TEMPIO (lat. templum)
Antichità classica. - Prima di trattare dei concetti espressi da questa parola latina, accenniamo brevemente al tempio presso i Greci. Sebbene atti di culto potessero compiersi dovunque, i Greci considerarono sempre certe località come particolarmente atte al culto degli dei e ad essi più care. Erano siti nei quali sorgevano grandi alberi o boschi, o sgorgavano fonti; grotte o cime di monti; sedi di particolari fenomeni fisici. Il focolare domestico (ἑστία) era la sede delle divinità familiari, la casa del re era la sede del culto e ricettava le cose sacre del popolo: ad es. la casa del re Eretteo sull'Acropoli d'Atene era il più antico tempio ateniese. In generale, ogni organismo sociale aveva un luogo per il proprio culto. Le città che vennero formandosi in seguito, o ereditarono dal passato le antiche sedi del culto, e perciò tanti templi sorgevano sulle acropoli, dimore degli antichi re, o costituirono nuove sedi del culto divino. Lo spazio riservato al culto degli dei era un ἱερόν, che veniva ritualmente consacrato (ἵδρυσις, l'atto del fissare il divino al luogo, poi fondare, costruire il tempio), separato dall'altra terra da una chiusura o da confini, e detto perciò anche τέμενος, terra riservata agli dei, come c'erano τεμένη dei signori. Nel ἱερόν sorgeva un altare, βωμός, ἐσγάρα, per il sacrificio, e poteva anche sorgere un tempio, ναός, cioè l'abitazione della divinità (da ναίω "abito"), rappresentata dalla sua immagine o da un simbolo. La scelta della località per un tempio dipendeva o da tradizioni antiche di sacertà di certi luoghi o dalle esigenze della vita delle città, che richiedevano, ad es., templi vicino all'ἀγορά, centro dell'attività cittadina; o da ragioni topografiche, come quando si fondavano templi su luoghi eminenti, in modo che fossero ben visibili da tutt'intorno. Il tempio non era destinato alla riunione dei fedeli e i sacrifici venivano offerti sull'ara che stava fuori, di solito dinnanzi all'ingresso (però nell'interno poteva sorgere un'ara per bruciare incensi). Anzi il tempio era spesso chiuso e nella parte più recondita (ἄδυτον) non entravano che i sacerdoti. Alcuni templi erano accessibili solo a uomini o solo a donne.
Intorno al tempio sorgevano altri edifici per i sacerdoti, per accogliere le vittime e altri usi. Una parte del témenos daveva essere sottratta ad ogni uso fruttifero, ma il resto poteva essere sfruttato. Il tempio poteva possedere anche altre proprietà fondiarie e inoltre schiavi, oggetti preziosi offerti, capitali e altri beni, dai quali si traevano rendite, che servivano per le costruzioni e la manutenzione del tempio, per i sacrifici e per gli stipendî dei sacerdoti e dei serventi. Questi beni (ἱερά) erano distinti dai beni pubblici (δημόσια). L'amministrazione dei beni dei templi era affidata dapprima ai sacerdoti; ma con l'aumento dell'importanza dei templi e dei loro beni, essa fu poi in genere deferita ad appositi funzionarî eletti dalla città o si ridussero a funzionarî pubblici gli antichi amministratori (ἱεροποιοί, ἱεροταμίαι, ἱερονόμοι, ἱερομνήμονες): in ogni caso lo stato sorvegliava i beni dei templi. Ciò limitò molto in Grecia la potenza dei sacerdoti. Si hanno molti documenti epigrafici di queste amministrazioni, conti, inventarî, ecc. Nel tempio spesso si custodiva il tesoro pubblico o capitali privati. Alcuni templi avevano diritto di asilo, che alle volte si estendeva su vasto spazio attorno al tempio; e ne profittavano specialmente gli schiavi fuggitivi o i colpevoli di reati politici.
Templum era per i Romani in primo luogo uno spazio della vòlta celeste o della superficie terrestre, circolare o quadrangolare, ritualmente determinato secondo le prescrizioni augurali, entro il quale si dovevano osservare i segni della volontà divina, innanzitutto gli auspicia offerti dal volo e dal canto degli uccelli (Varrone, De lingua latina, VII, 8: templum locus augurii aut auspicii causa quibusdam conceptis verbis finitus). Siccome era necessario, per l'interpretazione degli auspici, fissare da qual parte dell'orizzonte essi pervenivano, l'augure, per determinare il templum, doveva tracciare con la sua verga (lituus) una linea che andava di solito da oriente a occidente (decumanus) e perpendicolare a questa un'altra linea da settentrione a mezzogiorno (cardo), la cui presenza è spesso sottintesa, ma che era l'asse del templum. Così il templum era diviso in parti (perciò la parola è spesso collegata col greco τέμνω "taglio"). Ponendosi quindi con la faccia in una data direzione, che alle volte è il mezzogiorno, alle volte l'oriente, l'augure determinava la parte sinistra e la parte destra del templum e poteva quindi stabilire, se era rivolto a mezzogiorno, se gli auspici venivano da sinistra, cioè dal levante, nel qual caso essi erano favorevoli, secondo la più antica dottrina romana (i Greci ritenevano invece i segni da sinistra sfavorevoli, credenza che passò poi ai Romani; cfr. il nostro sinistro "disgrazia"). Inoltre il decumano divideva il tempio in una parte anteriore, antica, a sud, e in una posteriore, postica, a nord. Il templum risultava quindi diviso in quattro partes o regiones: sinistra, dextra, antica, postica (Varrone, De l. lat., VII, 7). Gli Etruschi lo suddividevano ancora in sedici regioni. Posto ciò, l'augure doveva fissare dei limiti al tempio, e sceglieva perciò certi punti all'orizzonte del campo visivo o altrove e procedeva quindi alle operazioni dell'augurio stando sul decussis o incrocio del cardo col decumano. Si veda, ad esempio, la descrizione della cerimonia dell'inaugurazione del re Numa in Livio, I, 18, 6 segg. Varrone ci ha inoltre conservato, con corruzioni spiegabili in un testo così arcaico e oscuro, la formula della consacrazione del templum sull'arce capitolina, poiché egli dice che la formula non era la stessa dovunque (De l. lat., VII, 8; tradotta e commentata dal Goidanich: v. Bibl.). C'erano infatti templa pubblici e privati, per auspici pubblici o privati. Altri esempî: augurio di Romolo in Dionigi, Antichità rom., II, 5; di Atto Navio, ibid., III, 70 (cfr. IV, 60) e Cicerone, De div., I, 31. Questa pratica del templum augurale era comune ai Romani e agli altri popoli italici, come è dimostrato dal rituale riferito nelle Tavole iguvine (v. gubbio). E la dottrina relativa era in gran parte di origine etrusca.
Gli spazî dedicati alle divinità, e nei quali si potevano pure osservare gli auspicia, erano a questo scopo di solito delimitati come templa e il nome passò poi dallo spazio limitato all'edificio per la divinità che su di esso si costruiva e che si diceva più propriamente aedes. Ma Varrone avverte (De l. lat., VII, 10 e in Gellio, XIV, 7, 7) che non tutte le aedes erano templa; p. es. non lo era quella di Vesta. Ma gli auspici erano richiesti anche per atti, che non si svolgevano soltanto nelle case degli dei, p. es. le assemblee del popolo e le riunioni del senato. Perciò erano ritualmente delimitati, cioè templa, per quanto non consacrati (sancta), la curia Hostilia, nella quale si riuniva il senato (che spesso però si raccoglieva anche in aedes degli dei), il comitium con i relativi rostra, cioè la tribuna degli oratori, una zona del Campo di Marte per i comizî centuriatí, ecc. Anche nell'accampamento romano c'era un templum, sul quale sorgeva il tabernaculum, nel quale il generale prendeva gli auspici. Ma pare che le norme rituali della limitazione del templum siano state applicate anche alla fondazione delle città, che avevano il loro cardo e il loro decumanus che le dividevano in quattro regioni, e alla misurazione del territorio costituito in privata proprietà, che era pure diviso in parcelle da cardi e decumani (v. agrimensura).
I loca sacra, che si contrappongono ai loca publica e ai loca privata, divenivano tali per pubblica deliberazione (legge o senatoconsulto), erano cioè dedicata, venivano sorvegliati e custoditi dallo stato ed erano sottratti al commercio; erano fana (il contrapposto è profana), quantunque più tardi con questo nome si designassero i templi più antichi o i templi in genere. Anche delubrum, propriamente il luogo sacro per le abluzioni rituali, prese poi il significato di edificio sacro. Sul luogo sacro potevano trovarsi sedi di culto delle forme più svariate, dal lucus, bosco sacro, alla fonte, all'arco, all'ara isolata, alla cappella (sacellum, aedicula) e infine all'aedes sacra, il tempio. Questo, che era la casa della divinità e che racchiudeva il suo simulacro, costruito poi in stile etrusco o greco, prese col tempo il sopravvento su tutte le altre forme, le quali sopravvissero solo per divinità divenute oscure. Soltanto il tempio di Vesta, sotto le esteriori forme greche, mantenne la vetusta struttura originale. La scelta della località per il tempio dipendeva da varî criterî; per es., con il popolo in armi si riuniva fuori del pomerio, così ne era fuori il tempio del dio della guerra, e i templi delle divinità straniere. La fondazione di un tempio, la sua dotazione, la dedicazione, la conservazione e l'amministrazione spettavano allo stato e ai suoi magistrati. L'autorizzazione era data dal popolo, più tardi con il consenso del senato e dei tribuni, e sotto l'impero dal principe. La costruzione veniva di solito appaltata da appositi duoviri aedi locandae o da altri magistrati, se questi avevano votato il tempio. La manutenzione spettava al censore, che appunto doveva sarta tecta aedium sacrarum locorumque publicorum tueri; ma per restauri eccezionali, o in mancanza dei censori, si eleggevano speciali tresviri. Contro eventuali usurpazioni del suolo del tempio, vigilavano i censori, contro ogni danno in generale, gli edili, che avevano la aedium sacrarum procuratio. I beni patrimoniali fruibili erano locati dai censori, ma il tempio aveva cassa propria. A questi magistrati repubblicani si sostituirono sotto l'impero i curatores aedium sacrarum et operum locorumque publicorum.
