temere
Di questo verbo, le cui numerose occorrenze appartengono per la massima parte alla Commedia, va notata anzitutto la molteplicità dei costrutti. D. lo adopera come assoluto, oppure seguito da un complemento oggetto anche introdotto da ‛ di ' (Temer si dee di sole quelle cose..., If II 88); la proposizione che ne dipende, all'infinito quando ha lo stesso soggetto di t. (ma cfr. Vn XII 6), può seguire direttamente o essere introdotta da ‛ di ' (io... / temeva cader giuso, Pg XXV 117; onore e fama / teme di perder, XVII 119); quando il soggetto è diverso, essa si trova al congiuntivo, introdotto (o no) dal ‛ che ' (temo che la venuta non sia folle, If II 35; temendo no 'l mio dir li fosse grave, III 80; l'uso della negazione rispecchia per lo più il costrutto latino); una volta (Pd XXII 27) si ha la forma ‛ temersi '.
Quanto al significato, il verbo esprime ‛ paura ' o ‛ preoccupazione ', qualche volta ‛ esitazione ', ma è sempre legato al concetto di ‛ timore ', reso da D. con ‛ timiditate ' (v.), che è la passione dell'appetito irascibile di fronte ai pericoli che minacciano di ‛ corrompere ' la nostra vita (cfr. Cv IV XVII 4); essa è contrapposta ad audacia (v.) ed entrambe sono moderate dalla virtù della fortezza (v.). Tale passione non è di per sé negativa, ma è positiva quando è indirizzata verso un oggetto che rappresenta un reale pericolo per sé e per gli altri: cfr. If II 88, più avanti, e, più generalmente, Cv IV XXII 5 ogni animale, sì come elli è nato, razionale come bruto, se medesimo ama, e teme e fugge quelle cose che a lui sono contrarie, e quelle odia.
Le situazioni particolarmente difficili in cui D. viene a trovarsi giustificano la sua paura, puramente fisica, di un pericolo reale e immediato o di uno che le circostanze gli fanno apparire ormai prossimo. Così per es., nella cornice dei lussuriosi, io temëa 'l foco / quinci, e quindi temeva cader giuso (Pg XXV 116 e 117), mentre nel pozzo dei giganti, in seguito al violento scuotersi di Fialte, temett'io più che mai la morte (If XXXI 109), e nella bolgia dei barattieri io temetti cb'ei [i diavoli] tenesser patto (XXI 93; il patto è quello del v. 87, che Virgilio non sia feruto. Il costrutto ricalca qui perfettamente il timeo ut latino).
Riguardano D. anche alcuni esempi di uso assoluto del verbo, in cui la mancanza di un complemento che specifichi la causa del timore rende bene l'angoscioso smarrimento del poeta turbato da fatti imprevisti e inspiegabili: Subitamente questo suono [la voce di Farinata] uscìo / d'una de l'arche; però m'accostai, / temendo, un poco più al duca mio (If X 30); de la scheggia rotta [lo ‛ sterpo ' in cui è l'anima di Pier della Vigna] usciva insieme / parole e sangue; ond'io lasciai la cima / cadere, e stetti come l'uom che teme (XIII 45). Un po' diversa la situazione in un terzo luogo, che ci mostra D. disfatto dalle minacce dei demoni alle porte della città di Dite, e confortato da Virgilio: Non temer; ché 'l nostro passo / non ci può tòrre alcun (VIII 104). Cfr. anche XXI 62.
Altre occorrenze, sempre per esprimere la paura fisica di un pericolo più o meno immediato, si riferiscono ad altri personaggi: i barattieri (If XXII 101) e in particolare Ciampolo di Navarra (vv. 69 e 92: non è certo casuale la frequenza del verbo in questo canto, tutto imperniato sulla schermaglia fra puniti e punitori); o li fanti / ch'uscivan patteggiati di Caprona (XXI 94, che riprende l'occorrenza del verso precedente, già citata); oppure i Fiamminghi, che provvedono a difendersi con le dighe temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa (XV 5). In contesto figurato, in Pd VI 107 esto Carlo novello [Carlo II d'Angiò] ... tema de li artigli / ch'a più alto leon trasser lo vello, con allusione alla potenza dell'aquila imperiale; in un altro passo, soggetto del verbo è l'agnello, che intra due brame / di fieri lupi rimarrebbe immobile, igualmente temendo (IV 5).
