SOLERA, Temistocle
– Nacque a Ferrara il 25 dicembre 1815 da Antonio (v. la voce in questo Dizionario) e da Marianna Borni (o Bormi) di Iseo, penultimo di sei figli, tre maschi e tre femmine.
Il padre, magistrato e avvocato, si trasferì poi a Lovere, nel Bergamasco; arrestato nel gennaio del 1820 come appartenente ai gruppi carbonari di Ferrara, nel 1821 fu condannato a morte, pena poi commutata in vent’anni di carcere nello Spielberg. L’imperatore Francesco I volle provvedere all’educazione del figlio del prigioniero (uno zio paterno di Temistocle, Rinaldo, era ufficiale nell’esercito austriaco) e lo fece ammettere gratuitamente nel collegio imperiale Maria Teresa di Vienna, probabilmente a partire dal 1826. Nel 1828 il padre, graziato, poté tornare a ricoprire incarichi pubblici a Pavia e Brescia. Dopo una fuga dall’istituto a sedici anni circa e un breve periodo errabondo in una compagnia di cavallerizzi, il giovane Solera completò gli studi letterari presso i padri barnabiti nel collegio Longone di Milano. Nel 1834 si immatricolò a Pavia nella facoltà politico-legale, senza però laurearsi.
La prima pubblicazione fu un opuscolo di versi religiosi (I miei primi canti, Milano 1837), genere che coltivò anche in seguito (nel 1854 stampò, sempre a Milano, L’arpa cattolica, ispirandosi agli Inni sacri di Alessandro Manzoni). Nel 1838 uscirono le Lettere giocose, raccolta poetica di genere satirico. La vocazione artistico-letteraria di Solera trovò un ambito di sviluppo rapido e tumultuoso nel melodramma, come collaboratore della rivista teatrale Il Pirata, come poeta del giovane Giuseppe Verdi e in parallelo anche come librettista e compositore in proprio. L’impresario Bartolomeo Merelli lo incaricò di rivedere un libretto di Antonio Piazza (1795-1872) assegnato a Verdi per il suo debutto teatrale, Oberto conte di San Bonifacio, andato in scena nel teatro alla Scala il 17 novembre 1839 con buon esito. Dello stesso anno è la romanza L’esule, di soggetto politico, che Verdi intonò per voce e pianoforte. In una delle repliche dell’Oberto fu eseguito tra un atto e l’altro l’inno La melodia, testo e musica di Solera.
Il 20 marzo 1840 anch’egli esordì da compositore alla Scala, con Ildegonda, basata sull’omonima novella (1820) di Tommaso Grossi, allora popolare. Nello stesso anno pubblicò anche un romanzo tragico di attualità, Michelina, ambientato durante l’epidemia milanese di colera del 1836, mentre al teatro Carlo Felice di Genova andò in scena Gildippe ed Odoardo, melodramma tratto dalla Gerusalemme liberata, musica di Otto Nicolai. Il 4 ottobre 1841 la Scala allestì Il contadino di Agliate, musica del principiante Alberto Leoni; l’opera, ambientata nel XIV secolo, fu ripresa l’anno dopo a Modena con il titolo La fanciulla di Castelguelfo e musica del librettista, il quale nell’occasione conobbe la diciassettenne Teresa Rusmini (o Rosmini), contralto, che avrebbe sposato di lì a poco. Nel 1842 scrisse la tragedia lirica Galeotto Manfredi, per la musica di Carlo Hermann (teatro Filarmonico, Verona), mentre al San Benedetto di Venezia andarono in scena I Bonifazi ed i Salinguerra, nuovo titolo dell’Oberto verdiano, musicato ex novo da Achille Graffigna. Nel 1843 al teatro Nuovo di Padova debuttò la terza opera di Solera, il dramma lirico Genio e sventura (sul soggetto del Michelangelo e Rolla di Charles Lafont, già sfruttato da Salvadore Cammarano e Federico Ricci). Nel 1845 il libretto di Ildegonda divenne oggetto di un concorso di composizione per gli studenti del Conservatorio di Milano. Lo vinse la versione del giovane madrileno Juan Emilio Arrieta: ripresa a Madrid nel 1850 al teatro del Real Palacio e nel 1854 al teatro Real, fu la prima opera di un compositore spagnolo rappresentata su quelle scene; ancora nel 1866 il dramma fu intonato dal messicano Melesio Morales.