L'aedes sacra, come abbiamo detto, sorgeva di solito su un templum limitato e inaugurato col rito augurale e liberato da ogni anteriore vincolo sacro o profano (v. Servio, Ad. Aen., I, 466). Quindi, nell'uso ufficiale e più rigoroso, si distinguevano templum e aedes, che nell'uso comune invece si scambiavano. Si procurava poi che l'edificio avesse uno spazio libero intorno a sé. Costruito l'edificio, se ne trasferiva la proprietà dal comune alla divinità, cioè veniva dedicato da un magistrato fornito d'imperium, che era sovente colui che l'aveva votato, o un suo parente, rivestito di una magistratura ordinaria o eletto appositamente a una magistratura straordinaria (v. duoviri). Lo assistevano i pontefici i quali, tenendo la mano sull'imposta del tempio, recitavano e suggerivano i solemnia pontificalis carminis verba, che perfezionavano la consecratio del tempio e del relativo suolo alla divinità. Si recitava la lex dedicationis, lo statuto del tempio, per la quale serviva da modello l'antichissima lex arae Dianae in Aventino, e che conteneva speciali prescrizioni per la tutela giuridica e materiale del tempio, per l'esercizio del culto per l'eventuale diritto d'asilo e per la gestione dei beni e delle offerte. Si prescriveva infine il sacrificium publicum che lo stato doveva far celebrare al tempio, di solito nel dies natalis dei o aedis, cioè nell'anniversario della dedicatio, che ordinariamente coincideva con il giorno festivo dedicato alla divinità. Il tempio custodiva, oltre al simulacro, l'instrumentum templi, dedicato col tempio stesso, costituito dalle mensae (tavoli sacrificali), dai foci (focolari mobili, tripodi), dai vasa e dal pulvinar, letto per la mensa del dio: si aggiungevano poi gli ornamenta, doni votivi, come scudi, corone, ecc. Custode del tempio e della suppellettile era l'aedituus, al quale erano affidate anche cose e documenti privati. L'aedituus dipendeva dai magistrati, di solito dagli edili. I templi, nei giorni non festivi, rimanevano chiusi e l'edituo vi ammetteva le persone che desideravano compiere atti rituali. Esso osservava inoltre i prodigi che avvenivano nel tempio e intorno ad esso.
Oltre ai templi pubblici esistevano anche numerosi edifici sacri dedicati da privati, da famiglie, da collegi sacerdotali o laici, da corpi militari, con cerimoniale analogo a quello per i templi pubblici e dalle persone che li avevano eretti o che rappresentavano la corporazione offerente. Essi avevano la loro lex, ma non erano consacrati e pubblicamente dedicati, ed erano perciò, a rigore, loca profana. Essi erano tuttavia esclusi dal commercio, come altre località di carattere religioso (religiosa), come i luoghi colpiti dal fulmine, i sepolcri, ecc. Anche i templi in solo provinciali non erano propriamente aedes sacrae, perché non potevano essere consacrati secondo il rito romano applicabile soltanto al suolo italico; tuttavia pro sacro habebantur.
Archeologia. - L'epos omerico chiama naós (ναός), cioè abitazione, il témenos in cui è posto, al più, un altare, non un edificio, ed anche la reggia, nella quale, per tradizione viva dei palazzi reali minoici e micenei conservatasi nei poemi, la divinità aveva non solo un sacrario o "cappella", ma cortili e vasti spazî destinati a processioni e feste religiose, sicché tutta la reggia poteva considerarsi casa del nume.
I due naoí attribuiti a Troia rispecchiano due tipi di templi conservatici nei monumenti fenici o nei ricordi di essi: quello di Atena, evidentemente fornito di corte, entro la quale si potevano sacrificare 12 giovenche, e non meno evidentemente fornito di tabernacolo centrale con simulacro, ricorda il santuario di Amrith; l'altro di Apollo, grande edificio munito di ádyton o sancta sanctorum, rammenta il tempio di Salomone.
I più antichi templi egizî, quelli solari, in parte essi stessi da considerarsi preistorici, e certo facenti fede di precedenti di età preistorica, constano di un'area rettangolare circoscritta, al cui centro sorge una pietra sacra, betilica (tempio di Abusir). Lo stesso tipo si riconosce nell'Asia anteriore conservatosi sino a tarda età, ma certo di origine antichissima: tale era il tempio della Gran Madre a Biblo, cioè un'area rettangolare cinta da portici a pilastri quadrati e contenente una pietra conica (bètilo) e un altare avanti ad essa, il tutto all'aperto; tipo continuato nel tempio di Tanīt a Nora (cfr. G. Patroni, Nora, in Monum. Lincei, XIV). Nella Sardegna nuragica recinti sacri hanno di regola forme rotonde; tale era anche quello che racchiudeva le tombe regali a fossa presso la Porta dei Leoni a Micene; così pure i circoli di pietre attorniavano tombe preistoriche (ad es., quelle alla Murgia Timone presso Matera) ed etrusche. Col recinto di Micene hanno pure analogie i piazzali, che precedono le porte delle "tombe di giganti" sarde e delle grandi costruzioni megalitiche di Malta, delimitando una specie di esedra monumentale, luogo di cerimonie religiose o funebri. Rettangolari sono invece i piazzali scoperti che precedono i pozzi sacri della Sardegna preistorica e che servivano per sacrifici ed esposizione di donarî. L'acme del concetto di limite e segregazione del luogo sacro senza costruzioni o edifici, ma soltanto con la disposizione a intervalli di segni limitanti, lo si trova nell'Occidente, specie nella Bretagna francese e in Inghilterra, e in forme sia rettangolari (viali di pietre fitte, alignements), sia rotonde (circoli delle medesime o cromlech). Tali esagerazioni interessano il nostro tema specialmente in quanto probabile traduzione megalitica di segni posti in materiale deperibile (pali), da postulare anche per la preistoria mediterranea, che ne conserva solo derivazioni architettoniche elaborate.
Origine e forme del naós greco classiio. - Innegabilmente le forme (rettangolo allungato, con ante molto sporgenti avanti alla porta e coppia di colonne fra di esse, formanti nell'insieme un prodomo, qui detto pronao) e alcuni particolari tecnici (rivestimenti lignei delle ante; muri lapidei solo nello zoccolo, proseguiti con mattoni crudi tra ingabbiature di legnami, ecc.) del naós classico, sono identici a quelli dei mégara micenei e li continuano. D'altra parte il mégaron non fu mai sacrario e quest'ultimo, nelle regge minoiche e micenee, era modesto e appartato. Il caso del mégaron di Tirinto, trasformato in naós durante un periodo arcaico dell'età classica, è rimasto finora unico; ma la presenza di un altare nella corte antestante o aulé, può far supporre che in occasione di feste anche il mégaron fungesse da naós in senso specifico, trasportandovisi immagini e simboli divini ordinariamente conservati nel sacello. Comunque, alla caduta della monarchia micenea, quella che era stata sede del re e della divinità protettrice lo rimane solo di quest'ultima; ma il dio non ha più bisogno dei cortili della reggia, perché processioni e spettacoli hanno ora luogo su suoli pubblici della città: ha bisogno di una sola stanza; e si pensa di assegnargli la migliore e maggior sala della reggia, ovvero di fabbricargliene una ad imitazione di quella, anche dove reggia non c'era mai stata. La manifestazione di questo bisogno e poi la sua accentuazione derivano dalla apparizione e poi dal progresso di rappresentazioni divine antropomorfe, ehe anzi si vogliono sempre più grandi, anche a costo di farle sproporzionate alla sala e, benché sedute, toccanti col capo il soffitto. È l'apparizione di una nuova civiltà, la greca classica. Tipi presto abbandonati di sacelli greci arcaici sono quelli a semplice cella rettangolare, divisa talora in due navate da colonne mediane (Tempio della "patella" di Priniá e di Dreros a Creta, di Demetra Malophoros a Selinunte, ecc.).
La pianta del naós classico ripete generalmente (tranne poche eccezioni di età arcaica: tra le più antiche il naós di Tirinto e quello di Artemide Ortia a Sparta; ma non fa eccezione l'arcaicissimo di Apollo a Thérmos) nella parte posteriore le disposizioni della parte anteriore quanto al prolungamento delle ante e alle due colonne interposte, e tanto nel caso d'ingresso a una parte posteriore della cella, divisa dalla cella anteriore per mezzo di un muro trasversale, quanto nel caso che il muro di fondo dell'unica e molto lunga cella non abbia porta. È da ritenere che il primo caso (es. il vecchio Hekatómpedon di Atene) sia più vicino che non il secondo (es. lo Heraĩon di Olimpia) all'idea originaria dei costruttori di tali edifici molto allungati, che fu quella di giustapporre due mégara spalle a spalle, nel qual caso anche l'altro mégaron ha il suo proprio pródomos che, data la collocazione posteriore, prende nel naós classico il nome di opisthódomos. Precedenti assai remoti nel tempo, tanto di divisioni in sale anteriori e posteriori, quanto della conseguenza della giustapposizione per le spalle, si hanno già a Troia in mégara del secondo strato, dell'età del bronzo arcaica.
La peristasi o peribolo. - Rompe invece con le tradizioni dell'architettura micenea il colonnato continuo che circonda il naós greco classico con tale abbondanza, costanza e antichità di esempî, da render plausibile l'opinione che il naós sia nato periptero, cioè che l'idea completa che ne ebbero i suoi primi costruttori fosse quella di un mégaron circondato e isolato da un portico.
