Televisione
Che la televisione occupi, o almeno abbia occupato fino a tempi recentissimi, un posto di assoluto rilievo nella vita delle società industriali dopo la seconda guerra mondiale, e poi anche di molte società industrialmente arretrate, non è generalmente contestato da nessuno, si può anzi dire che si tratta di un truismo, come dimostra l'enorme produzione bibliografica sul tema in tutte le lingue. Meno sicuro è che a quest'affermazione ovvia corrisponda per tutti lo stesso significato.
Come avviene per tutti i principali mezzi di comunicazione, il termine 'televisione' (abbreviato in molti paesi con la sigla TV, di per sé indicativa della frequenza e della familiarità d'uso) ha infatti una pluralità di valenze.Con la stessa parola si designano (e l'elencazione non può pretendere di essere esaustiva): a) una tecnologia, o meglio un insieme di diverse tecnologie interdipendenti: di emissione, di diffusione, di ricezione. Sul nucleo originario sperimentato negli anni venti-trenta e introdotto nell'uso dopo la guerra si sono innestate man mano diverse innovazioni anche radicali, dapprima con l'introduzione del colore negli anni sessanta-settanta, poi, negli anni settanta-ottanta, con lo sviluppo della diffusione via cavo in alcuni paesi, infine negli anni novanta con la digitalizzazione, ovvero con la codificazione numerica del segnale. Nonostante i radicali mutamenti, si è continuato a parlare di televisione, eventualmente con specificazioni (TV a colori, TV via cavo o CATV, TV digitale, e da ultimo TV interattiva) per tutte queste tecnologie in realtà molto diverse tra loro; b) alcuni apparati, cioè gli enti che in un regime pubblicistico come quello dominante in Europa fino agli anni settanta, o privatistico come quello tipico degli USA, oppure ancora in regime misto, svolgono la funzione dell'emissione e quella (strategica) della programmazione del flusso televisivo: così la RAI era fino al 1975-1976 'la televisione italiana'; così l'insieme delle compagnie emittenti presenti negli USA e connesse fra loro da accordi di vario genere (network, syndication e simili) costituisce 'la televisione americana'; c) una 'forma culturale', secondo la definizione di Raymond Williams (v., 1975), ovvero un insieme di abitudini, di convenzioni, di regole linguistiche che si è venuto strutturando nel corso del tempo.
Sebbene la categoria williamsiana di 'forma culturale' sia teoricamente complessa, come vedremo più avanti, il concetto a cui egli alludeva è presente già nel senso comune: quando, ad esempio, ci si domanda - come accade in modo ricorrente da diversi decenni - se 'la televisione faccia male ai bambini', il termine viene di fatto inteso in questa accezione. La televisione come forma culturale include aspetti sociali (come hanno dimostrato le ricorrenti polemiche sulla TV come sostituto della famiglia, da Bruno Bettelheim a Karl Popper e a Neil Postman), linguistico-comunicativi (le ricorrenti discussioni sulla cattiva qualità iconica della televisione nei confronti del cinema), culturali e psicologici.Sia nel linguaggio comune che nel dibattito scientifico, i diversi significati del termine sono sovrapposti. Ciò è in larga misura inevitabile, data la stretta interdipendenza tra questi differenti aspetti, ma crea anche numerosi equivoci. Così, ad esempio, nel dibattito che ha accompagnato, soprattutto nei paesi europei, il primo avvento del medium, e poi ancora nello scontro di schieramenti che si è avuto in Italia sul reale o preteso ruolo politico assunto dal mezzo televisivo a metà degli anni novanta, la problematica giuridico-istituzionale dell'assetto da dare al sistema televisivo e quella degli 'effetti' psicologici e sociali della televisione si sono di frequente sovrapposte, e ciò ha reso difficile giungere a soluzioni istituzionali soddisfacenti e accettabili per tutti. Così, ancora, soprattutto negli anni cinquanta, le caratteristiche comunicative del medium (il cosiddetto 'specifico televisivo') sono state considerate da molti in modo spesso riduttivo come una conseguenza diretta della tecnologia: si è così sostenuto che il 'piccolo schermo', contrapposto al grande schermo del cinema, avrebbe naturalmente imposto di privilegiare alcuni modelli di ripresa, finendo col dimenticare aspetti ben più rilevanti quali le condizioni dell'ascolto, il carattere di flusso della programmazione, il sistema dei generi che la televisione aveva ereditato soprattutto dalla radiofonia.
Vi è poi un'altra conseguenza negativa della sovrapposizione tra le varie accezioni del termine 'televisione'. Se attorno a questo medium si è venuto strutturando in tutti i paesi negli ultimi cinquant'anni uno dei settori più complessi, oltre che economicamente più rilevanti, dell'industria culturale, questo è dovuto al fatto che alle sue attività partecipano figure assai differenti e tutte essenziali. Oltre ai tecnici e agli ingegneri - che hanno avuto e hanno un ruolo strategico in alcune fasi di svolta e hanno altresì la funzione meno visibile ma altrettanto decisiva di assicurare il funzionamento di una rete 'immateriale' presente nella vita quotidiana di milioni di persone - vi sono i managers, che gestiscono apparati culturali di grande complessità e resi tanto più delicati dalle frequenti interferenze (nei sistemi 'pubblicistici' come in quelli di mercato) del potere politico. Vi sono, ancora, i funzionari cui è affidata la programmazione - un compito ideativo e amministrativo insieme - di una quantità vertiginosa di ore di trasmissione (in ogni paese oggi la 'giornata televisiva' equivale a centinaia di ore di programmazione per ogni giorno solare), e vi sono, infine, i realizzatori dei singoli programmi, che sono a loro volta numerosi, dalle maestranze ai registi, dagli attori (se ci sono) alla miriade di responsabili organizzativi. La varietà di figure e funzioni è costitutiva della televisione come fatto sociale, ed è alla base dei tanti conflitti, spesso poco noti, che ne hanno accompagnato tutta la storia.
