Televisione
di Marino Livolsi
Televisione
sommario: 1. La televisione oggi: la sua specificità e i suoi possibili effetti. 2. Breve profilo storico della televisione italiana: a) dagli inizi agli anni settanta: la paleo-televisione; b) dagli anni ottanta a oggi: la neo-televisione. 3. La grande affabulatrice. 4. Generi e linguaggio. 5. La produzione. 6. La televisione del futuro. □ Bibliografia.
1. La televisione oggi: la sua specificità e i suoi possibili effetti
La televisione è la principale fonte da cui si traggono le informazioni necessarie e le occasioni di spettacolo o di evasione nel tempo libero. Essa costruisce la rappresentazione del mondo largamente condivisa da un vastissimo pubblico e a essa si deve il processo di globalizzazione culturale che ha preceduto quello economico e politico. Le storie narrate dalla televisione sono anche la matrice prevalente di stimoli e suggestioni per la costruzione dell'identità personale.
Con particolare riferimento alla società italiana, la televisione deve essere considerata, oltre che nei suoi effetti, anche per quanto riguarda la sua storia, i suoi processi produttivi, i suoi generi e linguaggi, e per quello che potrà essere il suo profilo nel prossimo futuro.
Ultima arrivata tra i grandi mezzi di comunicazione di massa, la televisione si è imposta rapidamente diventando, in Italia e negli altri paesi, il mezzo egemone (oggi, in Italia il televisore resta acceso, mediamente, per circa 210 minuti). Egemone significa almeno due cose: la prima è che gli altri mezzi (si pensi alla stampa, alla radio, ecc.) hanno un atteggiamento reverenziale nei confronti della televisione, tanto da dare grande spazio a ciò che in essa si dice o si fa; la seconda è che i suoi contenuti, sia l'informazione che lo spettacolo, sono oggetto di un grandissimo interesse collettivo, sono le 'cose' che tutti vedono e di cui tutti parlano. Se una notizia appare in televisione, agli occhi della gente, è vera e indiscutibile; se un personaggio appare in televisione è importante e degno di grande attenzione.
La televisione ha imposto non solo alcuni contenuti (la fiction delle soap operas, la pubblicità, ecc.), ma anche e soprattutto un 'modo di narrare' che è diventato un tratto caratteristico della cultura contemporanea. È l'accusa che molti fanno alla televisione quando dicono che tutto è spettacolo, che ogni contenuto per essere fruito da un grande pubblico deve divertire, a costo di perdere ogni carattere di possibile approfondimento e/o innovatività.
Oggi è impossibile pensare a un mondo senza televisione; per un largo pubblico, le informazioni della società globalizzata provengono, quasi esclusivamente, da questa fonte. Il tempo libero è speso, dalla grande maggioranza, assistendo agli spettacoli televisivi che non costano nulla, sono comodi (non è necessario uscire, affrontare i problemi del traffico, ecc.) e, in qualche caso, anche divertenti. È ovvio che, per gli 'apocalittici televisivi', tutto ciò sta a significare informazioni senza spessore e intrattenimento di bassa qualità.
La televisione è la più grande story-teller per la gran parte della gente: le sue narrazioni forniscono la chiave prevalente di lettura del mondo in cui si vive, offrono modelli di comportamento in svariate circostanze, suggeriscono 'stili di vita' che, in molti casi, sostituiscono altri modi più tradizionali di decodificare il mondo, come le ideologie, le religioni, le appartenenze culturali, e via dicendo.
I contenuti televisivi e le loro modalità di espressione sono il serbatoio prevalente di quella che possiamo definire 'cultura della contemporaneità'. Nello stesso tempo rappresentano la fonte dell'immaginario collettivo e individuale, sempre più fondato su immagini e suoni, e sempre più incline ai sentimenti e alle emozioni. Sono questi gli effetti a lungo termine del mezzo televisivo.
Prima di proseguire è necessario porsi un interrogativo di fondo. Come è possibile per lo studioso avere come oggetto di analisi l'abbondantissimo materiale filmato in quasi cinquant'anni di produzione televisiva? Non si considera mai abbastanza la grande quantità di materiale che si è accumulato nel tempo e che tende a sparire per sempre dalla nostra memoria. Solo per l'Italia, un calcolo di massima segnalerebbe oltre centomila ore di prodotti televisivi. Come si può pensare di poterli rivedere e riconsiderare per importanza, generi o qualsiasi altro elemento ordinativo? Si tenga presente che questo materiale in molti casi è ormai andato perduto o è difficilmente rintracciabile nelle teleteche. Ma anche su quanto resta, il compito dello studioso rimane complicato. La produzione televisiva è fatta di rari eventi importanti, contro un flusso di contenuti di scarsa rilevanza. Anche questi ultimi, nel loro accumularsi nel tempo, hanno lasciato traccia nel consumo e nel gusto del pubblico. Considerare solo i primi (gli eventi) è facile, ma non dà un'idea reale della 'normalità' televisiva. Considerare solo il secondo (il flusso televisivo, come scorrere casuale delle immagini) è, come si è detto, praticamente impossibile. L'unica strada è cercare di ricostruire tutto questo materiale per oggetti e filoni di analisi. In questa prospettiva potrebbero essere studiati alcuni topoi dell'antropologia e della cultura contemporanea: ad esempio le case, i vestiti, i luoghi pubblici, le abitudini di consumo, ecc. Lo stesso si potrebbe fare con alcune tematiche sentimentali o simbolico-valoriali, come l'amore, la partecipazione politica, le feste e i riti collettivi, ecc. Tutto ciò presuppone comunque un grande lavoro e la consapevolezza che una ricostruzione non potrà mai essere completa e definitiva. Detto diversamente, non ci si può sottrarre alla minaccia dell'impossibilità di decodificare e memorizzare il materiale 'alluvionale' della produzione televisiva, che scorre - ora dopo ora, giorno dopo giorno - trasmesso da molte emittenti.
Nell'insieme, i contenuti televisivi e il modo in cui essi sono proposti possono essere considerati la matrice di fondo della costruzione dell'identità (identity-framing) individuale e collettiva. Tutto quanto appare in televisione è un insieme di suggestioni, di suggerimenti e di stimoli che vengono utilizzati da ogni spettatore per costruire il senso e il significato da dare alla propria vita e per avere un'immagine del mondo e del luogo che ognuno vi occupa, ma anche per avere idee sul modo di presentarsi agli altri come vorremmo o presumiamo che gli altri si aspettino che noi siamo.
Prima di tentare di ricostruire una breve e sommaria storia della televisione in Italia, è bene partire da una fondamentale avvertenza di carattere metodologico. Non è possibile studiare i contenuti televisivi senza tenere conto del contesto in cui essi sono stati prodotti. Ciò significa dover almeno considerare tre livelli: normativo, tecnologico e socio-politico. Il primo livello si riferisce alle leggi che hanno regolato e regolano il sistema televisivo: ad esempio, come e quando è stato permesso l'accesso all'etere delle emittenze private o come verrà regolamentato il sistema televisivo nelle prospettive del digitale e della 'convergenza', da intendersi come mix tra televisione, Internet, cellulari, ecc. Il secondo livello, in qualche misura connesso con il precedente, ha significato, nel passato, l'adozione di un particolare sistema di televisione a colori (PAL, Phase Alternate Line) e vorrà dire, nel futuro, il possibile e maggiore utilizzo di sistemi di trasmissione via satellite o cavo. Il terzo livello, molto rilevante in Italia, è consistito nel continuo e pesante intervento dei partiti e dei politici nella gestione dell'emittenza pubblica o nel particolare utilizzo della comunicazione politica nel periodo elettorale.
Considerare tutti questi livelli vorrebbe dire allargare la riflessione oltre i limiti di spazio qui consentiti, ma è bene tenere presente che senza approfondire questi aspetti l'analisi della produzione televisiva resta piuttosto superficiale.
2.Breve profilo storico della televisione italiana
Una breve storia della TV italiana corre il rischio di restare troppo schematica, di limitarsi a elencare programmi e personaggi senza dare il senso di quanto è realmente avvenuto nel tempo. È ciò che accadrebbe se considerassimo alcuni programmi, presi a epigrafe di un anno o di un periodo, senza tener conto di come essi siano la risultante di processi ideativi diversi (chi lancia un'idea ha lavorato con altri, si è ispirato a ciò che si è già fatto, ecc.). Ogni programma è, a ben vedere, la trasformazione di alcuni generi o di alcune storie che ritornano nel tempo riscuotendo sempre grande successo. Facciamo alcuni esempi.
