologie digitali hanno indotto un mutamento radicale nel mondo dell'informazione, in particolare della radiodiffusione (v. in questa Appendice), della t. e, più in generale, degli audiovisivi. Negli anni Novanta, il mercato dell'audiovisivo è stato infatti in continua crescita, con tassi annuali dell'ordine del 4% e valori assoluti di diverse centinaia di miliardi di dollari. In Europa, del volume d'affari di circa 45 miliardi di Euro nel 1996 (con aumento del 7% l'anno), ben l'82% è impiegato nella televisione. In fig. 1 si evidenziano le ripartizioni percentuali del mercato per i diversi prodotti. Nella fig. 2 è riportato l'ascolto TV in Europa.
In Italia sono presenti 14 canali nazionali (3 pubblici e 11 commerciali) e 714 emittenti private regionali e locali. L'ascolto giornaliero medio è di circa 3 ore e 40 minuti. Nelle figg. 3 e 4 sono segnalati gli ascolti TV negli ultimi dodici anni e l'andamento medio durante la giornata. In questo quadro di successi, la t. sta attraversando un periodo di trasformazione con opportunità e rischi straordinari.
Dagli anni Sessanta, dopo l'introduzione del colore, sono avvenuti marginali miglioramenti, pure apprezzati dal pubblico, come il Teletext (Televideo in Italia), la stereofonia e gli schermi larghi (widescreen). Negli anni Ottanta vi sono stati tentativi di introdurre standard con prestazioni migliori come, per es., il MAC (Multiplexed Analogue Components) e soprattutto l'alta definizione (HDTV, High Definition TV). Tali innovazioni sono tuttavia rimaste confinate nei laboratori di ricerca, perché non hanno incontrato l'interesse del pubblico e degli operatori TV (broadcaster).
La televisione DVB
La t. 'numerica', o DVB (Digital Video Broadcasting), sta sostituendo la t. analogica. Nel 1993 un omonimo consorzio europeo ha definito gli standard per la diffusione da satellite e cavo, rispettivamente DVB-S e DVB-C. Successivamente, nel 1995, è nato quello per la t. terrestre DVB-T. La t. digitale costituisce un'importante tessera nel mosaico della convergenza della radiodiffusione (radio e t.), delle telecomunicazioni e dei computer (sistemi di elaborazione in generale). Le comunicazioni diventano multimediali venendo così a cadere per la prima volta la tradizionale linea di demarcazione fra t., radio e trasmissione dati. Immagini, suoni, testi, programmi per computer sono trasmessi omogeneamente con un flusso ordinato di bit. Si apre anche la strada ai servizi TV interattivi, nei quali l'utente opera delle scelte.
Si ritiene che il sistema terrestre DVB-T possa avere successo più rapidamente rispetto al DVB-S e DVB-C, poiché non richiede modifiche all'attuale impianto domestico per la t. analogica, e inoltre, permette la radiodiffusione regionale e locale. In fig. 5 si confrontano i costi infrastrutturali per la t. via etere, satellite e cavo.
Negli Stati Uniti la FCC (Federal Communications Commission) ha stabilito che entro il 2006 la t. analogica scomparirà, in quanto completamente sostituita da quella numerica. In Canada la transizione è fissata al 2007, in Giappone il termine è stato definito nel 2010. In Italia un disegno di legge prevede il 2010 quale termine per la t. analogica.
Dal punto di vista normativo, nel 1995 le Amministrazioni europee, riunite in ambito CEPT (Conference of European Postal and Telecommunication Administrations) a Chester in Gran Bretagna, hanno stabilito l'avvio del DVB-T. In particolare, sono state attribuite le frequenze della banda terza (VHF) da 174 a 230 MHz e delle bande quarta e quinta (UHF) da 470 a 862 MHz.
In Italia tali orientamenti sono stati confermati nel Piano nazionale di assegnazione delle frequenze per la radiodiffusione televisiva emesso in data 30 ottobre 1998 e l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha decretato che il canale 9 della banda VHF (secondo la canalizzazione europea), nonché i canali 66, 67, 68 della banda UHF siano destinati all'avvio del servizio digitale.
I vantaggi più significativi del DVB per l'utente sono:
a) Miglioramento della qualità audio e video. I sistemi digitali sono sostanzialmente esenti da disturbi e interferenze. Al contrario, quelli analogici presentano un peggioramento progressivo al diminuire del livello del segnale ricevuto.
b) Aumento quantitativo. I canali terrestri DVB-T potranno essere tra 100 e 200 nelle bande VHF-UHF, quando tutti gli analogici saranno stati convertiti in digitale. I canali da satellite DVB-S saranno varie centinaia, in base al numero dei ripetitori (transponder) dei satelliti in esercizio.
Nella banda di un canale analogico terrestre si trasmettono ben 4 programmi TV numerici a definizione standard SDTV (Standard Definition TV). Si possono inoltre realizzare reti terrestri a singola frequenza (SFN, Single Frequency Network). In un canale da satellite è possibile diffondere da 5 a 8 programmi numerici anche con più audio (stereo, multilingue), mentre con le reti telefoniche in rame, su un normale 'doppino' è ora possibile inviare un solo segnale TV (sistema ADSL, Asymmetric Digital Subscriber Line).
La sovrabbondanza di canali permette ai broadcasters, in linea di principio, di aumentare l'offerta, reperendo nuove risorse finanziarie. Il mercato italiano non può, per es., sostenere più di 7-8 programmi nazionali 'generalisti' (non a tema) in chiaro (non a pagamento diretto), a causa del livello delle risorse provenienti da canone e pubblicità. I molti canali aggiuntivi disponibili potranno quindi essere impiegati per programmi tematici (a basso costo per il broadcaster) e a pagamento: soprattutto con abbonamenti stagionali, oppure con acquisti di singoli prodotti quali film o partite di calcio (pay per view).
In tale grande offerta diventa indispensabile avere una guida semplice per raggiungere il programma desiderato: l'EPG (Electronic Program Guide). Si tratta di un software che presenta testi, arricchiti di grafica, con lo scopo di invogliare il cliente verso i vari programmi dei diversi fornitori in competizione. Si stanno inoltre sviluppando forme evolute di EPG, gli 'agenti'. Tali software possono ricercare i programmi di interesse del cliente ed effettuare vere e proprie trattative di acquisto con gli 'agenti' dei fornitori.
c) Multimedialità. I programmi televisivi (anche con audio stereofonico, multilingue) sono trasmessi insieme a segnali sonori e ai dati (testi, grafica). La capacità del canale diventa una risorsa flessibile, da impiegare in modo dinamico fra i diversi servizi. Tale flessibilità consente anche cambi di standard verso sistemi a schermo largo e ad alta definizione. Questo richiede però, per l'utente, l'acquisto di nuovi apparati; per es., l'alta definizione potrà essere apprezzata solo con schermi piatti al plasma almeno da 40 a 55".
d) Interattività. L'utente può richiedere specifici programmi a un Centro di servizio di un fornitore. Si definisce un livello di 'pseudo-interattività' quando il broadcaster trasmette ciclicamente l'informazione che il televisore seleziona localmente (per es., il Teletext). Livelli più elevati di interattività includono invece la fruizione di servizi Internet, il commercio elettronico (e-commerce), fino alla richiesta di spettacoli (VOD, Video On Demand).
e) Riduzione dell'inquinamento elettromagnetico. La maggiore 'robustezza' del segnale digitale consente di ridurre la potenza irradiata e quindi l'inquinamento elettromagnetico nelle aree servite.
Standard di codifica
Nel 1988 si costituì un consorzio, il MPEG (Motion Picture Expert Group) che ha sviluppato alcuni standard numerici di codifica adottati a livello mondiale. Il primo risultato fu MPEG-1. Il canale di distribuzione deve avere una velocità di trasmissione di circa 1,5 Mbit/s, come il Compact Disc e il DAT (Digital Audio Tape). MPEG-1 è impiegato anche su Internet. Nel 1990 fu definito lo standard per la numerizzazione della t., MPEG-2. Tale standard è stato già impiegato nella produzione di milioni di ricevitori negli Stati Uniti e in Europa. Particolare interesse è stato rivolto alla possibilità di 'cifrare' il segnale con l'obiettivo della t. a pagamento.
Allo scopo di potenziare le capacità interattive, è stato progettato MPEG-4. L'immagine sullo schermo non è un quadro unitario, ma la sovrapposizione di singoli soggetti (per es., un attore, una scenografia, un tavolo); l'immagine potrà essere presentata con diversi punti di vista a scelta, come se lo spettatore potesse muoversi nella scena. Un altro standard sarà MPEG-7, specificatamente ideato per prodotti audiovisivi su rete Internet.
Il decodificatore d'utente (STB, Set Top Box), vale a dire l'apparato che permette di vedere il programma digitale sul normale televisore, costituisce un punto nodale. Si stima che in Europa, entro il 2003, ne saranno commercializzati 30 milioni secondo lo standard MPEG-2.
Un componente del STB è l'accesso condizionato (CA, Conditional Access), per la decifratura (decriptaggio) dei programmi a pagamento. Il CA è proprio dell'operatore che fornisce il servizio di pay-TV. Il decodificatore si dice aperto quando il CA è su una scheda ed è facilmente sostituibile: l'utente può in tal caso comprare programmi da più operatori senza dover cambiare apparato.
La produzione in digitale. - Tutta la linea di produzione è progressivamente convertita in digitale, in linea con la nuova tecnologia numerica.
Diventano numerici i sistemi di ripresa e di studio:
- la telecamera;
- la scenografia virtuale. Si costruisce su un computer grafico la scenografia desiderata su cui sono inserite le immagini reali da studio;
- i personaggi virtuali. Su computer si generano 'attori virtuali', come cartoni animati che partecipano attivamente allo spettacolo.
La numerizzazione consente di migliorare la verosimiglianza degli effetti speciali aggiunti alle immagini nel processo di post-produzione.
Legata alla produzione è anche l'esigenza di costituire banche dati mediante l'automazione di archivi di documenti in digitale sia audio sia video (audio- e videoteche). Oltre a ridurre il degrado nel tempo dei documenti, i principali vantaggi delle videoteche sono: poter ritrovare con facilità i documenti e prelevarli senza intervento manuale; visionarli, anche a distanza, presso postazioni (workstations) dove si effettuano operazioni di post-produzione.
La RAI sta effettuando la conversione in digitale e l'automazione della propria Audio-Videoteca (con la costituzione di un catalogo multimediale con video, audio, testi).
La televisione in Europa
In Europa sono presenti t. via etere, cavo e satellite con proporzioni molto diverse da Stato a Stato.
Vari paesi sono interessati a una rapida introduzione del DVB-T. La Gran Bretagna ha avviato nel 1997 la realizzazione di 6 reti, avendo l'obiettivo di servire tra il 69% ed il 90% della popolazione. Si prevede il termine della t. analogica per l'anno 2009. La Germania ha una rilevante rete via cavo (su 33 milioni di case con t., 25 milioni sono 'allacciate' e 18 milioni 'connesse' al servizio). Tale situazione riduce l'interesse per il DVB-T. La fine della t. analogica è comunque prevista per il 2013. In Francia si attiveranno 4 reti raggiungendo il 60% di popolazione. In Svezia sono previste 6 reti con l'obiettivo di coinvolgere il 90% della popolazione e il termine della t. analogica è previsto nel 2008. La Spagna ha avviato la realizzazione di 4 reti ed è fissato nel 2010 il termine della t. analogica.
La televisione in Italia
Nel nostro paese è presente un'offerta di t. generalista molto ricca a causa della competizione sulle quote pubblicitarie fra le emittenti nazionali, che superano il 95% dell'ascolto complessivo. Pertanto la t. a pagamento, prima analogica via etere e ora soprattutto digitale via satellite (DVB-S), ha stentato a decollare per entrambi gli operatori, Telepiù e Stream.
All'inizio del 1999 si sono verificate due novità. Da un lato, l'editore R. Murdoch ha rafforzato Stream, opzionando il 35% del capitale sociale. Dall'altro, la RAI è entrata nel capitale di Telepiù, arricchendo anche l'offerta DVB-S. È pertanto credibile una risposta positiva del mercato. Per quanto riguarda il servizio DVB-T, nel 1998 sono state effettuate le prime trasmissioni sperimentali della RAI a Torino. Si prevede che nel successivo triennio il servizio sperimentale potrà estendersi in tutta Italia, per un totale di circa il 60% degli Italiani, con priorità per le aree metropolitane.
Alcune emittenti nazionali private hanno avviato sperimentazioni del DVB-T. Il vincolo principale all'estensione delle frequenze del servizio consiste nella forte congestione dello spettro. L'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni incentiva le emittenti ad anticipare la conversione dall'analogico al digitale, rispetto al termine finale ora previsto per il 2010. Alcune valutazioni più caute spostano al 2018 la fine della t. analogica. Nella fig. 6 si presenta una stima di tale processo.
Per completezza, un riferimento va fatto al sistema di t. via etere: MVDS (Microwave Video Distribution System), detto anche Wireless TV. In Italia le frequenze potenzialmente dedicate a questo servizio sono molto alte (40,5÷42,5 GHz). La conseguenza è che un trasmettitore ha un'area di servizio molto contenuta (3 km di raggio). Il MVDS è quindi soprattutto adatto a integrare le reti fisse di telecomunicazioni.
Le prospettive future
Lo sviluppo tecnologico mette a disposizione del pubblico molte opportunità, un'offerta TV più ampia, di migliore qualità, anche interattiva. L'utente avrà delle guide elettroniche per orientarsi fra le centinaia di proposte TV generaliste e tematiche.
I vari sistemi televisivi (via etere, satellite e cavo) avranno sviluppi diversi, valorizzando le peculiarità nelle prestazioni. Per il futuro sono aperte entrambe le opzioni: 'vedere la televisione con il computer', oppure 'impiegare Internet con la televisione'. Azzardando una previsione per il prossimo decennio, si ritiene che l'utente in salotto preferirà una visione prevalentemente passiva (con bassa interattività) per svago, hobby e informazione. Apprezzerà anche programmi tematici a pagamento e utilizzerà televisori a schermo piatto, di grandi dimensioni (di oltre 50"), con formato allargato (16:9), forse ad alta definizione. Al contrario, nelle attività di studio e professionali, avrà il computer (anche portatile), collegato con reti ad alta velocità via cavo o via etere, soprattutto per servizi a interattività spinta, quali il commercio elettronico e la telemedicina.
I tempi di sviluppo del DVB dipenderanno dalla reale disponibilità dei soggetti coinvolti (emittenti, industria, governi) a impiegare, nella fase di transizione, le risorse necessarie: investimenti, infrastrutture e frequenze. La condizione essenziale sarà il gradimento del grande pubblico e un buon livello di alfabetizzazione informatica nella società. Il successo dei nuovi sistemi tecnologici potrà avere un forte impatto sulle abitudini di vita individuali e sociali, e forse anche sulla stessa organizzazione delle istituzioni e degli Stati.
bibliografia
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Futuri sviluppi della televisione
di Carlo Sartori
Tre fattori di sviluppo hanno concorso a rendere l'ultimo scorcio del 20° secolo la fase forse più rivoluzionaria nella breve ma intensa storia della t. mondiale. Sono fattori che presentano al loro interno anche una serie di contrasti, e che interagiscono con alcuni potenti fattori di conservazione, ma di cui ormai occorre tener conto nel cercare di prevedere il complesso panorama televisivo del 21° secolo.
Un fattore tecnologico: la costituzione di un 'ambiente digitale' al posto del tradizionale 'ambiente analogico' entro cui la t. si era sviluppata dagli anni Trenta in poi. Il digitale permette una forte compressione dei segnali, per cui si possono moltiplicare i canali distributivi e abbattere i costi unitari di diffusione. Ma il digitale è anche un veicolo per una sempre maggiore permeabilità della t. verso ogni altra forma di comunicazione mediatica: esso è infatti una sorta di esperanto, di 'lingua franca' che consente forme di convergenza e di integrazione intermediali che fino ad anni recenti parevano impossibili, ed è perciò la base per la formazione di quel macrosettore che viene oggi definito infocommunication (telecomunicazioni, informatica, audiovisivo).
Un fattore economico: la globalizzazione dei mercati della comunicazione, che sta modificando la tradizionale struttura nazionale/multinazionale che ha caratterizzato tutta la fase postbellica dell'espansione televisiva nelle varie aree del pianeta. Questa tendenza è chiaramente identificabile nel vertiginoso aumento, negli anni Novanta, di fusioni, joint ventures, acquisizioni internazionali che hanno coinvolto sempre più numerosi gruppi americani, europei, asiatici, australiani, in un processo continuo di ibridazione delle strutture di management e di concentrazione industriale nella produzione di contenuti audiovisivi.
Un fattore socioculturale: il bisogno di personalizzazione del consumo, che si affianca alla tradizionale tipologia di fruizione di massa della televisione. Un fenomeno, questo, che è già particolarmente sviluppato nelle nazioni più avanzate, ma che non è assente nei paesi più recentemente affacciatisi all'era televisiva, caratterizzati molto spesso da veloci 'salti della rana' che bruciano le tappe del tradizionale sviluppo televisivo, affiancando fin dall'inizio al broadcasting generalista forme più evolute di distribuzione e fruizione televisiva (videoregistrazione domestica, cavo, satellite).
Queste tendenze si manifestano all'interno di un contesto planetario che colloca ormai la t. al centro del sistema della comunicazione, in un processo di ampliamento continuo del suo già vastissimo bacino di utenza reale e potenziale. La t. infatti, insieme con la radio, è certamente il mezzo di comunicazione più diffuso al mondo: oggi circa sette case su dieci dell'intero pianeta sono dotate di almeno un apparecchio televisivo. La t. è di sicuro più diffusa del telefono: a livello mondiale vi è infatti, in media, una sola linea telefonica ogni dieci abitanti, con una distribuzione, tra l'altro, piuttosto sperequata, se si pensa che meno del 20% della popolazione del mondo detiene l'80% delle linee telefoniche. Le differenze diventano ancora maggiori se si prende in considerazione la diffusione dei personal computer: nel mondo vi sono appena tre computer ogni cento abitanti e, se si escludono i paesi sviluppati, tale rapporto scende al di sotto di uno.
Anche la t. ha le sue sperequazioni tra continenti e nazioni, ma non più stridenti come in passato. Negli anni Novanta è fortemente cresciuta, rispetto al totale mondiale delle abitazioni con televisore, l'incidenza di alcune aree emergenti, in particolare Europa dell'Est e Asia (quest'ultima possiede ormai sei case su dieci con televisore, compresi i due 'giganti' Cina e India, che sono infatti rispettivamente passati al primo e al terzo posto tra le popolazioni più 'televisive' del pianeta). È vero che continuano a esistere sacche di grande arretratezza televisiva (in particolare l'Africa che, con il 10% della popolazione mondiale, ha appena il 3% delle case dotate di televisore); ma è anche vero che ormai le aree economicamente più avanzate (America del Nord, Europa occidentale, Giappone) non fanno più registrare un'incidenza così preponderante come avveniva ancora all'inizio e per gran parte degli anni Ottanta. E il ritmo di crescita accelera continuamente: si calcola che, nei tre decenni conclusivi del 20° secolo, il numero globale delle abitazioni dotate di televisore si sia moltiplicato per sette.