D'altronde, solo una rappresentazione della televisione che tenga conto della pluralità di aspetti economici, istituzionali, culturali e sociali impliciti nel termine può coglierne pienamente la realtà. Si corre il rischio, altrimenti, di considerare la TV come un'entità monolitica o, peggio, come una sorta di dato anonimo, un flusso che occupa un posto nella vita di tutti ma sulla cui effettiva provenienza poco ci si interroga.Infine, la sovrapposizione tra i diversi significati del termine 'televisione' ha una terza conseguenza negativa. Molti degli studi esistenti, pur assumendo il punto di vista di una singola disciplina (economia o politologia, sociologia o cultural studies) e dedicando realmente attenzione solo a un aspetto del fenomeno 'televisione', presumono di poterne comunque riassumere tutta la complessità.Fin dall'inizio i migliori studi sulla televisione sono stati invece quelli che hanno riconosciuto le interdipendenze tra i diversi aspetti del fenomeno e tra i diversi soggetti coinvolti senza negare le differenze e le specificità: quelli (per riprendere un'espressione un po' abusata) che hanno riconosciuto senza riduzionismi la complessità del fenomeno televisivo, e che hanno saputo attraversare i confini tra le discipline per poter cogliere le connessioni tra aspetti politico-istituzionali e fatti linguistici, tra tecnologia del mezzo e sociologia del pubblico.In effetti, la complessità del fenomeno non è dovuta esclusivamente ad alcune caratteristiche intrinseche del medium (quelle che abbiamo sinteticamente richiamato sopra e altre che cercheremo di mettere in luce più avanti), ma anche alla collocazione del tutto particolare che esso ha trovato nella vita sociale, dei paesi avanzati prima, di gran parte dei paesi del mondo poi, nei decenni che vanno dalla fine della seconda guerra mondiale fino agli anni ottanta.La stessa affermazione della televisione come tecnologia e come abitudine sociale presenta caratteristiche sorprendenti e probabilmente uniche nella storia dei media (v. Flichy, 1996).
L'apparecchio televisivo condivide con il frigorifero e il telefono la caratteristica dell'ubiquità (in tutti i paesi occidentali questi apparecchi sono presenti in oltre il 90% delle abitazioni), ma in nessun altro caso questa ubiquità è stata raggiunta con la stessa rapidità della televisione. Basterà ricordare che negli USA l'avvio effettivo delle trasmissioni per il grande pubblico risale al 1946-1947 e sette anni dopo, nel 1954, la maggioranza delle abitazioni era dotata di apparecchio televisivo; in Italia (nonostante il netto divario nel livello del reddito pro capite rispetto agli USA) le trasmissioni sono cominciate nel 1954 e undici anni dopo, nel 1965, gli apparecchi televisivi erano presenti in poco meno della metà delle case; ma già nel 1957 un giornalista poteva scrivere che "il telespettatore e l'italiano medio sono la stessa persona", tenendo conto anche dei milioni di italiani che pur non avendo il televisore in casa vi si erano accostati in situazioni pubbliche.Una success story di queste dimensioni si spiega, secondo Williams (v., 1975), solo tenendo conto del fatto che la televisione, in quanto abitudine sociale, era un'innovazione preparata: era stata la radio a predisporre quel pubblico domestico e di massa a cui dopo la guerra la televisione aveva cominciato a offrire, oltre ai suoni, le immagini in movimento, prerogativa esclusiva fino ad allora del più popolare dei media pubblici, il cinema.Ci si sarebbe resi conto ben presto che nel flusso di programmi gestito dal medium non c'era posto solamente per i film e per i generi ripresi di peso, con l'aggiunta delle immagini, dal 'palinsesto' radiofonico - dal quiz allo sceneggiato. Fin dai primi anni, nella programmazione televisiva cominciarono ad alternarsi il teatro di prosa e il varietà, la conversazione, le partite di calcio e i cartoni animati. Già nel 1954, nel primo compromesso dopo anni di guerra fredda tra i networks televisivi e Hollywood, nasceva quel genere del tutto peculiare che è il 'telefilm', una narrazione a episodi costruita per occupare un preciso minutaggio all'interno del flusso.
Nel corso del tempo, poi, le potenzialità onnivore del mezzo si sarebbero ulteriormente accresciute, fino ad assorbire l'asta e il processo, la balera e il gioco delle tre carte, e poi anche i testi scritti e la telefonata erotica: fino a fare del piccolo schermo il punto d'incontro e la sintesi antologica di tutte o quasi le forme di comunicazione possibili nella società contemporanea.È anche grazie a questa sua onnivora capacità di assorbimento, oltre che alla forza stessa della sua diffusione, che la televisione è divenuta quasi subito una componente centrale del sistema dei media (v. Ortoleva, Mediastoria..., 1995). Poiché si tratta fra l'altro del medium in assoluto più capace di dialogare con l'infanzia anche in età prescolare, alla TV è toccato per decenni il compito di socializzare gli individui alle diverse forme di comunicazione. A essa viene demandato altresì il compito di predisporre le aspettative del pubblico di massa verso gli altri media, dal cinema alla stessa letteratura: è noto che da decenni i talk shows televisivi sono il principale luogo di promozione di tutti i prodotti dell'industria culturale. Inoltre, essendo i loro bilanci nettamente superiori a quelli degli altri settori di quell'industria (v. Pilati, 1992) con la sola eccezione delle majors hollywoodiane, le imprese televisive hanno finito con l'assumere la funzione di finanziatori privilegiati, del cinema come del calcio, della musica classica come delle manifestazioni folkloriche.
Se la collocazione della TV (come apparato economico e come forma culturale) nel sistema dei media è indiscutibilmente centrale, altrettanto significativo è il posto che la sua fruizione occupa, o quanto meno ha occupato, nella vita delle popolazioni che sono state man mano toccate dalla sua presenza. Nel corso di circa cinque decenni la programmazione televisiva si è espansa progressivamente fino a coincidere con l'intera giornata di 24 ore; parallelamente la collocazione fisica degli apparecchi si è andata modificando man mano che essi si moltiplicavano e la fruizione si faceva, da serale, diurna: al singolo grosso televisore collocato nel soggiorno se ne sono affiancati altri, spesso più piccoli, in cucina e nelle camere da letto. È già nel corso degli anni settanta infatti che nelle società industrializzate il numero degli apparecchi televisivi per famiglia ha cominciato a moltiplicarsi.Sia in termini temporali sia in termini spaziali, insomma, la fruizione televisiva tende di fatto a coincidere con la vita domestica tout court. Una prova a contrario sta nel fatto che non hanno avuto alcun successo i tentativi ricorrenti di diffondere apparecchiature televisive mobili sul modello di quelle sonore o di quelle informatiche. L'habitat della TV sembra essere necessariamente lo spazio domestico.Un altro aspetto significativo della comunicazione televisiva, che non è certo spiegabile in termini tecnologici (l'etere, per definizione, non ha confini), è costituito dal fatto che essa ha per orizzonte prevalentemente, se non esclusivamente, il territorio nazionale. Passando da un paese all'altro, il telespettatore può riconoscere alcuni film e telefilm, generalmente statunitensi, e magari alcuni cartoni giapponesi, ma troverà estranei proprio quei personaggi (ad esempio i 'conduttori') e quelle convenzioni che per gli spettatori indigeni sono i più familiari.