Quante volte abbiamo assistito a un programma in cui un conduttore premia con molto denaro le abilità (non eccezionali) delle persone 'comuni' o a un altro in cui uno sconosciuto diventa famoso per come canta, recita, balla, ecc.? Storie diverse che riproducono il mito di un possibile e apparentemente facile successo per chiunque lo voglia. Un successo che si traduce in denaro o celebrità grazie all'intervento di un 'potente' buono e amico; il conduttore del programma incarna e rappresenta il potere dell'emittente che può distribuire abbondanti risorse o risolvere qualsiasi problema affettivo o pratico. La TV può riuscire in qualsiasi cosa, è il naturale ed efficiente tramite con il potere che può dispensare ciò che appare importante in quel particolare contesto sociale.
La televisione, nei suoi programmi di maggior successo, è sempre la proiezione di alcuni sogni individuali o collettivi. Ad esempio, una fiction che insiste sulle tribolazioni e i problemi di un fedele servitore dello Stato (sia esso un carabiniere, un poliziotto o un medico) che soccorre i deboli proteggendoli dalle angherie dei potenti o dai colpi avversi del destino, che fa trionfare il bene sconfiggendo i cattivi, rappresenta al tempo stesso il sogno di un'organizzazione sociale buona e la legittimazione del suo esistere, anche quando la realtà si presenta come problematica e complessa. In questa società - così come descritta dalla televisione - si può vivere come si vorrebbe e i problemi, le contraddizioni, possono essere risolti, cosa che invece non è sempre possibile nella realtà. Il mondo rappresentato in televisione permette a tutti di raggiungere ciò che è ritenuto importante. Lo stesso avviene quando la gente comune diventa protagonista di programmi in cui parla dei propri fatti personali e delle proprie preoccupazioni o viene intervistata, per strada, sui problemi del giorno: in tutte queste situazioni sembra rappresentarsi idealmente il valore di una democrazia partecipativa in cui tutti 'contano' e possono esprimere il loro parere.
E si potrebbe continuare con molti altri esempi di format e di grandi narrazioni che la TV riprende giorno dopo giorno. La TV è flusso continuo di stimoli, suggestioni e rimandi che sono come un fiume che scorre impetuoso e non può essere fermato per analizzarlo. Ciò che scorre ha, spesso, tempi troppo rapidi per essere compreso in profondità, tanto che ci si limita a descriverne gli aspetti esteriori (il perché del successo di un personaggio, i dati di ascolto, ecc.) senza preoccuparsi di ciò che resta nella memoria collettiva e nell'immaginario individuale. Così spesso non ci si accorge subito che una particolare trasmissione o un particolare personaggio sono un prodotto importante al punto da influenzare - sia pure in misura modesta - il gusto e il senso comune del tempo. A ciò si aggiunga che i prodotti televisivi sono a rapida obsolescenza: in tempi molto ravvicinati si dimentica ciò che ha avuto successo anche poco tempo prima. Può, così, avvenire di avere un vago ricordo di un programma o di un personaggio senza la possibilità di ricostruirlo a posteriori se non in modo del tutto generico e secondo il gusto del momento.
Quindi una breve storia della TV di un certo paese non può che segnalare scansioni o proposte 'aperte' - e sempre discutibili - di periodizzazioni che possono essere modificate o interpretate, da altri studiosi o in tempi successivi, in modo almeno parzialmente diverso. Anche per questo è bene evitare di ricostruire una storia del paese o della sua cultura utilizzando, esclusivamente o in modo eccessivo, il materiale televisivo o mediale. Quanto ha avuto una rappresentazione mediale è una componente importante ma non esclusiva (e, in certi casi, perfino alquanto deformante) dei fatti sociali e delle loro cause.
La nostra proposta considera la breve storia della televisione italiana suddivisa in tre periodi (la paleo-televisione, la neo-televisione e la televisione del digitale) e suggerisce alcuni filoni di lettura, utilizzando solo pochi esempi a scopo illustrativo.
a) Dagli inizi agli anni settanta: la paleo-televisione
La TV nasce nel nostro paese nel gennaio del 1954 dopo un breve periodo di sperimentazione. Ha un solo canale e, ovviamente, è in bianco e nero. All'inizio ha pochi spettatori e gli altri media le dedicano un'attenzione modesta: non comprendono cosa sarebbe diventata nel giro di pochi anni. Eppure, nel mondo, la televisione è già un fenomeno di massa: nello stesso anno, negli Stati Uniti si contano già circa trenta milioni di televisori. La miopia degli altri media e dell'opinione pubblica è anche giustificata dalla scarsissima promozione fatta della RAI (Radio Audizioni Italiane) e dalla assoluta modestia della presentazione.
Qualcuno ha parlato - allora e in seguito - di radio con le immagini: una cattiva definizione, indicativa dell'assoluta sottovalutazione del fenomeno. Ciò che nel giro di pochi anni avrebbe mutato il gusto e determinato il consumo culturale degli Italiani nasce quindi in sordina. Volutamente. Non è chiaro se per sottovalutazione del fenomeno o per un certo timore dei suoi possibili effetti. Forse è questo timore che spinge i suoi primi dirigenti, di matrice cattolica, a sposare la linea del servizio pubblico (lo stile perseguito dalla BBC - British Broadcasting Corporation - dai tempi della radio, che fino agli anni quaranta rappresentava il mezzo principale nel sistema mediale) che si compendia nell'obiettivo di educare, informare, divertire: in questo ordine e con una forte accentuazione della missione pedagogica del mezzo.
Fin dal palinsesto del primo giorno e, poi, nel corso dei primi anni, questo appare il compito fondamentale assegnato al nuovo mezzo. Lo si capisce considerando i programmi più impegnativi del tempo, come i grandi sceneggiati tratti da opere letterarie di buon livello, i quali sono di grande efficacia divulgativa: da La cittadella a Mastro Don Gesualdo, da Il mulino del Po a Cristoforo Colombo, a La freccia nera, ecc.
Anche i quiz devono essere divertenti ma istruttivi: Lascia o raddoppia parla di cultura, sia pure in pillole. Si premia comunque il personaggio più istruito e non quello più stravagante. In questa prospettiva all'informazione si chiede di essere obiettiva e non di parte, anche se tutto si confonde con l'ufficialità e una qualche dose di conformismo. Si parla di politica e di ciò che il governo ha deciso, ma senza eccessivi approfondimenti e senza spazio per le opinioni divergenti.
La TV italiana è una madre buona ma senza troppe indulgenze. Così fa divertire con gli spettacoli e la musica, ma soprattutto con lo sport, che diventa da subito argomento centrale nei suoi programmi. Le tentazioni sono del tutto bandite sia negli argomenti trattati, sia nelle immagini, che sono assolutamente castigate. La TV italiana è una madre attenta che apre con grande cautela al consumismo: Carosello è una raccolta di favole a cui si accosta (quasi con pudore, nel 'codino', senza riferimento alla storia) il suggerimento di marche e prodotti non troppo impegnativi come costo e non troppo ostentativi. Ma, non a caso, subito dopo i piccoli devono 'andare a nanna', così come fanno anche non pochi adulti nelle campagne.
La funzione pedagogica è forte anche quando è indiretta. Un risultato, sicuramente positivo, è stato quello di avere imposto la lingua nazionale in un paese ancora caratterizzato dal diffuso utilizzo dei dialetti. Molto importante è stata anche la spinta ad allargare l'orizzonte geografico e culturale di una gran parte degli Italiani non abituati a viaggiare: quegli Italiani che sono stati nella loro vita (salvo eccezioni come il viaggio di nozze o il servizio militare) solo a qualche decina di chilometri dalla loro casa e che di città come Roma, Milano, Venezia, ecc. hanno solo sentito parlare. Ma il forte influsso esercitato senza apparire è quello morale: i valori a cui ancorare i contenuti delle trasmissioni televisive sono quelli della tradizione cattolica e borghese. La censura vigila affinché non vi siano neppure allusioni alla trasgressione e al diverso. Guai a mostrare ballerine discinte, allusioni non pertinenti, suggestioni di un paese 'diverso', specialmente in campo politico e culturale.
