Tematiche delle emigrazioni
Le emigrazioni internazionali hanno una storia lunga, che conosce un’improvvisa accelerazione durante l’Ottocento a causa della congiuntura socio-economica e dello sviluppo dei mezzi di trasporto. Treni e navi a vapore incentivano gli spostamenti e rendono più semplice varcare confini e oceani. L’accresciuta mobilità colpisce negativamente i ceti politici europei, che si stanno formando o si sono appena formati nel processo che porta alla nascita degli Stati-nazione, e inoltre conquista spazio sulla stampa periodica e quotidiana, allora in pieno sviluppo. Di conseguenza l’Ottocento non è tanto o non è soltanto il secolo della «grande emigrazione», ma anche quello della scoperta di quest’ultima come problema politico, economico e sociale. L’aspetto più macroscopico agli occhi dei politici e dei giornalisti è costituito dai flussi intercontinentali. Fra la Restaurazione e la Grande guerra salpano dal continente europeo decine di milioni di emigranti, suddivisi in più ondate. La prima è legata alla fine delle guerre napoleoniche: lo scioglimento degli eserciti ha infatti lasciato senza impiego e senza radici ufficiali e soldati degli eserciti vincitori e vinti. Tale processo è significativo non solo in Francia, dove l’aspetto politico dell’espatrio (la fuga degli antichi rivoluzionari nei Paesi Bassi e nelle Americhe) si unisce a quello economico, ma anche nella Gran Bretagna, dove soldati e ufficiali messi d’ufficio a mezza paga devono trovare come sopravvivere. Una seconda ondata, più specificamente politica, s’innesta sulla fuga dei rivoluzionari e dei bonapartisti dalla Francia e dai territori per un breve periodo francesi. S’irrobustisce grazie ai moti democratici e/o indipendentisti degli anni 1820 e 1830. Infine raggiunge il proprio zenit dopo il 1848, quando il fallimento dei moti sociali e di quelli nazionalistici in tutta Europa spinge ad abbandonare la patria «matrigna» o caduta sotto il dominio straniero. Nel frattempo ha preso slancio una terza ondata, che si prolunga sino alla Grande guerra e ha carattere più propriamente economico, pur mantenendo risvolti politici. A coloro che cercano soltanto occasioni di guadagno si accompagnano gli esuli della Comune di Parigi in Francia o i delusi dal Risorgimento in Italia: in quest’ultimo caso la diaspora repubblicana o comunque antisabauda coesiste con quella di chi ha partecipato alle grandi agitazioni sociali dei fasci siciliani (1891-93), del 1898, degli scioperi nel biellese agli inizi del nuovo secolo.
I flussi economici e quelli più specificamente politici continuano sino alla grande crisi del 1929. In precedenza hanno invece resistito persino alla riduzione delle comunicazioni a causa della Prima guerra mondiale e alle restrizioni antimmigranti di numerosi Stati americani. Possiamo dunque immaginare che le tre ondate sin qui descritte formino un unico e ininterrotto movimento ultrasecolare che fra il 1815 e il 1930 porta oltre l’oceano dai 50 ai 55 milioni di europei. Questo espatrio non è definitivo: quando le statistiche nazionali ci soccorrono, scopriamo che oltre un terzo degli emigranti europei rientra e che molti partono a più riprese e verso più destinazioni. Inoltre appare evidente che alla traversata dell’Atlantico corrisponde una forte mobilità all’interno del continente europeo. Sin dall’Età moderna si sono infatti formati circuiti europei di manodopera costituiti da regioni di attrazione e regioni di espulsione della manodopera. Tale mercato del lavoro appare ruotare attorno a sette aree fondamentali: le coste del Mare del Nord; Londra e l’Inghilterra orientale; Parigi e il suo bacino; l’asse Provenza-Linguadoca-(Catalogna); la Castiglia; il Piemonte, sul quale gravita l’Italia del Nord; l’asse Toscana meridionale-Lazio-Corsica, sul quale gravita l’Italia centrale. Dopo il 1815 il sistema del Mare del Nord è soppiantato dalla Germania settentrionale, in particolare da Brema, da Amburgo e dal bacino della Ruhr, dove i lavoratori tendono a trasferirsi permanentemente. La propensione a partire è particolarmente significativa in Irlanda, Galles, Inghilterra e Scozia, che aggiungono alle mete americane anche gli avamposti imperiali. Le due isole condividono sin dagli inizi dell’Età moderna la propensione a partire, probabilmente