Una recente teoria interpreta la peristasi come esteriorizzazione del naós e sua coordinazione all'area sacra, cui si rivolge da ogni lato (K. Lehmann-Hartleben, in Die Antike, 1931, p. 11 segg., 161 segg.), ma non crediamo che si possano attribuire agl'inizî dell'arte arcaica siffatte astrattezze. L'idea contraddice all'esistenza della porta della cella, rivolta a oriente, e del simulacro, che rivolge a sua volta nello stesso senso la faccia e lo sguardo; e l'abbandono della coordinazione che esisteva nelle regge micenee tra il mégaron e l'aulé antestante, per adottare in cambio un accentuato isolamento, mostra che il costruttore non ebbe scopi coordinativi.
La vecchia dottrina dello sviluppo del peribolo da un portichetto antestante (naós prostilo), poi ripetuto nella parte posteriore (anfiprostilo) e infine esteso ai lati lunghi della cella (periptero) non risponde ai fatti. Le forme dell'anfiprostilo e del prostilo non ricorrono nei naoí di ordine dorico, più antichi, ma solo in alcuni esemplari di ordine ionico, non primitivi, e finora sono da considerarsi non come stadî di evoluzione, ma piuttosto come riduzione del peribolo originario. Tuttavia ciò che non è evoluzione storica rappresenta bene il processo applicativo del costruttore, che immaginò di circondare un mégaron con un peribolo. Egli fece corrispondere quattro colonne esterne alle due ante e alle due colonne fra di esse; poi, per creare le ali di portico nei lati lunghi, dové aggiungerne una per lato. Ecco perché il naós è di regola, e nella grandissima maggioranza dei casi, esastilo, cioè a sei colonne di fronte. In casi eccezionali si trovano otto colonne (naós octastilo): ciò vuol dire che l'edificio fu concepito con particolare magnificenza (Partenone), e in tali casi si trovano non due, ma quattro colonne tra le ante (nel Partenone terminate anch'esse a colonna). Numeri maggiori (10, 12) dànno gli esemplari ionico-asiani, con la ricchezza caratteristica di quell'ordine che profonde le ornamentazioni; così pure il raddoppiamento di tutto il colonnato circondante (naós diptero: talora le proporzioni del portico sono tali, ma manca il colonnato interno e il naós si dice pseudodiptero) e altre disposizioni secondarie più complicate.
L'origine del peribolo o peristasi non è, crediamo, nella fantasia di un architetto che, per motivi artistici o estetico-filosofici, abbia voluto circondare il mégaron di un colonnato continuo, bensì nello sviluppo tipologico. A Thérmos il naós arcaico, già periptero, è preceduto da uno stadio primitivo con costruzioni a ellisse allungata e prodomo rettangolare e da una costruzione arcaicissima che segue alle primitive e ne mantiene, attenuate, le curve dei lati, aggiungendo intorno un portico di colonne lignee su basette lapidee, alla micenea, in forma ellittica. È probabile che tale costruzione arcaicissima fosse già naós nel senso classico, e che precedenti di esso si trovino in costruzioni ellittiche (case, capanne) pur esse circondate da portici di cui non si rinvengono tracce, per essere state le punte dei pali solo ficcate a lieve profondità nel terreno, come fanno ancora molti selvaggi moderni che forniscono paralleli a simili costruzioni periptere. Le imitazioni delle capanne villanoviane in urne funebri offrono portici avanti all'ingresso, e negli originali questi potevano talora estendersi maggiormente attorno al perimetro della capanna. Tali portici, parziali o totali, oltre a offrire vantaggi apprezzati in taluni climi, distinguono capanne di capi, di ricchi. Comunque, il costruttore del naós classico di Thérmos ha visto quello ultimo preclassico che, rovinato o demolito perché pericolante, egli ha rifatto sul posto, e ne ha preso il peribolo, rettificandolo. Si è dunque avuto l'incontro dell'idea di sala regia e delle forme del mégaron con la capanna primitiva periptera di origine preistorica, ma che aveva avuto sviluppo in quell'oscuro medioevo succeduto all'età micenea, da cui spuntano poi gli albori del classico. Per tutto ciò nel naós la parte decorativa, cui appartengono i colonnati esterni e i cosiddetti ordini, ma che si esplica in larghe profusioni di vivi colori sugli elementi architettonici, in pitture o rilievi colorati, in sculture anche a tutto tondo - ma applicate a un fondo architettonico che esse compiono e da cui sono compiute - ha importanza non certo minore della parte costruttiva; forse anche maggiore, in quantoché gli stessi elementi architettonici del naós sono più decorativi che costruttivi.
Peristasi e ordini. - Non dobbiamo trattare degli ordini in sé stessi (v. ordini architettonici), bensì in rapporto col naós. È evidente che la collocazione esterna delle colonne ha sviluppato il sentimento decorativo e la ricerca di un'armonia delle forme, di un accordo con quelle della trabeazione, nel che consiste l'ordine. Gli ordini sono perciò figli del naós, più specialmente della peristasi. La ripetizione dei triglifi (v.), tramezzati da metope (v.), anche sulla fronte e sul tergo, è un prodotto del peribolo, cioè dell'idea di un colonnato circondante eguale da ogni parte. Si deve pure al naós, in quanto derivato dal mégaron, se l'ordine dorico, anch'esso adattamento delle forme minoico-micenee, rimase quello di gran lunga dominante nella costruzione degli edifici sacri; esso ha origine nella Grecia continentale, già sede del potere centrale in età micenea, ed è molto diffuso in Sicilia e Magna Grecia.
Si deve alla peristasi, ossia alla collocazione esterna delle colonne, la rinuncia a continuare la rastremazione del fusto per l'ingiù, nata in Creta dall'uso (tuttora perdurante) di un cipresso locale il cui tronco è più largo alla biforcazione dei rami principali e più stretto al piede, ma continuata nel miceneo continentale (come ci attestano le riproduzioni in pietra, in rilievo, le semicolonne del Tesoro d'Atreo, ecc.) certo capovolgendo i tronchi di altri alberi. Tutto ciò aiuta a comprendere che il valore della creazione degli ordini è decorativo, esteriore, non costruttivo e tanto meno architettonico nel senso più elevato. I più grandi costruttori tra i popoli antichi ne hanno fatto a meno, sia gli Egizî, che non ne possederono pur usando colonne in gran numero e di varî tipi, sia gli Asiani che o rinunciarono anche alla colonna, ovvero ne ammisero l'uso in forme libere, sia gli Etruschi e i Romani che, precedendo, fiancheggiando e seguitando le tendenze del mondo grecizzante, adoperarono anche gli ordini greci, ma con libertà, e in parte dedicandosi alla ricerca o sviluppo di nuove forme a carattere nazionale, come la colonna tuscanica, sorella anziana della dorica perché più miceneizzante, e il capitello composito, creato dai Romani aggiungendo al capitello ionico-italico a volute diagonali il càlato corinzio.
I colonnati interni. - Anche a questi si può assegnare origine micenea. In età arcaica troviamo la cella divisa in tre o in due navate da colonnati interni, rispettivamente su due o sopra una sola fila mediana. La divisione in tre navate è più nota e lo è da maggior tempo, a causa di esemplari, benché già del periodo classico a noi giunti in sufficiente stato di conservazione (insigne tra gli altri il cosiddetto Tempio di Posidone di Paestum) ed è stata confermata dagli scavi dell'ultimo cinquantennio almeno col ritrovamento delle fondazioni di questi colonnati interni. La divisione mediana si è riscontrata in naoí di grande arcaismo, quello di Thérmos, quello di Priniá (A) in Creta a colonne lignee, quello di Neandria del sec. VII, a colonne di pietra non scanalate e con capitelli eolici, e il primo Artemísion di Cirene.
Orbene, il mégaron miceneo nella sua forma sviluppata ha già la divisione ternaria con due file di colonne, ché tali possono considerarsi le quattro colonne centrali viste da chi entra; e nella geminazione dei mégara spalle contro spalle, abolito il muro mediano comune e sostituitolo con un'altra coppia di colonne, nascono due vere file. Ma anche la fila unica si trova nei mégara di Troia del VI strato, di età micenea, e si connette a influenza della Creta minoica, dove si amava dividere le larghe aperture tra le ante con una o con tre colonne, non con due, secondo il gusto miceneo diventato normativo nei pronai classici. La divisione mediana della cella porta di conseguenza il numero dispari delle colonne frontali, poiché la fila interna è sentita come prolungata nel pronao, e talora il prolungamento è eseguito (Priniá, Thérmos): così si hanno cinque colonne frontali a Thérmos, nove nell'ampio naós detto "la basilica" a Paestum, della cui fila mediana entro la cella sussiste ancora una colonna.
Sono noti i provvedimenti per raggiungere il soffitto nei naoí dorici di età classica, che consistono o nel sovrapporre a ciascuna fila di colonne interne un filare superiore, cui fa da stilobate l'architrave dell'inferiore, o (al sec. V) nell'adottare per l'interno grandi colonne ioniche, le cui proporzioni svelte permettono di fare a meno delle colonnine sovrapposte. Insigne esempio è la sala posteriore del Partenone, le cui quattro colonne ricordavano esattamente la disposizione del mégaron; il ripiego si applica poi (com'è naturale) anche a edifici profani (colonne interne dei propilei sull'Acropoli di Atene).
Il caso di templi aperti superiormente nella parte centrale (templi ipetrali), è piuttosto raro; in generale i templi sono coperti in tutte e tre le navate, in cui sono divisi all'interno (templi cleitrali).