Di tutte le forme della cultura di massa, la televisione è fra le più radicate negli spazi del territorio nazionale. In particolare in Europa, dove la gestione del medium è rimasta in mano pubblica per vari decenni, il fenomeno ha anche motivazioni istituzionali; ma questa spiegazione non è probabilmente sufficiente. Anche là dove si è tentato l'esperimento delle televisioni locali (incluso, a partire dal 1975-1976, il nostro paese) le dimensioni nazionali si sono regolarmente confermate, almeno fino ai tardi anni ottanta, le più idonee a valorizzare non solo le potenzialità economiche del medium (v. Pilati, 1988), ma probabilmente anche quelle più proprie del suo pubblico 'di massa'. Fino a oggi, infatti, il pubblico della televisione si è presentato come frammentato ma al tempo stesso bisognoso, proprio per fruire adeguatamente della programmazione, di un solido quadro di riferimenti comuni, di saperi condivisi. Si è quindi stabilita fra la televisione e l'appartenenza nazionale una sorta di sinergia dialettica.A posteriori, comunque, l'aspetto forse più sorprendente dello sviluppo della televisione è ancora un altro. L'affermazione del medium comincia, come si è già ricordato, subito dopo la seconda guerra mondiale (la sperimentazione prebellica, importantissima storicamente, rimase fondamentalmente marginale sul piano del pubblico raggiunto); il boom attraversa gli anni cinquanta e gli anni sessanta per poi dare i primi segni di stanchezza, almeno in Occidente, attorno alla metà degli anni settanta, quando si cominciano ad affermare non solo nuovi modelli di televisione (il cavo, il satellite, le TV commerciali nei paesi in precedenza soggetti a monopolio pubblico), ma anche i primi media 'post-televisivi', dal videoregistratore domestico ai videogames. Il periodo - 1947-1975 - corrisponde quasi esattamente a quello che E. Hobsbawm (v., 1994) ha definito l''età dell'oro' del capitalismo, fra la fine della guerra e la prima crisi petrolifera.Lo sviluppo del consumo televisivo è collocato in una fase precisa della storia economica e sociale dell'Occidente, quella del passaggio alla 'società dei consumi'.
Anche in questo caso lo sviluppo della televisione può essere considerato per alcuni versi un effetto (della nuova divisione tra tempo libero e tempo di lavoro, dell'affermarsi di atteggiamenti individualistici, dell'accettazione crescente della pubblicità come 'male necessario' o addirittura come piacere), per altri una causa. Già negli anni cinquanta le migliori ricerche sociologiche (valga per l'Italia l'esempio ancora ineguagliato di Lidia De Rita: v., 1964) dimostravano la capacità davvero unica della programmazione televisiva di proporre a tutti gli strati della società quello che l'economista Ragnar Nurkse (v., 1953) ha chiamato l'"effetto di aspirazione".D'altra parte, se è vero che il boom della televisione ha coinciso con l'ascesa economica del 'neocapitalismo', l'economia del medium in quanto tale presenta aspetti definibili senz'altro come paradossali (v. Richeri, 1992; v. Gambaro e Ricciardi, 1996; v. Dematté e Perretti, 1997). Che cosa vende, esattamente, la TV? Nella sua forma monopolistico-pubblica essa vende, formalmente, un abbonamento, che però è legato non alla fruizione di un contenuto, ma esclusivamente al possesso di un utensile.
È ormai convinzione comune che il cosiddetto canone televisivo, proprio dei paesi dove esiste una televisione 'di Stato', sia in realtà non il pagamento di un servizio ma una vera e propria tassa, imposta alla quasi totalità della popolazione in virtù del fatto che solo una parte marginale non dispone dell'apparecchio. I programmi televisivi sono soggetti in questo caso alla regolamentazione vigente per i cosiddetti beni pubblici, come i marciapiedi, i giardini comunali, e simili: si tratta di servizi pagati dalla collettività attraverso le imposte.Nel caso della TV commerciale i programmi si presentano come gratuiti. Secondo un concetto che, affermatosi negli anni sessanta, è ormai largamente accettato, l'economia di questo tipo di televisione si fonda su un mercato del tutto anomalo: la televisione 'vende' in realtà non i programmi ma gli stessi spettatori, o meglio il loro tempo di attenzione. Gli acquirenti sono ovviamente i pubblicitari. Si tratta però, in realtà, più di un'ingegnosa metafora che di una spiegazione economica soddisfacente.È forse anche per questo che alcuni studi economici sono particolarmente attratti da due nuove tendenze dell'economia del medium, quella che porta all'offerta di canali a pagamento (la pay-TV, che richiede un vero e proprio canone di abbonamento analogo a quello di una rivista; la pay-per-view, che prevede il pagamento per ogni spettacolo di cui si fruisce), e quella, più prefigurata che realizzata, che porta all'integrazione tra aziende televisive e telefoniche: in quest'ottica, i programmi televisivi diventerebbero uno dei diversi servizi di telecomunicazione distribuiti in rete e pagabili con la bolletta telefonica mensile o bimestrale.
Se riprendiamo in esame le considerazioni appena svolte noteremo una curiosa contraddizione. Da un lato, infatti, la televisione, intesa come innovazione tecnologica, come apparato industriale-culturale, come prodotto di consumo durevole, si presenta con i connotati di una novità di grande portata, che ha contribuito a cambiare le società occidentali, e che sfida le categorie stesse di diverse scienze sociali. Dall'altro lato, però, la sua presenza ci appare, anche retrospettivamente, come mimetizzata, in parte nascosta, in quanto la diffusione del mezzo televisivo sembra confondersi con altri processi di più ampio respiro, quali l'imporsi di una nuova fase del capitalismo, il compiersi dei processi di 'massificazione' avviati a fine Ottocento, lo sviluppo di nuove abitudini connesse alla famiglia nucleare e (nel caso americano) alla suburbanizzazione.Fatto storico innovativo e traumatico o epifenomeno, puro sintomo di altre tendenze? La risposta, naturalmente, dipende da quali aspetti del fenomeno si analizzano: mentre la tecnologia dell'immagine elettronica, basata sul principio del tubo catodico, risulta in effetti radicalmente innovativa e tale da condizionare l'intero sistema delle percezioni, la vita linguistica e culturale della televisione è costituita soprattutto da un'intensa e attenta attività di mutuazione e di rimontaggio di altri generi e linguaggi in larga misura preesistenti.
Mentre la televisione come apparato produttivo è un'autentica potenza, il suo peso nell'innovazione culturale è assai meno rilevante.Ma ancora una volta una rigida distinzione dei punti di vista sul medium, necessaria per evitare fraintendimenti, non è in sé sufficiente. Il fatto è che tra la natura mimetica della televisione e la sua forza di penetrazione esiste un nesso, come mette in luce la pregnante definizione della giornalista Edith Efron, secondo la quale la televisione è un "gigante timido": una definizione ripresa e resa popolare da Marshall McLuhan (v., 1964).Comunque alle due opposte letture, tendente l'una a sottolineare la novità della televisione, l'altra la sua natura in fondo conservatrice, o quanto meno fortemente adattiva, corrispondono due diverse linee interpretative, che si sono non tanto scontrate quanto (e questo è di per sé significativo) alternate nelle interpretazioni del medium; si tratta peraltro di due linee interpretative che, occorre precisare, non corrispondono affatto meccanicamente all'opposizione "apocalittici/integrati" postulata da Eco (v., 1964).