Se il primo libretto per Verdi era stato il mero adattamento di una pièce altrui, che Solera neppure firmò, il Nabucodonosor (poi semplificato in Nabucco; Scala, 9 marzo 1842) si presentò invece come un costrutto drammaturgico decisamente originale, rivestito di musiche irresistibili dall’appassionato estro verdiano. In origine l’impresario Merelli aveva destinato il dramma lirico a Nicolai, il quale lo rifiutò (stava scrivendo Il proscritto); e Verdi lo accettò non senza riluttanza. Solera si era ispirato a un dramma francese di Auguste Anicet-Bourgeois e Francis Cornu andato in scena a Parigi nel 1836, Nabuchodonosor, giunto a Milano nel 1838 in forma di ballo, coreografo Antonio Cortesi. Il trionfo di Nabucco, ripreso nella stagione autunnale con cinquantasette repliche, segnò la consacrazione di Verdi e dello stesso Solera. La loro collaborazione proseguì con I Lombardi alla prima crociata (Scala, 11 febbraio 1843), tratto dal fortunato poema omonimo di Grossi del 1826 (ma il librettista fu duramente accusato sia di sciatteria stilistica sia di plagio); con Giovanna d’Arco da Friedrich Schiller (Scala, 15 febbraio 1845, ripresa al teatro Argentina di Roma con varianti testuali e nuovo titolo, Orietta di Lesbo); e con Attila, dalla tragedia romantica di Zacharias Werner (Venezia, La Fenice, 17 marzo 1846).
Per soggetti e tipologia drammatica i melodrammi di Solera corrispondono appieno alla poetica tardoromantica e risorgimentale: in un’ambientazione storica medioevale o biblica insorge un conflitto tra sentimenti privati o religiosi e amor di patria, intercalato a grandiose scene corali dall’evidente significato allegorico-politico (ritmate dalla cadenza martellante del decasillabo: «Va pensiero sull’ali dorate» in Nabucco, «O Signor che dal tetto natio» nei Lombardi). Nel percorso di formazione artistica verdiana i libretti di Solera costituirono un fortunato termine di confronto tra la musica del giovane compositore e una poetica teatrale fiammeggiante e agguerrita, propriamente risorgimentale. Per di più, mantenendo attivo il sodalizio fintanto che fu possibile, Verdi riconobbe in Solera non soltanto un letterato, ma anche un buon conoscitore della drammaturgia e delle sue esigenze: «conosce il teatro, l’effetto, e le forme musicali» (lettera del 15 novembre 1843; Verdi, 2012, p. 88).
Il rapporto s’interruppe nell’ottobre del 1845, a libretto di Attila non ancora ultimato, con disappunto di Verdi (che dovette ricorrere a Francesco Maria Piave): Solera partì per Barcellona per accompagnare la moglie, scritturata nel teatro Nuevo. Il soggiorno iberico, protrattosi fino al 1853, fu una delle fasi più movimentate nella poliedrica carriera di Solera: dividendosi tra Siviglia, Valenza, Malaga, Almeria, Saragozza e infine Madrid, fu impresario, compositore, direttore d’orchestra, librettista e poeta in lingua castigliana. In Spagna nacquero anche due figli, Antonio e Amalia.
Solera approdò in Spagna negli anni in cui sbocciava l’entusiasmo per il melodramma verdiano e nascevano o si sviluppavano alcune fra le maggiori istituzioni teatrali locali: nella capitale il teatro del Real Palacio, dove nel 1850 allestì La conquista di Granada, con musica di Arrieta (sarebbe poi diventata Isabella la Cattolica nel 1855), e il Real, della cui seconda stagione fu impresario (1851-52); a Barcellona il gran teatro del Liceu, che nel 1853 diede La hermana de Pelayo, opera ambientata nel 718, l’anno che segna simbolicamente l’inizio della lunga reconquista spagnola: fu paradossalmente un italiano a inaugurare il melodramma tragico in spagnolo, interamente musicato e dunque strutturalmente diverso dal genere autoctono della zarzuela (il ruolo eponimo di Ormesinda fu affidato a Rusmini; l’opera fu accolta con favore, la musica è perduta). Già nel 1847, a Granada, aveva composto e allestito La Liga lombarda, esperimento poco fortunato volto a introdurre soggetti politici sulle scene liriche iberiche. In occasione di un viaggio a Parigi conobbe il giovane compositore messicano Luis Baca, al quale diede Giovanna di Castiglia, musicata nel 1850, ma mai rappresentata. In Spagna godette a lungo della protezione della regina Isabella, che lo nominò consigliere segreto; il librettista ricambiò l’affetto con totale dedizione, scrivendo per esempio nel 1851 il «canto epico» Per la vittoria sopra i joloani dell’armi spagnuole (celebrazione della riconquista dell’isola filippina di Joló) e nel 1852 il testo della Gran cantata in onore della sovrana, musicata da Juan Daniel Skoczdopole (direttore d’orchestra titolare del Real). Il deficit accumulato nel corso della stagione assegnatagli indusse Solera ad abbandonare la gestione del massimo teatro di Madrid, nel quale peraltro aveva saputo scritturare alcuni eccellenti cantanti del repertorio belliniano e donizettiano. Nel 1853, in seguito a gravi contrasti con eminenti membri della corte di Isabella, fu costretto a tornarsene in Italia, da solo. A Milano fornì libretti a compositori di seconda fila, restando fedele a soggetti spagnoli e medioevali: La fanciulla delle Asturie (Benedetto Secchi; teatro della Canobbiana, 1856); Pergolese, un rifacimento di Genio e sventura, già destinato ad Arrieta a Madrid (Stefano Ronchetti-Monteviti; Scala, 1857); Sordello (Antonio Buzzi; Scala, 1857), poi divenuto L’indovina (Alessandria, Municipale, 1868); Vasconcello (Angelo Villanis; Venezia, La Fenice, 1858), poi divenuto Una notte di festa (Venezia, La Fenice, 1859) e riproposto ancora nel 1863 con il titolo Emanuele Filiberto; L’espiazione (Achille Peri; Scala, 1861), rifacimento dell’inedito Stella del monte, in precedenza acquisito ma non musicato da Amilcare Ponchielli. Una delle ultime prove di compositore fu la cantata Per le feste di Ismailia (1860).