Il discorso muta solo in parte se, oltre all'apparecchio televisivo, si considerano due strumenti tecnologici complementari e più avanzati rispetto alla t. tradizionalmente intesa, e cioè l'home video e il satellite/cavo: una casa su quattro del pianeta ha un videoregistratore e quasi una ogni cinque è dotata di ricezione via cavo o via satellite. In questo campo le differenze tra le aree sviluppate e quelle in via di sviluppo sono più evidenti, ma i veri e propri boom che hanno caratterizzato diversi paesi dell'Asia, dell'Europa dell'Est e dell'America Latina (con incrementi sino al 1500%, notevoli anche se si considera l'esigua base di partenza) hanno fatto scendere negli anni Novanta la quota di America Settentrionale ed Europa occidentale da quasi il 60% a meno del 50% nella diffusione mondiale dei videoregistratori, e da quasi il 90% a poco più del 50% in quella delle abitazioni cosiddette multichannel (cioè dotate di satellite o cavo). Particolarmente significativo appare il fatto che, tra i due mercati, il maggior balzo in avanti in termini percentuali dei paesi emergenti si sia registrato proprio nel multichannel, cioè nella tecnologia decisamente più nuova e avanzata. Un esempio per tutti: per quanto possa sembrare sorprendente, oggi il più vasto sistema via cavo del mondo non è più quello di New York o Los Angeles, bensì quello di Shanghai.
Il fattore tecnologico
È in questo quadro di obiettivo sviluppo del mezzo e di espansione del bacino d'utenza planetario che occorre considerare il ruolo giocato dai tre fattori di rivoluzione indicati.
L'impulso verso il digitale è fortissimo e appare irreversibile, perché sostenuto sia dalla grande industria globale dell'hardware televisivo (desiderosa di rinnovare gli impianti di produzione, diffusione e ricezione), sia dai sempre più potenti detentori di diritti e contenuti televisivi (che, proprio grazie alla maggiore capacità distributiva del sistema mondiale, possono far lievitare i prezzi dei prodotti da vendere, come è già ampiamente avvenuto nel campo dei diritti sportivi e dei 'pacchetti' di film hollywoodiani). Non è un caso che il digitale, se in un primo momento ha riguardato solo la diffusione via satellite/cavo, si stia progressivamente estendendo anche alla diffusione terrestre via etere, moltiplicandone le frequenze tradizionalmente limitate: se si considera che il digitale terrestre ha già preso l'avvio in alcuni paesi (Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone per primi) e se si calcola un periodo normale di 20÷25 anni per il ricambio totale degli apparecchi riceventi, si può ipotizzare che verso il 2020 tutta la t., almeno in alcune aree avanzate del mondo, sarà digitale.
L'effetto di più immediata rilevanza dovuto all'avvento del digitale - la sua 'prima ondata' - è quello della possibilità di specializzazione. Grazie al rovesciamento della tradizionale scarsità di frequenze della t. analogica, la specializzazione prende forma attraverso i cosiddetti canali tematici, quale nuova tipologia di offerta che si aggiunge a quella tradizionale dei canali generalisti e che si caratterizza per un indirizzo sempre più mirato a particolari generi televisivi, nonché a particolari target e gruppi di interesse. Per dare un'idea della dimensione del fenomeno, si consideri che negli Stati Uniti i 'pacchetti-base' disponibili nei sistemi urbani via cavo sono passati da una media di 9 canali ciascuno nel 1980 a una media di 54 nel 1996; e che in Europa la disponibilità di canali negli anni Novanta si è praticamente raddoppiata ogni tre anni, superando nel complesso (tra generalisti e tematici) il numero di 300.
La 'seconda ondata' del digitale, che cronologicamente si interseca almeno in parte con la prima, trae alimento dall'altra e già rilevata caratteristica di questa rivoluzione tecnologica, e cioè la permeabilità della t. agli altri settori della convergenza (informatica e telecomunicazioni), che dà vita a un processo di sempre maggiore ibridazione produttiva e diffusiva. Le forme che assume questo fenomeno sono diverse, e non è ancora possibile stabilirne la forza d'impatto conclusiva e le possibili modalità di integrazione, siano esse la web TV (il televisore come terminale semplificato per la navigazione in Internet), l'intercast (le reti diffusive via etere o via cavo/satellite come canale per la distribuzione di Internet), o il webcasting (in cui Internet passa dalla consueta e spesso defatigante logica pull a una logica push, cioè si organizza per canali che raccolgono e inviano l'informazione all'utente personalizzandola e aggiornandola secondo le sue scelte preordinate).
Il fattore economico
Questo secondo fattore di rivoluzione necessita di un chiarimento preliminare. Sino a tutti gli anni Settanta i soggetti che operavano nel settore televisivo erano due: i servizi pubblici (nati su un modello essenzialmente europeo ma estesi anche altrove), finanziati dapprima dal solo canone annuale obbligatorio e poi, salve alcune eccezioni, anche dal mercato pubblicitario; e le emittenti commerciali (sviluppatesi inizialmente negli Stati Uniti) il cui principale provento, come è noto, è la vendita di spazi pubblicitari accanto e dentro alla stessa programmazione. Negli anni Ottanta è poi sorta una terza tipologia, la pay-TV o t. a pagamento diretto, nella quale sono confluiti capitali sia di soggetti estranei al settore audiovisivo, sia di soggetti che già operavano in esso (tra cui i network statunitensi e alcuni grandi broadcasters) o in campi contigui (per es. numerosi organi di stampa).
Questa trasformazione ha già portato con sé, come era ovvio, una modificazione nella distribuzione delle risorse del sistema televisivo mondiale, le cui conseguenze maggiori devono peraltro ancora registrarsi. La tendenza in atto, infatti, evidenzia come il finanziamento pubblico sia ormai stagnante e anzi leggermente declinante, l'incidenza della pubblicità scenda sul totale delle risorse TV (per es. dal 65% al 59% a livello mondiale nella prima metà degli anni Novanta), e aumentino invece in modo vertiginoso le risorse da abbonamento alla pay-TV (dal 15% a oltre il 25% sempre nei primi anni Novanta, con prospettive di crescita fino al 50% entro i primi dieci anni del Duemila). In altri termini, le risorse derivanti dal pagamento diretto dell'utente emergono come la tipologia economica che avrà un'incidenza sempre più rilevante sul totale delle risorse televisive mondiali e quindi sul finanziamento dello sviluppo del sistema televisivo nel suo complesso.
È su questo quadro generale che influisce in maniera crescente il processo di globalizzazione, un processo peraltro variegato nelle sue dimensioni e nelle sue linee di tendenza. È innegabile che vi siano ormai veri e propri 'vettori televisivi globali', cioè soggetti imprenditoriali (in maggioranza dagli Stati Uniti, in misura assai minore dall'Europa e da altri continenti) che coprono diverse grandi aree del pianeta. La loro globalità non è però di per se stessa sinonimo di 'colonizzazione' sic et simpliciter, poiché essi si espandono anche attraverso una sorta di contaminazione con quei popoli, con quelle visioni del mondo e con quelle culture nelle quali essi operano e si sviluppano: tipico è stato in questi anni il caso del gruppo Murdoch (di origine australiana, ma anche fortemente radicato nel Regno Unito e negli Stati Uniti), nonché del gruppo Turner che, ancor prima di confluire in Time-Warner, con la rete informativa CNN si è estensivamente inserito in molteplici realtà locali.
Una certa multilateralità della globalizzazione è confermata in via più generale e sistematica dall'analisi dei dati relativi alle operazioni transnazionali di fusione e acquisizione avvenute nel settore televisivo a livello mondiale dalla fine degli anni Ottanta. Se è vero che oltre l'80% delle operazioni effettuate coinvolge esclusivamente l'America Settentrionale e l'Europa, è altrettanto vero che l'Europa costituisce il principale mercato regionale, e le relative operazioni con l'America Settentrionale non risultano esclusivamente unidirezionali a vantaggio di quest'ultima; e si cominciano a delineare alcune aree emergenti (Asia e Oceania innanzitutto, ma anche America Latina) che effettuano, anche in qualità di acquirenti, significative operazioni al di fuori dei propri confini: non esiste quindi una netta monodirezionalità a favore di un'area 'forte' sulle altre. Inoltre, crescono in modo sensibile gli accordi e le partnership tra aziende di diversi paesi anziché le acquisizioni: ciò delinea un processo di internazionalizzazione delle imprese articolato in veri e propri accordi strategici che sono, almeno sulla carta, in grado di meglio preservare e valorizzare l'originaria natura degli operatori dei diversi paesi.
Purtroppo il discorso cambia radicalmente se, dall'analisi strutturale, si passa a quella relativa ai contenuti del mercato audiovisivo mondiale. Tutti gli studi realizzati in questi anni hanno confermato ciò che era stato evidenziato in alcune ricerche pilota sin dagli anni Settanta, e cioè la schiacciante forza esportatrice degli Stati Uniti, che è una realtà stabilizzata pressoché in tutte le aree continentali, ma che fa leva soprattutto su due poli 'forti' di paesi importatori, quello europeo e quello asiatico. Si possono sì notare segnali di sviluppo in alcuni mercati secondari (per es. il flusso di scambio tra Regno Unito, Oceania e Sudafrica; il flusso tra alcune nazioni dell'America Latina e dai paesi europei verso il Giappone e l'Australia), ma si tratta di dati ancora minimi, se è vero che, confrontando importazioni ed esportazioni tra le diverse aree geografiche, solo gli Stati Uniti mostrano ancora una volta un quadro in sensibile attivo (importano meno del 10% dei loro programmi televisivi), mentre quasi tutti gli altri paesi evidenziano passivi piuttosto rilevanti.
Da qui scaturisce la sicura previsione che il vero 'bastone di comando' del sistema audiovisivo mondiale resterà saldamente in mano agli Stati Uniti. Certo, come si è detto, i loro gruppi multinazionali si globalizzano e si ibridano con le realtà produttive locali, ma la combinazione tra un'avanzata e razionale nuova distribuzione delle risorse interne al sistema audiovisivo statunitense e le sue straordinarie capacità e professionalità produttive conferisce a questo paese un formidabile vantaggio competitivo anche nella nuova fase di sviluppo della televisione. Il fenomeno appare già sufficientemente chiaro nelle sue linee di tendenza: raggiunta infatti una fase quasi di maturità economica nel rapporto tra free TV e pay-TV, tra offerta generalista e offerta tematica, i gruppi multimediali statunitensi sono quasi naturalmente costretti dalla loro stessa forza a trovare nuove espansioni internazionali per le loro offerte semigeneraliste e tematizzate; e si dirigono proprio verso quelle aree - come l'America Latina, l'Asia e soprattutto l'Europa - dove esistono ampi margini potenziali di crescita. Forti know-how produttivi, cataloghi audiovisivi vastissimi, marchi di grande presa popolare (si pensi a Disney) aprono loro una strada sicura, come fu per il cinema di Hollywood sin dagli anni Trenta e come è stato per la serialità televisiva dagli anni Cinquanta.
Il fattore socioculturale
Il terzo fattore di rivoluzione, quello socioculturale, è certamente il più complesso e, a oggi, il più difficile da decifrare. Seguendo le suggestioni dello sviluppo tecnologico prima descritto, si sarebbe tentati di immaginare entro qualche anno uno scenario televisivo completamente diverso dall'attuale, con una t. tutta tematica e tutta ibridata con il computer per un uso sempre più selettivo e interattivo da parte di audience che sostituiscono alla tradizionale couch viewing ("visione da divano") della t. una desk viewing ("visione da scrivania") votata alla consultazione continua di banche dati, al telelavoro, allo home banking, allo home shopping e così via. La storia dei mezzi di comunicazione insegna tuttavia che le rivoluzioni tecnologiche devono sempre fare i conti con le vischiosità di consumo e con le stabili realtà economiche e socioculturali entro cui si collocano.
D'altro canto, non bisogna cadere dal troppo ottimistico 'presbitismo' futurologico nell'opposta 'miopia' conservatrice, e pensare che in definitiva tutto rimarrà come prima. La tipica curva dello sviluppo dei media (da una fase iniziale 'elitaria' a una fase 'popolare' e infine a una fase 'specialistica') ha già significativamente modificato, del resto, i mercati di altri mezzi di comunicazione (si pensi ai supplementi specialistici dei quotidiani, o alla frammentazione altrettanto specialistica dei magazine, nonché a quella della radio) ed è difficile immaginare che non finisca per incidere anche sul mercato televisivo. In realtà, si registrerà per un lungo periodo - e forse per sempre - una dinamica complessa di fruizione televisiva, che si troverà ad accelerare o rallentare i processi di modificazione sulla base di variabili interne al corpo dell'audience (età, istruzione, censo, ma anche interessi culturali, tempo libero, disponibilità all'innovazione), le quali si misureranno con una serie di variabili esterne (maggiori o minori incentivazioni tecnologiche, liberalizzazione o barriere di tipo normativo, forza o debolezza dei diversi sistemi industriali).
In questo quadro, nel corso di quella che è stata definita la prima ondata della rivoluzione digitale, la specializzazione/tematizzazione certamente continuerà a svilupparsi, ma al tempo stesso non potrà fare a meno di subire l'influenza di alcuni generi televisivi forti (come i film, lo sport, l'informazione, la musica giovane, i programmi per bambini) che con la loro predominanza indifferenziata nel mercato globale ricostituiscono in qualche modo il 'generalismo' da sempre tipico della televisione. E la stessa t. generalista (quella nata e prosperata in tutti i paesi nell'epoca della scarsità delle frequenze, per cui ogni canale doveva tendenzialmente soddisfare le esigenze di tutti) non sembra affatto destinata a morire: se è vero che il suo pubblico mostra in diversi mercati avanzati segni di stanchezza e di disaffezione anche nel prime time, se è vero che nella guerra ossessiva dell'audience essa si è abituata a clonare sempre più se stessa e a limitare le opzioni reali del pubblico pur in una gamma di scelte superficialmente vasta, è altrettanto vero che la t. generalista continuerà sempre a rappresentare lo strumento insostituibile per la fruizione collettiva e istantanea di un gran numero di eventi e, nelle sue espressioni migliori, per la creazione di consapevolezze diffuse sul piano nazionale e internazionale.
Questa complessità socioculturale del consumo televisivo non potrà non incidere sugli strumenti di cui il pubblico vorrà dotarsi nella propria casa e sul luogo di lavoro. Si assisterà a una generale moltiplicazione degli apparecchi televisivi per ogni unità abitativa (fenomeno già ampiamente in atto in alcuni paesi avanzati), per assecondare le sempre maggiori divergenze di fruizione di fronte alla specializzazione dell'offerta. Si produrranno e venderanno apparecchi riceventi sempre più sofisticati (con grandi schermi ad alta definizione) che incorporeranno in modo omogeneo i diversi strumenti tecnologici che si sono via via sedimentati nel processo evolutivo e che al momento sono dispersi in un groviglio di non semplice gestione per l'utente (apparecchio TV, videoregistratore, decoders analogici e digitali per satellite, set top box dei sistemi via cavo, computer e suoi allacciamenti in rete ecc.).
Tale progressiva trasformazione sarà la base per l'evoluzione definitiva della seconda ondata della rivoluzione digitale, quando l'integrazione intermediale (cioè la convergenza di ogni modalità espressiva e di ogni mezzo di comunicazione, dal punto di vista sia tecnologico, sia economico-industriale, sia socioculturale) raggiungerà livelli tali che oggi sfuggono a ogni ragionevole previsione.
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Legislazione
di Giuseppe Santaniello
Il periodo successivo al 1992 è caratterizzato da alcuni interventi legislativi in materia radiotelevisiva.
Il primo, di contenuto circoscritto, è costituito dalla l. 27 ott. 1993 nr. 422, di conversione del d. l. 27 ag. 1993 nr. 323 recante provvedimenti urgenti in materia televisiva. Esso dispone che le trasmissioni in codice siano effettuate esclusivamente a mezzo di impianti di diffusione via cavo o da satellite; e stabilisce che, fino all'entrata in vigore della nuova disciplina del sistema radiotelevisivo e dell'editoria, di cui all'art. 2, 2° co., della l. 25 giugno 1993 nr. 206, e comunque per un periodo non superiore a tre anni, non è consentito il rilascio di ulteriori concessioni per la radiodiffusione televisiva nell'ambito nazionale.
Di ben maggiore rilievo è la legge 31 luglio 1997 nr. 249 (Istituzione dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisioni). I suoi profili caratterizzanti possono così delinearsi:
a) La legge contiene importanti profili innovativi e può considerarsi una normativa di sistema, soprattutto in base al rilievo che, per la prima volta nel nostro ordinamento, contiene una disciplina unitaria sia delle telecomunicazioni, sia della radiodiffusione. Il processo di convergenza e di integrazione tra i settori delle telecomunicazioni, dell'emittenza televisiva, dell'informatica, che in passato erano caratterizzati da reti e servizi distinti, richiede una cornice unitaria, in un tessuto di regole che tengano conto della 'rivoluzione della multimedialità'.
Rispetto alle posizioni di dieci anni fa, le telecomunicazioni hanno acquistato un posto di tutto risalto sullo scenario comunicativo, nell'ambito del quale si è ampliato il potere dei gestori di telecomunicazioni la cui espansione si è realizzata con la conquista di territori prima saldamente presidiati dai broadcasters della radiotelevisione. Negli anni recenti è apparso chiaro anche in Italia che (come già da tempo si è verificato in paesi ad avanzato sviluppo) le reti di telecomunicazioni si avviano a diventare un'infrastruttura strategica per il futuro industriale, poiché su di esse transiteranno non solo le tradizionali comunicazioni telefoniche, ma anche un intenso traffico di dati, che collega calcolatori e terminali, e un incessante flusso di programmi da molteplici canali televisivi. La forte convergenza tecnologica in atto apre interessanti prospettive, come l'integrazione della rete televisiva e di quella delle telecomunicazioni in una grande infrastruttura unitaria di reti, con programmi televisivi veicolati su reti gestite da imprese telefoniche e con l'accesso di imprese di comunicazioni telefoniche su reti gestite da imprese televisive.
A causa del ritmo incalzante delle innovazioni, l'attuale assetto del sistema delle tecnologie di comunicazione basato su mercati distinti, rispettivamente quello delle telecomunicazioni e dell'informatica e quello della radiodiffusione, non sembra più adeguato. La nuova normativa si basa su tale convergenza tra telecomunicazioni e t.: per tale profilo essa rappresenta un notevole punto di svolta.
b) La legge non si limita a un ridisegno dell'assetto delle strutture che debbono gestire le reti e i servizi, ma ha anche creato una nuova autorità di garanzia. Il tratto qualificante della nuova Autorità, di derivazione parlamentare, consiste nella sua ampiezza di competenze, che riguardano sia le infrastrutture sia i servizi, in riferimento ai nuovi caratteri della multimedialità, la quale richiede la convergenza fra i network providers e i service providers.