Possiamo dire, schematicamente, che in una prima fase, quella immediatamente successiva all'avvento della televisione, nella quale gli osservatori si interrogavano soprattutto sulla sua misteriosa capacità di penetrazione, si sia fatto sentire (tra gli studiosi, in verità, più che nell'opinione pubblica) il bisogno di considerare il nuovo medium come continuazione, sviluppo e in qualche misura estremizzazione di tendenze già esistenti e radicate nella cultura di massa. È questa l'interpretazione, decisamente apocalittica, di Theodor W. Adorno (v., 1954) e di Gunther Anders (v., 1956), ma se ne trovano echi in toni più moderati anche nelle letture sociologiche main stream dei politologi Kurt Lang e Denys Engel Lang (v., 1968) e del sociologo Harry J. Skornia (v., 1965).
Per Adorno, la televisione sembra presentarsi come la sintesi finale di quel 'sistema' della comunicazione che era stato oggetto delle celebri pagine da lui scritte con Max Horkheimer in Dialettica dell'illuminismo (v. Horkheimer e Adorno, 1947). A suo avviso, la televisione porta alla perfezione il processo di industrializzazione e serializzazione dei messaggi narrativi: la ripetitività del telefilm appare così estrema, al di là di quella complessa dialettica di 'nuovo e sempre uguale' che lo stesso Adorno aveva riconosciuto, in Minima moralia, presente in quasi tutte le forme 'classiche' della cultura di massa. All'imprevedibilità, per quanto meccanica, del feuilleton, il telefilm oppone una prevedibilità quasi assoluta, che per Adorno è funzione diretta di una società nella quale la concorrenza ha ceduto il posto al monopolio e dove "ogni cosa appare, in qualche modo, predestinata". Anche per questo la televisione appare il più potente diffusore di stereotipi e di attitudini conformi, in quanto la mescolanza di informazione e narrazione fantastica che la contraddistingue consente di calare continuamente gli stereotipi stessi nel 'reale'.
Può essere interessante notare che, nonostante le indubbie differenze nell'articolazione del discorso, la critica apocalittica di Adorno trova echi, generalmente inconsapevoli, in molti testi 'contro' la televisione scritti da intellettuali di diversi paesi subito dopo l'avvento del mezzo.Ancora più radicale appare l'interpretazione della televisione proposta da Gunther Anders (v., 1956). Secondo il filosofo tedesco, lo sviluppo della radiotelevisione è da un lato la piena espressione della società tecnologica, dove i diversi 'mezzi' acquistano in effetti la sovranità sulla vita, non solo lavorativa, dall'altro il segnale di una nuova fase, più perfezionata, della cultura di massa. Con la televisione "ogni consumatore è un lavoratore a domicilio non stipendiato che coopera alla produzione dell'uomo di massa, [...] dato che il mondo ci è fornito in casa, non ne andiamo alla ricerca; rimaniamo privi di esperienza". E cade, inoltre, ogni barriera tra realtà e fantasia. Altri autori degli stessi anni, pur partendo da premesse diverse, arrivarono comunque a considerare la televisione soprattutto come sintomo di tendenze già presenti e diffuse nella cultura di massa. È il caso di Skornia, autore di uno dei primi tentativi di lettura sociologica complessiva della TV, dove il medium diventa emblema e strumento insieme del processo di passaggio a un'umanità eterodiretta, secondo linee interpretative evidentemente influenzate dagli studi di David Riesman.Successivamente, in particolare dopo la pubblicazione del testo, controverso ma molto influente, di McLuhan (v., 1964), si sono imposte le letture 'epocali' della televisione intesa come tecnologia rivoluzionaria e come nuovo frame o cornice mentale (v. De Kerckhove, 1990).Tuttora assai discussa, l'interpretazione di McLuhan prende le mosse da alcune specificità tecnologiche del mezzo, in particolare la bassa definizione dell'immagine e, dato quest'ultimo generalmente poco notato ma effettivamente essenziale, il fatto che la TV a differenza di altri media non si limita a illuminare un'immagine, ma proietta l'immagine stessa direttamente sul volto dello spettatore.
La bassa definizione fa della televisione, per McLuhan, un medium 'freddo', ovvero un medium altamente coinvolgente, che richiede non tanto partecipazione emotiva quanto partecipazione corporea e mentale, al fine di chiudere un messaggio altrimenti incompiuto. Al di là della peculiare terminologia del critico canadese, ciò che interessa qui è il fatto che nella sua interpretazione la TV è il primo mass medium che richiede forme di partecipazione per certi versi analoghe a quelle proprie di media come la conversazione o il telefono, o ancora (per venire a un esempio più recente) il computer. Lungi quindi dall'essere un mass medium tradizionale, sia pure 'estremo', esso segnerebbe la fine di quel modello, e lo sviluppo di una nuova comunicazione, di massa e interattiva insieme.Molto lette, ancor più citate, ma accolte soprattutto come provocazioni, le tesi di McLuhan esprimono bene una tendenza tipica degli anni sessanta e settanta: quella che vede nella televisione non l'espressione della cultura di massa tradizionale ma un autentico spartiacque. Una percezione che appare condivisa (sia pure con segno politico ben diverso) anche da molta della cultura della contestazione, la cui posizione radicalmente critica nei confronti del mezzo visto come espressione estrema del capitalismo consumistico la portò a indirizzarsi o verso media pretelevisivi, in particolare il cinema, o verso la 'scoperta' utopica di media ancora sperimentali (v. Ortoleva, 1988; v. Faenza, 1973).
L'interpretazione della TV come spartiacque storico e sociale, sebbene come vedremo assai meno diffusa di un tempo, è tuttora presente. In Italia, ad esempio, Alberto Abruzzese (v., 1995) ha individuato nella televisione il fattore decisivo di modernizzazione del paese e l'equivalente nazionale dell'esperienza metropolitana: un trauma positivo di cui gli intellettuali anche di sinistra (anzi soprattutto di sinistra) avrebbero negato il valore per snobismo culturale e pregiudizio ideologico.È giusto ricordare, inoltre, che negli ultimi dieci-quindici anni l'interpretazione di McLuhan è stata ripresa da più parti, trovando nuove conferme. Va ricordata soprattutto, in proposito, l'importante opera di Joshua Meyrowitz (v., 1985), nella quale accostando lo stesso McLuhan all'interazionismo simbolico di Erving Goffmann, i media elettronici (ma in realtà essenzialmente la TV) vengono visti come un fattore centrale di mutamento nei rapporti fra i sessi e tra le generazioni, e tra cittadinanza e potere politico. La novità della TV, secondo questa interpretazione, consiste non tanto nella tecnologia quanto nella radicale alterazione del 'senso del luogo', che annulla la distinzione tradizionale tra 'scena' e 'retroscena', tra pubblico e privato, creando grandi spazi condivisi e conflittuali insieme.