Malgrado questa gestione attenta, il mezzo tende a imporre la sua specificità e la sua efficacia. La narrazione televisiva, la suggestione delle immagini, il potere seduttivo della musica si affermano rapidamente e con forza. Le immagini parlano di mondi lontani e di eventi 'in diretta' che si vedono 'come se si fosse lì', come non era mai successo fino ad allora.
Ormai la televisione si è affermata: essa è diventata un importante oggetto di riferimento. Alcuni attori o conduttori diventano personaggi e, insieme ai loro ospiti 'famosi' (attori del cinema, sportivi, ecc.), impongono involontariamente uno stile nel vestire, nel modo di parlare e comportarsi con gli altri nella vita quotidiana. Avviene che perfino i programmi di varietà sembrino moderni e fortemente innovativi a chi era abituato, fino ad allora, ad ascoltare soltanto la radio. C'è poi un'ulteriore novità: i giochi seguono le trasmissioni serie (ad esempio la divulgazione scolastica e culturale o le trasmissioni religiose) e viceversa. I fatti del mondo si mescolano con le notizie del nostro paese e con i suoi problemi narrati da alcune grandi inchieste televisive.
Alcuni criteri di valutazione più tradizionali entrano in crisi: ad esempio riguardo ad alcuni binomi quali cultura-divulgazione, spettacolo-intrattenimento, cultura alta-cultura bassa, ecc. Ha inizio il grande mix della programmazione televisiva e, più in generale, della cultura mediale. Solo la politica resta esclusa dal trattamento televisivo. I politici e la politica fanno scarse apparizioni sul piccolo schermo anche se hanno, invece, grande potere di controllo sul mezzo.
Ma la TV non è diversa dal paese in cui opera. Siamo ancora lontani dal benessere diffuso, l'istruzione è ancora una risorsa scarsa, le differenze economiche e culturali tra Nord e Sud o tra città e campagna sono ancora profonde. Questo quadro muterà a causa di importanti fenomeni sociali. Ad esempio, il fenomeno migratorio sposta milioni di contadini dalle campagne del meridione verso le grandi città del Nord. Lo scenario dominante è quello delle grandi città, i ritmi e i modelli di vita sono quelli della società industriale. Ha luogo uno strisciante ma fortissimo cambiamento nelle usanze e nel costume. Esso riguarda soprattutto le donne e i giovani, e spesso si accompagna e si realizza nel consumo di oggetti e prodotti simbolo del nuovo che avanza. Il consumismo è una tentazione difficilmente evitabile per chi era stato povero fino a pochi anni prima.
La TV accompagna questo imponente cambiamento socio-culturale: la rappresentazione sul piccolo schermo di tutto quanto sta avvenendo nel paese è uno specchio importante, capace di convincere molti Italiani che sono nel solco della storia e stanno partecipando a una straordinaria avventura.
Non a caso nel 1961 è necessario introdurre un secondo canale per poter meglio rispondere alla grande domanda insieme televisiva e di modernità. Il secondo canale avrebbe potuto variare l'offerta, distinguendo, ad esempio, tra prodotti di qualità e altri a carattere più popolare. Così non è stato. E questo ha introdotto uno dei difetti permanenti del sistema televisivo italiano, e cioè la mancata differenziazione dei suoi contenuti secondo i diversi canali e le varie emittenze.
Lo slogan 'educare divertendo, divertire educando' che partiva dalla vocazione pedagogica dell'emittenza pubblica si andò stemperando, con il passare del tempo, nel discorso pressoché centrato sul solo divertimento, anche se non volgare. Così le trasmissioni di punta del periodo furono soprattutto gli spettacoli leggeri (varietà, musica pop) e l'informazione. Non mancarono programmi di qualità, ma nel complesso la produzione si avviò a essere quella che avrebbe dato luogo, qualche anno più tardi, alla televisione generalista, alla televisione dell'evasione e dello spettacolo. Le tematiche sociali e politiche vennero man mano espunte. Un caso clamoroso fu una Canzonissima (1962) nella quale un accenno ai problemi degli incidenti sul lavoro significò l'allontanamento di due attori famosi come Dario Fo e Franca Rame.
Nel frattempo il pubblico andava crescendo e la televisione era diventata una specie di appuntamento fisso nelle abitudini degli Italiani. In due sensi: il primo era quello di stabilire scadenze orarie intorno alle quali si andò organizzando la vita quotidiana e familiare di larga parte del pubblico. Ad esempio, il TG della sera (alle ore 20) fissò anche l'ora della cena, al di là delle differenze geografiche e culturali. Ma la TV divenne anche un appuntamento collettivo, quello degli eventi o delle grandi "cerimonie dei media" (v. Dayan e Katz, 1992): quei momenti in cui un larghissimo pubblico assiste in diretta a importanti avvenimenti di grande rilevanza sociale; momenti in cui tutti gli spettatori sentono di partecipare a una sorta di rito collettivo di cui percepiscono il significato simbolico, provando forti emozioni: ad esempio, le telecronache relative all'alluvione di Firenze (1966) o la notte dello sbarco sulla Luna (1969).
La televisione diventa così un referente sempre più importante nella vita quotidiana e culturale degli Italiani. Alla fine degli anni sessanta due eventi caratterizzano la 'storia' della televisione italiana. Il primo è la definitiva spartizione del potere tra i vari partiti politici. Nel 1968 un noto giornalista (Alberto Ronchey) usò per la prima volta il termine 'lottizzazione'. All'opposto, nel campo dei privati, iniziano a comparire le prime minuscole televisioni locali. Telebiella è la prima televisione a livello provinciale e Telemontecarlo è il primo tentativo di trasmettere dall'estero in lingua italiana. È l'inizio della crisi del monopolio pubblico, sancito definitivamente nel 1975 dagli interventi della Corte Costituzionale che diedero il via al sorgere e all'espandersi dell'emittenza privata, fino ad allora non abilitata a trasmettere in diretta sull'intero territorio nazionale.
Negli anni settanta la televisione, ancora monopolio pubblico, migliora la sua organizzazione. Si divide al suo interno tra reti e testate giornalistiche. Al finire del decennio nasce la terza rete RAI. I programmi di punta sono quelli dell'informazione (anche come tentativo di approfondire alcune tematiche socio-politiche al di là dei brevi spazi dell'informazione dei TG), le trasmissioni sportive, i programmi per i ragazzi. Il genere di spicco resta quello dei grandi sceneggiati televisivi. La cittadella (tratto da un romanzo di Archibald Cronin) è uno degli ultimi esempi della trasposizione televisiva di un'opera popolare ma di grande qualità, presto seguita da altri prodotti di grande rilievo come gli Atti degli Apostoli (in cui debuttò in TV un grande regista come Roberto Rossellini), l'Eneide, Pinocchio, ecc. Inoltre incominciò ad avere largo spazio nel piccolo schermo la produzione cinematografica, soprattutto di origine statunitense: vedere un film divenne sempre più, da questo momento, il genere preferito da un largo pubblico.
Sempre in questo periodo, vi furono altri due fenomeni televisivi di grande rilevanza. Il primo fu la scelta del sistema PAL, che introdusse il colore sugli schermi televisivi. Questa scelta privilegiò la produzione anglo-americana rispetto a quella europea, ma fu comunque un avvenimento che avvicinò ancor più il pubblico al consumo televisivo. Il secondo fenomeno, che invece ebbe esito negativo, fu quello dell"accesso'. L'idea di permettere a gruppi - più o meno organizzati - di trasmettere programmi da loro stessi curati in cui esporre le loro proposte in campo socio-culturale aveva l'obiettivo di dare più spazio a chi, normalmente, 'non ha voce' in TV. Anche a causa dello scarso impegno ideativo e produttivo dell'emittenza pubblica, tali programmi furono un grande insuccesso: erano noiosi, verbosi, occasione di immediato allontanamento dal piccolo schermo dell'utente, che veniva aggredito con tematiche impegnative (ma spesso trattate oscuramente) subito dopo aver assistito a un programma 'leggero', meno impegnativo e sicuramente più coinvolgente.