Il nuovo organismo di garanzia è configurato come un'Autorità forte, con ampiezza di poteri normativi e di penetrante intervento in tutto il settore, fino a diventare uno dei due principali 'poli' di governo del sistema. A un'Autorità 'forte' deve corrispondere tuttavia, ai fini dell'equilibrio del settore, una struttura ministeriale anch'essa efficiente, dotata di capacità di guida e di impulso, in modo da rappresentare in maniera congrua l'altro polo di governo. Se l'Autorità di garanzia rappresenta l'istanza tecnica, il Ministero deve rappresentare l'istanza politica, che ha un ruolo fondamentale ai fini dello sviluppo del settore, del suo raccordo con le dinamiche internazionali, dell'elaborazione delle linee programmatiche.
c) Finora le caratteristiche tecnologiche delle telecomunicazioni erano incentrate sulla rilevanza primaria del 'mezzo' e le radiodiffusioni erano invece centrate in maniera preminente sulla disciplina dei 'contenuti' trasmessi. Diverse erano le ispirazioni delle due discipline formatesi nel tempo; ora, invece, si tratta di costruire i principi di una regolamentazione comune per l'intero settore comunicativo. Questa esigenza si pone nel momento in cui l'evoluzione tecnologica e la crescente integrazione della multimedialità portano al superamento dell'iniziale dicotomia tra mezzi e contenuti.
In tale contesto di rinnovamento recato dalla legge di sistema anche il servizio pubblico deve necessariamente trasformarsi. La collocazione del servizio pubblico televisivo in un sistema misto comporta la necessità di una nuova legittimazione rispetto al vecchio impianto normativo modellato sul regime monopolistico. E inoltre gli orientamenti del 'nuovo corso', conseguente alle direttive europee, ispirate a criteri di profonda liberalizzazione del mercato e alla valorizzazione delle risorse economiche di tipo privato, fanno emergere un indirizzo diretto a individuare in maniera rigorosa le funzioni del servizio pubblico, in modo che esso possa trovare la sua identità esclusivamente nell'esercizio di compiti differenziali e non fungibili da parte degli operatori privati.
La legge 22 febbraio 2000 nr. 28 in tema di parità di accesso ai mezzi d'informazione durante le campagne elettorali e referendarie e di comunicazione politica (cosiddetta legge sulla par condicio) attribuisce nuove funzioni all'Autorità e in particolare quella di perseguire d'ufficio le violazioni alle disposizioni introdotte. Queste ultime regolano in particolare la comunicazione politica radiotelevisiva, intesa come diffusione sui mezzi radiotelevisivi di programmi contenenti opinioni e valutazioni politiche (art. 2), e i messaggi politici radiotelevisivi autogestiti (art. 3), dettando un'analitica disciplina delle regole per lo svolgimento della comunicazione politica e per la trasmissione dei messaggi autogestiti in campagna elettorale (art. 4).
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Programmi televisivi. Confronti tra paesi
di Aldo Grasso
Gli enti televisivi sembrano aver concluso, sui teleschermi nazionali, un'epoca di impatto forte e univoco con l'utenza. Terminata, o quasi, la fase del monopolio, con procedimenti analoghi e già verificati in altri settori dell'industria culturale, anche le t. dei vari paesi hanno ormai raggiunto una dimensione sovranazionale: non tanto e non solo in termini produttivi, quanto e soprattutto nell'evoluzione della ricerca di consenso, nell'offerta dei programmi e più in generale nell'elaborazione di una proposta linguistica che sia speculare alle nuove modalità dell'organizzazione sociale. L'idea di una civiltà rappresentata dalla t. può nascere da queste, e solo da queste, premesse.
In tutto il mondo si sta infatti imponendo un ampio modello televisivo, caratterizzato da due sbocchi: la t. generalista (un tipo di programmazione che tiene conto di un pubblico vario e indistinto), che sembra essere vincente nelle singole nazioni, e la t. complementare (t. via cavo, pay-TV, t. regionali, t. mirate ecc.), che sembra invece imporsi in un contesto più vasto come, appunto, quello sovranazionale.
Le novità dell'ultimo decennio sono evidenti. La cosiddetta t. delle origini - anni Quaranta e Cinquanta - era infatti una specie di Babele mediologica. La necessità di riempire il palinsesto, la fame di testi e di trasmissioni, la diversa provenienza dei programmisti produssero un travaso spesso brusco e farraginoso di patrimoni culturali e spettacolari sovente incompatibili con il nuovo mezzo. Eppure, proprio in quegli anni, la t. acquisiva caratteristiche tipicamente nazionali che restano difficilmente cancellabili.
Europa e Stati Uniti
In Italia, una delle più grandi preoccupazioni della RAI, per es., fu quella di usare il nuovo mezzo come strumento di promozione culturale. Altra importante preoccupazione era quella di costruire un rapporto organico con la provincia. La novità di questo contatto consisteva nel coinvolgere paesi, cittadine e intere popolazioni in trasmissioni di agonismo ludico, in gare spettacolari e in prove tipiche del quiz leggero. Del resto, la vera sperimentazione linguistica per anni si nascose nelle pieghe di un celebre spazio pubblicitario, Carosello (trasmesso dal 1957 al 1977): l'esiguità del tempo a disposizione favoriva infatti l'affermarsi di una vera e propria ricerca stilistica e di metodologia narrativa, una ricerca condotta, fra gli altri, dai nomi più rilevanti della regia cinematografica e televisiva.
In campo televisivo gli Stati Uniti rappresentano fin dall'inizio il modello di riferimento verso cui i paesi europei assunsero atteggiamenti differenziati. La Francia manifestò immediatamente una costante diffidenza, se non una vera e propria ripulsa. Come il cinema, anche la t. francese si schierò subito contro 'il pericolo americano', e gli stessi programmi inglesi furono visti come un'avanguardia dell'invasione americana in Europa. I pilastri su cui poggiava saldamente l'edificio televisivo francese erano il varietà e il giornalismo. Il settore informativo riuscì ben presto ad affrancarsi da un controllo troppo pressante del potere politico e, almeno per un certo numero di anni, fino a De Gaulle, poté vantarsi di essere poco permeabile alle pressioni e alle sollecitazioni dell'esecutivo. Dalla salda tradizione del variété e del circo, la t. attinse invece tutti i meccanismi di successo dello spettacolo 'leggero', ideando trasmissioni che sapevano abilmente trasferire in provincia la scena rutilante della capitale. Se il giornalismo era fortemente parigino, il varietà si rivolgeva alla smisurata provincia.
In Germania, la legge attribuisce la sovranità culturale ai Bundesländer, e poiché la t. è considerata lavoro culturale, il suo esercizio dipende dai singoli Stati; gli impianti di trasmissione però, grazie alla legge sull'installazione delle telecomunicazioni, sono posti sotto la sovranità del Parlamento centrale (Bund). A questa frammentazione strutturale corrisponde, quasi per compensazione, una centralità dell'informazione: il telegiornale (Tageschau) è diventato ben presto il vero centro della serata delle famiglie tedesche. Alla modestia dell'intrattenimento e al problematico rapporto con l'umorismo, la t. della RTF cercò di supplire con un fruttuoso rapporto con il cinema: non solo perché, fin dagli anni Cinquanta, si andava sperimentando in t. una nuova formula, il Fernsehspiel, né teatro in t. né cinema in t. ma, appunto, 'film televisivo' (che da Der Richter und sein Henker a Tatort, a Heimat, a Der Kommissar, a Derrick si impose come genere vincente), ma soprattutto perché nel 1974 venne stabilito un accordo tra cinema e t., accordo che obbligava le stazioni televisive a stanziare una certa somma per incrementare la produzione cinematografica.
Negli anni Cinquanta la t. inglese, come tutte le altre t. europee, assunse un atteggiamento fortemente pedagogizzante; anzi, la t. stessa, sia pubblica sia privata, venne considerata come strumento di coesione fra classi e regioni, come parte integrante della vita di relazione, come una fonte nuova di apprendimento e, più in generale, di educazione (su questa solida tradizione si attuò in seguito l'esperimento della Open University, primo, magistrale tentativo di usare la t. come strumento di corso avanzato di istruzione). Negli anni Sessanta, mentre la BBC continuò a conservare il suo ruolo istituzionale, la ITV, l'organizzazione delle t. commerciali, si aprì a nuovi fermenti; da strumento elitario la t. diventò specchio di una società più variegata e contraddittoria di quella vista fino ad allora sullo schermo, anche se, nel suo insieme, la t. conservava l'illusione di essere uno specchio neutrale, obiettivo, realistico. I due generi principali che hanno sorretto questa impostazione di fondo della t. inglese sono le news e i dramas. Forti della tradizione radiofonica, i notiziari televisivi si sono imposti per autorevolezza e fattura, fossero essi current affairs o documentaries (la BBC ha un settore produttivo interamente dedicato alla divulgazione scientifica). In modo analogo sul versante dei dramas, potendo contare su attori di buona scuola teatrale, vennero realizzati molti sceneggiati di alta qualità: alti investimenti e grande accuratezza realizzativa hanno caratterizzato prodotti come Days of hope, Cathy come home, The jewels in the crown.
Gli anni Settanta hanno rappresentato per le t. europee una fase di stagnazione, di lento trapasso. In primo luogo gli enti televisivi, soprattutto quelli monopolistici sono stati caratterizzati da un maggiore controllo politico, da un elevato numero di giornalisti e programmisti 'funzionari' di partito, da un alto tasso di burocrazia. Con l'arrivo dello sceneggiato Dallas (trasmesso negli Stati Uniti dalla rete CBS dal 1978 al 1991, e approdato in Italia nel 1981), i sonnacchiosi palinsesti hanno ricevuto un formidabile scossone. Se le immagini della Coronation of Queen Elisabeth ii (1953) si possono considerare il primo frammento di t. europea, la saga della cattiveria di Dallas è stato il principale collante della nuova t. mondiale: per la prima volta, negli stessi giorni e nelle stesse ore, la gran parte della popolazione ha visto il medesimo programma.
A differenza di quanto è accaduto in Europa, dove il servizio pubblico ha svolto un ruolo storico primario favorito dal monopolio, negli Stati Uniti sono sempre stati i network commerciali a detenere la posizione dominante. Attualmente quelli di statura nazionale sono cinque: i tre 'monumenti' NBC, CBS e CBC, il più recente Fox Broadcasting e, ultima arrivata (gennaio 1995), la WBT (Warner Bros Television).
Fin dagli anni Cinquanta - e da allora con progressione costante grazie alla capacità produttiva del sistema hollywoodiano, immediatamente riconvertitosi anche in chiave televisiva - le realizzazioni di fiction made in Usa hanno dominato quasi incontrastate i mercati. Attualmente negli Stati Uniti si producono oltre 8000 fiction all'anno tra serie, serial e situation comedy (sitcom). Quanto a esperienza e a strategie di marketing, le case di produzione televisive non hanno niente da invidiare alle majors hollywoodiane; decine e decine di sceneggiatori professionisti sono in grado di fiutare le mode e di trasformare in serie ogni spunto di attualità. Da tempo serie, serial e sitcom battono ogni genere tradizionale della narrativa di largo consumo (quello poliziesco anzitutto, ma anche lo spionistico, il fantasy, la commedia domestica), prendendo le mosse dagli eventi della storia nazionale (Roots, 1977; Radici) o internazionale (The winds of war, 1983; Venti di guerra), dagli eroi leggendari (Zorro, 1957) o realmente esistiti (Serpico, 1976), dai fumetti (Batman, 1966), dagli stessi film di successo (M.A.S.H., 1972). Negli ultimi anni, soprattutto nel campo della sitcom, la fiction ha cominciato ad accostarsi alla realtà sociale - vera o inventata a tavolino, poco importa - mettendo in scena con successo gli amori dei teenagers (Beverly Hills 90210 e Melrose Place, 1990), le tematiche femministe (Roseanne, 1988) e le autoironiche avventure dei single metropolitani (Seinfeld, 1989). Nei casi di maggior successo, la popolarità delle serie statunitensi non ha conosciuto frontiere: si stima che personaggi come lo Spock di Star Trek (1966), il tenente Colombo (1971) o il detective Kojak (1973) abbiano catturato, con le loro avventure, le platee di oltre 100 paesi. Spesso inoltre longevità e popolarità di questi eroi si sono rivelate superiori tra le platee estere piuttosto che in quelle del paese d'origine.
Negli ultimi anni la tendenza dei network è stata quella di accrescere gli spazi dedicati all'attualità. A partire dalle elezioni presidenziali del 1992 è emerso il rapporto sempre più stretto tra t. e politica, nell'ambito del quale non solo sono decisivi i 'faccia a faccia' con gli anchormen, ma giocano un ruolo assai delicato gli stessi talk show d'evasione.
Mondializzazione e identità nazionali
Ogni t. nazionale inserita in ambito mondiale dovrebbe dare vita a un grande movimento dialettico: assimilare le influenze straniere al fine di arricchire il proprio repertorio di offerta; valorizzare le proprie fonti originali per non smarrire l'identità che da lungo tempo l'ha contraddistinta; dimostrare che le diverse civiltà, caratterizzate da differenze etniche, religiose, civili, culturali, comportano un uso diverso del mezzo. La possibilità di scelta si prefigura tuttavia nel momento in cui le t. nazionali stanno perdendo i propri connotati tradizionali, il legame con le proprie radici storiche. La t. del business sta soffocando la t. degli ideali, se mai ne è esistita una.
Il mondo televisivo sembra essersi ristretto, e per misurare le distanze si possono utilizzare le frequenze (televisive e non) anziché i chilometri o le miglia. Le barriere geografiche e culturali sono svanite, scalfite da onde elettroniche, fibre ottiche e satelliti, e il mito dell'esploratore è stato sostituito dal mito dell'ubiquità: ovunque, in ogni istante. Se un giorno un ipotetico viaggiatore decidesse di girare il mondo in rapida successione non rimarrebbe affatto stupito di fronte ai grattacieli americani, alle favelas brasiliane, alle abitazioni indigene dell'Africa nera. Lo strano senso di familiarità che lo pervaderebbe sarebbe imputabile semplicemente al fatto di averli già visti in televisione. E così la valigia del viaggiatore si è alleggerita, condensandosi in un piccolo telecomando.
Oggi la t. si sta trasformando in un medium dell'abbondanza, con centinaia di satelliti e canali via cavo, tassello di un'industria internazionale in continua espansione, che sfugge al controllo giornaliero dei governi che hanno su essa formale giurisdizione. Nei diversi paesi la t. è nata con intenti, ragioni e modalità diverse, che riflettevano la condizione sociale e politica di ogni Stato. Così la vocazione statunitense al mercato, come si è già accennato, ha permesso che nel sistema televisivo a dominare fossero i network commerciali; il servizio pubblico (PTV, Public Television) fu introdotto solo in un secondo momento, nel 1967. Nell'Unione Sovietica la t. era nata con il compito solenne di alfabetizzare le masse e di spiegare e celebrare il trionfo del comunismo; la vastità del territorio ha poi impedito lo sviluppo di canali nazionali, favorendo invece un regionalismo televisivo. Nel 1994 la vecchia Gostelradio si è trasformata nella ORTF che, sotto l'occhio vigile dello Stato, è impegnata a incrementare lo spazio dedicato nella programmazione alle produzioni nazionali.
La scelta della via della t. di Stato, piuttosto che della t. pubblica o della t. commerciale, non è comunque sufficiente a differenziare la t. nelle diverse realtà mondiali per quanto riguarda i suoi contenuti. La programmazione dei canali sparsi in ogni angolo del globo si sta sempre più dirigendo verso l'omologazione ai formati statunitensi. L'alta redditività del sistema televisivo statunitense, unita alla velocità del suo sviluppo, ha permesso agli Stati Uniti di diventare primo fornitore internazionale di programmi e modello di orientamento per qualsiasi altro paese. La 'colonizzazione' televisiva degli Stati Uniti è iniziata molto presto, negli anni Cinquanta. I network statunitensi intervennero, sia economicamente sia culturalmente, nello sviluppo della nascente t. sudamericana, imponendo standard tecnici e formati. Negli stessi anni anche i palinsesti di Giappone e Turchia furono invasi da trasmissioni statunitensi.
Il mercato si è via via allargato, e oggi format e programmi statunitensi sono presenti nelle t. di tutto il mondo; lo sviluppo delle nuove tecnologie favorirà sempre più questa globalizzazione culturale (già oggi MTV, la t. interamente musicale, ha un palinsesto identico, eccetto che per poche ore, in tutti i paesi in cui trasmette). Il dominio televisivo statunitense lascia alle produzioni locali degli altri paesi uno spazio esiguo. Il patrimonio culturale dei diversi paesi si esprime oggi soprattutto attraverso le news e i programmi d'attualità. Negli ultimi anni sui teleschermi televisivi di tutto il mondo si sono moltiplicati documentari, talk show e dibattiti politici.
In Giappone la programmazione punta oggi sui light documentaries. Storie comuni raccontate secondo moduli narrativi con una morale conclusiva: Kagayaku Nihon No Hoshi (TBS) si ispira al desiderio dei bambini di imitare i propri eroi; Yappari Samma Dai-sensei (Fuji televisione) ha come protagonista un attore famoso nelle vesti di maestro; Hajmete No Otsukai (Ntelevisione) affronta la prima missione di bambini sotto i quattro anni, alle prese con il mondo esterno.
In Israele, dove la t. è strumento di coesione nazionale, la produzione locale include documentari, spettacoli teatrali, speciali sulla vita ebraica e il notiziario serale Mabat.
In Australia vige un sistema televisivo misto, che subisce l'influenza del modello britannico e di quello statunitense: le due reti di Stato sono di taglio anglosassone, i tre canali privati sono invece 'americanizzati'. Ma poiché in Australia convivono diverse etnie, nel 1980 è stata data vita alla SBS Television, un broadcasting etnico e multiculturale: documentari d'arte provenienti da Europa, Stati Uniti e Canada; film da Iran, Grecia, Egitto, Polonia, Turchia, Federazione Russa e Cina; soap opera da Paesi Bassi, Brasile e Giappone, calcio dall'Italia. Sette anni dopo è stato introdotto il Broadcasting for remote aboriginal community scheme: l'Aboriginal Television ha lo scopo di aiutare i Warlpiri a non disperdere il loro patrimonio linguistico e culturale, soprattutto attraverso programmi per bambini.
La t. diventa, dunque, mezzo di diffusione dell'identità nazionale nei programmi che inevitabilmente cercano un contatto più diretto con la realtà. Nell'ambito della fiction, terreno privilegiato del mercato statunitense, la proporzione tra produzioni interne e programmi importati è sbilanciata verso questi ultimi.
In India, per es., la serializzazione ha preso spunto dall'epica religiosa, come in Mahābhārata. Plus Channel, una compagnia di produzione indiana, sta inoltre tentando la via delle soap opera. A mouthful of sky, la prima soap indiana in lingua inglese, e Swabhiman, la prima ad andare in onda quotidianamente, sono arrivate sui teleschermi di Malaysia, Srī Laṅkā, Sudafrica, Libano, Indonesia e persino Gran Bretagna. Un altro esempio arriva dal Giappone, con i samurai drama series; anche se la popolarità di questo genere si è affievolita, negli anni Novanta ha avuto un piccolo revival con Nobunaga, Ooka Echizen e Mito Komon, e Abarembo Shogun, ambientato nella Tokyo del 17° secolo.