Da alcuni anni sembra nuovamente prevalere una interpretazione della televisione come variabile dipendente, come sintomo e simbolo di fenomeni di più ampio respiro: la società dei consumi, il progressivo svuotarsi del senso nella società tardocapitalistica, i processi di massificazione propri del XX secolo. Questo cambiamento si spiega in parte con un mutamento dei soggetti interessati: dopo un lungo periodo di indifferenza, la televisione sembra di nuovo interessare i filosofi della 'modernità', da Jean Baudrillard a Hans M. Enzensberger, che tornano a porsi interrogativi almeno in parte simili a quelli formulati in precedenza da Adorno e Anders.Partendo da premesse analoghe, si è sviluppato inoltre un filone neoapocalittico, che ha trovato espressione dapprima nel curioso 'ecologismo mediale' di Neil Postman (v., 1979) e di Jerry Mander (v., 1978), per poi raggiungere almeno da noi un'inattesa e in parte strumentale popolarità con il volumetto di Karl Popper e John Condry (v., 1993) sugli effetti 'antieducativi' della TV. Ma non tutti coloro che negli anni ottanta e novanta hanno visto la TV come il luogo simbolico delle tendenze della modernità hanno un atteggiamento così negativo. Al contrario, in un testo che ha avuto grande influenza in Francia, Jean-Louis Missika e Dominique Wolton (v., 1983) hanno fatto della TV l'emblema delle moderne società democratico-capitalistiche, si potrebbe dire (per riprendere una vecchia espressione) il canale inevitabile della 'democrazia reale'.
Secondo Enzensberger (v., 1988; tr. it., p. 23) la televisione è addirittura 'un lavaggio del cervello che produce godimento; serve all'igiene individuale, all'automedicazione. Il medium-zero è l'unica forma universale e di massa di psicoterapia. In quanto tale, sarebbe assurdo porre in questione la sua necessità sociale'. Molti hanno interpretato queste affermazioni come ironiche e ferocemente antitelevisive. In realtà, quando Enzensberger afferma che l'alternativa alla televisione sarebbe un aumento dei consumi di droga, per cui 'se si pensa ai costi sociali e ai cosiddetti effetti collaterali si dovrà ammettere che il fruitore del medium-zero ha fatto una scelta saggia' sembra parlare sul serio. Del resto, la domanda-chiave del suo saggio è: 'E se la maggioranza avesse le sue ragioni?'.
Rispetto alle tesi di Enzensberger, la posizione di Baudrillard appare insieme analoga e opposta: la televisione porterebbe con sé 'la soluzione finale, la risoluzione anticipata del mondo tramite la clonazione della realtà e lo sterminio del reale col suo doppio'. Ancora medium-zero, dunque, ma in quanto medium nichilistico, punto finale di quell''implosione del sociale nel simulacro' che dagli anni settanta in poi Baudrillard predica come esito finale del mondo moderno: la televisione come compimento e perfezionamento di una sorta di grande progetto moderno.Colpisce, comunque, in entrambe queste interpretazioni, una sorta di tardivo macluhanismo, teso a catturare una presunta 'essenza' del medium al di là di qualsiasi attenzione alla sua effettiva evoluzione.
Diversa nelle premesse, ma per certi versi convergente, l'interpretazione di altri autori, che vedono nella TV una 'rivoluzione delle comunicazioni' a loro avviso già compiutamente affermata e dai risultati certi.Per George Gilder (v., 1992) e Nicholas Negroponte (v., 1995) la televisione è interessante soprattutto quale sintesi ed emblema di un'epoca 'passata' della storia delle comunicazioni, alla quale ne succederebbe una diversa e superiore. Lungi dall'essere una novità traumatica, insomma, la TV sarebbe l'espressione banale di un modello superato, il luogo proprio del consumo passivo, della massificazione omogeneizzante, della povertà culturale. Interazione versus passività, diversificazione versus piattezza, ricchezza versus povertà: in tutte queste antinomie la televisione sembra presentarsi sempre dalla parte sbagliata; ma naturalmente si tratta di antinomie assiologiche quanto meno discutibili.Il termine interattività, infatti, nasconde in sé realtà assai diverse (v. Heeter, 1989) e d'altra parte la 'passività' è condizione tipica del fruitore in gran parte della tradizione occidentale; parecchi autori (v. ad esempio Pool de Sola, 1990 - ma l'intuizione è addirittura di Tocqueville) hanno messo in evidenza la necessità per la democrazia di media capaci di raggiungere l'intero pubblico, pena altrimenti la perdita di qualsiasi sfera pubblica condivisa; infine, se la ricchezza di offerta dei media cosiddetti post-televisivi è sicuramente considerevole, non si può negare che con gli ultimi sviluppi tecnici anche la televisione è giunta a offerte estremamente articolate e diversificate.Come è facile comprendere anche da queste rapidissime notazioni, l'alternarsi di diverse interpretazioni non è spiegabile se non si tiene conto dell'evoluzione stessa del medium: un'evoluzione meno nota e meno lineare di quanto potrebbe in apparenza sembrare.Prima di tentare una veloce ricostruzione globale della storia della televisione (che ci consentirà anche di comprendere il ruolo assunto da diverse scienze sociali nelle diverse fasi del suo sviluppo) è bene però ricordare un'ultima interpretazione, proprio perché si caratterizza per una maggiore consapevolezza storica.
Nel suo studio del 1975 Williams tentò un'impresa quanto mai ambiziosa: quella di render conto dello sviluppo di un medium prestando attenzione insieme all'evoluzione tecnologica e a quella culturale, e cogliendo le varie interconnessioni tra i due aspetti. Ne emerge così una interpretazione della televisione come continuazione sul piano sociale e culturale del medium radiofonico, ma anche come fatto sociotecnico originale. E ne emerge soprattutto un concetto-chiave, che ben pochi studiosi avevano intuito con chiarezza: quello di flusso.Come ebbe ad affermare Orson Welles, "la televisione sta accesa come la luce in cucina, scorre come l'acqua in bagno". Questo non vuol dire solamente che la televisione è una sorta di 'colonna' visivo-sonora dell'esistenza, ma anche che la fruizione non è attenta tanto al singolo programma quanto all'insieme, alla presenza del medium. Da un'affermazione del genere possono discendere interpretazioni diverse, per alcuni aspetti opposte. Enzensberger e Baudrillard, come si è visto, finiscono sia pur con accentuazioni differenti con il negare alla televisione ogni contenuto significativo; per loro flusso=nulla, perché in fondo solo il testo è culturalmente significativo.Per Williams, invece, il flusso è un diverso modello di organizzazione della comunicazione, di discorso. Al testo, conchiuso e basato su regole interne, fa seguito un'altra forma di comunicazione, aperta e basata soprattutto sul negoziato permanente tra emittente e ricettori. Non si tratta di scegliere tra l'uno e l'altro, anche perché secondo Williams nonostante le sue forti specificità il flusso è per altri versi la continuazione e lo sviluppo di processi durati due secoli, di quel profondo mutamento della 'struttura del sentire' che nasce con la rivoluzione industriale.