a causa della limitata dimensione geografica. Dal 1815 sono alla testa della circolazione europea di manodopera e fra il 1820 e il 1930 esportano circa 19 milioni di lavoratori, di cui 7,3 provenienti dall’Irlanda. Il loro primato è, però, incalzato da altre regioni. Se tra il 1820 e il 1870 le due isole inviano negli Stati Uniti quasi quattro milioni di emigranti, l’area germanica e quella dell’impero austro-ungarico le tallonano con poco meno di 2,4 milioni. Seguono molto staccate la Scandinavia, la Francia, la Svizzera. In pratica le isole britanniche partecipano a tutte le ondate ottocentesche, seguite con lievissimo ritardo dall’area di lingua tedesca, quindi dalla Scandinavia e dall’area di lingua francese. Con un più netto ritardo si aggiungono nella seconda metà del secolo l’Europa orientale (soprattutto la Polonia austriaca e russa e l’Ucraina) e quella meridionale (penisole Iberica, Italiana, Balcanica). Alla fine dell’Ottocento si ha l’impressione che l’intero continente europeo sia in movimento e si cercano metodi per attutire la valenza traumatica di simili esodi. Da un lato, infatti, l’ideologia nazionalista, che ha trionfato quasi ovunque, considera l’emigrazione un tradimento, in particolare quella definitiva. Dall’altro, le Chiese protestanti e quella cattolica temono gli effetti della lontananza, soprattutto quando le mete sono la Francia o gli Stati Uniti, considerate fucine d’indifferenza religiosa. Mentre gli esponenti nazionalisti tentano di scoraggiare le partenze, le associazioni religiose, protestanti e cattoliche, cercano di intervenire tra gli espatriati. Gli esponenti di questo attivismo religioso non intervengono soltanto sul campo, ma si preoccupano anche di studiare il fenomeno e ben presto comprendono che non è frutto del loro secolo, ma ha radici più antiche. G. Bonomelli (1831-1914), vescovo di Cremona e fondatore nel 1900 dell’opera di assistenza per gli italiani emigrati in Europa e nel Levante, decreta lapidariamente: «La storia dell’umanità, non sto in forse a dirlo, è la storia delle migrazioni: mutano forma, ma sono sempre emigrazioni» (1899). Questa dichiarazione poggia non soltanto sulle vicende storiche, ma anche sul racconto biblico: Adamo ed Eva sono espulsi dal paradiso terrestre e popolano la Terra; Noè, i suoi figli e gli animali ospitati dall’arca si disperdono sul pianeta una volta terminato il diluvio universale. Oltre un secolo dopo non ci discostiamo troppo da questa ipotesi e interpretiamo la storia universale come successive fuoriuscite da un epicentro. Il popolamento preistorico si irradia infatti, almeno per quanto oggi ci consta, dal continente africano, per cui tutte le popolazioni sono riconducibili agli stessi antenati, e procede per successive diffusioni. Alla diffusione dell’uomo preistorico segue la distribuzione di un ceppo indoeuropeo che nel secondo millennio a.C. va dall’India all’Europa. A sua volta questo strato non si è ancora sedimentato che rivoli secondari ne cambiano la disposizione, basti pensare alla fondazione di colonie fenicie o greche nel Mediterraneo. Lo stesso meccanismo di migrazione/invasione si può leggere nella successiva espansione romana in tutto il bacino mediterraneo: i romani e al loro seguito altri italici si disperdono in numerose aree di quel vasto impero e in particolare in Gallia, Spagna, Africa del Nord e Dacia. Allo stesso tempo la precoce globalizzazione del mondo romano esalta un ulteriore tipo di migrazione, quella forzata degli schiavi. La fine del mondo classico ha poi inizio con uno dei movimenti migratori più celebri della storia: le grandi invasioni dei popoli germanici, arabi e slavi. Alle prime invasioni barbariche si aggiungono nuovi flussi, in particolare quello scandinavo che diffonde gli uomini del Nord in Russia e a Bisanzio, da una parte, e in Francia, Inghilterra e in Sicilia, portando altresì all’occupazione dell’Atlantico settentrionale (Islanda, Groenlandia e addirittura l’America del Nord). L’espansione normanna nel Mediterraneo concorre alle successive crociate e queste provocano la costituzione di regni occidentali in Medio Oriente, controbilanciando per un breve arco temporale la più antica e più massiccia espansione araba, che ha unificato la sponda africana del mare nostrum e la