Sviluppi, varietà, esemplari principali del naós ellenico. - Non perché la data dello Heraion di Olimpia non sia così antica come dapprima credette W. Dörpfeld, che lo scavò, questo naós ha perduto d'importanza. Non è sostenibile che sia proprio quello fondato da Oxylos, duce di un'invasione di Etoli in Elide, secondo una tradizione ricordata da Pausania (V, 16, 1), al principio del sec. XI a. C.; recenti scavi, rinnovati dal Dörpfeld in compagnia di E. Buschor, hanno dimostrato che l'attuale Heraion è della fine del sec. VIII o dei primi anni del VII, ma fu preceduto da altre costruzioni, l'una all'altra sovrapposte: un altare (culto acheo secondo le memorie conservatene dall'epos), un naós non periptero che perì per incendio, e uno periptero, di cui l'attuale è una ricostruzione. Lo Heraion conserva la tecnica micenea, nella struttura muraria (solo zoccolo lapideo, e le parti sovrapposte in mattoni crudi, con ingabbiatura di travi), nel rivestimento ligneo delle ante e nelle colonne originariamente di legno (Pausania, nel sec. II d. C., ne vide ancora una dell'opistodomo), che furono a mano a mano sostituite da quelle di pietra. In origine brevi muretti (a tutta altezza) si dipartivano ad angolo retto dai inuri laterali della cella formando come delle nicchie o cappelle, certo con lo scopo di restringere la gettata delle travi del soffitto che vi poggiavano, nel quale ufficio furono poi sostituiti da colonne. La trabeazione era senza dubbio lignea, il tetto a due spioventi molto piatti.
Di un naós oggi scomparso, dedicato ad Atena Pronaia in Delfi, restano avanzi di colonne lapidee che hanno permesso il restauro dell'intera colonna, certo fra le più antiche doriche in pietra. Esse (Les Fouilles de Delphes, II, 1, tav. X111) contraddicono a quanto si ricava dall'esame delle altre, comprese quelle d'Olimpia, che cioè generalmente le colonne doriche in pietra più antiche fossero massicce e pesanti. Forse il numero di cotali eccezioni era maggiore, se le pitture vascolari, che offrono colonne doriche della stessa forma, rappresentano costruzioni in pietra; ma quelle dei vasi dipinti possono invece rappresentare colonne di legno, e le loro imitazioni reali in pietra furono forse ben presto abbandonate per la poca solidità. È assai dubbio che questo naós fosse un anfiprostilo esastilo, come pensarono gli scavatori.
Il naós etolico di Apollo a Thérmos, già mentovato per le arcaicissime costruzioni cui si sovrappose e di cui molto ritenne, aveva metope di terracotta dipinta incastrate tra triglifi di legno, e un solo frontone, con tetto a tre spioventi nel dietro. Era straordinariamente basso. A Cirene restano, sotto il posteriore santuario di Apollo, avanzi di un arcaico periptero dorico che aveva muri a solo zoccolo lapideo continuati in mattoni crudi e non era fornito di pronao, ma di un ádyton, con due file di colonne, sormontate da colonnine più piccole; la trabeazione era di legno. Tali trabeazioni, specialmente il geĩson (cornice), avevano spesso in età arcaica rivestimenti di terracotta modellati e dipinti a vivi colori, uso che in Occidente si continua anche con cornici di pietra; un arcaico naós di Garitsa (Corfù) era octastilo e aveva un frontone scolpito (Gorgone tra pantere, fiancheggiata da minuscole figurazioni mitologiche).
Siracusa ha il vanto di conservare le rovine di due naoí dei primi anni del sec. VI a. C., quello di Apollo in Ortigia e l'Olympieion sulla riva destra dell'Anapo, entrambi esastili peripteri, l'ultimo con 17 colonne sui lati lunghi, numero che non si trova più dopo il sec. VI, prevalendo la tendenza a ridurlo. Il numero delle eolonne laterali è, entro certi limiti, un indice delle proporzioni generali della cella e degli sviluppi del naós, finché al sec. IV a. C., e in età alessandrina, il tipo ideale sembra essere un peribolo di 6 × 11 colonne. Somigliava a questi due naoí siracusani quello di Taranto, di cui avanzano due colonne, e a tutti questi era approsimativamente contemporaneo il naós C di Selinunte, una delle più imponenti costruzioni doriche, periptero esastilo (6 × 17), con colonne alte circa 5 diametri (dell'imoscapo), pronao senza colonne o anticella, e ádyton dietro la cella. Invece delle colonne fra le ante del pronao, il costruttore raddoppiò il colonnato anteriore, già chiudente il peribolo alla 15a colonna dal fondo, aggiungendo due altre colonne e una facciata anteriore alla 17a. Al naós C appartengono metope scolpite e rivestimenti di cornice in terracotta dipinta con sima traforata a giorno, mentre una grossa testa di Gorgone ornava il frontone di un più antico naós alla cui fondazione il C si sovrappose. D e F sembrano alquanto più recenti; questi peripteri occidentali sono notevoli per la libertà con la quale il peribolo esastilo viene applicato non allo schema consueto nella Grecia propria (e prettamente miceneo) con quattro colonne corrispondenti ai quattro elementi frontali del pronao, e due colonne angolari per far girare il portico, bensì al vecchio schema di sacello senza vestibolo, con muri che invece di terminare in anta si piegano ad angolo sino a una porta. Ciò mostra che tale schema era diffuso in Occidente prima dell'introduzione del periptero, e infatti se ne hanno, nella stessa Selinunte e altrove, esemplari arcaici e persistenze in sacelli minori (i due naoí sovrapposti alla Gaggera, altro sull'Acropoli, altro ad Agrigento: il tipo è rappresentato nella sua semplicità dal tesoro di Gela, del principio del sec. VI a. C., in Olimpia). Il G selinuntino è da notarsi come esempio di pseudodiptero e, insieme, di uno stile di transizione che si diffonde in Occidente dopo che vi s'introduce il pronao a colonne (in antis o prostilo), e porta a una maggiore regolarità nell'applicazione del peribolo; mentre un segno di evoluzione allo stile del sec. V è una certa maggiore profondità (o distanza dalla fronte della cella) che va acquistando il portico di facciata, e ciò anche nella Grecia propria. Inoltre mentre nelle costruzioni arcaiche gl'intercolunnî di facciata sono più larghi di quelli dei lati, nel sec. V si tende all'eguaglianza. Tuttavia vi sono esempî arcaici di eguaglianza (il cosiddetto "Tempio di Cerere" a Paestum) e di conservazione dello schema arcaico nel sec. V (naoí di Afaia in Egina, di Zeus in Olimpia, di Apollo a Figalia).
Il minore naós di Paestum e quello grande detto "basilica" hanno molta importanza: l'ultimo per la già notata divisione mediana e il numero impari di colonne tra le ante (3) e sui lati stretti (9) del peribolo, oltreché per il fatto eccezionale che le colonne interne sono eguali a quelle dello pterón. Che fosse un naós nel senso classico (e non un edificio profano) è provato dai resti dell'altare, rilevati dagli studiosi moderni al posto consueto, cioè davanti alla facciata. Il primo sussiste in gran parte, ed è un periptero esastilo (6 × 13) di accurato lavoro; non è affatto sicuro che avesse un pronao prostilo tetrastilo, e nemmeno che ad esso appartenga una base di colonna a disco o cuscinetto, riferibile forse alla grande influenza che, poco dopo, gli Etruschi acquistarono su Paestum; ma aveva certamente, nelle colonne e nella trabeazione, delle particolarità, di cui taluna ha riscontro nel tuscanico, sia per antica derivazione da comuni fonti orientali, sia per convergenze locali.
La più antica costruzione del vecchio Hekatómpedon o naós di Atena Poliade, sull'Acropoli d'Atene, può risalire alla prima metà del sec. VI, nella forma in antis dalle due parti senza peribolo. La cella principale a oriente sembra fosse divisa da due file di 3 colonne ciascuna; l'occidentale aveva nel fondo due ádyta o tesori geminati; i timpani portavano sculture in poros riccamente dipinte. La peristasi (6 × 12) fu aggiunta probabilmente da Pisistrato verso la metà del sec. VI; ì frontoni, forse del tempo d'Ipparco, portavano sculture in marmo bluastro dell'Imetto (la facciata principale aveva il noto gruppo di Atena che uccide un gigante). Affini erano il naós di Apollo a Corinto e quello degli Alcmeonidi a Delfi. Asso (Misia) ci dà l'unico esemplare di dorico arcaico a est dell'Egeo: un periptero (6 × 13) con cella distila in antis, lavorato in calcare durissimo locale senza stucco, ma con pittura applicata direttamente; l'architrave portava eccezionalmente una figurazione a rilievo continuo come un fregio ionico. L'Asia greca è ionica, e i principali resti arcaici di naoí sono quelli dell'Artemísion di Efeso e dello Heraĩon di Samo. Alla costruzione del primo contribuì re Creso di Lidia (prima del 546 a C.). Bruciò esso nel secolo IV; ma restano fondazioni e frammenti delle soprastrutture, oltre a tracce di strutture più antiche. La cella aveva un peribolo diptero (8 × 20) di enormi colonne, e l'ingresso eccezionalmente a occidente. In un profondo pronao si continuavano, su due file di 4 ciascuna, le quattro colonne corrispondenti del doppio peribolo; non si sa se vi fosse opistodomo ovvero ádyton, né sono certe le due file di colonne interne.
È probabile che non vi fosse fregio, ma dentelli. Le colonne avevano una base complicata e un tamburo scolpito ad altorilievo; alcuni capitelli portavano rosette invece delle volute.
Lo Heraĩon di Samo, ricostruito nel medesimo stile dopo un incendio (circa il 517), ha lo stesso tipo generale dell'Artemísion, ma è triptero nelle due fronti e diptero sui lati (8 − 9 × 21), con 10 colonne su due file nel pronao: la cella non aveva colonne interne né ádyton né opistodomo; non è certo che avesse un tetto.