Un cenno a parte meritano le telenovelas. La telenovela, paradossalmente, è l'unico vero prodotto 'culturale' della modernizzazione dei paesi latino-americani, in particolare di Brasile e Messico. Essa infatti permette ad ampie fasce d'ascolto di riflettere in qualche modo sulle proprie origini, sebbene il suo messaggio, artificiosamente positivo rispetto alle difficili e spesso drammatiche realtà sociali del luogo, abbia per lo più assunto, nei confronti del pubblico, una funzione consolatoria e falsamente rassicurante. Per certi versi la telenovela costituisce un curioso prodotto di ritorno. Nel dopoguerra l'America Meridionale importava quasi tutti i fotoromanzi italiani, quelle storie d'amore e di sventura che venivano pubblicate su Grand Hôtel e Bolero. Le vicende di fanciulle sedotte, agnizioni finali, miracolose promozioni sociali derivavano a loro volta dalla grande stagione del cinema popolare. Mentre la politica della t. italiana è sempre stata quella di produrre sceneggiati con ambizioni culturali - i teleromanzi - le t. latino-americane hanno invece allestito lunghe serie derivate dai fotoromanzi, che hanno trovato un vasto mercato nei paesi di lingua spagnola. Saghe familiari intrecciate a conflitti di classe, eroine femminili, figli illegittimi, fidanzati da conquistare sono gli elementi tipici delle più popolari telenovelas. Il successo di questo genere in molti paesi di lingua spagnola e non (La esclava Esaura è stata esportata in Cina e Cecoslovacchia; Gabriela in Angola, The rich also cry in Russia) ha accresciuto il potere di Rede Globo in Brasile e Televisa in Messico, e ha aperto la strada a produzioni nazionali in Colombia, Venezuela e Porto Rico. In Messico, poi, si è sviluppata una tradizione di telenovelas 'storiche': La Tranchera parla della modernizzazione del paese tra il 1917 e il 1938; The carriage narra la battaglia del presidente B. Juárez per mantenere un governo messicano autentico.
Negli ultimi anni, grazie a una stretta cooperazione con broadcasters canadesi, anche in Sudafrica si assiste al boom di produzioni locali, come Molo Fish, una storia il cui sfondo è il Sudafrica degli anni Settanta e Ottanta, o Paljas, un film per la t. in lingua africana.
La presenza nei palinsesti di programmi autoprodotti non inficia la supremazia statunitense nel mercato televisivo, ma lascia certamente intravedere possibili cambiamenti nello scenario mondiale. Se da una parte si assiste a un'eccessiva diffusione dei prodotti made in USA, dall'altra il moltiplicarsi dei canali via cavo e la crescita della t. digitale aprono nuovi orizzonti ai paesi in via di sviluppo. India, Cina, Russia, Sudafrica si stanno attrezzando per raggiungere i loro concittadini sparsi nel resto del mondo. La t. si sta trasformando in un grande ipermercato, gestito comunque dagli Stati Uniti, ma strutturato in diversi reparti specializzati in cui è possibile trovare qualsiasi tipo di merce: dal cartone animato giapponese, alla soap opera indiana, a spettacoli di danze africane. La globalizzazione del mercato crea un formidabile contrasto: mentre la platea di tutto il mondo guarda programmi simili (come mai era successo nella storia dello spettacolo e della comunicazione) e si omologa nei gusti e nelle scelte, la medesima platea trova differenziazioni solo nei programmi a basso contenuto linguistico, come l'informazione 'regionalistica', i talk show o la fiction popolare.
L'avvento della t. ha provocato in ogni paese un impatto sociale di enorme rilevanza: la vita dei cittadini ha cominciato a essere, giorno dopo giorno, incalzata, scrutata, riprodotta, modificata dalla presenza del video; anche i rapporti sociali hanno conseguito naturali vantaggi dal nuovo mezzo: sovente ne sono stati condizionati, quasi riplasmati. All'inizio del 21° secolo, la t. segue una strategia persuasiva più ampia e universale; non ha più bisogno di coagulare le identità nazionali, di attutire gli squilibri sociali. In ogni momento, suo scopo principale è quello di dirci: "tutti stanno facendo questo, e tutti siamo d'accordo". Sempre più, la t. si rivela come quello strano specchio dei tempi che riesce a modificare i fenomeni sociali che mostra nel momento stesso in cui li mostra.
bibliografia
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Cinema e televisione
di Giuseppe Cereda
Un rapporto controverso
Già negli anni Sessanta, R. Rossellini sosteneva, subordinando a questa sua convinzione una lunga e consistente attività televisiva, che la sola differenza fra cinema e t. fosse da identificarsi nelle condizioni di ricezione e di consumo del prodotto, piuttosto che nei diversi modi linguistici e nei diversi metodi di ideazione e di produzione. In realtà, in una vicenda che fin dall'inizio si è svolta fra ostilità di principio e connessioni interessate, i problemi sono molto più complessi. Se infatti l'evoluzione tecnologica e le necessità strategiche delle due istituzioni e delle due industrie hanno contribuito a ridurre differenze e distanze e a superare le antiche ipotesi di una presunta naturale polarizzazione, la tentazione fondata di pensare a universi anche solo relativamente separati, soprattutto in Europa e soprattutto quando i punti di vista fossero quello del cinema o quello della t., non è mai venuta meno.
Da un lato, infatti, sono il cinema e la sua industria, forti di un apparato, di una tradizione e di una storia ormai patrimonio della moderna mitologia, meno preoccupati che nel passato dell'assedio dei nuovi media ma talora ancora chiusi in una difesa corporativa, a esprimere e a rivendicare orgogliosamente la loro singolarità, la loro vocazione di autonomia e di creatività, il loro destino avventuroso, la loro irriducibilità a un ordine consolidato. Dall'altro sono le tecnologie del video (aggiuntesi alla t. generalista - destinata cioè a un pubblico il più esteso possibile - intaccandone l'antica egemonia), che sembrano aver acquisito un ruolo centrale, soprattutto economico, nel sistema dei media, e che hanno costretto istituzioni e industria del cinema a fare i conti, attraverso il moltiplicarsi dei modi di diffusione del segnale, con modalità di consumo, e quindi con un mercato, radicalmente trasformati, con inevitabili effetti diretti su natura e qualità del prodotto stesso. Da qui la necessità di una analisi ravvicinata.
Un doppio ordine di problemi
La prima questione, propriamente teorica, riguarda la diversa specificità linguistica dei due media. Cinema e t. sono cioè linguaggi vicini che esprimono tuttavia modelli semiotici diversi.
Ch. Metz (1971), ancora oggi uno dei più autorevoli teorici del cinema, pur attribuendo loro come comuni una serie di tratti fisici pertinenti, e dunque un certo numero di codici specifici, individuava quattro classi di differenze.
a) Differenze tecnologiche. I modi di produzione dell'immagine sono difformi, l'uno fotografico, l'altro elettronico, dove la continuità è data nel primo caso dalla velocità di scorrimento dei singoli fotogrammi (24 fotogrammi al secondo), nell'altro caso dalla ricomposizione in unità dei punti e delle linee generate elettronicamente (con un lieve aumento a 25 ftg al secondo della velocità di scorrimento). Alla chiarezza e alla definizione dell'immagine fotografica si contrappone così quel tanto di imprecisione e di indeterminatezza dell'immagine televisiva, fra l'altro per sua natura fortemente ridotta in dimensione. Proprio sulla dimensione dello schermo, e appunto su qualità e definizione dell'immagine, ha d'altronde operato il cinema statunitense quando ha voluto rispondere negli anni Cinquanta e Sessanta al successo della t. che, a sua volta, è andata più tardi contrapponendo, a una sostanziale lunga persistenza della tecnologia cinematografica, una strumentazione di ripresa, di trasmissione e di distribuzione del segnale sempre più agile e qualitativamente sofisticata. Una strumentazione che negli anni Novanta il cinema ha fatto in parte propria, ma che mantiene tuttavia profondamente diversi, ancor oggi, lo studio cinematografico e lo studio televisivo, e quindi i processi complessivi di produzione dell'immagine.
b) Differenze di programmazione del medium. Se il cinema è il luogo della singolarità e del prototipo, anche quando fa ricorso ai generi e alla serialità di un personaggio, di un attore, di un tema che ritornano da film in film, nella t. affluiscono linguaggi e generi che trovano coesione nel loro essere un flusso continuo, solo motivato dalla maggiore o minore intelligenza e compattezza di un palinsesto. News, spot pubblicitari, live e talk show, variety show, si alternano in discontinuità dentro una griglia, e solo nella continuità dell'emissione trovano senso compiuto, quando addirittura non vedono modificarsi il proprio senso. Da questo punto di vista, se alcuni dei generi sopra citati si definiscono propriamente come generi televisivi o ne acquisiscono la natura, il cinema, soprattutto quando sia pensato per una preliminare distribuzione in sala, appare da subito qualcosa di diverso, di distinto, dall'autonomia e dall'identità implicite. Nel dipanarsi del palinsesto il film resta una parentesi più o meno nobile che mal sopporta persino i break pubblicitari, che pure sono diventati parte integrante delle abitudini visive dello spettatore. Anche quando il cinema occuperà spazi sempre più ampi nei palinsesti, o quando negli anni Ottanta e Novanta darà origine a reti tematiche dedicate al solo cinema, esso sarà vissuto come 'altro' dalla t., come luogo di un immaginario proprio che si aggiunge e si oppone all'immaginario televisivo.
c) Differenze socio-politico-economiche. Cinema e t., per la loro diversa storia, vivono ciascuno con caratteristiche peculiari il rapporto con politica, società, industria e cultura di ogni singolo paese, e quindi la loro reciproca relazione. Negli Stati Uniti, per es., la t. può svilupparsi tumultuosamente e liberamente senza i lacci di un sistema politico che la vincoli; un sistema che, al più, cerca di dare regole alla concorrenza con apposite leggi antitrust. La competizione con il cinema, che peraltro già negli anni Cinquanta e Sessanta riesce a opporre al suo primo inevitabile ridimensionamento la tradizione e la forza della sua industria, è solo commerciale, e al solo mercato sono affidati giudizio di merito, possibilità e condizioni di coesistenza. In Europa, al contrario, il controllo politico e sociale sulla t., una volta accertati ruolo e influenza della stessa, favorisce un modello di t. concepita e organizzata come servizio pubblico, cui siano insieme assegnati compiti di informazione, educazione e divertimento, come da missione dichiarata dalla britannica BBC già alla fine degli anni Quaranta. Ma, dopo che proprio in Inghilterra fu autorizzata nel 1954 la prima esperienza televisiva commerciale europea su base interregionale (ITC), finanziata dalla sola pubblicità, è stato necessario attendere altri vent'anni prima che fosse consentito a imprese televisive private e commerciali di nascere e rapidamente prosperare accanto a legittime aziende pubbliche. In modo non uniforme nei diversi paesi, secondo forza o inadeguatezze delle singole aziende nazionali di servizio pubblico, si è andato sviluppando dalla metà degli anni Settanta un sistema misto, privato e pubblico, che per lunghi anni ha cercato, senza ancor oggi trovarlo, un suo equilibrio interno. Dapprima anarchicamente in Italia, poi via via in Francia, Spagna, Germania, Inghilterra e nell'Est europeo.
Il rapporto del cinema con le istituzioni e con l'economia, a sua volta condizionato, anche se in misura molto minore, dal potere politico, non potrà che risentire di assetti in continua mutazione. Se infatti le relazioni fra cinema e t. possono trovare negli anni del monopolio pubblico una regolamentazione non difficile fra poteri forti che consenta al cinema una difesa legittima contro la diffusione e lo strapotere della t., con l'affermarsi delle reti commerciali, che proprio sull'abuso dei film fondano la loro fortuna, e con la conseguente competizione fra reti pubbliche e reti commerciali, in molti paesi europei, come per es. in Italia, ogni linea di resistenza rischia di cadere. Da qui una lunga fase di confronto e di conflitto difficile da ricomporre, tale da sollecitare costanti e complesse mediazioni politico-istituzionali.
d) Differenze psicosociologiche e affettivo-percettive. Il piccolo schermo della t. riduce drasticamente l'immagine, vissuta com'è ad altezza d'occhio dallo spettatore che con essa dialoga e che ha la sensazione di dominarla e di governarla, a differenza di quella del cinema davanti alla quale esso è in qualche modo espropriato dalla propria capacità di controllo. Un'immagine, quella della t., letta più che vista, da abbandonare o cui ritornare secondo volontà e necessità, fattore ormai integrato nelle abitudini e nell'arredo domestici. Tanto più che l'uso ormai generalizzato del telecomando, conferendo allo spettatore una sorta di definitivo potere di cancellazione e di resurrezione dell'immagine, gli consente di individualizzare costantemente la visione, di costituirsi un proprio personale percorso.
La lontananza e l'autorevolezza dell'immagine cinematografica (con la possibile 'sala vuota' del cinema) di contro all'intimità e alla complicità dell'immagine televisiva (con la necessaria 'sala piena' della t.), spiegano fra l'altro la diversa natura dei due divismi e spiegano anche la contrapposizione fra il carisma dell'attore di cinema e il calore familiare del personaggio televisivo che 'si conosce ed è amico'.
Due tecnologie dunque, due scritture, due immaginari, due modi di visione, che se non sono riducibili all'opposizione fra un cinema capace di esprimere "the enormous width of history" e una t. come essenzialmente "talking-heads medium" (Big picture small screen, 1996) e se vanno pensate all'interno di un'analoga area d'esperienza, non potendo che avere rapporti di complementarità e di mutua dipendenza, restano, in linea di principio, universi separati, ciascuno con una propria natura e una propria logica.
Un secondo ordine di problemi riguarda l'uso, la pratica, la citazione del cinema da parte della t. come ricorso alla capacità di attrazione e di coinvolgimento di una tecnologia, ma soprattutto di una leggenda e di una memoria già consacrate da storia e cronaca. Ogni azienda e ogni rete televisiva conoscono da sempre la necessità e l'utilità del ricorso al film per rafforzare, completare o nobilitare ogni palinsesto, con la garanzia di ascolti spesso alti. Più che come genere specificamente televisivo il cinema è stato (ed è) apprezzato dunque come un valore aggiunto, da distribuire nei punti cruciali della programmazione quotidiana o settimanale per esaltare la tenuta di una rete o addirittura per decretare la fortuna di un'azienda. È, come si vedrà, il caso dei tre grandi network televisivi statunitensi negli anni Cinquanta (ABC, NBC, CBS), delle reti commerciali in Europa sull'esempio italiano di Fininvest-Mediaset, più tardi del francese Canal+ e, in misura minore e tutta particolare, dell'inglese Channel 4. Né va dimenticato che è attraverso i film che home video e pay-TV hanno potuto assicurarsi il successo noto e diventare, a loro volta, per il cinema, in virtù dei profitti ottenuti, significative fonti di finanziamento. Anche se poi l'uso del cinema a fini prevalentemente di audience, oltre a costituire un obiettivo ostacolo a una maturazione e a uno sviluppo della t. come strumento autonomo di immaginazione, di fantasia, di creatività, ha finito col polarizzare il mercato attorno alle sole cinematografie statunitense e nazionale, consegnando in realtà il mercato, data la debolezza sostanziale del cinema europeo e degli altri paesi del mondo negli ultimi decenni, al cinema statunitense e inducendo un riconosciuto effetto di 'desertificazione' nei confronti di tutte le altre cinematografie.
Ma non è solo il film nella sua integrità e nella sua storia a diventare componente decisivo di un palinsesto televisivo. È piuttosto il cinema stesso - tecnologia, mito e cronaca - a permeare l'intera produzione e programmazione televisive, determinando generi specifici (per es. miniserie, TV movies, telefilm di serie), offrendo materiali editi e inediti a tutta l'ampia gamma dell'immaginario televisivo, e infine utilizzando a sua volta largamente la t. come conoscenza e promozione, come creazione e divulgazione di eventi cinematografici.
Percorrendo dal punto di vista storico le vicende del rapporto fra cinema e t. si possono individuare le tre fasi successive, benché talora cronologicamente sovrapposte nelle singole situazioni, dell'opposizione e della differenza, dell'integrazione difficile e dell'interconnessione.
L'opposizione e la differenza
La fase iniziale (dalle origini a tutti gli anni Sessanta) è generalmente segnata in un primo tempo dalla definizione di un'estetica (lo 'specifico televisivo') fondata sulla ripresa diretta e, sul fronte della fiction, sul teledramma (live drama): su ciò insomma che P. Chayefski - autore di Marty (1955) che, prima di essere un film, fu una sorta di manifesto televisivo dell'epoca - chiamava "l'universo meraviglioso dell'ordinario". Ma negli Stati Uniti il live drama è stato presto abbandonato a favore del filmed drama, direttamente derivato dalla tradizione del cinema: e l'analisi teorica si è presto mossa verso suggestioni nuove, a esplorare più in profondità e in modi totalmente inediti la natura del nuovo mezzo (McLuhan 1964). In Europa, al contrario, una prevalente sensibilità teatral-letteraria e la naturale vocazione di aziende televisive di servizio pubblico sembrano fissare il primato, appunto di provenienza teatrale, di una produzione tutta da 'studio', del personaggio e del dialogo, e sembrano insieme favorire una programmazione di più esplicita ispirazione radiofonica (di 'parola' cioè), cui appartengono il programma culturale e l'informazione in tutte le sue varianti.
In quegli anni dunque, proprio in conseguenza della supposta derivazione della t. da teatro e radiofonia, si misurano e si alternano in Europa due modi diversi e complementari di fare televisione. Da un lato il palinsesto televisivo si consolida in una serie di appuntamenti fissi, dalla struttura fossilizzata, con un sostanziale squilibrio a favore della tradizione spettacolare e di un'immagine e di un modo di raccontare compatti, definiti, assertivi (home show). Dall'altro lato, proprio in sintonia con la fioritura di un ampio dibattito in chiave marcatamente sociologica e politica, la t. va scoprendo la sua possibilità di essere 'tecnica del reale', più vivace e pragmatica, alla ricerca di un nuovo e diverso rapporto col pubblico: un pubblico talvolta inizialmente estraneo al cinema e che sembra preferire, anche per una scelta dell'emittenza, generi non cinematografici (il quiz, lo sceneggiato da studio, l'informazione, i primi fortunati varietà). Alla tecnologia del cinema la t. ricorre in Italia in quegli anni solo per il documentario, la grande inchiesta e le ancor oggi considerate prestigiose rubriche cultural-informative (TV7, Almanacco, Cordialmente, Zoom).
Tuttavia, mentre il pubblico della t. va crescendo, assicurandole già un ruolo centrale fra i mezzi di comunicazione, il cinema - nonostante il pubblico delle sale cominci a decrescere, sia pure in modo differenziato nei diversi paesi europei, più vistosamente e immediatamente in Inghilterra, più lentamente in Italia e Francia - resta il reale mass medium di quegli anni, anche perché l'orientamento pedagogico di reti televisive tutte pubbliche gli consente di conservarsi interprete autentico dell'immaginario collettivo. Il cinema europeo degli anni Sessanta riesce infatti a rafforzare il suo rapporto con le singole società nazionali e, anche in connessione con la ristrutturazione industriale in corso e con la crisi generazionale e creativa del cinema statunitense di quegli anni, cresce in influenza e prestigio. Nel 1964, per es., nella sola Italia vengono prodotti quasi 300 film, spesso strettamente collegati ai molteplici problemi del paese, e altrove free cinema, nouvelle vague, nuovo cinema tedesco, sono testimonianza di comuni vitalità e felicità produttive mai più da allora ripetutesi.