Penisola Iberica. Dagli incroci dei flussi medievali nascono aree immigratorie che sono veri e propri crocevia etnico-culturali: la Spagna, dove convivono le tre religioni del libro; l’Italia, dove invasioni e arrivi molteplici pongono problemi di convivenza analoghi a quelli iberici; il Mediterraneo orientale, dove colonizzazione e migrazione commerciale si accavallano nei regni cristiani e negli avamposti commerciali veneziani e genovesi. Sarebbe da capire se la mobilità antica e medievale sia realmente imparentata a quella successiva, come asserisce Bonomelli. L’esperienza classico-medievale sembra infatti caratterizzarsi per gli spostamenti di popoli, pur se non mancano migrazioni individuali. Ha dunque una dimensione collettiva, che secondo alcuni studiosi è la sua vera cifra ed è ignota alla mobilità moderna e contemporanea. È, però, difficile tirare una linea di separazione fra due diverse età migratorie, una di popoli (periodi antico e medievale) e una di individui (periodi moderno e contemporaneo). A partire dal basso Medioevo abbiamo flussi infraeuropei, che nell’Età moderna si estendono agli altri continenti, dal carattere tutto sommato individuale, pur se i singoli partono in base a decisioni collettive, in genere prese su scala familiare, ma talvolta coinvolgendo interi villaggi e creando comunità compatte, soprattutto per origine geografica, nei luoghi di arrivo. Senonché questa dimensione collettiva, almeno a livello decisionale, contraddistingue pure le catene migratorie di antico regime e persino quelle ottocentesche, mentre la scoperta e la penetrazione europea di vecchi e nuovi mondi comporta dal Trecento una ripresa del modello di migrazione/invasione: si pensi alla conquista delle Americhe e alla fondazione di avamposti in Asia e Africa. Allo stesso tempo la crescita delle colonie europee incentiva la diffusione della schiavitù, popolando le Americhe di africani deportati. Se non è facile distinguere fra emigrazioni antiche e moderne, il contatto con altri popoli nell’Età moderna pone il problema delle realtà migratorie extraeuropee. Abbiamo già menzionato le invasioni barbariche, in alcuni casi partite dalle steppe asiatiche, nonché l’espansione araba. Quest’ultima è seguita da quella turca, a sua volta iniziata nell’ambito di flussi dall’Asia centrale. Per quanto riguarda l’Europa, ricordiamo ancora quella ebraica. Se invece ci concentriamo sull’Asia, dovremmo considerare come esperienze centrali: l’espansione cinese sotto la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.); l’avventura mongola, risentita persino in Europa; le diaspore cinesi in tutta l’area del Pacifico, ma anche nell’Oceano Indiano e verso l’Africa a partire dal Medioevo; la complessa interazione fra mondo indiano e mondo islamico. Queste migrazioni hanno conseguenze evidenti ancora oggi: si pensi all’importanza delle migrazioni indiane e di altri gruppi asiatici, in particolare la grande diffusione cinese che a partire dall’Ottocento ha raggiunto le Americhe e l’Europa. In effetti l’Ottocento e soprattutto il Novecento sono contraddistinti dal progressivo giustapporsi dei vari modelli migratori. Gli europei fuoriescono dal loro continente, ma altrettanto fanno gli asiatici e gli africani e più tardi anche gli americani, in particolare i latinoamericani. Alla fine del sec. 20° non è quindi raro trovare antiche regioni migratorie, come l’Italia o la Polonia, che sono al contempo luoghi di arrivo e di partenza, nei quali per giunta la mobilità interna vede implicati popolazioni locali e nuovi arrivati. Inoltre nel corso di tutto il Novecento si accentuano i fenomeni circolari: da un dato Paese si parte verso un secondo, mentre al contempo si accettano immigrati da un terzo. Oggi per es. l’Europa centrorientale riceve forza lavoro dall’Asia e allo stesso tempo invia propri cittadini nella parte occidentale del continente e nell’America Settentrionale. Se alla fine dell’Ottocento si è scoperto che la storia delle migrazioni è di fatto la storia degli esseri umani, agli inizi del nostro secolo appare chiaro che a questa complessa vicenda partecipano e hanno partecipato tutti i continenti e che inoltre la mobilità migratoria è un fenomeno complesso nel quale emigrazioni, immigrazioni e migrazioni interne possono convivere.