Gli anni settanta vedono la fine del periodo della paleo-televisione, che può essere fatto coincidere con la sostituzione di Carosello con brevi spot. Era la fine della televisione pedagogica che, anche a proposito delle tematiche del consumo, aveva usato un tono lieve e rispettoso dei valori tradizionali di un'Italia ancora ben lontana dall'essere una società cosmopolita.
b) Dagli anni ottanta a oggi: la neo-televisione
Non è un caso che questo periodo inizi con l'affermazione dell'emittenza privata, della pubblicità e della società dei consumi. È l'inizio di un periodo in cui la televisione perde la sua funzione pedagogica per diventare oggetto di consumo culturale. Ogni emittente deve operare sul mercato, deve conquistare e difendere il suo pubblico. Per farlo deve 'spettacolarizzare' la sua offerta, renderla più appetibile a quel largo pubblico richiesto dai pubblicitari e dai loro investimenti. E per raggiungere questo obiettivo diviene lecito e necessario tentare qualsiasi cosa.
Spettacolo e consumo sono i canali per cui passa una sorta di 'americanizzazione' della cultura italiana, soprattutto quella televisiva. Si impongono valori quali il successo, il guadagnare bene, l'avere un elevato standard di consumi. È uno spostamento fondamentale del baricentro nella vita degli Italiani: conta sempre più la sfera del privato, contano sempre più i propri bisogni o desideri. Il resto conta poco. In particolare contano poco la politica e la morale. Gli Italiani sono pronti a cambiare e la televisione suggerisce loro molti modelli di comportamenti e alcuni 'stili di vita' di grande successo. L'individualismo è ora la chiave per leggere il comportamento degli Italiani più abbienti. Nel corso della loro storia, gli Italiani non hanno mai mostrato un grande attaccamento al sociale (considerato il luogo dei potenti), ma adesso il sociale, e in particolare la politica, sono considerati qualcosa da guardare più con distacco che con sospetto. L'imperativo fondamentale diventa quello di 'avere' più che quello di 'essere': per molti l'impegno è soprattutto quello di avere per 'apparire'.
Ma la neo-televisione si caratterizza soprattutto per la fine del monopolio pubblico; l'emittenza privata si è andata progressivamente concentrando nelle mani di un solo imprenditore. Nei primi anni ottanta Italia1 e Rete4 si aggiungono a Canale5 e diventano una sola azienda. La Fininvest (poi Mediaset) si affianca alla RAI e ne mette in crisi il primato negli ascolti e nel successo tra coloro che cercano divertimento e programmi non impegnativi. L'emittenza privata si sostiene mediante la pubblicità. Nel corso del 1985 vengono trasmesse, sul territorio nazionale, oltre 3.500 ore di spot pubblicitari. Un affollamento quasi ai limiti del possibile.
Nel 1986 compaiono le prime ricerche con il metodo di rilevamento dell'ascolto Auditel. È un metodo statistico di grande affidabilità, ma l'uso che ne è stato fatto è diventato progressivamente sempre meno corretto, sino a trasformarsi in una minaccia per i programmi non pensati per il grande pubblico. L'Auditel, in tempo quasi reale, dice quanti spettatori ha avuto una trasmissione e in questo modo può decretarne il successo o l'insuccesso al di là del suo valore effettivo. Il semplice dato del numero di spettatori (senza tener conto delle loro caratteristiche socio-culturali e del loro gradimento) diventa l'unico parametro per giudicare e valutare una trasmissione. È evidente che a perdere siano i programmi più impegnativi e innovativi. Per chi produce programmi diventa obbligatorio tentare di raggiungere un grande pubblico e per farlo è utile qualunque mezzo: negli anni, la strada più battuta è stata quella di produrre messaggi semplici e spettacolari, rifuggire da ogni tipo di contenuto impegnativo, ottenere immediati e facili effetti (far ridere o commuovere). Il grande terrore, per chi fa e conduce i programmi televisivi, è suscitato dal nuovo potere dell'ascoltatore, consistente nell'usare il telecomando per passare da canale a canale. Lo zapping è la pratica dello spettatore annoiato: è la sua ricerca verso qualcosa che soddisfi le sue aspettative o il suo gusto. Si instaura, così, un patto perverso tra emittente e ricevente: lo spettatore deve essere accontentato o comunque blandito. Lo si deve cercare facendo pubblicità all'interno della stessa rete, inducendo i giornali a parlare di quello che si metterà in onda. Si presenta ogni programma come se fosse un evento irripetibile e quindi da non perdere.
Molto muta nei modi discorsivi della programmazione televisiva lungo tutti gli anni ottanta, anche per merito dell'emittenza privata (ad esempio, una trasmissione come Drive in rappresenta un'autentica novità); i tempi sono stretti, come ormai tipico della neo-televisione, gli inserimenti pubblicitari quasi una naturale prosecuzione di un testo fatto di rapide battute e immagini coloratissime. All'opposto, l'emittente pubblica tenta di trovare qualche strada nuova: ad esempio si impegna nella cosiddetta 'televisione verità', un genere che tenta di recuperare il sociale, i problemi veri della gente, nel flusso ininterrotto dello spettacolo televisivo. Da qui si origina il cosiddetto reality-show, che può essere di molti tipi. La realtà può essere affrontata come 'servizio pubblico' (parlando di problemi reali), come perverso utilizzo delle emozioni di personaggi che dichiarano i loro problemi d'amore davanti alla telecamera, o infine utilizzando lo scherzo nei riguardi di personaggi pubblici, che non sanno - o fingono di non sapere - di essere ripresi da qualche telecamera nascosta. Di lì a qualche tempo il reality-show si celebrerà come svolta assoluta nella programmazione televisiva, utilizzando molte telecamere che riprendono 24 ore al giorno la modesta vita quotidiana di poveri ragazzi (in cerca di celebrità e di denaro) chiusi dentro una finta casa: il Grande fratello è il trionfo della falsa realtà, dello spettacolo che utilizza la psicologia di alcuni ingenui ragazzi che pensano di diventare importanti e famosi apparendo sul piccolo schermo, non importa in che modo. Diventare 'famosi' sembra essere l'imperativo per chi cerca una scorciatoia per uscire dall'anonimato e avere successo e denaro. Del resto, il successo sembra essere il miraggio e la condanna di tutti coloro che appaiono in TV. E anche l'ossessione dei grandi professionisti che, sicuri del loro carisma, conoscono, a volte e improvvisamente, tracolli da cui pochi sembrano capaci di riprendersi. Per i pochi che hanno saputo risalire la china (Baudo, Fiorello, ecc.), molti altri sono scomparsi definitivamente. Il successo televisivo è effimero. Può durare anche solo pochi giorni.
La grande svolta, nel corso degli anni Novanta, si accompagna con il nuovo assetto di Mediaset, 'macchina da guerra televisiva' sempre più organizzata. Questa sembra avere buon gioco contro l'emittente pubblica, che è sovraccarica di personale inutile e sempre preoccupata di non ledere nessun interesse politico. Il nuovo scenario conosce una sorta di celebrazione sociale con l'ingresso in politica del proprietario di Mediaset, che diventa personaggio politico dopo essere stato un grande imprenditore televisivo. È un'anomalia italiana che fa qualche proselitismo anche in altri paesi.
La cosa è ancor più singolare se si pensa che l'unica tematica rimasta estranea alla grande sbornia di realtà era stata proprio la politica. Con Silvio Berlusconi e il nuovo scenario televisivo, la politica diventa politica-spettacolo. La sua 'discesa in campo' è favorita da circa 1.000 spot che in poche settimane lo impongono, dal nulla, come un personaggio politico di primo piano.
La televisione è adesso il principale referente nella vita quotidiana degli Italiani ed è la fonte privilegiata di quei contenuti che fanno la 'cultura della contemporaneità'. Da questo momento in poi è importante quello che dicono i media, sono credibili i loro personaggi, i loro pareri, il modo di presentarsi ed essere. Le cose di cui si parla, le mode, sono tutte di provenienza televisiva. Ciò produce un progressivo appannamento dei valori tradizionali, delle radici culturali di gran parte degli Italiani. Ciò di cui ci si interessa, gli argomenti trattati anche dagli altri media, è tutto quanto è già apparso in televisione. È il caso del successo improvviso e a volte misterioso di qualche programma (si pensi, ad esempio, al caso dei programmi di satira politica) o della grande stagione degli sceneggiati televisivi (che attirano un largo pubblico: dalla Piovra al Maresciallo Rocca, da Un prete tra noi a Commesse, per finire con le inchieste del commissario Montalbano) in cui trionfano i 'buoni sentimenti'. Programmi in cui sacerdoti e medici al limite della santità, poliziotti e carabinieri sagaci ma assolutamente semplici e alla mano risolvono casi complicati, tutti culminanti in un immancabile lieto fine. Accanto a loro, la gente comune: commesse, parrucchiere, ecc., che soffrono drammi d'amore molto simili a quelli che le loro mamme leggevano nei fotoromanzi degli anni cinquanta, o le loro antenate nei feuilletons del secolo scorso.