Mentre dunque in Europa la diffidenza fra le due istituzioni sembra consolidarsi e gli imperativi del servizio pubblico, così come una maggiore attenzione alla qualità e alla supposta specificità dei due media, sembrano sanzionare l'estraneità fra le due industrie, negli Stati Uniti, già negli anni Cinquanta, si era andata creando una situazione assai più dinamica. I network televisivi avevano avvertito subito la necessità di potenziare la loro capacità di attrazione su un pubblico che progressivamente si allargava, e avevano deciso quindi di aprire al cinema.
Il primo passo importante (1956) fu l'acquisizione da parte della t. dell'intero catalogo di una storica società di produzione, la RKO, travolta dalla crisi e in chiusura, presto seguita dalla cessione ai network dei 'magazzini' Warner Bros e Paramount. Sino al punto di svolta generalmente indicato nella programmazione su ABC (1966) di The bridge on the river Kwai (1957), ceduto per un passaggio televisivo dalla Columbia a 2 milioni di dollari e visto da 70 milioni di spettatori: inequivocabile segno, se ce ne fosse stato bisogno, dell'effetto di coinvolgimento e di seduzione del cinema sul pubblico televisivo.
Ma il passaggio più significativo fu contemporaneamente, già in pieni anni Cinquanta, il varo da parte di Hollywood, e proprio per la t., di una serie di operazioni produttive di successo (da I love Lucy, 1951-55, a Cheyenne, 1955-63), con il conseguente massiccio trasferimento del western seriale in t., sino a una prima produzione di film direttamente commissionata dai network (TV movie): sanzione definitiva, nella successione cronologica molto ravvicinata dei processi, dell'abbandono pragmatico della separatezza fra le due industrie e del riconoscimento di opportunità e di convenienza, per l'una e per l'altra, di una coesistenza commerciale e di un'unitaria strategia di marketing.
Proprio negli anni in cui sembra cedere alla t. la sua storia e sembra metterle a disposizione il suo apparato industriale, il cinema americano ha reagito e ha ritrovato la sua identità, giocando la doppia carta del talento d'autore e della sua capacità di essere 'fabbrica'. E ha messo un freno all'emorragia di pubblico degli anni Cinquanta e Sessanta attraverso il film come 'evento': dal grande schermo (cinemascope, widescreen, Vista Vision, 3D ecc.) e dall'accettazione definitiva del colore propria di quegli anni, al radicale rinnovamento generazionale degli anni Settanta, all'epicità dei whiz kids (i giovani maghi G. Lucas, S. Spielberg, F.F. Coppola), agli effetti speciali e alla ricerca di nuove frontiere dell'immaginario negli anni Ottanta e Novanta.
Più che di due industrie si deve da allora parlare negli USA di una dinamica produttiva complessa e di un sistema integrato di reciproche relazioni. Fra l'altro, infatti, se il cinema statunitense ha potuto comunque contare su un mercato domestico (USA e Canada) molto forte, favorendo così prezzi competitivi per l'esportazione grazie alla possibilità di contenerne la crescita in attesa di un aumento della domanda (dumping), il sistema televisivo, da parte sua, per potenza finanziaria, costante progresso tecnologico e prodigiosa attitudine all'innovazione, si è mantenuto in grado di coprire da solo i due terzi di tutti i costi di produzione dell'industria cinematografica (Bonnell 1989).
L'integrazione difficile
Con l'inizio degli anni Settanta si apre in Europa una lunga vicenda di integrazione fra cinema e t., dapprima faticosamente vissuta dal solo servizio pubblico, poi accelerata dalla diffusione e dal successo delle t. generaliste commerciali, dalle pay-TV e soprattutto dall'esempio statunitense.
In tutti i paesi europei la crisi dell'istituzione cinema, della quale già si erano avute sensibili avvisaglie nei decenni precedenti, matura rapidamente e drammaticamente con il ridimensionamento drastico di produzione, distribuzione ed esercizio e con l'egemonia, che diventa progressivamente inarrestabile, del film statunitense. Fu allora inevitabile prendere atto che il cinema non sarebbe più stato in grado di privarsi della disponibilità economica e della grande audience televisiva, così come d'altronde le grandi imprese televisive non avrebbero ormai più potuto fare a meno della macchina produttiva e del carisma del cinema. Fu altresì inevitabile prendere atto della necessità, di fronte ai limiti del libero mercato in materia di produzione culturale, di dotarsi di una legislazione idonea a sostenere finanziariamente il cinema e a regolamentarne la programmazione televisiva.
Del resto già negli anni Sessanta si era timidamente tentata la strada del telefilm di serie, con le prime casuali puntate nel lungometraggio d'autore: valgano per tutti gli esempi in Francia di La prise du pouvoir de Louis xiv (1966) di R. Rossellini e in Italia l'esperienza d'eccezione di una prima miniserie filmata, Mastro don Gesualdo (1964) di G. Vaccari. Solo negli anni Settanta tuttavia presero definitivamente corpo le due più significative linee di produzione che, almeno sino a oggi, hanno attraversato le vicende del rapporto fra i due media: la miniserie e il TV movie da una parte, e il film d'autore dall'altra.
La miniserie e il TV movie. - Entrambi si collocano all'incrocio fra due scritture diverse, quella dello sceneggiato da studio della tradizione europea e quella del racconto cinematografico, da cui vengono mutuati uomini (credit e cast), impegno produttivo e strumentazione tecnologica e linguistica. Esemplare fu in questo senso in Italia l'operazione inaugurale: Odissea (1968), otto ore, produttore D. De Laurentiis, regista F. Rossi, versione cinematografica di due ore.
Da R. Rossellini a L. Comencini, da F. Zeffirelli a F. Rosi, da F. Maselli a G. Montaldo, da A. Lattuada a D. Damiani, da V. De Seta a D. Risi, da F. Fellini a M. Antonioni, praticamente tutti gli uomini di cinema più prestigiosi saranno chiamati da allora a cimentarsi, e quasi sempre con successo, con strutture narrative e con modi di comunicazione a essi talora estranei e lontani. Fra l'altro in molti titoli, spesso ispirati alla letteratura italiana dell'Ottocento e del Novecento (C. Collodi, E. Morante, E. De Amicis, A. Manzoni, G. Verga, C. Levi, C. Bernari, I. Silone, L. Pirandello ecc.) o alle grandi figure della storia nazionale e non (Socrate, i Medici, M. Polo, C. Colombo, E. Fermi, G. Garibaldi ecc.), continua a correre il filo rosso di una volontà di divulgazione popolare e di pedagogia del gusto cui il servizio pubblico televisivo, persino la stessa t. commerciale, non sanno né sapranno rinunciare.
È quanto accade in altri paesi europei, come in Francia, dove C. Chabrol, É. Molinaro, J. Delannoy, C. Miller, Ch. Jaque, C. Autant-Lara, P. Granier Deferre, sono chiamati a raccontare G. de Maupassant, Stendhal, H. de Balzac, A. Dumas, G. Flaubert, sino a G. Simenon e a S. de Beauvoir. O in Germania, dove R.W. Fassbinder racconta A. Döblin (Berlin Alexanderplatz, 1982). O in Inghilterra, dove C.J.H. Dickens, J. Conrad, J. Austen, T. Hardy, H. Fielding, W. Scott, oltre naturalmente a tutto Shakespeare, sono all'origine di miniserie e TV movies di gran pregio (da Wuthering heights, 1978, a Great expectations, 1983; da Rob Roy, 1977, a Pride and prejudice, 1995, a Nostromo, 1996 ecc.).
Una nota a parte meritano qui tre memorabili operazioni di racconto televisivo, anomale nella loro unicità: le due miniserie di I. Bergman (Scener ur ett äktenskap, 1972, Scene da un matrimonio e Fanny och Alexander, 1982, Fanny e Alexander); le due serie (Heimat, 1984, e Heimat 2, 1992) di E. Reitz; i dieci episodi del Dekalog (1988, Il Decalogo) di K. Kieslowski. Tre meditazioni sofferte e intense sull'uomo e sul suo destino, tutte e tre profondamente radicate in storia e cronaca di ognuno dei paesi d'origine (Svezia, Germania, Polonia).
Il film d'autore. - La stessa attenzione per l'uomo e la sua storia appare strettamente connaturata all'altra area di incontro fra cinema e t., quella del film d'autore, più direttamente legata al cinema, anche quando pensata come esclusivamente destinata al video. Quasi a cercare, scommettendo sull'autore, contro il sostanziale anonimato del prodotto televisivo, nuovi spazi oltre il cinema commerciale d'evasione e a favorire, quando possibile, quel rinnovamento generazionale che è spesso precluso dal mercato delle cinematografie nazionali. Un ruolo essenziale in questo senso è stato affidato in un primo tempo (ma anche più tardi in realtà) alle reti televisive pubbliche, soprattutto alla RAI in Italia e a ZDF in Germania. Alla RAI si devono, per es., esordi e conferme di autori come B. Bertolucci, P. e V. Taviani, E. Olmi, N. Moretti, G. Amelio, M. Bellocchio, M. Troisi, e anche la partecipazione in coproduzione a film di F. Fellini, F. Rosi, E. Scola, L. Cavani, M. Antonioni, E. Petri. A ZDF spetta il merito di aver accompagnato tutta la migliore stagione del giovane cinema tedesco, con più di uno sguardo attento a quanto di nuovo sembrava suggerire l'Est europeo (A. Wajda, K. Zanussi, A. Tarkovskij, J. Jakubisko, J. Menzel, R. Polanski ecc.).
Era implicito che l'intervento finanziario delle reti televisive a favore del cinema fosse dettato più da fattori culturali e da volontà politiche che da motivazioni commerciali, e che nascesse dunque, come impegno marginale e aggiuntivo, dal loro essere servizio pubblico. Anche se poi vi era una doppia ragione di convenienza sul piano dell'acquisizione e dell'innesto di professionalità del cinema e sul piano del prestigio nazionale e internazionale che ne derivava, sanzionato per es., per la RAI, dalle Palme d'oro al Festival di Cannes per Padre padrone (1977) di P. e V. Taviani e per L'albero degli zoccoli (1978) di E. Olmi.
Due casi diversi ed esemplari vanno comunque isolati dal contesto generale europeo, quelli di Channel 4 e di Canal +, che al cinema devono autorevolezza e fortuna, e che grazie al loro lungo e felice impegno produttivo hanno fatto da detonatore per un atteggiamento nuovo nei confronti del cinema in Inghilterra e in Francia, sfidando fra l'altro le reti pubbliche e commerciali concorrenti a misurarsi sullo stesso piano.
Channel 4 è nata in Gran Bretagna (1982) come rete generalista finanziata dalla pubblicità e legata, almeno fino a quando non fosse divenuta autosufficiente, a complessi rapporti economici con l'allora unica rete commerciale inglese (ITC). Suo obiettivo prioritario era quello di favorire interessi e domande non soddisfatte dalle altre reti, incoraggiando innovazione e sperimentazione. Il cinema, sul quale in poco più di dieci anni sono stati investiti oltre 90 milioni di sterline, era fin dall'inizio fattore decisivo e privilegiato, affidato, come d'altra parte in tutta Europa, Italia compresa, a produttori indipendenti, ma con un sostegno finanziario che, oltre all'acquisizione dei diritti di trasmissione, prevedeva un più o meno forte intervento in coproduzione. My beautiful laundrette (1985), Salaam Bombay (1988), Mona Lisa (1986), Raining stones (1993, Piovono pietre), Crying games (1992, La moglie del soldato), Four weddings and a funeral (1994, Quattro matrimoni e un funerale), The madness of King George (1995, La pazzia di Re Giorgio), sono alcuni dei titoli più suggestivi di un'attività di produzione che raccoglie autori come N. Jordan, K. Loach, S. Frears, M. Newell, M. Leigh, J. Ivory, e che è alla base di quel fenomeno conosciuto come British Renaissance.
Canal+ (nato in Francia nel 1984) è la prima rete europea di t. generalista a pagamento, destinata anche alla trasmissione di importanti avvenimenti sportivi, ma soprattutto fondata su una programmazione ampia e ripetitiva di cinema. In pochi anni, approfittando anche della debolezza e delle scarse reattività delle reti generaliste concorrenti, e potendo contare su un trattamento vantaggioso da parte dell'autorità pubblica e su accordi favorevoli con le istituzioni di cinema, essa ha conosciuto un successo commerciale unico in Europa. Naturalmente, per alimentare la programmazione degli oltre 300 film l'anno che le sono consentiti, e che devono necessariamente essere d'alto livello per conservare adesione e fiducia da parte degli abbonati e per rispettare le quote di produzione nazionale impostele come pedaggio di concessione, la rete Canal+ è costretta a impegnarsi fortemente in nuove produzioni. Tanto più che i cahiers de charge (appunto gli obblighi di concessione) la impegnano a investire nel cinema il 20% delle sue risorse complessive, il 10% delle quali sul prodotto nazionale (un esempio destinato a fare scuola). In breve tempo, fra l'altro, proprio da Canal+ sono giunti sino al 40% degli investimenti sull'intera produzione cinematografica francese che, grazie anche alle altre reti televisive costrette ugualmente a investire per non essere escluse dal mercato, ha vissuto a partire da quegli anni una fase di crescita di tutto rilievo in quantità, e in buona misura anche in qualità.
Tuttavia, se si esclude in parte l'esperienza di Canal+, che per possibilità economiche è forse la sola azienda televisiva europea a potersi muovere agevolmente in una dimensione internazionale sino a dialogare direttamente con majors e produttori indipendenti USA, l'impegno, pur fertile e generoso, delle reti televisive europee presenta più di qualche zona d'ombra e non è privo di rischi. Esso infatti, come si è da più parti osservato, ha contribuito a creare nel cinema una dipendenza di linguaggio e di contenuti dalla t., sino a inevitabili forme esplicite e implicite di 'censura', o comunque di controllo del discorso, favorendo molto spesso, nei casi migliori, un cinema più di 'profondità' e di sentimenti che di respiro spettacolare. D'altra parte, la possibilità di sfidare in Italia, come altrove in Europa, la dominante industria statunitense non poteva che rivelarsi un'illusione.
Fra l'altro, contestualmente al massimo sforzo produttivo da parte di tutte le imprese televisive europee e al mutare negli anni Ottanta del paesaggio audiovisivo, nel mercato del cinema si è prodotto un autentico terremoto. Nei lunghi anni del monopolio pubblico non si poteva evidentemente parlare di mercato. La RAI, come d'altronde tutte le aziende pubbliche europee, si assicurava la possibilità di trasmettere un film secondo le limitate necessità di una programmazione di cinema (prima un film, poi due alla settimana sui due canali esistenti) governata da accordi con l'ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche e Audiovisive) per quanto riguardava costi, qualità, durata dei diritti e numero dei film italiani trasmessi, e da intese con la MPEAA (Motion Pictures Expert Association of America) relativamente al prodotto cinematografico e televisivo statunitense.
Alla metà degli anni Ottanta, con l'irruzione delle t. commerciali e con la successiva fortuna dell'home video e delle nuove forme di diffusione televisiva, il mercato è esploso. Se negli anni Settanta il costo di due passaggi in quattro anni di un film importante non superava i 12.000÷15.000 dollari, in poco più di dieci anni ha potuto toccare i due milioni di dollari, anche in conseguenza del fatto che dai due film settimanali del monopolio RAI si è giunti alla fine degli anni Ottanta agli oltre seimila titoli all'anno dell'intero sistema televisivo generalista nazionale, in un clima di forte concorrenza. E home video e pay-TV hanno imposto 'finestre' (windows) a protezione e garanzia di un ordinato e proficuo sfruttamento del prodotto. In Italia, per es., un film è utilizzato in home video sei o nove mesi dopo la distribuzione in sala, in pay-TV dopo dodici o sedici mesi, nella TV generalista dopo ventiquattro o addirittura trentasei mesi. Gli appuntamenti annuali di mercato, da rari e poco frequentati, sono diventati numerosi e affollatissimi (Cannes, Los Angeles, New Orleans, Milano, Las Vegas, Hong Kong, Montecarlo), da quando soprattutto il modello italiano di competizione fra t. pubblica e t. commerciale si è esteso a tutta Europa e si sono moltiplicati i modi di diffusione del segnale televisivo.
Complessi e diversi sono stati gli effetti di questa situazione. L'offerta multirete e la competizione subito molto forte per ottenere il massimo ascolto e garantirsi i sempre più consistenti budget pubblicitari hanno scoraggiato anzitutto ogni azzardo imprenditoriale e collocato al centro di un fragile mercato di cinema - non, come negli USA, sovrano, governato dalla sola regola del profitto, dalle sentenze inappellabili, rapide e brutali - i film italiani più popolari (numericamente limitati) e soprattutto, appunto, il prodotto cinematografico e televisivo statunitense a relativo basso costo e già per sua natura più vicino al gusto comune. Col venir meno degli accordi di garanzia fra le istituzioni cinematografiche e televisive è nata, alla fine degli anni Ottanta, la stagione degli output deal, cioè di accordi complessivi pluriennali volti ad assicurarsi, da parte di una o più reti televisive, l'intero prodotto, di stagione e di catalogo, di una major o di un produttore indipendente.
E ancora: il passaggio su una rete generalista è divenuto la fonte di maggior reddito per un film (attorno al 50%), oltrepassando largamente sala, home video e pay-TV. A differenza, per es., di quanto accade negli USA, dove da lunghi anni l'home video è in percentuale la fonte di maggior profitto d'un film (oltre il 30%), seguito da distribuzione in sala e pay-TV, con la t. generalista ferma a profitti inferiori al 10%.
Infine, è un fatto che le nuove leggi di sistema (cinematografiche e televisive), che sono precariamente chiamate a disciplinare un ambito in costante e rapidissimo mutamento, non possono ignorare che l'intervento di capitali televisivi è indispensabile e decisivo per la produzione di un film. A sostenere gli investimenti televisivi sul cinema, molti paesi, su suggerimento esplicito della Comunità Europea (cfr. le due direttive Télévision sans frontières, 1989 e 1997), propongono un sistema di 'quote' obbligatorie di programmazione televisiva per titoli nazionali e più ampiamente di paesi membri della Comunità. In Italia, per es., in conformità alla legge 6 agosto 1990 nr. 223, il 51% dei film trasmessi da ogni rete doveva essere di provenienza comunitaria, e di essi il 50% di nazionalità italiana, un quinto dei quali realizzati negli ultimi cinque anni: il tutto senza vincoli di fascia oraria di trasmissione come per es. in Francia. E una legge più tarda (30 apr. 1998 nr. 122), oltre a un consistente aumento delle quote di trasmissione, impone alle t. commerciali di investire nella produzione nazionale di cinema e di fiction il 10% delle risorse pubblicitarie (il 40% nel solo cinema) e all'azienda di servizio pubblico il 20% delle risorse da canone. Un sistema, quello delle quote di trasmissione e di investimento economico precostituito, che rischia nel breve e medio termine di favorire la mediocrità e che sembra il frutto più di volontarismo politico che di un'analisi obiettiva delle capacità di un'industria nazionale, ma che è sicuramente il solo oggi realisticamente possibile per contrastare l'egemonia USA. D'altra parte ogni tentativo, anche legislativo, di svincolare il cinema, soprattutto quello di qualità, dall'apporto finanziario della t. si scontra con il mercato, che continua a premiare il carattere sovranazionale del cinema statunitense. Così che le cinematografie nazionali sono tentate di chiudersi dentro i limiti stretti del regionalismo e del localismo, forse anche indotti dai fondamenti estetici e istituzionali della t., che, prima e oltre che globale, è per sua natura e vocazione appunto locale e nazionale. Il risultato è, per es. sempre in Italia, un'allarmante diminuzione del numero di film prodotti sin oltre la metà degli anni Novanta (75 nel 1996), e un altrettanto preoccupante pedaggio pagato al box office, con rare eccezioni, dal film di nazionalità italiana.