I naoí di Naucrati hanno offerto importanti particolari frammentarî di colonne; le pareti erano di mattoni crudi con rivestimento. Elementi di tutta l'architettura ionica arcaica fornisce il tesoro dei Sifnî a Delfi.
Passiamo al sec. V, e notiamo anzitutto che le forme doriche del naós vi raggiungono l'acme del loro sviluppo, ma anche si cristallizzano. Invece di cercare la varietà delle forme e la novità della decorazione, che già minaccia di non trovar più via d'uscita, il costruttore si lascia ossessionare dall'insolubile problema matematico della collocazione dei triglifi, le cui esigenze, di stare sull'asse della colonna o dell'intercolunnio e ai quattro angoli del fregio, sono contraddittorie.
Non è questo il luogo d'indugiare su tali particolari e sulle loro complicazioni con le proporzioni dei membri della trabeazione, con la contrazione degl'intercolunnî angolari, ecc. Né possiamo qui dare più che la menzione dei più celebri naoí dorici di questo secolo, rinviando per il resto alle descrizioni particolari e alle opere speciali. I già nominati naoí di Afaia in Egina (circa 490 a. C.) e di Zeus in Olimpia (circa 460 a. C.) sono esemplari più o meno precoci del più tipico stile classico, che non si deve esitare a giudicare più freddo e accademico dello stile arcaico. Tutte le raffinatezze e sottigliezze, anche le curvature delle orizzontali e le inclinazioni degli assi delle colonne, culminano nel Partenone, dove sovrabbonda inoltre la decorazione scultoria e ai gruppi di grandi statue frontonali e alle metope tutte figurate si aggiunge lo zōofóros ionico messo esternamente sull'alto delle pareti della cella. In realtà si trattava di sculture applicate a un fondo oppure di rilievi, il tutto aiutato da forti colori che staccavano i fondi e accentuavano parti singole; cioè di una pittura-scultura, piuttosto che decorante, collaborante con elementi architettonici a formare un padiglione per il simulacro divino. La rinuncia ad ogni sviluppo di vera architettura e la riduzione a prezioso scrigno per custodire un simulacro, sono più che mai accentuati nel naós di Olimpia accogliente l'enorme Zeus fidiaco.
Il sec. V è pure l'età in cui l'ordine ionico trionfa in Atene con capolavori di finissima esecuzione, delicatamente ornati e quasi alluminati a vivi colori e dorature, quali il piccolo naós di Atena Nike e l'Eretteo, le cui asimmetrie G. Patroni, contrariamente alle opinioni comuni, ha spiegato con l'ipotesi che l'architetto, anziché ispirarsi al concetto comune del naós, abbia voluto riprodurre la "forte casa di Eretteo", e si sia rifatto perciò all'architettura del palazzo miceneo.
La seconda metà del secolo è anche l'epoca dell'apparizione dei capitelli corinzî come varietà dell'ordine ionico. Tra i casi noti, interessa direttamente il tema di questa trattazione l'esemplare, purtroppo distrutto, che era posto sulla colonna unica la quale divideva in due il passaggio tra la nuova cella del naós di Apollo a Bassae presso Figalia in Arcadia, e l'antico sacello, rimasto come ádyton e la cui lunghezza fu presa come larghezza della nuova costruzione. Gli altri sostegni interni della cella erano dei tre quarti di colonne ioniche addossati a pilastri sporgenti dai muri, e pure interessanti per il capitello a volute sui tre lati, voltate diagonalmente. L'esterno era dorico, periptero (6 × 15) e quasi pseudodiptero sulle due fronti. Una certa somiglianza di tipo aveva il molto rovinato naós di Atena Alea a Tegea (del secondo quarto del sec. IV) con semicolonne sporgenti dalle pareti lunghe interne, a capitelli corinzî. I giorni del dorico classico sono ormai passati.
Nel sec. IV si hanno grandi o accurate costruzioni di ordine ionico: fra le prime ci limitiamo a ricordare il rifacimento dell'Artemísion di Efeso e fra le seconde il naós di Atena Poliade a Priene, modello delle forme classiche di quest'ordine. Nei secoli posteriori continua talora la grandiosità e ricchezza non priva di ostentazione; esempio, il gigantesco Didimeo di Mileto del sec. III-II, il cui completamento si trascinò sino in epoca imperiale romana.
Origini, forme e significato del tempio etrusco. - Come edificio sviluppato, il tempio degli Etruschi si è senza dubbio formato in Italia; ma varî elementi dottrinali e formali trovano analogie nell'Oriente asiano-mediterraneo, e ne è di gran lunga più probabile l'avvenuta importazione da quelle regioni più progredite, anziché l'appartenenza al Mediterraneo occidentale preistorico. Per le forme della colonna tuscanica, elemento indispensabile del tempio etrusco, e sorella anziana della dorica perché più miceneizzante, sempre lignea come la trabeazione, conservante anche nelle posteriori traduzioni in pietra alcuni particolari che hanno riscontro unicamente in colonne micenee (la scozia sotto l'abaco del capitello), ciò sembra sicuro e collima con la tradizione della colonizzazione della futura Etruria da parte di Tirreni dell'Egeo, che avessero appartenuto all'ambito della civiltà micenea, rimanendo però estranei al particolare indirizzo preso, dopo il medioevo postmiceneo, dall'arcaismo classico in Grecia. Sulla base degli avanzi del tempio di Giove Capitolino a Roma, costruito e ornato da artefici etruschi, e di altri scavi d'Etruria, col confronto delle continuazioni etrusco-italiche e dei dati letterarî, specialmente di Vitruvio, possiamo ricostruire la seguente immagine del tempio etrusco, analizzato nelle sue principali forme d'elevato, a cominciare dal basso:
A) Un podio o basamento, affatto differente dalla crepidine del naós greco sì per la maggiore altezza, sì per essere accessibile da un solo lato mediante scalea; e questa, che conduce alla fronte, è posta a mezzogiorno, mentre il naós greco si rivolge ad oriente e la sua bassa crepidine è accessibile da ogni lato. Se l'elemento era originario, può essere reminiscenza delle architetture asiane dove per altre ragioni, gli edifici sorgevano su elevati basamenti. Questo era certo utile, negli agglomerati urbani, per innalzare la visuale del sacerdote, che doveva avere la vista libera per trarre gli auspici e controllare il moto degli astri; perciò fu conservato dalla tradizione italico-romana, che è urbanistica. Vitruvio non ne parla, ma ciò non vuol dire che non vi fosse podio nell'esemplare da lui preso come tipo, probabilmente il tempio di Cerere, Libero e Libera presso il Circo Massimo: ciò sarebbe contrario agli esemplari di templi repubblicani di Roma, dei quali negli anni recenti si è riacquistato tutto un gruppo prima affatto ignoto. Però talora poteva mancare, come parrebbe da qualche esemplare etrusco.
B) Un'area limitata, e che, quando era rialzata dal podio, formava piattaforma o platea. Questa era, religiosamente, la parte più importante del tempio, anzi essa sola era il templum. Era cioè l'immagine in terra di un quadrilatero designato dal sacerdote col suo lituo nel cielo astrale (templum in caelo, Varr., De l. lat., VII, 7), che aveva quattro regioni (antica, postica, destra e sinistra), il che suppone due linee divisorie (N.-S. e E.-O.), che nel linguaggio degli agrimensori si dicono cardo e decumanus. È il campo d'osservazione dell'augure.
C) Un muro che chiude l'orizzonte a settentrione. Di nessuna importanza architettonica, ha grande valore religioso; indica cioè che da quella parte non c'era nulla da vedere, e probabilmente che essa era infausta: infatti il sacerdote o augure le volge le spalle, e guarda al mezzogiorno, dove passano al meridiano gli astri dotati di movimento proprio. In questo campo si osserva anche il volo degli uccelli, ed altri segni, come meteore, ecc.
D) Un tetto, per proteggere il sacerdote, sostenuto da colonne areostile, cioè spazieggiate, per lasciar libera la vista; e questa è una delle ragioni (oltre l'attaccamento alle vetuste tradizioni) del continuato uso del legno nei sostegni e nell'architrave; uso che ha avuto per conseguenza la totale distruzione delle forme originali, di cui restano solo imitazioni in sarcofagi, urne, modelli fittili, tombe a camera e a facciata rupestre, oltre ai rivestimenti in terracotta di cornici e di altre parti della trabeazione. Per i particolari concernenti la storia dell'architettura e della decorazione etrusche, ma non precisamente la funzione del tempio, v. alle relative voci.
E) Tre celle adiacenti per i simulacri divini, che nel vero tempio etrusco sono associati in triadi. La cella mediana, della divinità maggiore, può essere più larga e forse talora anche più lunga delle adiacenti, ma la soglia della cella maggiore non deve mai oltrepassare la metà dell'area totale, ossia deve lasciar libera la pars antica. Nei templi massimi, come in quello di Giove Capitolino, e che riteniamo più tipici, corrono ali di portici anche lungo i fianchi delle celle minori, sino al muro di fondo cieco.
Gli elementi forniti dai modelli o imitazioni e dalle terrecotte ornamentali e di rivestimento della trabeazione lignea permettono, pur lasciando varî dubbî sui particolari, la restituzione delle parti elevate; rispetto alle quali si è a nostro avviso esagerata l'influenza ionica.