Ma a connettere tutti questi microeventi televisivi sta la quotidianità intessuta da conduttori e conduttrici, che narrano modeste vicende di gente qualunque (protagonista per un giorno) al loro pubblico, che blandiscono parlando a bassa voce dal video o cercando tramite il telefono un improbabile e spesso inutile coinvolgimento. Non a caso sempre più forte è lo spazio delle piccole storie della pubblicità televisiva che parlano di persone felici e realizzate nel consumo, che risolvono i loro problemi grazie al magico potere di alcuni prodotti. Tutte queste storie hanno spesso i tempi veloci e l'andamento narrativo dei video-clip. Non esistono più programmi, ma un flusso ininterrotto di sequenze, apparizioni di breve durata, richiami ad altri programmi, ecc.
I palinsesti televisivi sono ormai una scansione di appuntamenti per fasce orarie in cui si succedono, senza soluzione di continuità, programmi mescolati alla pubblicità o a promozioni di altri programmi. Il palinsesto diventa, anziché una struttura ordinata di programmi, il luogo della battaglia tra le reti televisive. Una guerra combattuta senza risparmio di colpi, specialmente in alcuni momenti della giornata televisiva: ovviamente nel prime time, ma anche subito prima e subito dopo i TG della sera, nel primo pomeriggio, in cerca di un pubblico prevalentemente femminile, ecc. L'insieme dei palinsesti televisivi è, così, un flusso ininterrotto che occupa tutta la giornata; inoltre al loro interno tendono a scomparire le differenze di genere e format. In qualche caso (si pensi ai programmi 'contenitore', come quelli della domenica pomeriggio) spezzoni di generi diversi (giochi, canzoni, interviste, ecc.) si susseguono senza soluzione di continuità. Si devono creare nuovi termini per definire questo combinarsi e trasformarsi dell'offerta televisiva. Il più usato, ad esempio, è infotainment, per indicare un'informazione ad alto tasso di spettacolarità, come avviene in alcuni animati dibattiti televisivi (dove è impossibile seguire ciò che vi si dice per il sovrapporsi delle voci) o in certi programmi del pomeriggio dove il pettegolezzo sui divi dello spettacolo, della canzone e dello sport è l'argomento prevalente. Tutto ciò dà luogo, in certi casi, ad accostamenti quanto meno bizzarri. Allo spettatore non resta che cercare una logica o un significato a livello soggettivo saltando da rete a rete, oppure ricorrere sempre più a immagini precedentemente registrate o a prodotti cinematografici acquistati o trovati come gadget nei periodici.
Come si è già detto, sembra impossibile trarre considerazioni definitive e non opinabili sull'incredibile accumulo di prodotti televisivi che riempiono i magazzini delle emittenti pubbliche e private. Forse questo materiale potrebbe servire per una storia dell'immaginario collettivo e individuale degli Italiani: le immagini televisive sono quelle che affollano la loro fantasia, sempre più modellata sulla realtà verosimile, ma non effettiva, delle narrazioni televisive.
Di fronte a questo inarrestabile flusso, allo spettatore della neo-televisione non resta che costruirsi il suo percorso di lettura: nell'uso del telecomando è il suo potere. Per molti che lo usano intelligentemente, molti altri ne fanno un uso casuale, dominato più dalla curiosità superficiale che non da una razionale voglia di esplorare il possibile. In questo modo, il caos del flusso televisivo si tramuta nella memoria casuale e frammentata dello spettatore. Ormai il patto tra un'emittente che offre programmi per tutti i gusti e gruppi particolari di riceventi, che scelgono secondo il loro gusto, è saltato. Questo caos dell'offerta e del consumo si configura come una sorta di guerra tra un'alluvione di messaggi e un ricevente che, al limite della saturazione, fa sempre più fatica a trovare un ordine di priorità in ciò che vede. In questo modo gli appare sempre più difficile distinguere tra certi programmi, che si potrebbero definire belli o di successo (anche se spesso le due cose non coincidono) e quanto, invece, lo induce progressivamente a una grande noia o alla tentazione di abbandonare il piccolo schermo. Tentazione che, all'inizio di questo secolo, comincia a essere molto diffusa e pone ulteriori problemi ai produttori-ideatori televisivi, costretti tra i limiti di budget e la necessità di conservare il loro pubblico. In non pochi casi si è assistito a programmi di scarsissimo successo, il cui costo troppo elevato ha portato alle soglie del dissesto sia l'emittenza pubblica che quella privata. Tutto ciò suona come l'inizio di una crisi che sembra attanagliare la cosiddetta 'TV generalista' di questi anni, la quale sembra offrire sempre più un rumore di fondo anziché un appuntamento preciso e carico di promesse con un determinato programma. Non a caso, molti parlano di un uso radiofonico della TV: la televisione che fa compagnia solo perché è accesa e che viene guardata davvero solo quando qualcosa (magari una sequenza, se non un'immagine) attrae l'attenzione, come nel caso degli appuntamenti obbligati (le notizie dei TG) o dei grandi eventi televisivi (il Festival di Sanremo, le Olimpiadi, i risultati elettorali, ecc.).
3. La grande affabulatrice
La breve e un po' tumultuosa storia della televisione italiana ci permette di entrare più nel merito della specificità del mezzo televisivo. Abbiamo già detto che la televisione è la grande story-teller, ossia la grande affabulatrice della maggior parte delle storie che interessano e seducono il pubblico. Un intrecciarsi di storie in cui i protagonisti della realtà si affiancano a quelli immaginati dagli autori televisivi. È un mondo che parte da luoghi e situazioni esistenti per costruire intrecci verosimili ma non reali. Ad esempio il 'lieto fine' deve essere la regola, così come la simpatia dei personaggi, la bellezza dei luoghi e degli oggetti catturati da immagini di grande spettacolarità. Lo spettatore è immerso in un mondo dove la sua realtà si mescola con la 'quasi realtà' della televisione: egli crede di conoscere davvero personaggi che invece ha visto unicamente in TV, così come crede di essere stato in luoghi che sono solo lo sfondo di film per il grande o il piccolo schermo. Ma più che i contenuti, diventano sempre più rilevanti i 'modi discorsivi' con cui le storie sono raccontate. Questi modi del narrare, che sono immediatamente comprensibili e affascinanti, lasciano spazio allo spettatore per entrare nelle trame e negli intrecci mettendoci qualcosa di personale; egli non si limita semplicemente a vedere le storie, ma le riscrive con la propria sensibilità, con i propri sentimenti e valori. Il fruitore degli spettacoli televisivi è un 'co-autore' (v. Eco, 1979) delle fiabe televisive. Per questo si può affermare che lo spettatore televisivo non è passivo ma attivo. È attivo perché sceglie alcuni programmi (o reti) e altri no. È attivo perché decodifica e interpreta ciò che vede secondo schemi cognitivi che ha messo a punto in precedenza sulla base della sua biografia e della sua esperienza come spettatore multimediale. In questa prospettiva, 'essere attivi' non vuol dire essere attenti, critici o esegeti dei contenuti mediali, ma, più semplicemente, saper scegliere e valutare, nella sterminata offerta multimediale e televisiva, ciò che è più vicino ai propri interessi e al proprio gusto. Non a caso le ricerche empiriche più recenti parlano di 'stili di consumo mediale'. Questi stili sono indicativi delle scelte di fondo che ogni spettatore televisivo va compiendo giorno dopo giorno. C'è chi ha un consumo differenziato e di qualità, spaziando tra diversi media (giornali, libri, ecc.), e chi invece ha un consumo molto più modesto orientato a un solo mezzo (in genere quello televisivo). C'è chi sceglie tra prodotti di qualità e chi si rivolge, prevalentemente, a consumi monotematici come la musica, lo sport, ecc. Il consolidato stereotipo del 'pubblico di massa', ossia un pubblico indifferenziato e omologato nei suoi gusti, viene in tal modo smentito: le ricerche empiriche mostrano infatti una grande varietà di stili di consumo multimediale e anche televisivo.