L'interconnessione
Verso la fine degli anni Ottanta, già nella fase piena dell'integrazione fra cinema e t., lo scenario si era dunque rapidamente modificato, in seguito a eventi talora contraddittori, che sono tuttavia alla base di una vera e propria interconnessione fra i due media.
Con la rivoluzione telematica anzitutto mutano tecnologie del prodotto e percorsi del consumo, e il cinema sembra cedere al primato del video. Le nuove tecnologie di distribuzione dei film e le tecnologie digitali impongono una domanda e un consumo diversi e complementari rispetto a quelli tradizionali delle sale, non sostituendoli ma in sostanza aggiungendosi a essi attraverso un naturale 'effetto di cumulo' (Bonnell 1989). Home video, pay-TV, pay per view, video on demand, cui vanno associate tutte le opportunità offerte dal computer, moltiplicano le possibilità d'uso di un prodotto. Il cinema diviene la materia prima necessaria ad alimentare e a sostenere costantemente il flusso ininterrotto del video che da parte sua, oltre ad ampliare lo spettro dei suoi generi specifici, si impadronisce, con la fiction, di aree da sempre di competenza del cinema stesso.
Col moltiplicarsi dei mezzi di diffusione del segnale, poi, al centro del sistema si colloca chi è in grado di garantire ricchezza di software, e nessuno meglio delle majors americane può contare su cataloghi sterminati e su un prodotto sempre fresco. Negli anni Novanta le majors, con l'allentarsi delle tradizionali norme antitrust, si trovano nella condizione favorevole di costruire nuovi network (prima Fox con Fox TV negli USA e BSkyB in Europa, Paramount con UPN, sino a Time-Warner prima con WB Channel e HBO, la più importante pay-TV americana, poi con l'acquisizione del gruppo Turner, cui fra l'altro facevano capo TNT e la CNN, il più originale e fortunato canale d'informazione globale mai sperimentato), e di impadronirsi delle maggioranze azionarie di network tradizionali (come Buena Vista-Disney con ABC). Ugualmente in Europa, sia pure in modi meno spettacolari, PolyGram, Beta, Gaumont, Cecchi Gori Group, fra gli altri, assumono un ruolo privilegiato.
Gli anni Novanta in ogni caso, al di là delle pressioni della multimedialità, sono ancora caratterizzati dall'eredità narrativa e dai tradizionali meccanismi produttivi degli anni precedenti. Il decennio si era aperto infatti con un doppio Oscar per il miglior film straniero (1989 e 1991), ottenuto dalla RAI per Nuovo Cinema Paradiso (1988) di G. Tornatore, produttore F. Cristaldi, e dal gruppo Penta (un'alleanza al 50% fra il gruppo Fininvest-Mediaset e il gruppo Cecchi Gori, chiusa allo scadere dei cinque anni dell'accordo, 1989-94, e primo organico dichiarato, ma non fortunato, tentativo di varare una major europea, forte insieme di t. e di cinema) per Mediterraneo (1991) di G. Salvatores.
All'interno della più perfetta logica di un duopolio pubblico e privato, da un lato la RAI, con la BBC, il servizio pubblico europeo ancora più forte, può contribuire - con discrezione e alternando forme di coproduzione a un forte sostegno economico per il preacquisto dei soli diritti antenna - a una fase del cinema italiano che è insieme di transizione e di rinnovamento; dall'altro Mediaset, nel frattempo quotata in Borsa, muove con tenacia, percorrendo strade diverse, verso l'integrazione verticale dei diversi comparti di sfruttamento del prodotto cinema, dalla produzione alla messa in onda televisiva.
Se dunque all'interno dell'universo televisivo, in Italia come in Europa, tutto sembra procedere come nel passato, almeno per quanto riguarda il racconto destinato in modo specifico alla t. e al suo pubblico familiare e generalista, pratica e consumo del video sono all'origine nel cinema di profondi e decisivi cambiamenti.
Il video agisce anzitutto sulla natura del film, nel senso di favorire indeterminatezza, eccentricità, non definizione di un testo spesso considerato come work in progress. Si pensi all'uso che di un film fanno le reti televisive, frantumandolo, interrompendolo con spot e news, deformandolo con didascalie e sigle di ogni genere, utilizzandolo come pretesto per parlare d'altro, e soprattutto rendendolo parte di un flusso indistinto. Ancora più specificamente, si pensi all'azione diretta e indiretta esercitata dal video sul corpo stesso del film. Come, per es.: a) le serie televisive di successo (Fame, 1982, e Mr. Bean, 1989) derivate o all'origine di film di altrettanto successo (Fame, 1980, Saranno famosi; Bean. The ultimate disaster movie, 1997, Mr. Bean - L'ultima catastrofe); b) le doppie versioni cinematografiche e televisive (illustri ascendenti Fanny e Alexander, 1982, di I. Bergman e L'ultimo imperatore, 1987, di B. Bertolucci, quest'ultimo in una versione televisiva full screen a cura dello stesso suo direttore della fotografia V. Storaro); c) i ripensamenti dell'autore, o per necessità espressiva (Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore) o per necessità di mercato (Heaven's Gate, 1980, I cancelli del cielo, di M. Cimino); d) la rimessa in questione della sacralità del finale, ora aperto a sviluppi seriali (Rocky, la saga di Indiana Jones ecc.), ora da comprendere dentro un piano complessivo che travalica il singolo testo (la saga di Star Wars).
Con l'estrema sofisticazione delle tecnologie sonore e il gioco sempre più raffinato e coinvolgente degli effetti visivi e del montaggio, il cinema si propone sempre più come una totalizzante avventura dello sguardo. Al rigore dell'immagine classica si sostituisce un'immagine sovrabbondante di dettagli, ricca, per accumulo, di dati visivi. Ugualmente, alla dilatazione narrativa del racconto tradizionale si sostituiscono forme di concentrazione attraverso un montaggio frammentato e destrutturato. Così, infine, alla chiusura e alla singolarità-originalità del cinema classico si contrappongono apertura e serialità. Modularità, saturazione, concentrazione, apertura e serialità si oppongono dunque, in una griglia possibile, a linearità, rarefazione, dilatazione, chiusura e singolarità, e si pongono a fondamento di una visualità che sempre più avverte il contagio dei nuovi media.
Grazie alle tecnologie elettroniche si modificano i processi della preproduzione e della postproduzione, con significative conseguenze sul prodotto. Ciò che era tradizionalmente affidato alla creatività personale e di gruppo può diventare in preproduzione oggetto di ipotesi, congetture, simulazioni, a verificare bontà ed esiti di una sceneggiatura, ma anche costi e qualità di una scenografia. E non è certo irrilevante che diventi possibile, prima di procedere alle riprese, una definizione in scala delle compatibilità espressive e di spesa. Ancora di maggior efficacia è il ruolo delle tecnologie elettroniche nella fase della postproduzione, dove le inesauribili possibilità degli effetti speciali, il raffinatissimo perfezionamento dei processi di riproduzione del suono e le nuovissime procedure di editing elettronico possono modificare i modi di gestione e di manipolazione dei materiali. Quella che tradizionalmente era la fase terminale del processo espressivo, una sorta di necessaria rifinitura, potrebbe così diventare il momento più autenticamente creativo.
Il futuro
Tutta la tecnologia è andata muovendosi nella direzione dei media domestici, pensando al salotto di casa come al luogo verso il quale far arrivare, in modi sempre più articolati e complessi, il mondo. Si pensi, per es., a tutta la problematica legata alla 'qualità migliorata', e all'adozione internazionale (USA ed Europa) del formato 16/9 dell'apparecchio televisivo in luogo del tradizionale 3/4. Fonografo, fotografia, telefono, radio, t., videoregistratore, sino al digitale, non sono state in fondo che tappe diverse di un itinerario quasi obbligato, che tende a portare in casa un segnale nelle migliori condizioni di ricezione. E la t. generalista, destinata sicuramente a restare mappa del sistema, luogo di orientamento e di organizzazione anche dei nuovi percorsi di visione, sarà chiamata a convivere con i nuovi media.
Il cinema non può comunque non essere, per la capacità di attrazione, per la forza della sua storia, ma anche per la sua 'incompatibilità', il motore del nuovo ecosistema dei media. Se oggi, infatti, le due tendenze emergenti della t. sono la possibilità data allo spettatore di scegliere, pagandolo, il programma preferito e la tematizzazione dell'offerta attraverso reti consacrate a un pubblico specializzato e settoriale, il cinema resta fondamento di ogni bouquet di programmi ed è sostenuto da una domanda che, nonostante la proliferazione di reti e canali, è molto forte. Non a caso esso è, con lo sport, canale premium, rigorosamente a pagamento, così che si possano aggiungere a esso tutti gli altri canali basic (con un'ulteriore offerta di cinema classico e non). Già la tecnologia consente al segnale televisivo di giungere nelle case attraverso diverse autostrade elettroniche (terrestre-hertziana, satellitare, via cavo, telefonica, per videoregistrazione). Ora, se nel mondo sette case su dieci hanno l'apparecchio televisivo, tre il videoregistratore, due il sistema multicanale (cavo-satellite), e se insieme il processo di convergenza fra telecomunicazione, informatica e audiovisivo è già molto avanzato, non è immaginabile pensare al cinema fuori dall'inevitabile processo di globalizzazione, che preme verso alleanze sinora impensabili e che pone fra l'altro una serie di problemi giuridici nuovi legati all'utilizzazione dei diritti di trasmissione fuori dal singolo territorio nazionale.
Anche le due frontiere tecnologiche prossime, la digitalizzazione e l'alta definizione (HDTV), riguardano direttamente il cinema, investendo natura e qualità del segnale. L'alta definizione promette infatti di consolidare l'home cinema, mentre la digitalizzazione, con la costruzione di una serie di 'piattaforme universali', promette flessibilità, quantità, accessibilità, interattività. Da qui la suggestiva possibilità per l'utente di passare da un palinsesto predeterminato da altri, unilaterale, a un palinsesto sempre più individuale, che dia anche diritto di risposta e che consenta di influenzare le scelte della fonte emittente. Per non parlare delle ulteriori possibilità offerte da Internet e CD-ROM.
Dal contrasto e dalla separatezza iniziali si è dunque passati alla necessità e alla ineluttabilità di un raccordo fra l'ansia innovatrice del cinema, le sue diversità e marginalità, e le grandi tendenze del video. Coesistenza, complicità e convergenza sono infatti oggi generalmente indicate (Big picture small screen, 1996) come i punti fermi di un rapporto già d'altra parte sperimentato e praticato felicemente in lunghi decenni dal modello statunitense: punti fermi che le istituzioni e le industrie cinematografiche e televisive europee, qualora vogliano sperare di convivere con Hollywood e una volta meglio dimensionate le tensioni politiche, culturali ed economiche che hanno percorso l'Europa del cinema e della t. in questi anni, non possono non far propri.
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Radio e televisione
di Federico di Chio
Le forme della rappresentazione
Tra i più diffusi mezzi di comunicazione e con straordinaria capacità di penetrazione sociale, la radio e la t. differiscono tra loro principalmente per l'assenza/presenza dell'immagine, per le diverse forme di inserimento nella vita quotidiana, oltre che per le loro specificità linguistiche e comunicative. La radio è puro medium sonoro, e su questa 'menomazione' ha costruito la sua potenza linguistica ed espressiva: in primo piano sono la voce, il suono, la capacità di stabilire un rapporto vivo con il mondo e una relazione intima fra persone. L'assenza dell'immagine spinge l'ascoltatore a integrare i dati percettivi con uno sforzo d'immaginazione. La t., per converso, apre gli occhi sulla realtà: mostra volti, luoghi, accadimenti, chiamando lo spettatore a essere testimone diretto. Tale differenza dà peraltro luogo a configurazioni d'offerta diverse: la t. copre una gamma di generi assai più ampia della radio (basti pensare, per es., all'utilizzo del cinema sul piccolo schermo). Eppure radio e t. condividono tratti genetici essenziali: la capacità di stabilire un contatto con gli avvenimenti in tempo reale; l'abilità di interpellare il pubblico e di costruire relazioni dirette; la forza di radicarsi nelle routine giornaliere, in un processo di osmosi crescente fra esperienze mediali e comportamenti quotidiani.
La radio e la t. offrono quotidianamente una rappresentazione del mondo caratterizzata sia da tratti peculiari di ciascuno dei due media, sia da caratteri comuni. Tra questi ultimi vi è in primo luogo il racconto, attraverso i prodotti di fiction (film, serie, sceneggiati, adattamenti ecc.), ma anche attraverso il modo di costruire l'informazione e l'attualità: i telegiornali, i talk-show e perfino le trasmissioni di intrattenimento sono organizzati sulla base di un preciso modulo narrativo. Rappresentano dunque, con o senza immagine, il mondo, facendone un oggetto di narrazione: è quanto alcuni studiosi hanno definito funzione affabulatoria, un insieme di operazioni simboliche che portano alla 'messa in racconto' del mondo, attraverso un lavoro simmetrico su due piani: da una parte vi è il piano dei grandi archetipi, dei miti, degli eroi, dei sogni, delle fantasie; dall'altra, le piccole storie quotidiane in cui ciascuno può ritrovare la propria dimensione. Lavorano, quindi, su miti e fantasie conferendo loro la stessa consistenza del mondo reale, e mettono in scena i variegati svolgimenti della vita di tutti i giorni, attribuendo loro uno statuto mitico e simbolico. Alla ricchezza dell'immaginario collettivo si aggiungono la consistenza e la vicinanza della vita quotidiana, in cui ciascuno spettatore si riconosce e si osserva. Oltre a seguire la realtà da vicino, tali mezzi modulano i loro racconti sui ritmi simbolici, sui tempi sociali e sulle cadenze della vita pratica dello spettatore. Infatti, una delle competenze centrali della radio e della t. ha uno stretto collegamento con la logica dell'accompagnare il pubblico, seguendone motivazioni, abitudini, aggregazioni e comportamenti. Nel mantenere il pubblico in contatto con il mondo, i due mezzi creano un legame continuo e in tempo reale, ma presentano anche una realtà mediata: un potenziamento dell'esperienza e al contempo una sorta di perdita di contatto con il mondo. Si è virtualmente testimoni privilegiati, ma l'esperienza mediata comporta che "l'abitudine di avere un intermediario tra il soggetto e il mondo rende il primo meno presente al secondo. Meglio informato, il pubblico è in un certo senso più estraneo a questa informazione, che riceve a domicilio" (Cazeneuve 1974; trad. it. 1989², p. 133). Da tutto ciò deriva una nuova concezione fisica del mondo, una riformulazione dei concetti di spazio e di tempo.
Si modifica la percezione spaziale degli individui che, abituati ad assistere e a partecipare alla realtà, senza essere presenti fisicamente, non colgono più le opposizioni forti nell'articolazione dello spazio sociale. Saltano dunque le contrapposizioni dentro/fuori, aperto/chiuso, tutto/parte, superficie/profondità, come pure perde di significato il binomio lontano/distante. Tali mezzi portano gli 'altrove' dentro casa annullando le barriere spaziali. Intervengono sullo spazio sociale modificandone la percezione non solo in quanto luogo fisico, ma in quanto luogo dell'esperienza (Meyrowitz 1985). Cadono definitivamente le barriere tra ribalta e retroscena, tra spazi pubblici e spazi privati (la sfera pubblica viene 'normalizzata', e quella privata viene 'socializzata'), mentre si determina un'osmosi, una contaminazione irreversibile, tra specifici ambiti di esperienza e di apprendimento e distinti gruppi sociali. Non esistono più luoghi dedicati all'infanzia separati dai luoghi dell'età adulta, come pure non sono più riconoscibili spazi solo maschili e spazi solo femminili. Le distanze sociali tendono ad annullarsi in quelli che Meyrowitz chiama "comportamenti da spazio intermedio". Non è solo la percezione spaziale a uscirne modificata; viene riformulata anche la nozione stessa di tempo, diffondendo i concetti di prossimità temporale e di immediatezza tra azione e reazione. Si annulla in questo modo la distanza che intercorre tra i due estremi del continuum temporale (passato/presente; prima/dopo) e si introduce (o reintroduce) l'esistenza di un nuovo modello cronologico, non più lineare, ma ciclico.
Si comprende, quindi, come mai nelle configurazioni dell'offerta (hardware e software) e nelle forme di consumo sia ormai riduttivo pensare alla t., alla radio e ai mezzi elettronici esclusivamente come a canali e supporti di contenuti di esperienza. Molto più che semplici 'mezzi', sono veri e propri 'luoghi dell'esperienza'. Sono sempre meno ambiti della vita e sempre più ambienti, sovrapposti e intrecciati al mondo della quotidianità. Vi è un doppio movimento, di incorporazione della t. e della radio nel quotidiano e di strutturazione del quotidiano da parte di t. e radio. Anche per questo i due media creano e alimentano una fitta trama di relazioni tra il mondo circostante e gli individui. Non soltanto canali per la diffusione di contenuti, diventano dei generatori di discorsi sociali.
La ritualità sociale
Entrano dunque in crisi i modelli classici di interpretazione dei mass media, fondati sulla direzionalità vettoriale della comunicazione, e si affacciano nuovi modelli che muovono dal riconoscimento della circolarità dei processi comunicativi attivati dai mass media. I nuovi paradigmi pongono l'accento sulla dimensione relazionale, attivata nell'uso e dall'uso dei mezzi di comunicazione. La radio e la t. riescono a creare una fitta rete di relazioni all'interno di un contesto comune, giungendo a definire e rafforzare le identità individuali e collettive e assolvendo a una funzione connettiva, affettiva e identificativa.
Nel raccontare e rappresentare, questi mezzi illustrano le vicende che sono patrimonio collettivo, usano i codici, i rituali e gli archetipi largamente condivisi, e permettono all'ascoltatore e allo spettatore di prendere coscienza di sé, dei suoi problemi e della realtà che lo circonda, anche se per via indiretta e figurata. La radio e la t. svolgono, nei confronti della collettività sociale, una funzione che J. Fiske e J. Hartley (1978) definiscono bardica, proprio in riferimento alla figura e al ruolo del bardo nelle culture orali. Come il bardo, i due mezzi elettronici contribuirebbero a definire e a consolidare l'identità sociale, a diffondere il sistema dominante di valori, a celebrare, spiegare, interpretare e giustificare le rappresentazioni della realtà, ad affermare e confermare le ideologie e le mitologie dominanti, a garantire in un certo senso le identità individuali e a trasmettere e rafforzare il senso di appartenenza alla collettività in ciascun membro.