Anche con soggetto inanimato: se la cera avesse spirito da temere, più temerebbe di venire a lo raggio del sole che non farebbe la pietra, Cv II IX 7.
In If I 48 la maggioranza delle edizioni moderne, compresa la '21, legge sì che parea che l'aere ne temesse, ma il Petrocchi ha preferito (per i motivi discussi in Introduzione 165-166) la lezione fremesse; v. TREMARE.
Ma più spesso non è un pericolo concreto che induce a t., bensì una situazione, o un'entità astratta, alludendo il verbo a una paura che tocca la sensibilità, non il fisico: temendo non altri si fosse accorto del mio tremare..., Vn XIV 4 (analogo a XXXV 3; cfr. anche XIX 22); La vostra [degli occhi] vanità... / spaventami sì, ch'io temo forte / del viso d'una donna che vi mira, " perché quel viso con l'espressione pietosa e col ‛ color d'amore ' l'aveva subito commosso e cominciato a vincere " (Barbi-Maggini, a XXXVII 8 10; cfr. anche XXXVI 4 8, Cv II IX 7); è chi podere, grazia, onore e fama / teme di perder perch'altri sormonti (Pg XVII 119; un concetto analogo in Cv I IV 7, a proposito di coloro che, in presenza di una persona famosa... temono, per la eccellenza di quel cotale, meno esser pregiati), mentre s'io al vero son timido amico, / temo di perder fama tra i posteri (Pd XVII 119); Voglia assoluta... / consentevi [al danno] in tanto in quanto teme, / se si ritrae, cadere in più affanno (IV 110; cfr. anche i contesti metaforici di XI 130 e Pg XIV 54, dove le pecore e le volpi stanno a rappresentare i domenicani degeneri e i Pisani); temendo non che senta Amore, / prendo vergogna (Rime LXI 13), interessante per l'" intreccio di due costruzioni: la positiva che sopravviene dopo la negativa normale (temere non col soggiuntivo senz'altra congiunzione) " (Contini); Cv II Voi che 'ntendendo 26, ripreso in XV 5 Ove si dice: Sed e' non teme angoscia di sospiri, qui si vuole intendere ‛ se elli non teme labore di studio e lite di dubitazioni (l'argomento è ancora trattato, con le stesse parole, in VII 12); Rime XCI 105 è folle chi non si rimove / per tema di vergogna da follia; / che que' la teme c'ha del mal paura, / perché, fuggendo l'un, l'altro assicura (" vero timor di vergogna c'è in colui che, avendo paura del male, lo evita, e perciò si assicura contro la vergogna ", Barbi-Pernicone); Chi tal rob'hae, non teme mai vergogna ' (Fiore LXXXVIII 14: Falsembiante vuoi dire che " non teme mai di essere svergognato " chi " si atteggia a un Alberto Magno, cioè a teologo dotto e pio ", Petronio; CCXI 6). Con costrutto assoluto: Cv III Amor che ne la mente 84 (ripreso in X 2) e 85; IV XIII 12, in traduzione da Lucano: A quali tempii o a quali muri poreo questo avvenire, cioè non temere con alcun tumulto, bussando la mano di Cesare? (cfr. Phars. V 530 " nullo trepidare tumultu ").
Nel II canto dell'Inferno si registrano quattro occorrenze del verbo, con qualche differenza di significato. Al timore di D. che il suo viaggio nell'oltremondo non sia folle (v. 35) sembra aver già risposto Beatrice, dichiarando a Virgilio - il quale le aveva chiesto la cagion che non ti guardi / de lo scender qua giuso... / de l'ampio loco ove tornar tu ardi (vv. 82-84) - che ella non ‛ teme ' di venir qua entro poiché temer si dee di sole quelle cose / c'hanno potenza di fare altrui male; / de l'altre no (vv. 87-88). Ma se la paura che Virgilio attribuisce a Beatrice sarebbe motivata dal fatto, insolito per un beato, di trovarsi nel mondo dei dannati, quella di D. deriva dal suo sentirsi impari all'alto compito al quale Virgilio lo chiama, sulle orme di Enea e di s. Paolo (Ma io, perché venirvi?... / Io non Enëa, io non Paulo sono, vv. 32-33): è dunque frutto di viltade, come gli fa subito notare il magnanimo Virgilio (vv. 44-45), di quella viltà d'animo, cioè pusillanimità, per cui l'individuo sempre si tiene meno che non è (Cv I XI 2 e 18; v. PUSILLANIMI). Il quarto esempio del canto, ancora relativo a Beatrice (temo che [D.] non sia già sì smarrito, / ch'io mi sia tardi al soccorso levata, v. 64) getta una luce di umanità sulla figura della gentilissima, in ansia per la sorte del suo fedele.