Principali resti monumentali di templi etruschi. - Il tempio di Giove Capitolino a Roma è il più importante per le sicure notizie della fondazione, che si fa risalire alla 2a metà del sec. VI a. C., e della decorazione da parte di Etruschi; per la solennità dell'aspetto che si può restituire sulla base degli avanzi e delle descrizioni; per l'importanza della pars antica e dei colonnati esterni che, insieme, formano il vero templum; e perché infine e salvo le correzioni che, con l'autorità dei dati monumentali, esso apporta a Vitruvio, corrisponde abbastanza ai dati offerti da questo autore per la restituzione ideale del tempio tuscanico. A tre celle, di cui le minori, laterali, non è sicuro se in origine fossero anche più corte, aveva 18 colonne nella pars antica (su 6 file di 3), e le file esterne si prolungavano sui lati sino a incontrare il muro di fondo, cieco, che sporgeva oltre le celle. Sul frontone aveva un famoso gruppo di terracotta con carro, dell'artista Vulca, il cui stile ci è stato rivelato dalle scoperte di Veio. Bruciò nell'83 a. C. e nel restauro furono usate ancora trabeazioni lignee, ma dopo l'ultimo rifacimento ricordato dalle notizie storiche, opera della fine del sec. I dell'era cristiana eseguita sotto Domiziano, la trabeazione era di marmo. Sull'acropoli di Marzabotto (Misa) si hanno templi, tra cui due a triplice cella risalenti per la fondazione al tardo sec. VI, e altari, già creduti templi, a podio sagomato. Alla stessa epoca si datano la fondazione del Capitolium di Signia (Segni), ricostruito circa il 300 a. C.: triplice cella, pianta più o meno vitruviana, su alto podio accessibile da sud; le colonne furono rifatte in pietra, ma la trabeazione era tutta dí legno con rivestimenti di terracotta, come la precedente; e quella del tempio di Apollo a Veio (pure a triplice cella) e di altri templi di Falerii Veteres (Civita Castellana), i cui elementi planimetrici non sono chiari. Più antico, della metà del sec. VI a. C., si vuole da taluni il tempio della Mater Matuta a Satrico, il quale, se veramente in origine aveva cella unica e colonnato esterno (benché non periptero), non sarebbe un vero templum etrusco, ma un grosso sacello o un'aedes italica con elementi architettonici etruschi. Più fedele alla tradizione etrusca sembra il tempio di Iuno Sospita a Lanuvio, assegnato al sec. V, e di cui non ci sembra dubbio che avesse cella triplice tra ampî colonnati; del pari, più o meno, il tempio al Pozzo della Rocca di Orvieto, quello di Giunone Curite a Falerii Veteres (sec. IV-III?), e la più antica forma del tempio di Giove o Capitolium a Pompei; mentre la stessa forma, sempre a triplice cella, conservarono dalle costruzioni precedenti i Capitolia di Firenze e di Fiesole, ricostruiti nel sec. I a. C.
L'aedes etrusco-italica. - I trattatisti affermano che con l'andare del tempo si affermò la tendenza ad abolire la cella triplice adottando quella unica, e continuano a chiamare templi tali edifici e a comprenderli nel medesimo sviluppo. Ma le cose non stanno così: se dobbiamo credere agli scavi di Satrico, i sacrarî a cella unica sono anche molto antichi, ma non sono templi. Si ha invece un adattamento di alcuni particolari architettonici del tempio etrusco a sacrarî di divinità italiche o accolte dai popoli della Penisola, ma non specificamente etrusche, non ordinate etruscamente in triadi, e il cui sacello, sviluppandosi sotto il magistero etrusco in un nobile tipo, non è templunt e non ne ha la funzione. È invece, secondo la giusta distinzione citata di Varrone, aedes, cioè stanza.
Fra i principali esempî di aedes ricorderemo il cosiddetto "tempio della Pace" a Pesto, forte manifestazione di magistero etrusco, cui si assoggettava quella città già greca nell'atto di passare ai Lucani: podio con scalea accessibile da sud, profondo pronao, portici laterali proseguiti fino al muro di fondo, capitelli a testa umana fra volute eoliche disposte diagonalmente secondo un tipo amato in Etruria; e l'aedes di Gabii (sec. III a. C.), entro recinto, con podio a colonne distribuite in modo simile al precedente, ma con trabeazione lignea a rivestimenti di terracotta. Di questo tipo, che viene continuato in età romana, ricorderemo ancora l'aedes di Apollo a Pompei che, specialmente nelle sue forme originali poi alterate da restauri, offriva molte analogie con le precedenti; e quella della Magna Mater sul Palatino, gemella per le forme al tempio di Giove a Pompei.
Quest'ultimo ha un posto eccezionale, e può dirsi tempio: 1. perché succeduto a un vero tempio etrusco a triplice cella; 2. perché lo continua con la tripartizione dell'unica cella mediante portici interni laterali e mediante il triplice basamento destinato a immagini di tre divinità; 3. perché fungeva da capitolium e, in ogni modo, da templum rituale, dei quali ogni città ordinata secondo le norme di fondazione doveva avere un minimo; e poteva adempiere la sua funzione, per la presenza, più che di un semplice pronao profondo, di una vera pars antica. E dunque un compromesso fra l'aedes, cui si avvicina per tipo, e il templum, di cui conserva alcuni particolari e la funzione.
Accanto al tipo nobilitato di aedes rettangolare continuavano a esistere sacrarî rotondi di costruzione rustica, che sono presupposti dalle loro traduzioni in pietra e marrmo.
Sacrarî romani (aedes, templa, ecc.). - L'architettura romana nel periodo etrusco-italico si comporta come quella dell'Italia centro-meridionale, seguendo il magistero etrusco e partecipando alla formazione di uno stile italico, che accoglie, nazionalizzandoli e modificandoli, nuovi elementi d'origine greca, i quali non facevano parte del vecchio patrimonio degli Etruschi e non si affermarono nell'Etruria propria. Ciò dura, a Roma, e nei territorî soggetti alla sua influenza, quanto la repubblica e, per la costruzione di edifici sacri, ancora nel primo impero. Rimane infatti la tradizione etrusco-italica, col ricordo del templum e con lo sviluppo dell'aedes che assume elementi di templum: sicché è difficile spesso, senza un riesame delle testimonianze, distinguere l'una dall'altra classe e attribuire nettamente all'una o all'altra un singolo edificio.
Si pone accanto ai citati esempî di Gabii, Pompei, Paestum, ecc., l'aedes sotto S. Nicola in Carcere a Roma, di stile dorico ravvicinato al tuscanico, o tuscanico rinfrescato nel dorico, sulla cui data sono discussi i pareri di R. Delbrück (sec. II a. C.) e di Tenney Franck (seconda metà del I a. C.). Più accordo vi è sulla nota aedes di Cori, assegnata al principio del I a. C., dorica su podio accessibile da sud, con profondo pronao e varî particolari interessanti su cui non possiamo indugiare. Poco posteriore, assegnabile alla metà del sec. I, sembra essere il cosiddetto "Tempio della Fortuna Virile" in Roma, un'aedes su podio accessibile dalla sola fronte e con profondo pronao, di ordine ionico, offerente all'esterno della cella un compromesso tra il periptero greco e il tempio etrusco con muro di fondo cieco.
A questa età spettano anche le più antiche traduzioni lapidee e marmoree dell'aedes rustica rotonda sul tipo dell'aedes Vestae, che da Orazio viene chiamata templum, contrariamente sì all'uso popolare come a quello ufficiale durato sino a tempi tardi. Rammentiamo la bella pittoresca rotonda di Tivoli (cosiddetto "tempio della Sibilla"), e quella di Roma presso il Tevere che Chr. Hülsen propose d'identificare col sacrario di Portunus, e sulla cui data si discute (Tenney Frank pone il nucleo della costruzione al sec. II a. C., ma il resto al primo impero; il Delbrück, al cui parere ci avvicineremo, ricusa di separare il podio dalle soprastrutture e assegna il tutto al sec. II, quando la tradizione afferma che si cominciarono a costruire in Roma templi marmorei).
Nell'età di Augusto troviamo la "Maison Carrée" di Nîmes, che continua (con uso del capitello corinzio ormai trionfante e divenuto quasi-ordine per merito dei Romani, e con la variante della fronte esastila) lo schema di aedes della "Fortuna Virile", cioè l'etrusco-italico.
Si conoscono parecchie costruzioni augustee più o meno simili, tra cui le meglio conservate sono il "Tempio di Augusto e Livia" a Vienne e quello "di Augusto" a Pola, il primo con maggiori persistenze tuscaniche. Contiamo per augustei, benché ricostruiti da Tiberio, ma ancor vivo Augusto, due importanti edifici romani: il "tempio dei Castori" nel Foro Romano, già fondato nel sec. V a. C. e dedicato, nella ricostruzione tiberiana, l'anno 6 dell'era volgare, octastilo periptero (con undici colonne sui fianchi) su alto podio, a cella arretrata nella misura di uno pseudotriptero ma con particolare disposizione delle colonne del pronao; e il "tempio della Concordia" pure nel Foro Romano fondato al principio del sec. IV a. C., restaurato da L. Opimio nel 121 a. C., e ricostruito fra il 7 a. C. e il 10 d. C., di pianta anormale per adattarsi allo spazio, su alto podio e con pronao in mezzo a un lato lungo. Più autorevolmente augusteo è il "tempio di Marte Ultore", il cui scavo fu completato dopo il 1925 e che fu innalzato da Augusto a capo del Foro che porta il suo nome: si attiene esso più strettamente alla tradizione del templum etrusco, sì per l'assenza di concessioni alla peripteralità greca, come per l'importanza data alla pars antica, cui si accede dalla sola fronte dell'alto podio.
Ricordi della tradizione dell'aedes etrusco-italica persistono anche, sotto le varianti che introdussero a mano a mano lo sviluppo dell'arte e il mutare del gusto, in età posteriore. Il "tempio di Vespasiano", sotto il Tabularium, è un prostilo esastilo a cella quasi quadrata: per mancanza di spazio, ma ad un tempo per rispettare in qualche modo la norma del pronao profondo, che continua la pars antica, le colonne della fronte sono avanzate sulla scala d'accesso al podio: fu dedicato da Domiziano nel 94 d. C. e si conservano parti della sua bella trabeazione.