La condivisione dell'identità collettiva è anche una 'messa in scena' che viene allestita, vissuta e rielaborata collettivamente. I due media diventano così gli agenti e il teatro/palcoscenico privilegiato per la celebrazione di tutti i grandi riti collettivi. Svolgono in questo un ruolo essenziale, costituendo una forma di legame sociale, in una società sempre più minacciata dalla frammentazione: "la televisione è lo specchio della società e questo significa che la società si vede attraverso la televisione, che le offre una rappresentazione di se stessa. La televisione crea non solo un'immagine e una rappresentazione della società, ma lega insieme tutti coloro che la guardano nello stesso momento, permettendo loro di accedere alla stessa rappresentazione della società in cui vivono" (Wolton 1990, p. 126), con il rischio comunque di determinare una certa omologazione. Sono mezzi che, inoltre, coniugano la dimensione collettiva e quella individuale, rivolgendosi a tutti come se si rivolgessero a ogni singolo individuo.
Categorizzazione e modellizzazione
La radio e la t. offrono, al contempo, una rappresentazione del mondo e le chiavi di lettura per decifrarlo; non solo trasmettono delle immagini del mondo, ma contemporaneamente diffondono 'istruzioni di lettura' e 'modelli di comportamento', che permettono di ridurre la crescente complessità del contesto sociale. Da un lato, dunque, i due media inquadrano il mondo, lo ordinano, ne preselezionano le evidenze e ne mostrano gli aspetti salienti. Determinano così una visione del mondo e conseguentemente ridefiniscono le categorie percettive e concettuali e le scale di valori che stanno a fondamento dell'esperienza (funzione categorizzante). Dall'altro, questa rappresentazione assume una valenza emblematica. La radio e la t. propongono una 'grammatica' del comportamento, fornendo modelli di azione, istruzioni e regole dell'agire quotidiano, che diventano punti di riferimento per l'intera comunità. E questi modelli e istruzioni, più che articolarsi in norme e precetti, si traducono in esempi emblematici (funzione modellizzante).
In sintesi, la radio e la t. offrono una nuova (perché mediata) percezione del mondo e consentono una nuova esperienza; espongono fatti di comune interesse e con un linguaggio accessibile; sono agenti e palcoscenici della ritualità sociale; traducono il mondo in immagini più chiare e comprensibili; suggeriscono comportamenti. Nel fare tutto questo, esse soddisfano bisogni cognitivi e affettivi dell'uomo (Lull 1990). J. Lull riconosce alla t. la capacità di intervenire nelle relazioni familiari rafforzando o mettendo in crisi i ruoli stabiliti nel nucleo, mentre F. Casetti (L'ospite fisso, 1995) ha messo in evidenza come la famiglia converta gli stimoli e i messaggi ricevuti (le proposte mediali) in 'risorse' (ambientali o relazionali) da spendere all'interno delle dinamiche relazionali e di ruolo, oltre che sul piano della distensione (relax, divertimento, evasione, fantasia).
La radio e la t. operano anche sui desideri dell'individuo: realizzano il desiderio di 'onnipotenza percettiva', consentendo l'estensione dei sensi; favoriscono l'identificazione, permettendo agli individui di ritrovare nell'identità con le storie altrui una conferma e una 'proiezione'; soddisfano il piacere del gioco della verosimiglianza e della liminalità (cioè il luogo della sospensione e della rottura delle regole). La radio e la t. dunque non si limitano a intervenire soltanto nell'attività di produzione di significati (informazioni, interpretazioni della realtà, pattern di comportamento, ruoli), ma anche - come afferma Fiske (1987) - nella 'produzione di piacere'.
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Televisione e sport in Italia
Il debutto ufficiale dello sport in t. avvenne l'11 ottobre del 1953, con la trasmissione di alcune fasi della partita di calcio Inter-Fiorentina, finita con il risultato 2-1. Fin dal capodanno del 1952 andavano in onda programmi sperimentali, tra cui una serie di cronache sportive: ma erano prove tecniche di trasmissione, numeri zero a uso interno. Il 13 dicembre dello stesso 1953 venne teletrasmessa, dallo stadio Ferraris di Genova, la prima partita della Nazionale, Italia-Portogallo, conclusasi con il risultato 3-0.
Il successo delle prime trasmissioni fu tale che il 3 gennaio 1954 fece il suo esordio la rubrica più longeva della storia della t. italiana, destinata per decenni a costituire l'asse portante dei programmi dedicati allo sport: La domenica sportiva. Naturalmente il successo deve essere rapportato ai 24.000 abbonati di quel tempo, ma il gradimento del pubblico spinse la RAI a organizzare nel giugno dello stesso anno la teletrasmissione dei Campionati mondiali di calcio in programma in Svizzera. E prima ancora di Lascia o raddoppia?, trasmissione cult degli anni Cinquanta presentata da M. Bongiorno, i primi gruppi d'ascolto, le prime aggregazioni spontanee dinanzi a un apparecchio televisivo risalgono a quel Campionato del mondo che portò nelle case dei tifosi italiani le sconfitte degli azzurri ma anche le gesta di Puskas e Schiaffino.
Al di là dei rari eventi internazionali che il calendario di allora proponeva al pubblico, fu La domenica sportiva a imporsi come appuntamento irrinunciabile dell'appassionato. La linea editoriale restò fedele a se stessa per oltre dieci anni: sintesi, cronache filmate, lettura dei risultati e della schedina, brevi commenti. La prima svolta si presentò nel 1965, con la conduzione di E. Tortora.
La durata del programma passava dai 20 minuti iniziali a un'ora: i servizi filmati venivano alternati ai commenti dello studio, arricchito dalla presenza di qualche protagonista della domenica. E trovarono spazio, poco alla volta, anche discipline cosiddette minori. Lo sforzo produttivo fu notevole e l'impostazione complessiva anticipò quello che sarebbe diventato con il tempo il programma-contenitore. Raggiunto in quegli anni, con la conduzione di Tortora, il punto più alto della sua lunga storia, La domenica sportiva andò avanti senza mai farsi cogliere dalla tentazione, o dall'esigenza, di cambiamenti neppure di fronte a una doppia concorrenza: una esterna e contemporanea da parte dell'emittenza privata (Pressing della Fininvest, in onda dall'autunno 1990), l'altra interna e largamente anticipata in termini orari (Domenica sprint di RAI Due e Novantesimo minuto di RAI Uno). Tra i volti storici della trasmissione, quelli di N. Carosio, L. Bersani, A. Pigna, B. Viola, T. Stagno, S. Ciotti, G. Minà, B. Pizzul, A. De Zan. Tra gli opinionisti, grandi firme, a iniziare da G. Brera e G. Zanetti, ma anche protagonisti, quali O. Sivori, A. Panatta e, per un breve periodo, N. Rocco.
L'altra pietra miliare dello sport televisivo fu Il processo alla tappa, ideato da S. Zavoli quale contrappunto alle fatiche quotidiane dei corridori del Giro d'Italia e da lui condotto dal 1962 al 1969: commenti e interviste da un palco allestito a due passi dal traguardo. Echi agonistici, dunque, ma anche e soprattutto un'intera gamma di emozioni raccontate da protagonisti di grande semplicità, davvero vicini alla sensibilità degli appassionati di uno sport popolare per antonomasia. Si può segnalare la famosa puntata trasmessa il 2 giugno 1969 con E. Merckx in maglia rosa ma risultato positivo al controllo antidoping: le lacrime del campione belga escluso dal Giro restano nella storia dello sport televisivo.
All'autunno 1970 risale l'inizio di Novantesimo minuto, appuntamento del pomeriggio tuttora irrinunciabile e trainante nelle domeniche degli Italiani: al grande pubblico del calcio vengono offerte le immagini, e soprattutto i goal, di tutte le partite di serie A. Il primo coordinatore degli interventi dai vari campi o dalle sedi regionali fu P. Valenti, ideatore e curatore del programma con M. Barendson e R. Pascucci. Con Novantesimo minuto, grazie forse anche alla lunga serie dei corrispondenti che irrita il tifoso ma sul lungo periodo finisce per coinvolgere il non-tifoso, si apriva la stagione dei record d'ascolto e veniva abbattuto per la prima volta il limite dei 10 milioni di spettatori. Dieci anni più tardi A. Biscardi varava Il processo del lunedì. Lo sport divenne dibattito, l'obiettivo dichiarato era l'approfondimento, quello reale la polemica a ogni costo. Gli ospiti si avvicendavano numerosi e soprattutto variegati: pochi veri protagonisti, molti giornalisti, personaggi del mondo dello spettacolo, vallette rigorosamente mute. I milioni di ascoltatori vantati per anni decrebbero di colpo al primo apparire dell'Auditel: ma in un'epoca, gli anni Ottanta, in cui il trash stava per prendere il sopravvento, la strada si presentava ormai tracciata. In questo solco fiorirono in quasi tutte le t. locali della penisola trasmissioni sportive aggressive, urlate, faziose, che finirono per sferrare un fiero colpo allo sport inteso anche come strumento di educazione sociale.
Nel frattempo iniziava a diffondersi l'emittenza privata. Il primo avvenimento sportivo non solo trasmesso ma prodotto, anzi creato, fu Il mundialito del 1981 di Canale 5. Prendendo a prestito moduli sperimentati con successo negli Stati Uniti, la t. precipitò dentro la partita. Le interviste venivano realizzate prima, durante e dopo l'incontro, i giornalisti non si trovavano più in tribuna stampa ma a bordo campo. Lo spiegamento di mezzi fu enorme: 12 telecamere puntate, più una sospesa a 43 metri di altezza sul campo per i totali. Altre edizioni seguirono, ormai nella consapevolezza che il calcio non era soltanto un grande avvenimento popolare ma anche un grande evento televisivo e quindi un veicolo commerciale dalle potenzialità ancora inesplorate.
La riprova arrivò dai Campionati mondiali di calcio del 1982, quelli del trionfo azzurro in Spagna. La finale Italia-Germania da Madrid, in prima serata, toccò i 37 milioni di spettatori. Era il culmine anche televisivo, non solo sportivo, di un avvenimento trasmesso integralmente, 52 partite su 52, oltre 100 ore di trasmissioni complessive grazie a una spedizione di 80 inviati RAI tra giornalisti, registi, operatori e tecnici, per un investimento superiore ai 2 miliardi di lire.
Da quel momento il calcio televisivo, e nella sua scia anche altre discipline a cominciare dall'automobilismo, lo sci, il tennis, sarebbe diventato un formidabile business. I diritti televisivi del campionato divennero oggetto di concorrenza, con la lievitazione dei prezzi che ne conseguì. Ma l'attenzione nei confronti del calcio era così forte da far nascere persino nuovi generi di trasmissioni: è il caso di Mai dire gol, dal 1990 su Italia 1, e di Quelli che il calcio..., dal 1993 su RAI Tre, in seguito su RAI Due. In Mai dire gol il calcio e quanto gravita intorno a esso diventavano materia di satira prima, e struttura di spettacolo di varietà poi. In Quelli che il calcio..., l'attesa dei risultati delle partite di campionato diventava rito collettivo di aggiornamento e insieme pretesto di divertimento. Un trio di conduttori di origine radiofonica, la Gialappa's Band di G. Gherarducci, M. Santin, C. Taranto, abilissimi nel selezionare una materia prima ripartita tra 'strafalcioni' agonistici e 'bestialità' giornalistiche e nell'amalgamarla con interventi di comici affermati (Teo Teocoli) o da lanciare (il trio Aldo, Giovanni e Giacomo). Dall'altra parte, l'ironia lieve di F. Fazio a far da contrappunto a una serie di macchiette volutamente 'sgangherate', e i timidi richiami alla mutevole realtà dei risultati da parte di M. Bartoletti, tra gli ideatori del programma.
Tra gli aspetti tecnici più rilevanti un posto d'onore spetta alla moviola, perfetta metafora dello sport proposto in televisione. La sua presentazione ufficiale risale al 23 ottobre 1967, un lunedì, nel corso del telegiornale. C. Sassi e il montatore H. Vitaletti la utilizzarono per dirimere una controversia sorta intorno a un goal fantasma di G. Rivera, durante il derby Inter-Milan, giocato il giorno precedente con risultato di 1 a 1. La neonata moviola dimostrò, con discreta approssimazione, che il pallone di Rivera non aveva varcato la linea di porta, proponendosi così subito come strumento d'indagine privilegiato.
Il termine sta a indicare l'analisi dell'immagine fotogramma per fotogramma. In origine la moviola veniva effettuata su pellicola. Solo dal 1980 il supporto filmico venne sostituito dal più pratico e veloce nastro magnetico. Attraverso la cancellazione della velocità, lo strumento permise di analizzare l'azione come sotto la lente di un microscopio. Dal momento che la moviola fa parte a pieno titolo del linguaggio televisivo, anziché annullare ogni discussione mostrando nel dettaglio rallentato l'accaduto, divenne immediatamente motore capace di alimentare un numero infinito di polemiche, finendo così per vanificare la sua stessa pretesa di chiarezza. Del resto, quello che la moviola mostra non coincide con quanto avvenuto in campo. Là il gioco procede veloce, i giocatori, l'arbitro reagiscono in relazione alla loro posizione prospettica. Eppure il suo utilizzo è stato fin dall'inizio un vero successo, tanto che ancora oggi non c'è programma sportivo che osi farne a meno.
Altra adozione obbligatoria è quella del replay. Se qualcosa può sfuggire allo spettatore, nulla sfugge all'occhio della telecamera. Tutto quello che merita di essere visto (per es. i goal) sarà certamente rivisto. La regia penserà a riproporre più volte l'episodio, magari da angolature diverse. Il meccanismo del replay è talmente sfruttato da poter essere considerato anch'esso, come la moviola, un elemento fisso di ogni programma sportivo (e non solo), capace di proporsi come una guida interpretativa. Se l'azione è stata ripresentata vuol dire che è davvero importante, e tanto più è importante tante più volte viene mostrata. Si accentuano così i caratteri spettacolari e tecnici a disposizione della regia televisiva, cosicché, anche nella ripresa diretta degli avvenimenti, si verifica una sedimentazione di fatti registrati.
Il ralenti permette di rendere un episodio più suggestivo e godibile, attraverso un rallentamento della dinamica di gioco. La sequenza si snoda secondo una durata temporale mediamente doppia rispetto a quella reale. Il ralenti con lo zoom, che senza perdere la messa a fuoco e senza spostare la camera permette di allargare o restringere l'inquadratura, è un artificio che offre una perfezione di visione più definita di quanto non sia in grado di fare l'occhio umano.
Ma la tecnologia non interviene solo nelle riprese a camera fissa. Diverse sono le possibilità di ripresa con le telecamere mobili. Diventano necessarie, per es., in occasione di tutte quelle manifestazioni che si svolgono lungo itinerari complessi, fuori dagli stadi, come nel caso delle gare di corsa: dal ciclismo all'automobilismo, dal motociclismo alla maratona e così via. Telecamere montate su elicotteri, o mini telecamere, dette point of view, agganciate alle motociclette e ai caschi, trasmettono immagini emozionanti dell'intero percorso visto dall'alto, oppure soggettive dell'atleta impegnato nella competizione. Si regalano visioni d'insieme di tragitti, laddove prima dell'avvento della t. gli spettatori dovevano accontentarsi di pochi scorci. Con l'utilizzo degli zoom e delle telecamere mobili il tifoso è proiettato direttamente all'interno dell'azione.
L'utilizzo del computer consente ormai di ottenere una quantità di effetti tali da avvicinare sempre di più la ripresa di un avvenimento sportivo a un imponente videogame. Le possibilità di queste tecnologie sono immense. Si va dalla visualizzazione della mappa del circuito con l'evidenziazione della parte di percorso rimanente, al calcolo delle distanze e delle velocità, aggiornate in tempo reale. Si possono analizzare i diversi momenti di gioco: il possesso di palla, la velocità di tiro, chi è stato più tempo in attacco, chi ha corso di più, oltre naturalmente ai risultati parziali. Le informazioni che appaiono sullo schermo sono più esaurienti di quelle comunicate dal telecronista e sono le stesse che si accendono sui display giganti presenti negli stadi. Il computer può proporre anche situazioni di gioco simulate e punti di vista improbabili nella realtà, offrendo spunti di discussione di natura statistica: uno spettacolo nello spettacolo, una notizia nella notizia.
Se oggi il legame tra sport e t. è indissolubile, perché l'uno ha bisogno dell'altra, non è sempre stato così. Agli esordi lo sport 'mediatico' conquistò un numero contenuto di spettatori, poiché il pubblico prediligeva la pratica alla televisione. Il primo avvenimento sportivo a entrare nella classifica degli ascolti fu l'incontro di calcio Italia-Scozia del dicembre 1965, svoltosi a Napoli. Le ricerche del Servizio opinioni della RAI confermano che ancora nel 1971 il 62% dell'utenza dichiarava di preferire film, telegiornali e giochi a premi alle manifestazioni agonistiche. La vera svolta in termini di ascolto si compì con l'offerta dapprima di un'informazione rapida data dall'impaginazione di Novantesimo minuto, poi della vittoria italiana ai Mondiali spagnoli del 1982. Un ruolo determinante nell'aumento degli ascolti è stato giocato dall'accresciuto interesse da parte del pubblico femminile.
In un primo momento - almeno fino agli anni Settanta - lo schermo domestico si limitò a riprodurre gli avvenimenti sportivi cercando di contenere al minimo qualsiasi ingerenza, nell'intento di fornire la replica fedele degli incontri, proprio come se lo spettatore si trovasse fisicamente sugli spalti. Il video non conquistò più appassionati di quanti già ce ne fossero. Il ricorso alla diretta, alle origini, era una scelta obbligata. Il panorama mutò con l'introduzione del nastro magnetico, che sostituiva la lunga lavorazione della pellicola. Tuttavia la diretta rimase. Non si trattava più di una necessità, bensì di una decisione strategica contro i network privati condannati da una normativa di legge, poi superata, alla registrazione e alle differite. Ben presto ci si accorse che era addirittura possibile migliorare la componente spettacolare. L'utente televisivo divenne spettatore privilegiato rispetto al tifoso che frequentava lo stadio, potendo godere di una visione più completa.
Le inquadrature, infatti, riproducono scorci impossibili, di volta in volta duplicano il punto di vista della prima fila, dell'allenatore in panchina, del personaggio famoso seduto in tribuna d'onore. Le platee catodiche possono cambiare visione ogni qualvolta la dinamica del gioco lo renda necessario. Grazie agli zoom si avvicinano ai grandi campioni per scrutare ogni particolare (lo sguardo, la fatica, la concentrazione), si immergono nel campo, gomito a gomito con gli avversari. Alla fine, il teleutente avrà assistito a una partita mossa da continue alterazioni prospettiche, all'insegna del ritmo, dove pure i tempi morti sono stati azzerati dall'inserto dei numerosi replay o dall'inquadratura di particolari curiosi.