La necessità di 'conoscere il pubblico' per scopi commerciali (a quali tipi di pubblico parlare attraverso quali mezzi) ha prodotto una grande quantità di ricerche in questo campo. Non è possibile darne conto rapidamente, ma è emblematico il caso della ricerca Auditel. Attraverso una sofisticata apparecchiatura tecnologica - che vede l'inserimento di uno strumento (meter) nel televisore di un campione di oltre 5.000 famiglie italiane - questa ricerca rende possibile rilevare in tempo reale il comportamento di consumo dei diversi membri della stessa famiglia. Consolidate procedure statistiche permettono, quindi, di conoscere quante persone hanno assistito a un particolare programma, il loro differenziarsi per sesso, età, condizione sociale, località geografica e stile di consumo. Già si è detto del particolare e perverso utilizzo di questi dati, impiegati specialmente per scopi giornalistici, per condannare o esaltare un particolare programma o personaggio televisivo. L'insieme di questi dati permetterebbe, invece, di valutare meglio quali siano le tendenze di consumo di cui si tiene poco conto, di non considerare come insuccessi televisivi prodotti di qualità che raggiungono molte centinaia di migliaia di spettatori (molti di più di quanti se ne potrebbero raggiungere con qualunque altro mezzo), ma, soprattutto, di valutare le differenze di consumo e di gusto tra giovani e anziani, uomini e donne, colti e meno colti, abitanti in grandi città o in sperduti paesi, ecc. Il cattivo uso di questi dati è il sintomo che il consumo televisivo è sempre più appiattito sulla quantità anziché sulla qualità. Molti produttori e autori televisivi ritengono che l'utenza sia composta di persone di scarsa cultura e di gusto modesto. Già molti anni fa un noto dirigente televisivo affermava che il pubblico televisivo è come un quattordicenne poco informato del mondo che deve essere educato o incantato. È un errore, oggi ancora più grave, che potrebbe essere causa di una crisi irreversibile per la televisione dei prossimi anni, tradizionale o generalista, che si dovrà confrontare con un pubblico sempre più evoluto e critico. Molti si rifiutano di considerare che, già da oggi, tra i successi o i casi televisivi accolti con maggior favore vi sono stati prodotti di grande intelligenza e basso costo. Anziché ripetere gli stessi format all'infinito si dovrebbe scegliere la strada di una pacata ma decisa innovazione. Non è un caso che la parte più colta degli spettatori stia rivolgendosi ad altri mezzi o abitudini di consumo culturale, utilizzando la televisione come 'riempitivo' di basso livello del proprio tempo libero.
Di grande interesse sarebbe anche poter disporre di dati sulla 'soddisfazione' (o gradimento) del pubblico rispetto ai diversi generi-format dei programmi televisivi. Così come sarebbe interessante analizzare motivazioni e modalità di consumo (dove e con chi). Prospettive di studio molto attuali e che potrebbero offrire nuove indicazioni sul significato più profondo del cosiddetto consumo televisivo.
4. Generi e linguaggio
Anche per la televisione, così come accade per altri tipi di linguaggi e di prodotti mediali e non, il 'genere' (quello che comunemente si definisce 'tipo di programma') permette di avere indicazioni di grande interesse sull'offerta televisiva.
Almeno tre sono le aree semantiche del termine. In primo luogo, il genere consente di costruire tassonomie e di classificare contenuti e/o forme testuali ordinandoli a partire da tratti distintivi comuni. In questo senso il genere permette di identificare gli elementi invarianti, caratteristici e ricorrenti, come la particolare combinazione di personaggi, temi, scenografie, stili di conduzione, durata, ecc. Ad esempio nelle storie western vi sono sempre sceriffi, cavalli, sparatorie; nei giochi a premi televisivi vi è sempre un conduttore, una valletta, dei quesiti, e così via.
In secondo luogo, il genere funziona come immediata proposta di comunicabilità, in quanto consiste in un sistema di regole a cui gli autori del testo fanno riferimento in modo tale che sia evidente allo spettatore come decodificarlo, quale significato dare a quel programma. Il genere agisce, in questo caso, come un sistema di attese per i destinatari e come modello di produzione per gli emittenti, rendendo possibile che la comunicazione tra i due poli proceda su un terreno comune. Da questo punto di vista il genere coincide con l'insieme delle strategie comunicative di una trasmissione e suggerisce i modi più adeguati per leggerla (v. Grasso, 1992). Si pensi a come ci si predispone verso i programmi dell'informazione quando si aspettano o si temono cattive notizie. O si pensi a come si segue un racconto poliziesco stando attenti ai dettagli che si ritiene possano essere rilevanti o a come si comporta l'investigatore.
In terzo luogo, il genere è una costruzione culturale; ciò significa che i suoi confini non sono necessariamente fissi, ma possono mutare nello spazio (la serialità statunitense è molto diversa dallo sceneggiato italiano) e nel tempo (il varietà degli anni sessanta è assai lontano dagli esempi attuali).
Il punto di vista tassonomico è forse quello meno fecondo per mettere in luce le caratteristiche della televisione: di fatto le tipologie attraverso le quali classificare i programmi sono state numerosissime e spesso in discordanza tra loro. Non va dimenticato, poi, che la televisione ha ampiamente adottato formule appartenenti ad altri mezzi - dalla radio al cinema, alla carta stampata -, generando così degli incroci e una stratificazione molto complessa di classificazioni. Può essere più utile, invece, ragionare intorno ai concetti di comunicabilità e di convenzione culturale, in modo da verificare i processi di evoluzione del linguaggio televisivo e del ruolo sociale del mezzo stesso.
Molti fattori hanno progressivamente condotto a una contaminazione dei generi tradizionali: ad esempio l'indebolimento del mandato istituzionale del servizio pubblico, il regime di concorrenza tra le reti, la ricerca di terreni nuovi su cui giocare la sfida degli ascolti, ma anche la definitiva 'alfabetizzazione televisiva' della gran parte degli spettatori e la sempre più problematica distinzione tra fatti reali e prodotti televisivi. Nascono così generi che coniugano l'oggettività della cronaca con i tratti dello spettacolo, come l'infotainment, o che applicano alla realtà una struttura narrativa mettendo in scena storie 'vere' di gente comune, come il reality-show. Questo tipo di ibridazione è possibile nel momento in cui i generi classici sono ormai sedimentati nella competenza del pubblico, ma segnala anche un nuovo statuto del mezzo: la neo-televisione si spinge oltre il puro ruolo di 'finestra sul mondo' per arrivare a essere non solo rappresentazione, ma anche 'costruzione' di realtà.
Va anche detto che attualmente il discorso sui generi, oltre che sulla loro progressiva commistione, si incentra sul ruolo svolto dai format (v. Creeber, 2001). È, quest'ulti-ma, una categoria strettamente legata alla produzione: il format consiste nella schematizzazione, quanto più possibile dettagliata, di una formula per la realizzazione di un programma. Mentre il genere può trovare una sua originalità anche come variazione all'interno di una sostanziale omogeneità, il format appare invece contrassegnato dall'uniformità, dall'essere sempre eguale a se stesso, come è anche chiaramente indicato dai diritti di copyright. In questo caso i cambiamenti, anche di uno o più elementi, comportano di fatto la costruzione di un nuovo format.
Gli studiosi si sono interrogati, spesso in contrasto tra loro, sull'esistenza o meno di una specificità del linguaggio della televisione, mostrandosi concordi almeno nell'attribuire alla TV l'indubbia capacità di trasformare i linguaggi tipici di altri media, e però ritenendola incapace di elaborarne originalmente uno proprio. Quindi la peculiarità del linguaggio televisivo consisterebbe nella sua capacità 'sincretica'.