Nel decennio 1858-68 antepose l’attività politico-civile a quella letteraria e musicale, prima come corriere segreto tra Parigi e Milano per conto di Napoleone III, La Marmora e Cavour, poi come funzionario statale. Dopo l’Unità fu nominato delegato-capo di pubblica sicurezza a Potenza, dove si distinse nella lotta contro il brigantaggio; per premiarlo il governo lo nominò questore di Firenze (allora capitale), ma la naturale irrequietezza dell’uomo non si conciliò mai con incarichi stanziali di lunga durata; per questo motivo in pochi anni lavorò nelle questure di Palermo, Bologna, Verona, Venezia (dove lo raggiunse la famiglia, rimpatriata dalla Spagna nel settembre del 1868).
Al di là del sentimento patriottico e della fedeltà ai Savoia, è ragionevole credere che Solera abbia accettato tali incombenze per far fronte alle continue angustie economiche, da quando aveva lasciato la Spagna. Attorno al 1860 dai carteggi verdiani traspare l’acutizzarsi di tali difficoltà, tanto che lo stesso Verdi decise di contribuire (in forma anonima) a una sottoscrizione a favore di Solera patrocinata dalla contessa Clara Maffei (Verdi, 2012, pp. 399, 418 s.): i rapporti si erano guastati già da anni, e anche in quest’occasione Verdi si espresse con severità su Solera; tuttavia, il compositore restava generoso nei confronti del suo primo librettista.
Nel 1868 il chedivè d’Egitto lo chiamò ad Alessandria per riorganizzare le forze di polizia della nazione. Dimissionario dagli incarichi pubblici italiani, volle dedicarsi al commercio antiquario e artistico, soprattutto di dipinti, viaggiando molto tra Milano, Vienna, Londra e Parigi; ma lo scarso successo in questo campo e la stanchezza derivante dall’incessante vagabondare determinarono un decadimento fisico abbastanza rapido. Dopo l’esperienza dell’Esposizione universale di Vienna (1873), per lui rovinosa, il librettista tornò ancora una volta a Parigi, attirato dalla prospettiva di affari nel campo edilizio, che però fallirono. Dopo il dramma lirico Amore ed Arte, scritto a Londra nel 1876, l’ultimo suo libretto, edito a Parigi nel 1877, fu Zilia, per il compositore cubano Gaspar Villate. Accettando infine l’esortazione dei familiari, tornò a Milano, senza coltivare più alcuna relazione pubblica, occupato a esorcizzare i fantasmi del passato con la composizione poetica (il poema satirico contro la società moderna Il medium, destinato a rimanere inedito). Gli ultimi mesi, vissuti in povertà e solitudine, completarono il ritratto di irredimibile bohémien che i contemporanei schizzarono attorno alla sua personalità: «Che vita febbrile!... Mai pace. Sempre vagabondo, sempre in cerca d’una gioja immensa. La fortuna lo caricò più volte d’oro ed egli disprezzò i suoi doni, prodigando beneficii e ricevendo solo ingratitudini» (Barbiera, 1899, p. 338).
Morì a Milano il 21 aprile 1878; il giorno seguente fu tumulato nel cimitero Monumentale.
Fonti e Bibl.: Numerose lettere e alcuni autografi di Solera (tra cui l’inedito libretto I giudizi del mondo, scritto per riavvicinarsi a Verdi) sono a Milano, Archivio storico Ricordi; le partiture autografe dell’inno La melodia e dell’opera Ildegonda sono a Milano, Biblioteca nazionale Braidense; gli eredi Solera conservano a Milano un’ingente quantità di documenti originali (Faustini, 2009), tra cui l’inedita biografia scritta dalla figlia Amalia, La vita di Temistocle Solera.
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