Tutto ciò non era ancora sufficiente per la televisione. Il passo successivo fu quello di diventare il vero punto di riferimento, capace di dettare le regole entro le quali le stesse discipline sportive potevano muoversi. Nei dibattiti, nelle polemiche post-incontro, nei luoghi sociali si iniziò a far sempre più spesso riferimento alle immagini televisive, e in futuro il risultato potrebbe essere addirittura modificato dalla testimonianza delle riprese (la prova-TV). Va ricordato, del resto, che spesso gli allenatori studiano la squadra avversaria, o anche i moduli di gioco della propria, attraverso meticolose analisi di videotape. Il video ha modificato l'anima dello sport, le sue regole, le sue abitudini, e lo ha trasformato in un grande spettacolo, in un grande affare. Le interferenze a volte sono solo superficiali: è il caso della sostituzione delle tradizionali maglie dei calciatori con altre che garantiscano una migliore resa televisiva e che soddisfino la volontà degli sponsor. La telecamera vince sullo spirito di aggregazione e di affetto che lega il tifoso ai colori della propria squadra.
Ma il mezzo televisivo è ben più invasivo, se è vero che l'orario di inizio delle manifestazioni deve adeguarsi alle richieste delle platee mediatiche, piuttosto che alle necessità atletiche. Anche le regole del gioco si devono ormai adattare alle esigenze dello schermo. È il caso del tie-break nel tennis e, addirittura, dell'abolizione del cambio-palla nella pallavolo. Anche lo slalom parallelo nello sci è stato progettato con un riguardo particolare all'utenza elettronica. Le stesse modalità di ripresa sono responsabili di un diverso approccio verso una certa disciplina: in uno sport di squadra come il calcio, per es., vengono preferiti gli attaccanti a discapito di altre figure. Per sua natura, poi, lo schermo televisivo finisce per privilegiare discipline più 'telegeniche', avvantaggia attività che si possono disputare entro aree ristrette, dove le inquadrature permettono di cogliere l'azione con un solo colpo d'occhio (calcio, tennis, basket, pugilato ecc.), oppure manifestazioni itineranti (maratona, automobilismo, ciclismo ecc.). La preferenza accordata dal mezzo elettronico è divenuta garanzia di promozione di quella disciplina. Il tifo è diventato un tifo soprattutto da poltrona. Negli anni Novanta ai vertici delle classifiche d'ascolto sono stati saldamente agganciati eventi sportivi, generalmente incontri di calcio che vedevano impegnata la squadra nazionale: Italia-Argentina del 1990, che collezionò 27 milioni e mezzo di spettatori, si è aggiudicata il record, ma punte rilevanti si verificarono anche quattro anni dopo, nel 1994, quando Italia-Bulgaria raccolse oltre 25 milioni di telespettatori. Si tratta di livelli assoluti visto che in quell'anno, il 1994, su 50 programmi televisivi i 23 più seguiti furono partite di calcio (la maggior concorrenza è rappresentata dal Festival di Sanremo, che raggiunse i 17 milioni nel 1990 e che registrò una ulteriore crescita fino ai 18 del 1995). Nell'ambito del calcio, non è stata solo la Nazionale a riscuotere tanto entusiasmo: si iniziò nel 1971 con Borussia-Inter (20 milioni e mezzo di telespettatori), per poi continuare con Anderlecht-Juventus (1981, 18 milioni), Juventus-Amburgo (1983, 23 milioni), Milan-Steaua (1989, 19 milioni e mezzo). È del tutto normale che di fronte a tali risultati le battaglie per l'assegnazione dei diritti televisivi siano diventate vere e proprie guerre. Le emittenti private hanno corroso il monopolio della RAI, come nel caso delle assegnazioni alla Fininvest nel 1992 dei diritti per la trasmissione dei Gran premi di Formula Uno e del Giro d'Italia, alla Cecchi Gori nel 1997 delle partite di serie A, o alla Stream e Tele+ dei gruppi di partite negli anni successivi. E se si parla di mercato, diventa logico che sotto il peso degli sponsor Atlanta abbia battuto Atene nella designazione a sede dei Giochi olimpici del 1996, i giochi storici del Centenario, che in via naturale avrebbero dovuto svolgersi in Grecia.
È una rivoluzione commerciale vera e propria che non poteva non coinvolgere i protagonisti stessi, gli atleti. E se è storicamente vero che già nel 1957 i grandi ciclisti F. Coppi e G. Bartali si concessero al Musichiere di M. Riva, ai giorni nostri campioni grandi e piccoli hanno dimestichezza con gli studi televisivi, sanno guardare nella telecamera, sanno mettersi in posa. Qualcuno, al termine della carriera agonistica, viene recuperato dai media come opinionista. Oltre a farsi largo nello sport il campione deve sapersi imporre al pubblico come 'personaggio'. Gli ingaggi non si limitano a quelli garantiti dal contratto: vanno aggiunti a questi i compensi per le comparsate televisive, nei varietà, nei talk show non propriamente sportivi. I recordmen escono dal terreno di gara per varcare immediatamente le soglie di uno studio televisivo, per diventare poi testimonial ideali per sponsorizzazioni e riuscire così a far vendere qualsiasi tipo di prodotto. Sicché, se in origine era soprattutto la domenica a costituire l'occasione di ribalta televisiva dei personaggi dello sport, oggi il flusso è ininterrotto e i palinsesti ne risultano invasi. Oltre alla cronaca, ci sono l'approfondimento del dopo gara, i commenti a caldo, le inchieste, i dibattiti, le vigilie, una presenza rafforzatasi con gli anticipi delle partite al sabato e i posticipi al lunedì, un'invasione pressoché totale ora che, anche in Italia, sulla scia delle esperienze spagnole, inglesi e tedesche, il campionato di calcio è stato distribuito lungo l'intero fine-settimana. Del resto, già oggi, la t. generalista non riesce più a fronteggiare l'offerta concorrenziale.
Nel 1991 è stato lanciato Eurosport, un canale satellitare europeo di informazione sportiva a vasto raggio: sono 90 le discipline che trovano una loro collocazione per un totale di 40 nazioni coinvolte. Al 1992 risale la versione italiana della pay-TV grazie a un accordo con la Lega nazionale calcio. Se gli abbonati effettivamente raccolti inizialmente non hanno superato i 40.000, le proiezioni per la sola Italia parlano di un potenziale bacino d'utenza di circa 4 milioni: un possibile volume d'affari, quello offerto dalle pay-TV europee, pari a circa 8÷12 miliardi di dollari entro l'inizio del nuovo millennio, e la spinta propulsiva per la diffusione e il consolidamento televisivo è data dallo sport. Così è stato per l'inglese BskyB, di proprietà di R. Murdoch, il cui decollo è iniziato solo dopo l'acquisizione dei diritti sportivi, e per il tedesco Kirch che ha esordito utilizzando come traino il Gran Premio di Formula Uno a Hockenheim per la Df1. Tra le altre strategie adottate per abbattere l'inerzia delle abitudini, le italiane Tele+ e Stream hanno fatto leva sulla disposizione dei televisori nei bar e in altri locali pubblici, nella speranza di replicare il successo degli ascolti di massa degli anni Cinquanta.
In Italia, per assicurare "l'equilibrato sviluppo del mercato dei diritti di trasmissione codificata di eventi sportivi nazionali", il legislatore ha emanato il d.l. 30 gennaio 1999 nr. 15 (convertito in l. nr. 78 del 29 marzo 1999). *
bibliografia
R. Bassetti, Storia e storie dello sport in Italia dall'unità a oggi, Venezia 1999.
Divismo televisivo
di Peppino Ortoleva
L'apparizione di figure divistiche promosse o prodotte dal piccolo schermo è antica quanto il mezzo televisivo stesso. Negli ultimi vent'anni, però, in coincidenza con quel complesso fenomeno di mutazione del medium e del suo linguaggio definito neotelevisione, il divismo televisivo ha in parte mutato carattere, in parte estremizzato quelli che erano probabilmente i suoi tratti originari.
Il medium e la star
Vale la pena interrogarsi preliminarmente sulla natura delle star televisive e sulle caratteristiche che le connettono ad altre forme di divismo. Due testi assai noti, come Fenomenologia di Mike Bongiorno di U. Eco e Understanding media di M. McLuhan, hanno attirato l'attenzione sul problema già nella fase iniziale del mezzo televisivo.
Pubblicato originariamente nel 1959 sulla Rivista Pirelli e raccolto in Diario minimo (1963), Fenomenologia di Mike Bongiorno, di U. Eco, proponeva, nonostante le origini scherzose evidenti fin dal titolo, un'interpretazione provocatoria: il maggior divo televisivo dell'Italia dell'epoca era amato non perché ammirato per alcune qualità eccezionali o comunque distintive (come ci si aspettava dai divi del cinema) ma, esattamente al contrario, perché nella sua mediocrità non presentava allo spettatore medio nulla da invidiare. Il segreto del successo non era la personalità, quel misterioso misto di maschera e volto che secondo la classica interpretazione di E. Morin (1957) fa dei divi i reali mediatori tra l'immaginario filmico (o rock) e la quotidianità del mondo d'esperienza; era il suo contrario, la banalità, che rendeva più facile accogliere questa presenza nella vita domestica senza esserne turbati o inquietati.
In Understanding media (1964) M. McLuhan muoveva da un'osservazione in parte analoga ("Il successo di un personaggio televisivo dipende dalla sua capacità di trovare uno stile di presentazione a pressione bassa") per ricollegarla a una più ampia e ambiziosa teoria del mezzo. Medium a bassa definizione, la t. richiede, secondo McLuhan, la partecipazione dello spettatore non tanto sul piano emotivo quanto su quello mentale e addirittura muscolare, per 'chiudere' messaggi di per sé inconclusi. Proprio per questo dà luogo a una forma di familiarità diversa con le star. "Quando facevo del cinema la gente diceva: 'Guarda, quella è Joanne Woodward'. Adesso invece dicono: 'Quella lì è una che conosco'". L'aneddoto riportato da McLuhan sottolinea un'esperienza familiare: nel raccontare un film si tende a dare ai personaggi il nome dell'attore che li interpreta; nel raccontare un telefilm o una soap opera accade esattamente l'opposto.
Il divo cinematografico è 'superumano' anche perché è la somma di tutti i personaggi che ha interpretato; quello televisivo è spesso schiacciato sul personaggio con cui viene in quel momento identificato. Nell'interpretazione dello studioso canadese è proprio la natura del medium televisivo a produrre questa diversità: il medium a bassa definizione produce divi noti a tutti ma senza fans, come accade alle stelle del cinema o a quelle della musica leggera e dello sport; divi che non incuriosiscono per le loro presunte qualità ma che si tende a fissare per sempre nel loro ruolo.
Il divismo e la comunicazione televisiva
Al di là delle differenti basi teoriche, ciò che accomuna l'interpretazione di Eco e quella di McLuhan è la convinzione che i divi televisivi siano meno 'superumani' di quelli di altri media e siano, in sostanza, figure più quotidiane e amate proprio per questo: al punto che viene da chiedersi se sia ancora appropriato l'uso del termine divismo, che designa "semidivinità, creature di sogno" (Morin 1957).
Prima di negare loro la dignità di divi, è bene ricordare che le star della t. hanno in comune con quelle cinematografiche diversi tratti: la popolarità e l'immensa notorietà, che consentono loro di fare da traino, spesso con il solo nome, al successo di uno spettacolo; quindi il consumo di immagini e informazione che li riguardano.
Forse, per comprendere il fenomeno è utile ripensare le differenze tra il divismo televisivo e gli altri divismi anche in termini diversi da quelli di McLuhan (e di Eco), basati non su una vera o presunta natura del mezzo ma sulle caratteristiche organizzative, di linguaggio e di fruizione. Va notato allora innanzitutto che la t. è quasi ovunque un medium nazionale: larga parte dei suoi programmi (inclusi alcuni dei più seguiti, dai telegiornali ai talk show) è diversa da un paese all'altro; anche quella parte di fiction che ha un mercato mondiale è trasmessa spesso in tempi diversi da paese a paese; i soli programmi 'globali', cioè visti simultaneamente in tutto il mondo, sono riprese di eventi extratelevisivi, e i divi che vi compaiono sono generalmente riconosciuti come tali al di fuori del medium: dagli eroi dello sport ai protagonisti gioiosi o tragici dell'aristocrazia internazionale. Molti personaggi televisivi noti in un paese sono del tutto ignoti a pochi chilometri dal confine: i divi tra i più celebri della maggiore e più conosciuta t. mondiale, quella statunitense, sono da noi pressoché sconosciuti, da Ph. Donahue a O. Winfrey. Il divo specificamente televisivo è di norma nettamente meno universale di quello cinematografico.
Inoltre, la t. è (secondo l'osservazione di R. Williams) un medium di flusso, caratterizzato cioè dal susseguirsi e spesso dall'intrecciarsi di materiali differenti: i divi televisivi sono spesso dei mediatori, non tra immaginario e realtà, ma tra il pubblico e il caos della programmazione. Il termine anchorman (uomo-ancora, più di recente anchorperson) usato per i conduttori del telegiornale è in questo senso emblematico: il conduttore dev'essere rassicurante, la qualità che gli si richiede non è sapersi lanciare in avventure sempre nuove, ma al contrario ricondurre materiali e informazioni sempre nuove alla quotidianità.
Tutto ciò si collega anche con il carattere propriamente domestico del medium televisivo, la cui fruizione si presenta non come interruzione, ma come parte della routine, non come uscita dalla casa ma come suo ampliamento; non come uscita dal tempo ordinario della vita ma come suo doppio. Non è un caso che molti divi della t. si presentino collocati in uno spazio domestico per così dire iperrealistico, immaginario ma accuratamente imitato: dai salotti dei talk show alle stanze a tre pareti delle situation comedy, il genere più popolare di telefilm dagli anni Settanta in poi, e di tante soap opera. Forse è anche per questo che la stampa scandalistica insegue i divi televisivi non tanto per narrare i loro amori (una dimensione comunque affascinante e ad alta carica emotiva), come accadeva e accade per le star del cinema, quanto per 'riportarli sulla terra', alla banalità del quotidiano. Il pettegolezzo è sempre la fonte principale di questa stampa e insieme il suo sbocco, in quanto il piacere di molti dei suoi lettori sta nelle conversazioni che seguiranno la lettura. A cambiare sono gli oggetti privilegiati del pettegolezzo stesso.
C'è poi un altro aspetto che generalmente non viene considerato. Nella già richiamata opera che resta la più celebre della sociologia del divismo, Morin attribuisce una funzione chiave nella promozione del divismo a una 'classe' non sociale ma di età, come la definisce: gli adolescenti in cerca di modelli di ruolo, i principali consumatori di mitologie eroiche. Ora, tra tutte le fasce di età, quella a minor consumo televisivo sembra essere, in tutti i paesi avanzati, proprio l'adolescenza, salvo per programmi spesso specializzati dedicati alla musica e allo sport. Il divismo televisivo finisce quindi con il radicarsi nei bambini o in età più adulte, meno attratte dai meccanismi identificativo-proiettivi propri del pubblico adolescente.
Il nuovo divismo televisivo
Come è stato notato dai suoi teorici, a cominciare da F. Casetti e R. Odin, la 'neotelevisione' esaspera proprio alcuni dei caratteri della comunicazione televisiva che si sono appena ricordati: il suo carattere di flusso, programmazione sempre più magmatica, la cui segmentazione interna è sempre meno riconoscibile; la sua adesione a tempi e ritmi della vita domestica; il suo privilegiare generi essi stessi 'casalinghi', come quelli ricordati.
Il divismo televisivo di questa fase si presenta pertanto a un primo sguardo come ancor più specifico, e più lontano dai modelli di altri media, di quanto fosse in passato. Se alle origini della t. avevano statura di divi gli eroi dei primi telefilm, spesso riconoscibili anche per un loro passato cinematografico (c'era chi sapeva identificare il R. Burr interprete di Perry Mason come il cattivo della Finestra sul cortile di A. Hitchcock), e i presentatori dei programmi educational apparivano nella veste del professore, oggi nella neotelevisione i divi della soap opera sono completamente 'assorbiti' dai loro personaggi, la cui vita immaginaria ha preso i tempi lunghi della vita reale, e professori, giornalisti, entertainers, vengono tutti progressivamente assimilati a un ruolo unificante, quello dei conduttori, conversatori e guida di un grande talk show, nel quale diventano 're per un giorno' molti personaggi della vita reale.
Al centro del sistema
Ma questa è solo una parte della realtà. Non si deve dimenticare, infatti, che con l'avvento della neotelevisione il medium non ha perso la funzione di centro e perno dell'intero sistema della comunicazione; al contrario, l'ha vista, almeno per una fase, accentuarsi. Così, negli ultimi vent'anni la differenza tra divi televisivi e divi extratelevisivi ha perso una parte del suo significato: tutte le forme di divismo sono oggi mediate, almeno in parte, dalla t., che se ne fa amplificatore privilegiato.
Questa funzione di amplificazione è spesso percepita come neutra, o addirittura benevola. È indicativo, per es., che in occasione dell'evento forse più impressionante del divismo moderno, la morte della principessa del Galles Diana Spencer, la stampa sia stata spesso colpevolizzata come corresponsabile o responsabile principale del dramma, mentre alla t. veniva riconosciuto il ruolo di diffondere in tutto il mondo il rito funebre, e di ripetere infinite volte le immagini della principessa 'da viva'. È parte dell'illusione di naturalità che accompagna molte rappresentazioni televisive, soprattutto in diretta.
In realtà, come ha sottolineato soprattutto il sociologo americano J. Meyrowitz (1985), sotto l'apparente neutralità si nasconde un preciso modello di rappresentazione, che grazie alla mediazione elettronica assimila la persona presente nel piccolo schermo alle persone che incontriamo realmente nella vita, e ci porta a giudicarle sulla base di criteri quali la simpatia e l'antipatia, la fiducia o la sfiducia che sembrano istintivamente ispirarci. Per questa via, i caratteri del divismo televisivo, che Eco e McLuhan avevano intuito diversi decenni fa, sembrano oggi estendersi a tutte le forme di divismo e di carisma.
bibliografia
E. Morin, Les stars, Paris 1957 (trad. it. I divi, Milano 1977).
F. Alberoni, L'élite senza potere. Ricerca sociologica sul divismo, Milano 1963.
U. Eco, Fenomenologia di Mike Bongiorno, in U. Eco, Diario minimo, Milano 1963.
M. McLuhan, Understanding media. The extensions of man, New York 1964 (trad. it. Gli strumenti del comunicare, Milano 1967).
C. Sartori, La fabbrica delle stelle. Divismo, mercato e mass media negli anni '80, Milano 1983.
J. Meyrowitz, No sense of place. The impact of electronic media on behavior, New York 1985 (trad. it. Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, Bologna 1993).
L. Fantini, Fare casting. Peripezie di un selezionatore di italiani per la TV, Milano 1996.
P. Mancini, La principessa nel paese dei mass media. Lady Diana e le emozioni della modernità, Roma 1998.