Dalla radio, la televisione ha assorbito il modello del broadcasting, cioè un sistema comunicativo monodirezionale in cui un emittente istituzionale diffonde contenuti a una rete di terminali distribuita sul territorio, i cui utenti però non hanno la possibilità di interagire con l'emittente stesso. La televisione italiana, in particolare, ha seguito l'impostazione britannica, dove il broadcasting, radiofonico prima e televisivo poi, si regge sul finanziamento pubblico e svolge una funzione di servizio pubblico per i cittadini. L'altro aspetto della struttura radiofonica che ha fortemente influenzato l'organizzazione del sistema televisivo riguarda i generi. La televisione italiana, ad esempio, ai suoi inizi si è rifatta al modello commerciale statunitense, basato sull'intrattenimento seriale in grado di garantire un pubblico fedele e cospicuo, puntando sull'informazione e sugli sceneggiati di matrice letteraria o teatrale che avevano caratterizzato la precedente produzione radiofonica.
L'influenza del cinema si è manifestata soprattutto sul registro visivo e sulla 'narrativizzazione' dei contenuti. La TV ha mantenuto la denominazione delle varie inquadrature (campi, controcampi, soggettive, piani, e così via), ma ha elaborato una propria originalità visiva sia in funzione della quotidianità della sua fruizione, sia delle sue peculiari caratteristiche tecniche: lo schermo piccolo, ad esempio, consente solo alcuni tipi di inquadratura, o ha una minore definizione dell'immagine rispetto al cinema o alla fotografia.
Un altro elemento tipico del linguaggio televisivo è lo 'sguardo in macchina'. Il personaggio che guarda direttamente nello schermo interpella esplicitamente il fruitore e stabilisce con lui una relazione comunicativa diretta. L'effetto di verità che ne deriva esercita una forte influenza sull'articolazione dei generi televisivi, tracciando un confine tra verità e finzione che differenzia nettamente, ad esempio, l'informazione dalla fiction.
Dal punto di vista sintattico, un'ulteriore differenziazione rispetto al linguaggio visivo del cinema consiste nel montaggio. La quotidianità della televisione narrativizza i contenuti e ciò influenza sia il ritmo che l'articolazione delle immagini. Non si può imprimere allo scorrere delle immagini un ritmo eccessivamente rapido, perché ciò contrasterebbe con le modalità della fruizione televisiva. Il ritmo delle immagini televisive deriva anche dagli effetti elettronici (dissolvenza, intarsio, tendina, ecc., ben noti al linguaggio cinematografico) che separano un frammento narrativo dall'altro. Gli effetti digitali, molto più spettacolari, sono stati inizialmente utilizzati nelle nicchie sperimentali e innovative della programmazione televisiva - spot pubblicitari, video-clip musicali - e stanno sempre più estendendosi anche ad altre tipologie più tradizionali di testi, grazie all'abbassamento progressivo dei loro costi di realizzazione.
La capacità narrativa della televisione si manifesta chiaramente in due generi: nella fiction - dove si esplicita al massimo grado, in particolare nella forma della lunga serialità che esaspera la dimensione del quotidiano - e nel telegiornale, dove la ritualità dell'appuntamento quotidiano si unisce alla modalità narrativa di costruzione della notizia. Sia per l'informazione che per la fiction, la dimensione della quotidianità è essenziale per la costruzione narrativa delle storie. Nella fiction, essa si declina come la costante presenza di un dilemma che coinvolge due o più protagonisti di una storia e la cui soluzione è differita giorno dopo giorno. Nel telegiornale la quotidianità è costituita dalla routine di impaginazione e di produzione delle notizie che devono sempre sembrare riferite a fatti appena accaduti.
Infine, un'ultima componente del linguaggio televisivo che ne manifesta la capacità sincretica è la 'serialità'. Intesa come modalità narrativa, produttiva e di consumo, la serialità affonda le sue radici nell'essenza stessa della cultura popolare, dal racconto epico al feuilleton ottocentesco, alla soap opera radiofonica.
5. La produzione
Indipendentemente dal fatto che sia prodotto internamente o appaltato all'esterno, la realizzazione di qualsiasi programma televisivo passa attraverso tre fasi: la 'preproduzione', la 'produzione' e la 'postproduzione'. La preproduzione comprende l'ideazione, la scrittura e tutte le decisioni preliminari che preludono alla produzione vera e propria, identificabile con il momento delle riprese; la postproduzione riguarda invece il cosiddetto editing del programma, cioè l'insieme del montaggio, dell'inserimento delle componenti grafiche e sonore, e degli eventuali effetti speciali.
La produzione di un programma non ha la forma di un processo sequenziale, ma piuttosto quella di una struttura ad albero in cui determinati passaggi-chiave influenzano in maniera decisiva il successivo svolgimento del lavoro. Ogni funzione deve essere pianificata nei minimi dettagli, e ciò rende chiaramente evidente il meccanismo industriale che caratterizza il sistema televisivo nel suo insieme.
La fase di preproduzione inizia dalla sceneggiatura, che si articola in stadi di complessità crescente: il soggetto o concept, cioè l'idea del programma; il trattamento, cioè una descrizione dell'azione scena per scena, compresi i dialoghi; lo script, cioè la descrizione delle inquadrature necessarie per realizzare ogni scena; e infine lo storyboard, il disegno di ogni singola inquadratura. Il grado di complessità della fase di sceneggiatura dipende dal genere del programma: elevato per una fiction di prima serata, molto più semplice per una edizione del telegiornale. Si passa poi alla costituzione del team di produzione, composto da molteplici figure professionali (regista e suoi aiuti, direttore della fotografia, scenografi, tecnici, truccatori, addetti al casting, costumisti, ecc.) e in parallelo si predispone e si controlla costantemente il budget, tarandone le allocazioni secondo le esigenze di ogni reparto e dei tempi di realizzazione di ogni singola cellula produttiva. Qualunque sia il genere di programma da produrre, la meticolosità della fase di preproduzione è indispensabile per garantire uno svolgimento quanto più possibile fluido e regolare delle fasi successive. Il maggiore o minore sforzo organizzativo che prelude alla realizzazione del programma non è però in relazione alla sua durata. È noto, infatti, che gli investimenti e le professionalità coinvolti nella produzione di uno spot o di un video-clip sono spesso più elevati e complessi rispetto a programmi di durata molto maggiore.
La fase della produzione coincide con il momento delle riprese. Il grado di complessità di questa fase è determinato dal fatto che il programma sia in diretta o da studio. Nel primo caso, il lavoro del regista è molto più impegnativo, poiché la fase di postproduzione viene eseguita contestualmente al momento in cui le riprese vengono effettuate e mandate in onda. Nel secondo caso, le mansioni delle numerose figure professionali impegnate sono rigidamente specificate nelle quotidiane scalette di lavorazione.
La scansione dei tempi di ripresa varia notevolmente in funzione del genere del programma: il maggior dettaglio organizzativo riguarda la fiction di lunga serialità, massima espressione dei processi industriali del sistema televisivo, mentre all'estremo opposto si collocano programmi come il talk-show, il quiz o il telegiornale, dove le mansioni, una volta avviata la complessa macchina produttiva, assumono un carattere di routine.
La postproduzione si articola lungo una serie di tappe che coinvolgono parallelamente la fase del montaggio, la preparazione e l'inserimento della colonna sonora, il doppiaggio - se necessario - e la progettazione grafica delle sigle. Anche l'attività promozionale rientra in questa fase. La predisposizione di 'promo', il coinvolgimento della stampa, l'attivazione del circuito del gossip in relazione ai protagonisti per alimentare aspettative e curiosità sul programma sono attività cruciali nella strategia di 'controprogrammazione' che attualmente caratterizza il sistema televisivo basato sul duopolio e sulla concorrenza.
6. La televisione del futuro
Il futuro della televisione, nell'epoca digitale, sarà soprattutto legato alle innovazioni tecnologiche e alla conseguente legislazione che dovrà essere promulgata per mettere ordine in un mondo dove le norme sono sempre state applicate, finora, con molta disinvoltura. Basti pensare all'affollamento pubblicitario o a quegli aspetti assolutamente non soggetti a norme come la tutela dei minori.