È anche grazie al lavoro di Williams, oltre che naturalmente alle ricerche propriamente storiche, che si può tentare una periodizzazione nello sviluppo del medium.La televisione, intesa sia come fatto tecnico sia come dato sociale e istituzionale, ha conosciuto varie fasi molto diverse tra loro.In alcuni romanzi di protofantascienza francesi di fine Ottocento - dalle opere di Jules Verne a quelle di Albert Robida - vengono prefigurate apparecchiature simili a un televisore. Con nomi fantasiosi come fonotelefoto o telefonoscopio, tali autori anticipavano l'introduzione di apparecchiature capaci di far 'vedere a distanza', come promette la parola stessa tele-visione. E in effetti, che di un'anticipazione diretta della televisione si trattasse, è attestato da alcune immagini di Robida, che presentano le 'telecamere' del futuro impegnate nelle riprese in diretta di un tumulto di piazza, ritrasmesso poi nelle abitazioni.
Altre immagini, però, sembrano prefigurare un medium totalmente diverso, capace cioè di portare a distanza l'immagine della persona amata e di far dialogare non solo le voci, ma anche i volti. Insomma, nelle prime prefigurazioni, che corrispondono però con precisione alle prime sperimentazioni, quella che oggi chiamiamo televisione appare indistinguibile dall'odierno (o meglio, dall'ancora futuro) videotelefono (v. Ortoleva, 1997).
La televisione quale la concepiamo oggi, come apparecchio tecnico per vedere a distanza, ma destinato esclusivamente alla trasmissione da punto a massa, nasce molto dopo, negli anni venti. Le basi della teletrasmissione meccanica di John Baird esistevano già da tempo, ma come ha messo in luce Williams l'idea moderna di televisione nasce solo successivamente all'emergere, con il broadcasting radiofonico, del flusso, di una programmazione che raggiunge l'individuo nell'abitazione nei diversi momenti della giornata. Ed è negli anni trenta che comincia la vera e propria sperimentazione della televisione - in Germania (maggio 1935) e nel Regno Unito (novembre 1936) -, pur giungendo a interessare solo poche migliaia di spettatori prima dello scoppio della guerra.
La crisi economica, il carattere sperimentale delle trasmissioni e la stessa scarsità numerica degli spettatori fecero di quella fase della storia della televisione una sorta di preistoria, oggi largamente dimenticata. Eppure vi si potevano già cogliere alcuni segni importanti di quel che sarebbe accaduto in seguito. Così, il pioniere tedesco Kurt Wagenführ (cit. in Uricchio, 1993) scriveva nel 1938: "La televisione è capace di imporsi nella vita domestica con una forza stupefacente. Appena l'apparecchio viene collocato in casa e messo in funzione si nota l'azione di alcuni meccanismi di difesa, che non sono dovuti però a un rifiuto, ma solo a un effetto di choc che dev'essere in qualche modo superato. Comunque, quasi sempre, le difese vengono abbassate rapidamente, anzi fin troppo presto".
Probabilmente lo sviluppo istituzionale degli apparati televisivi, soprattutto in Europa, non sarebbe comprensibile senza quella prima fase. È allora che le compagnie radiofoniche rivendicarono il monopolio anche del medium nascente, escludendo gli altri possibili soggetti, inclusa l'industria cinematografica. Ed è allora che nelle menti di molti osservatori si impose l'idea della TV come radio con le immagini e come diretto prolungamento della funzione propagandistica che la radio aveva assunto in particolare (ma non solo) nei regimi totalitari.Prima ancora che al boom postbellico, la diffusione degli apparecchi televisivi fu legata, almeno negli USA, al processo di riconversione dell'industria bellica. Si trattava (un particolare, questo, a cui anche gli storici più attenti hanno dedicato insufficiente attenzione) del primo apparecchio elettronico che si prestava a un uso civile di massa, e che consentiva quindi di mettere a frutto nell'economia di pace gli avanzamenti tecnici realizzati in particolare dagli armamenti aeronautici. L'altra grande applicazione pacifica dell'elettronica, il computer, era agli albori, ma trasse un decisivo impulso dalla stessa esigenza, e si sarebbe poi avvantaggiata anche sul piano tecnologico dello sviluppo della televisione.
Si è già visto come la televisione sia letteralmente 'dilagata' negli USA e poi in tutto l'Occidente divenendo tra l'altro, più di quanto non lo fossero mai stati ad esempio il telefono o l'automobile, il simbolo di un processo di 'americanizzazione' in corso. Sul piano istituzionale, si riprodusse immediatamente la divaricazione che già si era stabilita negli anni venti per la radio. Da un lato vi erano i paesi, in particolare nelle Americhe, dove il broadcasting era affidato al mercato, peraltro a carattere oligopolistico anche per la limitatezza quantitativa delle frequenze (una limitatezza che secondo Pool de Sola - v., 1983 - era almeno in parte pretestuosa); dall'altro vi erano i paesi europei (con l'eccezione del Regno Unito, dove nel 1954 nacque una televisione commerciale, per altro rigorosamente regolata, accanto alla BBC) dove la televisione era affidata allo Stato, considerato il miglior garante del pluralismo ma anche il difensore dei cittadini da un medium ritenuto troppo influente, politicamente e psicologicamente, per affidarlo al mercato. In alcuni paesi, tra cui il Giappone, si cominciò da subito a sperimentare quel sistema misto che più avanti sarebbe divenuto la regola.
Quasi ovunque, tuttavia, la televisione rivelò subito le sue straordinarie potenzialità di veicolo pubblicitario (per il caso americano in particolare v. Barnouw, 1981): un altro fattore, oltre a quelli ricordati prima, della centralità che assunse nel sistema dei media, un sistema per il quale sempre più i finanziamenti pubblicitari fungevano da ossigeno e da collante.È in questa fase che la programmazione televisiva cominciò a impadronirsi di tutte le ore della giornata (anche se in Europa la cosiddetta daytime television rimase un fenomeno abbastanza limitato fino ai tardi anni settanta) e di tutti i generi. Una delle conseguenze più rilevanti fu lo sviluppo di un modello in parte nuovo di comunicazione 'di massa', costituito da un lato da prodotti, come si cominciò a dire alla fine degli anni sessanta, 'generalisti', rivolti cioè a un unico grande pubblico indifferenziato, dall'altro da prodotti 'mirati', rivolti cioè a un pubblico specifico, presente in alcune ore della giornata.Quello che emerse da subito con chiarezza (e che era stato anticipato dalle Radio research condotte da Adorno e P.F. Lazarsfeld nei primi anni quaranta) fu comunque che il pubblico televisivo era un'entità statistica più che un fatto sociale concreto: un'entità da misurare sui comportamenti più che sulle opinioni. Anche per questo la scienza sociale che dagli anni quaranta fino ai primi anni settanta ha dominato incontrastata lo studio della TV è senz'altro la sociologia, come hanno ben ricostruito le ampie ed equilibrate rassegne critiche di Mauro Wolf (v., 1986 e 1992).