Il "tempio di Antonino e Faustina" conserva la profondità (3 intercolunnî) del pronao esastilo, dove appaiono colonne monolitiche lisce di cipollino, con capitelli corinzî.
Colonie e municipî d'Italia e di tutto l'Occidente seguono l'esempio di Roma, e non solo la tradizione dell'aedes etrusco-italica vi rimane viva nei sacrarî minori, ma perfino il vetusto templum etrusco si continua nei capitolia, di cui le colonie, come emanazione dell'Urbe e immagini di essa in piccolo, non vogliono mancare.
Più interessante per i concetti qui svolti è l'osservare quanto accade in Oriente. Da una parte i Romani vi portano il loro gusto per le proporzioni e le decorazioni grandiose, insieme con elementi e forme divenuti presso di loro tradizionali e caratteristici, non escluse forme nuove create dall'arte imperiale su base etrusco-italica arricchita di elementi greci, con lo scopo di ottenere dall'insieme un'espressione nuova e nazionale romana. Ma per alcuni di questi elementi è un ritorno alla loro patria originaria, come l'alto podio già in uso nelle antichissime architetture asiane, modificato dalla tradizione etrusco-italica con l'arretramento della cella e la profondità del pronao. Dall'altra parte la tradizione del grecizzato mondo diadocheo tende a riassorbire nel tipo del naós periptero l'affine aedes italica e romana, mentre in grandi santuarî elementi orientali sviluppano un tipo complesso di tempio - nel senso orientale (egizio, salomonico), non in quello del templum etrusco - dove cortili che si succedono uno all'altro conducono alla cella.
Il "tempio di Zeus" in Ezani (Frigia), non posteriore al 125 d. C. né molto anteriore, è esternamente uno pseudodiptero ionico che si avvicina al naós, ma ha nei porticati capitelli compositi che la loro età denuncia quale varietà, semplificata nel canestro, di questa creazione imperiale-romana, e non quale precedente diadocheo di essa, come a torto si era ritenuto da alcuni. Il "tempio del Sole" a Palmira era uno pseudoperiptero (8 × 15) con pronao e opistodomo (dunque ancor più ravvicinato al naós ellenico) a colonne con capitello corinzio. Eliopoli (Ba‛albek) ha schemi grandiosi di cortili che menano al "tempio di Giove", su alto podio accessibile da scalea anteriore, pseudodiptero decastilo (10 × 19) con colonne a fusto liscio e capitello corinzio. Giovanni Malala, scrittore antiocheno del sec. VI, ne ascrive la fondazione ad Antonino Pio, ma varî studiosi moderni per la semplicità grandiosa delle forme pensano che sia sorto con la colonia romana augustea e sia stato finito sotto Nerone, se pure i cortili nella loro esecuzione attuale siano più tardi. L'adiacente "tempio di Bacco", fuori della gran corte, forse cominciato alla metà del sec. I d. C. ma finito nel II, minore e di lavoro meno delicato, ma di assai miglior conservazione, ci dà uno dei pochi esempî d'interno di tali edifici; sta su podio, è periptero octastilo (8 × 15), ma ha profondo pronao esastilo.
In Siria mancano per lo più due caratteri romani, i pronai profondi alla tuscanica e le mensole sotto la cornice. In Egitto il "tempio" di File eretto da Augusto combina, come l'arco di Aosta, colonne e pilastri a capitello corinzio con trabeazione dorica, secondo un gusto etrusco-italico.
Nell'Africa è comune nei templi l'alto basamento: particolare menzione per l'originalità della disposizione meritano il Capitolium di Lambesi a due celle e quello di Sufetrula costituito da tre templi nettamente distinti l'uno dall'altro; questo come il Capitolium di Tugga si data al sec. II d. C., il primo al principio del terzo; pure a Tugga, ìl tempio di Tanīt-Caelestis è entro un recinto a semicerchio, forse ricordo del crescente lunare, simbolo della dea.
L'arte imperiale proseguì con costruzioni e ricostruzioni la traduzione in nobili forme d'architettura lapidea del vecchio tipo italico di aedes rustica rotonda. In Oriente esso s'incontrò e fuse con le thóloi greche, che erano anche state adoperate nei santuarî: si può citare la rotonda di Roma ed Augusto sull'Acropoli di Atene, da lungo tempo distrutta.
Se il Pantheon di Roma si può classificare - e in verità ne dubitiamo - tra le aedes propriamente dette (casa dei 12 dei maggiori?), esso, nella forma rotonda che dai bolli di mattone sembra risultare adrianea, è la massima espressione artistica di una tradizione millenaria di origini rusticane.
La questione dell'orientazione dei "templi" romani è stata mal posta, a cagione dell'equivoco in cui ha indotto il nome. Va ripresa, separando ciò che è veramente templum, e segue la tradizione del tempio etrusco, da ciò che è aedes e che del tempio prende solo alcuni elementi; e forse non va esclusa, in tempi posteriori, una fusione dell'aedes col naós greco, che ad essa è sostanzialmente affine. I templi di Giove e di Bacco a Eliopoli guardano l'oriente come i naoí greci; ma lo stesso accadeva già a Pompei nel piccolo sacrario dedicato a Zeus Meilichios, culto greco introdotto nella città italica. Una nuova e ampia statistica, rintracciante e distinguente i varî riti seguiti e la differente importanza religiosa di ciascun edificio, darebbe forse alla questione una risposta non del tutto conforme a quella negativa cui, in base ad analisi insufficienti, si fermarono studiosi pur insigni come J. Durm.
Bibl.: Sorling Dorigny, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités, V, p. 88; P. Pfister, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XI, col. 2138; L. Gernet e A. Boulanger, Le génie grec dans la religion, Parigi 1932, p. 191; P. Stengel, Die griechischen Sakralaltertümer, 3a ed., Monaco 1920; G. Busolt, Griechische Staatskunde, ivi 1920, p. 514; O. Müller-W. Deecke, Die Etrusker, II, Stoccarda 1877, p. 128; H. Nissen, Das Templum. Antiquarische Untersuchungen, Berlino 1869; Orientation, Studien zur Geschichte der Religion, ivi 1906; P. G. Goidanich, Del templum augurale nell'Italia antica, in Historia, VII (1934), p. 579; I. T. Weinstock, Templum, in Röm. Mitteilungen, XLVII (1932), p. 95; A. v. Blumenthal, Templum, in Klio, XXVII (1934), p. i (su questi due studi v. Goidanich, Historia, VIII, 1934, p. 675); F. Ribezzo, Problemi Iguvini, in Rivista indo-greco-italica, XVIII (1934), p. 180; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2a ediz., Monaco 1912, p. 467; E. De Ruggiero, Dizionario epigrafico, I, p. 139; Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II, 3a ed., Lipsia 1887, p. 618. - Per la parte più strettamente archeologica, oltre agli scritti citati nel testo, e ai manuali e trattati generali, ci limiteremo a citare G. Perrot-Ch. Chipiez, Histoire de l'art dans l'antiquité, VII, Parigi 1898; J. Durm, Handbuch der Architektur, Stoccarda 1903-1905, voll. I e II della parte ii (die Baustile); per i templi greci: R. Koldewey e O. Puchstein, Die griechisch. Tempel, in Unter-italien u. Sicilien, Berlino 1899; E. Gábrici, Per la storia dell'architettura dorica in Sicilia, in Mon. Lincei, XXXV, 1935, col. 137 segg.) sono poi da consultare le indicazioni bibliografiche raccolte da A. della Seta, Italia antica, 2a ed., Bergamo 1927, specialmente per l'Etruria e Roma; e, anche per la Grecia, l'Appendix two di D. S. Robertson, A Handbook of Greek and Roman Architecture, Cambridge 1929; inoltre, M. P. Nilsson, The Mycenean Origin of Greek Mythology, Berkeley 1932; id., Homer and Mycenae, Londra 1933; G. Patroni, Le menzioni del naos nei poemi omerici, in Athenaeum, 1933, p. 209 segg.; id., Le origini del naos ellenico, in Historia, 1934, p. 594 segg. Recentemente sono stati ripresi in esame i dati monumentali dei templi etruschi e delle aedes etrusco-italiche (A. Kirsopp Lake, The archaeological evidence for the "Tuscan Temple", in Memoirs Am. Acad. in Rome, XII, 1935, p. 89 segg.) con risultati in parte disformi da quelli qui accolti, ma non sempre accettabili.
Oriente.
Cina. - La struttura architettonica del tempio nell'Asia orientale è fondamentalmente diversa dal tempio e dalla chiesa dell'Occidente. Monumenti di questo genere in Cina non risalgono ad un'epoca anteriore all'inizio dell'era cristiana. Ma la tradizione letteraria e i documenti permettono di seguire a ritroso lo sviluppo degli edifici dedicati al culto per un periodo di più di mille anni e dimostrano che le forme antiche si sono conservate pressoché immutate fino ad oggi. Il sacrificio e l'adorazione in Cina si compiono originariamente non, come in Occidente, in un edificio costruito con materiale duraturo e sufficientemente ampio per contenere una comunità di fedeli, bensì su una piattaforma elevata. Questa è fatta da principio solo di terra battuta. La semplice terrazza viene sostituita ben presto da parecchie altre. Un ulteriore arricchirsi delle forme architettoniche avviene già prima del 1000 a. C. con l'impiego di pietre per pavimento, balaustre, scale e altare. Ma la costruzione non viene isolata dalla natura, bensì inserita in essa: i costruttori tengono sempre conto del paesaggio affidandogli una funzione precipua nell'effetto dell'insieme.