La tecnologia digitale, che passerà anche attraverso l'uso sempre più massiccio dei satelliti e della comunicazione via cavo, avrà come fondamentale momento di cambiamento il superamento del tradizionale modo di comunicare della TV. Da una comunicazione a una dimensione - dall'emittente al ricevente - si passerà a una comunicazione a due dimensioni, nella quale il ricevente potrà, di volta in volta, intervenire sul programma trasformandolo secondo le sue esigenze o richiedendo servizi (sociali o commerciali) legati a sue particolari esperienze.
Le innovazioni tecnologiche ormai prossime permetteranno, infatti, una moltiplicazione dei canali disponibili, una diversa offerta di nuove tipologie di contenuti e di servizi. La televisione in chiave di 'convergenza', unita a Internet e/o ai cellulari, trasformerà il tradizionale modo di fruizione: la 'scatola televisiva' diventerà un sofisticato 'TV-set'.
Lo spettatore avrà la possibilità di diventare un consumatore ancor più esigente, potendo scegliere tra un'infinità di prodotti offerti anche a pagamento. Utilizzerà lo schermo della televisione per avere servizi e informazioni, o anche per lavoro. Si possono prefigurare scenari in cui il 'TV-set' rivoluzionerà la vita degli individui: si potrà infatti lavorare, votare, ricevere i servizi di telemedicina o quelli resi possibili dal decentramento amministrativo (pratiche, certificati), fare acquisti, ecc., senza doversi mai spostare dalla propria abitazione. In questo senso si può parlare del sorgere di una nuova socialità o della fine della socialità tradizionale fatta di rapporti umani diretti, di incontri in luoghi pubblici in tempo reale, e così via.
In realtà la prospettiva più probabile è, almeno per un periodo di circa 20 anni, una coesistenza di televisione generalista e pay-TV, television-on-demand, modeste richieste (soprattutto per quel che riguarda il campo del consumo di merce o culturale) nel settore della e-economy, ecc.
Per meglio comprendere questa svolta, va ricordato come, negli ultimi anni, alla televisione generalista si siano affiancate altre forme di trasmissione, basate su tecnologie innovative e su un diverso 'patto comunicativo' con lo spettatore. La prima e più diffusa forma di evoluzione della televisione tradizionale è rappresentata dalle cosiddette televisioni tematiche: il segnale viene codificato in forma digitale e non più analogica e viene trasmesso principalmente via cavo e via satellite. Si tratta in genere di programmi a pagamento trasmessi sotto due forme: la pay-TV, in cui si richiede all'utente di corrispondere una somma di denaro per il noleggio di un decoder e per l'installazione dell'antenna parabolica, e la pay per view, in cui l'utente paga solo quei programmi che sceglie di vedere.
Una seconda forma di evoluzione delle tradizionali forme di trasmissione televisiva consiste, come si è detto, nella convergenza con Internet e, conseguentemente, nella sostanziale modifica delle forme di fruizione e dei formati audiovisivi. La passività che contraddistingue il consumo di televisione nella sua forma tradizionale viene sostituita dall'interattività, garantita dall'integrazione del linguaggio televisivo con la navigazione in rete tramite la creazione di nuove piattaforme distributive per nuovi contenuti. Per quanto riguarda le trasformazioni di formato, lo schermo televisivo può essere totalmente sostituito dal monitor del computer o può riorganizzare invece la propria disposizione visiva adottando una scansione in più porzioni simultanee (multiscreen) che riproduce il layout di una pagina web.
Ma è con la digitalizzazione del segnale che si moltiplicano i canali televisivi disponibili, si migliora la qualità audio e video, si prefigura la creazione di nuovi contenuti e di nuovi servizi. Queste trasformazioni tecnologiche hanno una prima, immediata ricaduta sulla ridefinizione del ruolo dello spettatore e sul parallelo ridimensionamento del primato dell'inserzionista pubblicitario. Il consumo televisivo si va quindi configurando come sempre più attivo e personalizzato, grazie all'ampiezza dell'offerta e alla varietà dei canali di trasmissione disponibili.
Tuttavia, al di là degli entusiasmi teorici che l'apertura a nuovi formati e a nuovi servizi ha suscitato negli osservatori del sistema televisivo, è necessario chiedersi se tali possibilità rispondano effettivamente a una domanda di consumo.
Innanzitutto, le nuove tecnologie sono costose e richiedono l'acquisto di attrezzature appropriate, oltre a sollecitare un atteggiamento di fruizione attivo e competente che non si può dare per scontato. La questione cosiddetta del digital divide consiste proprio nel rischio di una dicotomizzazione del pubblico televisivo: l'avvento delle nuove tecnologie non condurrebbe necessariamente a una maggiore democratizzazione dovuta all'ampliamento dell'offerta, ma anzi porterebbe a enfatizzare il divario culturale ed economico fra chi può e chi non può permettersi di accedere alle nuove proposte del mercato televisivo o tra chi sa utilizzarle al meglio e chi resta in atteggiamento passivo anche di fronte a queste nuove possibilità.
Un altro problema aperto riguarda i contenuti. L'ampiezza dell'offerta di canali tematici, infatti, non può prescindere dalla considerazione che i contenuti attualmente disponibili devono confrontarsi con la rigidità e la sostanziale limitatezza dei generi della televisione tradizionale. Film, sport, documentari hanno finora fatto la parte del leone nel riempire i palinsesti tematici della pay-TV italiana, ma la sfida oggi si gioca soprattutto sul piano dell'innovazione in questo ambito, dove tra l'altro la qualità deve giustificare il costo richiesto per fruirne.
Forse nuove prospettive possono essere offerte da altri filoni possibili dell'offerta televisiva che riguardano, ad esempio, il materiale d'archivio delle emittenti tradizionali (RAI e Mediaset) che riescono in questo modo a sfruttare i loro magazzini; o altri canali sorti specificatamente per questo nuovo mercato, come quelli dedicati ai programmi per bambini (Disney Channel, Cartoon Network), quelli all news (CNN, Bloomberg, BBC World) o quelli destinati a interessi particolari (Gambero Rosso). Una particolarità della televisione del futuro consiste nella sua spiccata tendenza all'internazionalizzazione, come dimostrano gli assetti proprietari della maggior parte delle reti televisive.
Ma queste previsioni si sono dimostrate, finora, spesso illusorie o troppo ottimistiche. Ad esempio non si è finora realizzata la fusione del televisore e del computer in un unico apparecchio - il 'teleputer' o il TV-set - già oggi tecnicamente realizzabile ma lontano dai consolidati usi sociali di questi due mezzi che rimangono ancora rivolti a pubblici ben diversi tra loro.
Nei paesi in cui l'esasperata concorrenza televisiva è andata a caccia di pubblico investendo senza risparmio in programmi miliardari, la televisione generalista non è stata sostituita dalla TV a pagamento. In Italia, quest'ultima è presente oggi in una famiglia su dieci, con uno sviluppo non completamente previsto nei locali pubblici, dove si consumano pratiche di socialità e di appartenenza attorno alla trasmissione in diretta delle partite di calcio e di altri eventi sportivi.
Se la televisione generalista risulta ancora saldamente al centro dell'entertainment domestico, è indubbiamente in calo la sua capacità di interpretare lo spirito del tempo. Su questa sua inadeguatezza puntano gli operatori sovranazionali, che intendono vendere alle famiglie prodotti televisivi ricchi di eventi sportivi e di film non interrotti dalla pubblicità, con un ampio bouquet di canali tematici. L'attività di produzione televisiva diventerà, quindi, sempre più un content providing, un'attività di fornitura di contenuti video, svolta senza confini linguistici da operatori spregiudicati e attivi su scala planetaria, come nel caso di Rupert Murdoch. La televisione in chiaro resterà utilizzata sempre più per l'intrattenimento leggero, ma anche per una indispensabile funzione di servizio, di 'piazza elettronica' per il confronto delle idee e delle notizie in una informazione ampiamente spettacolarizzata (l'infotainment di cui abbiamo già detto).
La transizione al digitale rappresenta un passaggio fondamentale e ineludibile per la televisione; tuttavia, chi confida nelle opportunità tecnologiche per un ampliamento, a breve, del mercato televisivo potrebbe restare deluso. La possibilità tecnica di vedere molti programmi non coincide con la loro desiderabilità. In particolare, il digitale terrestre viene spesso dipinto come un passaggio epocale, grazie alla moltiplicazione delle frequenze; ma si dimentica che già oggi ciascuno di noi vede molti meno programmi di quelli che gli sono offerti.
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