Fu appunto nella definizione del pubblico che, già alla fine degli anni sessanta, cominciarono ad apparire i primi segni di una fine dell''età d'oro' della televisione. Come ricorda, ancora, Barnouw, nel 1968-1969 (in coincidenza forse non casuale sia con la generale crisi del consenso alla cultura di massa dominante sia con l'avvio del declino demografico in Occidente) il mondo pubblicitario americano cominciò a cambiare atteggiamento nei confronti delle grandi compagnie televisive. Venivano ora richieste maggiori prove dell'effettiva efficacia dei messaggi e, soprattutto, della capacità di raggiungere segmenti di pubblico considerati appetibili.Negli anni successivi, un'innovazione tecnologica, la TV via cavo, che si diffuse negli USA assai prima che in Europa, rafforzò ulteriormente la tendenza alla differenziazione del pubblico, proponendo canali 'a tema' e presto anche servizi specializzati (televisione pay-per-view, cioè con pagamento per i singoli spettacoli). Accanto alla TV via cavo, un altro medium cominciò a sottrarre spettatori all'intrattenimento televisivo 'tradizionale': il videoregistratore, che consente di programmare la propria visione di film e altri spettacoli.Contemporaneamente si verificava un altro cambiamento tecnologico, apparentemente meno radicale ma i cui effetti reali nessuno ha studiato in modo approfondito: la televisione passava in tutti i paesi sviluppati dal bianco e nero al colore, cosa che aggiungeva un tocco di realismo ma creava nello stesso tempo un effetto surreale, in quanto i colori televisivi sono strutturalmente diversi da quelli 'naturali' (v. Ortoleva, Un ventennio..., 1995).
Negli USA l'effetto di tutti questi mutamenti, e in particolare dell'avvento del cavo, fu di introdurre accanto alle reti tradizionali altri soggetti. In Europa fu quello di rimettere in discussione la legittimità stessa del monopolio pubblico, il che portò con varie dinamiche a forme di sistema misto in quasi tutti i paesi del continente.Cambiò anche la programmazione della TV via etere, nella direzione della cosiddetta 'neotelevisione': gli appuntamenti settimanali divennero prevalentemente quotidiani, i programmi diurni e quelli delle ore notturne assunsero un rilievo assai maggiore (anche dal punto di vista dei pubblicitari), crebbe progressivamente il peso dei programmi di conversazione rispetto a quelli più 'classici', dallo sceneggiato al documentario; all'interno della produzione di fiction le lunghe serie a puntate, che in precedenza erano state confinate in spazi relativamente marginali e destinate ai settori meno istruiti del pubblico, assunsero un ruolo dominante; si imposero generi completamente nuovi, come il videoclip musicale.In sintesi, si può dire che con la neotelevisione (v. Casetti e Odin, 1990) si ridefiniscono le aspettative degli spettatori: non più il piacere narrativo o conoscitivo offerto dal singolo programma, ma la colonna sonora-visiva di accompagnamento ininterrotto che occupa interi segmenti del proprio tempo. Senza l'avvento di questo nuovo modello di programmazione sarebbe forse meno comprensibile l'avvento di quella letteratura sulla TV che può essere definita 'neo-apocalittica', rappresentata in particolare da Enzensberger.
Comunque, l'epoca della neotelevisione ha visto, accanto agli studi sociologici, lo sviluppo di un filone di studi semiotici sul medium (un contributo importante in questo senso è stato dato dalla rivista francese "Communications" e, in Italia, dalle ricerche volute e commissionate dalla VQPT - Verifica Qualitativa Programmi Televisivi RAI -, sotto la direzione di Giancarlo Mencucci), nonché un'attenzione di tipo antropologico alla TV come rito, come abitudine, come tratto dominante delle culture della postmodernità; inoltre, si è avuta forse per la prima volta un'attenzione critica ai programmi televisivi come testi in sé significativi (v. Sklar, 1980; v. Marc, 1984; per l'Italia v. Grasso, 1993).
Senza la neotelevisione, inoltre, non sarebbe spiegabile un altro fenomeno: il riemergere negli ultimi anni di un'abbondante letteratura catastrofista sugli 'effetti della televisione'. In tutta la storia dei media, infatti, una letteratura catastrofista ha generalmente accompagnato ogni nuovo medium, dal romanzo, al fumetto, al cinema, per lo spazio di due-tre decenni: erano le generazioni cresciute prima del suo avvento a manifestare (con argomenti che ricorrono identici da un secolo all'altro) il loro timore per gli effetti che la nuova forma di comunicazione poteva avere sui più giovani. La televisione è forse l'unico caso in cui le generazioni che sono cresciute con un medium continuano a temerne gli effetti sui propri figli. Ciò è dovuto in parte, come argomenta persuasivamente Joshua Meyrowitz (v., 1985), alla peculiare 'intrusività' del mezzo nella vita familiare, ma anche al fatto che la programmazione televisiva e la stessa tecnica sono cambiate nel frattempo in modo profondo, per cui anche chi è cresciuto con la televisione degli anni cinquanta e sessanta si trova almeno in parte a disagio con l'evoluzione successiva. I genitori vedono i figli alle prese con un medium che per loro è almeno parzialmente irriconoscibile, e ne temono l'influenza.All'inizio degli anni novanta, il sistema neotelevisivo non appare ancora stabilizzato, né economicamente (v. Richeri, 1992) né sul piano tecnologico. Dal punto di vista economico, gli anni della grande espansione, anche in Europa, della televisione commerciale e degli investimenti pubblicitari sembrano finiti con l'inizio degli anni novanta, in parte per effetto della generale contrazione della spesa pubblicitaria, in parte per lo sviluppo di veicoli più efficaci o quanto meno più verificabili.