Il verbo esprime ancora vera e propria paura (di un castigo), in If XIV 17 (O vendetta di Dio, quanto tu dei / esser temuta da ciascun che legge / ciò che fu manifesto a li occhi miei!, unico esempio di passivo; cfr. anche Pd XXII 18, contrapposto a ‛ disiare '; per Pg XXXIII 36, v. SUPPA); ma altrove si estende a indicare il timore reverenziale che si deve a Dio, definendo, usato in forma negativa, l'atteggiamento sprezzante di Sapia (volsi in sù l'ardita faccia, / gridando a Dio: ‛ Omai più non ti temo! ', Pg XIII 122) o, più genericamente, quello dei peccatori (If III 108). La stessa riverenza, pur se indiretta - in quanto rivolta non proprio a Dio ma all'uomo, che intra li effetti de la divina sapienza... è mirabilissimo -, si coglie in Cv III VIII 2 (le parole ora citate sono al § 1): poiché è tanto mirabile questa creatura, certo non pur con le parole è da temere di trattare di sue condizioni, ma eziandio col pensiero.
Questo senso di timore misto a rispetto può aversi anche nei rapporti umani, anzi in qualche caso è necessario, tanto che Marco Lombardo si rammarica che il potere temporale sia ‛ giunto ' con quello spirituale, però che, giunti, l'un l'altro non teme, cioè " una podestà non dà soggezione all'altra " (Lombardi, a Pg XVI 112; il Chimenz spiega: " non ha da temere, l'uno, le correzioni dell'altro "). Vedi anche Fiore CLXXV 11; con costrutto impersonale, in Pg X 57 si teme officio non commesso, dove si vuol mettere in luce la necessità di esser cauti nell'assumersi un compito al quale non si è chiamati.
Non più paura di un danno materiale o morale, ma piuttosto pre occupazione di causare agli altri imbarazzo o disagio: questa gentilissima, la quale è contraria di tutte le noie, non degnò salutare la tua persona, temendo non fosse noiosa alla donna dello schermo (Vn XII 6), per la preoccupazione, cioè, di recarle danno; temendo no 'l mio dir li fosse grave, / infimo al fiume del parlar mi trassi (If III 80), da accostare, anche per il costrutto, a XVII 76 temendo no 'l più star crucciasse / lui che di poco star m'avea'mmonito, / torna'mi in dietro; e anche: Io stava come quei che 'n sé repreme / la punta del disio, e non s'attenta / di domandar, sì del troppo si teme (Pd XXII 27; " teme di riuscir molesto col troppo domandare ", Scartazzini-Vandelli).
Di carattere diverso, in quanto relativa al proseguimento del viaggio, la preoccupazione di Virgilio: se qui per dimandar gente s'aspetta / ... io temo forse / che troppo avrà d'indugio nostra eletta (Pg XIII 11)).
Ancora preoccupazione, legata a questioni letterarie o alla salvaguardia della propria fama: pensando che lo desiderio d'intendere queste canzoni, a alcuno illitterato avrebbe fatto lo comento latino transmutare in volgare, e temendo che 'l volgare non fosse stato posto per alcuno che l'avesse laido fatto parere..., Cv I X 10; Temo la infamia di tanta passione avere seguita, quanta, ecc. (II 16; cfr. § 15 Movemi timore d'infamia).
Nel senso di " esitare " - che include però anche quello di " aver ritegno ", venendo meno, pure qui, alla riverenza dovuta alle cose di Dio -, nell'accusa che D. scaglia contro papa Bonifacio, per bocca di Niccolò III: se' tu sì tosto di quell'aver sazio / per lo qual non temesti tòrre a 'nganno / la bella donna, e poi di farne strazio? (If XIX 56).