Lo sviluppo già ricordato delle diverse forme di televisione a pagamento è un tentativo di risposta a questa crisi, ma sembra puntare più su mercati 'di nicchia' che su un pubblico (e quindi anche su un bacino commerciale) paragonabili a quello della televisione cosiddetta generalista.D'altra parte, le diffuse profezie sul declino della TV tradizionale (sul tema v. Missika e Wolton, 1983, e la successiva correzione di rotta operata dallo stesso Wolton: v., 1994) si sono rivelate quanto meno premature. Quello che si sta verificando è piuttosto una diversificazione del mercato televisivo: rimane la robusta presenza della TV generalista via etere, il cui pubblico per altro tende ad appiattirsi verso il basso della scala dei redditi e dell'istruzione, mentre altre forme di TV ne integrano e in parte anticipano l'offerta.Sul piano tecnologico, il fenomeno di maggior portata di questa fine secolo sembra essere la digitalizzazione, cioè lo sviluppo di una tecnica che consente di veicolare su un unico canale messaggi audio, video, testuali, e dati. Ciò consente di superare le barriere tra la televisione e altre forme della cultura di massa, e permette anche da un lato lo sviluppo di tecniche di televisione interattiva, cioè con parziale intervento dello spettatore (il termine televisione interattiva è peraltro usato in accezioni molto diverse: v. Bettetini e Colombo, 1992), dall'altro le forme più avanzate di TV ad alta definizione, capace cioè di fornire anche sugli schermi domestici un'immagine di qualità paragonabile a quella cinematografica. Va detto però che contrariamente a molte previsioni né la TV interattiva né quella ad alta definizione sono andate, dopo anni dai primi esperimenti, oltre lo stadio dei prototipi.La letteratura sulla televisione degli ultimi anni sembra così essersi nettamente divisa in due filoni: da un lato lo studio della televisione 'che c'è' privilegia decisamente gli aspetti economici, trascurati in precedenza; dall'altro lo studio della televisione 'che non c'è' (da Gilder a De Kerckhove) si sofferma soprattutto sulle novità promesse dalle nuove tecnologie, disegnando scenari sociali plausibili, ma spesso dando per scontato l'avvento di un sistema dei media che tecnologicamente non è ancora compiuto e socialmente tutto da verificare.
Dinosauro o medium-zero, la televisione si presenta così, in molte interpretazioni, come spaventosamente banale, ma in definitiva come ancora più enigmatica di quanto appariva ai primi studiosi che cercarono di comprenderne le caratteristiche
Abruzzese, A., Lo splendore della TV, Genova 1995.
Adorno, T.W., Television and patterns of mass culture (1954), in Mass culture (a cura di B. Rosenberg e D. Manning White), Glencoe, Ill., 1958.
Anders, G., Die Antiquiertheit des Menschen, München 1956 (tr. it.: L'uomo è antiquato, Milano 1963).
Barnouw, E., The sponsor, New York 1981.
Baudrillard, J., Le crime parfait, Paris 1995 (tr. it.: Il delitto perfetto, Milano 1996).
Bettelheim, B., A good enough parent, New York 1987 (tr. it.: Un genitore quasi perfetto, Milano 1988).
Bettetini, G., Colombo, F., Le nuove tecnologie della comunicazione, Milano 1992.
Casetti, F., Odin, R., Télévisions mutations, in "Communications", 1990, LI.
De Kerckhove, D., Brainframes, Santa Monica, Cal., 1990 (tr. it.: Brainframes, Bologna 1992).
Dematté, C., Perretti, F., L'impresa televisiva, Milano 1997.
De Rita, L., I contadini e la televisione, Bologna 1964.
Derrida, J., Stigler, B., Échographies de la télévision, Paris 1996 (tr. it.: Ecografie della televisione, Milano 1997).
Eco, U., Apocalittici e integrati, Milano 1964.
Enzensberger, H.M., Mittelmass und Wahn, Frankfurt a.M. 1988 (tr. it.: Per non morire di televisione, Milano 1990).
Faenza, R., Senza chiedere permesso, Milano 1973.
Flichy, P., Dalla parte dell'utente, in Mediario '95, Torino 1996.
Gambaro, M., Ricciardi, I.A., Economia dell'informazione e della comunicazione, Roma-Bari 1996.
Gilder, G., Life after television, New York 1992 (tr. it.: La vita oltre la televisione, Bologna 1996).
Grasso, A., Storia della televisione italiana, Milano 1993.
Heeter, C., Implications of new interactive technologies for conceptualizing communications, in The social usage of the media (a cura di J. Salvaggio), Norwood, Mass., 1989.
Horkheimer, M., Adorno, T.W., Dialektik der Aufklärung, Frankfurt a.M. 1947 (tr. it.: Dialettica dell'illuminismo, Torino 1966).
Hobsbawm, E., Age of extremes, New York 1994 (tr. it.: Il secolo breve, Milano 1995).
Lang, K., Engel Lang, D., Politics and television, Chicago 1968.
McLuhan, M., Understanding media, New York 1964 (tr. it.: Gli strumenti del comunicare, Milano 1967).
Mander, J., Four arguments for the elimination of television, New York 1978 (tr. it.: Quattro argomenti per l'abolizione della televisione, Bari 1983).
Marc, D., Demographic vistas, Philadelphia, Pa., 1984.
Meyrowitz, J., No sense of place, New York 1985 (tr. it.: Oltre il senso del luogo, Bologna 1992).
Missika, J.-L., Wolton, D., La folle du logis, Paris 1983.
Monteleone, F., Storia della radio e della televisione in Italia, Venezia 1995.
Negroponte, N., Being digital, New York 1995 (tr. it.: Essere digitali, Milano 1995).
Nurkse, R., Problems of capital formation in underdeveloped countries, Oxford 1953 (tr. it.: La formazione del capitale nei paesi sottosviluppati, Torino 1965).
Ortoleva, P., Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Roma 1988.
Ortoleva, P., Mediastoria. Comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo, Parma 1995.
Ortoleva, P., Un ventennio a colori, Firenze 1995.
Ortoleva, P., La presenza e il sistema: il videotelefono, in Oggetti tecnici (a cura di M. Nacci), Venezia 1997.
Pilati, A., Il nuovo sistema dei media, Milano 1988.
Pilati, A., L'industria dei media, Milano 1992.
Pinto, F. (a cura di), Intellettuali e televisione in Italia negli anni cinquanta, Roma 1976.
Pool de Sola, I., Technologies of freedom, Cambridge 1983 (tr. it.: Tecnologie di libertà, Torino 1995).
Pool de Sola, I., Technologies without boundaries, Cambridge 1990.
Popper, K., Condry, J., Cattiva maestra televisione, Roma 1993.
Postman, N., Teaching as a conserving activity, New York 1979 (tr. it.: Ecologia dei media, Roma 1981).
Richeri, G., La TV che conta, Bologna 1992.
Sklar, R., Prime time America, New York 1980.
Skornia, H.J., Television and society, New York 1965 (tr. it.: Televisione e società in America, Torino 1968).
Uricchio, W. (a cura di), Television in Nazi Germany, in "Journal of film, radio and television history", 1993, II.
Williams, R., Television. Technology and cultural form, New York 1975 (tr. it.: Televisione. Tecnologia e forma culturale, Bari 1982).
Wolf, M., Teorie dei mass media, Milano 1986.
Wolf, M., Gli effetti sociali dei media, Milano 1992.
Wolton, D., Éloge de la télévision grand public, Paris 1994.