Oltre alla terrazza viene presto introdotto in Cina anche l'edificio destinato all'altare sul quale si compie il sacrificio, all'immagine del culto e all'adorazione, cioè il tempio nel vero senso della parola che, come sembra si possa desumere da documenti, appare probabilmente già innanzi il principio del primo millennio dell'era volgare. Ma anche un edificio siffatto è costruito in rapporto al paesaggio dei dintorni immediati e più lontani, col quale si fonde armonicamente. Il prospetto principale si presenta sempre allo spettatore col lato largo della facciata, non con quello del timpano. Il moltiplicarsi dei tetti dei templi risale per lo meno al secondo millennio, la loro curvatura a circa 1500 anni a. C. Dato che l'architettura cinese impiega solo in misura assai ridotta materiale resistente, gli edifici ancora esistenti sono assai più recenti di quelli accertati dalla tradizione per via di rilievi, di sculture tombali e pitture. Le forme inveterate della terrazza del culto e del tempio degli antenati vengono piegate a nuovi scopi costruttivi dal buddhismo, dopo l'avvento di questo nei secoli I e II dopo C. Questa religione straniera influisce anche sulle dottrine indigene come il taoismo, incitandole a uno sviluppo verso confessioni organizzate con tempio e comunità adorante di fedeli. Ma i templi dedicati alle diverse divinità non si distinguono sostanzialmente da quelli che conservano immagini degli antenati. Da questa regola si distaccano solo le pagode buddhiste. Nell'accentuare la tendenza verticale, a guisa di torre, esse s'ispirano a modelli indiani. Ma anche le pagode si conformano al paesaggio e seguono nei particolari della struttura della facciata le leggi architettoniche cinesi.
Giappone. - Gl'inizî dell'architettura religiosa del Giappone si perdono nelle tenebre della preistoria, che nel Giappone giunge fino alla metà del primo millennio a. C. Il culto della natura indigeno dello Shinto, oltre alla venerazione di luoghi consacrati, dà importanza non tanto al tempio quanto all'edicola che conserva oggetti simbolici. Un tale sacrario copia semplicemente la casa d' abitazione; e poiché il materiale di costruzione facilmente deperibile veniva, sì, rinnovato entro periodi di tempo relativamente brevi, ma non alterato nei particolari, le edicole dello Shinto costituiscono le testimonianze più preziose dell'architettura anteriore all'introduzione del buddhismo intorno al 500 d. C. A partire da questa data s'incontrano accanto ai luoghi di culto della dottrina indigena i templi e le pagode del buddhismo. Il loro stile è in sostanza affine a quello dei monumenti cinesi dello stesso genere, a volte con variazioni giapponesi.
Indie. - India Anteriore. - Sebbene sia ben nota la cultura materiale del periodo intorno al 3000 a. C. grazie agli scavi di Harrapa e di Mohenjo Daro, nulla si sa circa gli edifici religiosi di questo periodo. La costruzione religiosa più antica dell'India è datata al periodo del 300 circa a. C. Subito al principio appare una forma che è propria del paese e che fu accolta da tutte le dottrine: indù, buddhiste e jainiste. Si tratta della costruzione di caverne nella roccia viva, di una specie dunque di architettura negativa. Ce ne sono due tipi principali, il Caitya, che conserva l'immagine del culto, un ambiente rettangolare con testata absidale, portale d'ingresso a forma di ferro di cavallo e vòlta a botte; e il Vihara che serve piuttosto come luogo di riunione e di soggiorno dei monaci, in cui delle celle si dipartono dall'ambiente rettangolare. È singolare che tutte le costruzioni di caverne traducano in pietra architetture di legno, fino nei particolari più minuti, copiando evidentemente le capanne del paese.
La forma propriamente indù dell'edificio religioso - qualche volta anche presa in prestito all'architettura delle altre dottrine - è il Sikhara, un'edicola coronata da torre, che appare già all'inizio circa dell'era volgare. Una tale cella servì in origine alla venerazione da parte non di una comunità di fedeli, sibbene di una o alcune poche persone, poiché l'immagine del culto nel centro riempie quasi tutto l'ambiente. I molteplici tipi del Sikhara furono già dal Fergusson suddivisi in tre forme principali: quella settentrionale costruisce la torre a terrazze piramidali, l'altra settentrionale la delimita per mezzo di verticali incurvate, la terza mescola i due stili. A partire dal sec. V d. C. si aggiungono ai Sikhara delle sale sostenute da pilastri, delle verande e delle sale a soffitto piano; queste ultime anche prive di torre. Queste variazioni sboccano, durante lo sviluppo ulteriore dell'architettura indù, in costruzioni simili a chiese; ma solo raramente si cerca di nascondere la separazione tra il Sikhara e il corpo centrale.
India Posteriore. - Il tempio costruito in caverne appare solo rarissimamente nell'India Posteriore (Birmania superiore). I templi isolati indiani subiscono variazioni nelle diverse regioni; in Champa, Cambogia, Birmania, Siam e Giava si sviluppa una architettura sacra nazionale. Ma anche le costruzioni più complesse si attengono al Sikhara del paese d'origine, conservando nel centro la cella, l'edicola per l'immagine del culto.
Bibl.: E. Börschmann, Die Baukunst u. religiöse Kultur der Chinesen, voll. 2, Berlino 1914 segg.; A. K. Coomoraswamy, History of Indian and Indonesian Art, New York 1927.
Il tempio di Gerusalemme.
Fu l'unico luogo in cui, secondo le norme religiose dell'Antico Testamento, si poteva celebrare legittimamente il culto liturgico ufficiale a Jahvè, dai tempi di Salomone in poi.
Prima che questo tempio fosse costruito, durante le peregrinazioni nel deserto e i primi tempi della dimora in Canaan, la Bibbia presenta come unico luogo di culto liturgico legittimo il tabernacolo; ma, sia in questo periodo anteriore, sia nell'epoca successiva alla costruzione del tempio di Gerusalemme, le eccezioni a questa legge dell'unicità del luogo di culto risultano frequentissime dal racconto della Bibbia stessa. Pur astraendo dal tempio scismatico dei Samaritani e da quello giudaico di Leontopoli in Egitto fondato nel secolo II a. C. da Onia di stirpe sacerdotale (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, VII, 10, 2-3; Antichità giud., XIII, 3, 1-3), le recenti scoperte dei papiri di Elefantina ci hanno inaspettatamente rivelato l'esistenza di un grande tempio giudaico, che si era costruito la comunità giudaica stanziata in quella remotissima regione; inoltre, può darsi che qualcosa come un tempio giudaico fosse costruito nei secoli III-II a. C. ad ‛Arāq el-Emīr, in Transgiordania, dalla famiglia dei Tobiadi padrona di quella zona e assai potente anche in Gerusalemme. Ad ogni modo, oltre a questi varî edifici, vi furono in Palestina anche luoghi di culto all'aperto, di solito su collinette (le ebraiche bamōth), ove si prestava al Dio degli Ebrei un culto particolaristico e spesso idolatrico, e che rimasero numerosi e tenaci fino al tempo dell'esilio babilonese, nonostante i reiterati tentativi di centralizzazione del culto in favore del tempio di Gerusalemme.
Il tempio di Salomone. - Di costruire un tempio stabile al Dio nazionale, in sostituzione del tabernacolo portatile, ebbe già idea David, che fece anche preparativi al riguardo: ma l'attuazione del progetto era riservata al suo figlio e successore Salomone.
Il progetto era conseguenza naturale dei principî su cui si fondava generalmente una monarchia orientale. In Oriente, il monarca era d'istituzione teocratica, e rappresentava la sua nazione e insieme il Dio di questa nazione: la potenza d'un Dio nazionale si misurava dalla potenza politica e dalle vittorie militari del monarca che lo rappresentava, come la magnificenza di quel Dio era rispecchiata dalla sontuosità del tempio ov'egli abitava e dalla magnificenza della reggia ove abitava il monarca suo rappresentante. Il lungo e sagace regno di David aveva portato la nazione ebraica a un vero apogeo di potenza: tuttavia a questa potenza mancava ancora la sua esibizione estrinseca e permanente, quale poteva essere data solo da sontuose abitazioni per il Dio e per il monarca della nazione ebraica; a ciò provvide Salomone edificando nella capitale Gerusalemme il tempio e la reggia. Le due costruzioni, non solo erano attigue, ma formavano anche un complesso organico: e ciò giustamente secondo i principî religioso-monarchici, poiché la dimora del Dio nazionale doveva essere fiancheggiata per onore e per difesa dalla dimora del monarca nazionale.
Salomone iniziò la doppia costruzione il quarto anno del suo regno (I [III] Re, VI, 1), cioè verso il 970 a. C., e vi lavorò complessivamente 20 anni, di cui 7 per il tempio e 13 per la reggia (ivi, VI, 38; VII, 1). Ai preparativi fatti da David ne aggiunse altri, rivolgendosi per aiuto all'amico Hiram re di Tiro. Il legname di cipresso e di cedro necessario alla costruzione fu tratto dai dominî di Hiram, sul Libano, e trasportato per mare su zattere fino a Giaffa, donde era inoltrato a Gerusalemme; anche la mano d'opera specializzata fu fornita da Hiram, difettando gli Ebrei di artefici esperti, e il fonditore tirio Ḥūrām-'ăbī (variante Ḥiram) s'incaricò della fabbricazione di tutti gli oggetti di bronzo necessarî alla costruzione.
Il luogo scelto per il tempio fu il cosiddetto Moria, che era il prolungamento settentrionale della collina dell'Ofel, sede della primitiva Gerusalemme. Il luogo doveva già avere tradizioni di carattere sacro: ivi stava l'aia di Orna lo Iebuseo, dove era avvenuta una teofania e dove David aveva già innalzato un altare (II Samuele [Re], XXIV).
Il tempio propriamente detto, cioè la "casa [di Dio]", risultò lungo cubiti 70 (circa metri 38,50) e largo cubiti 20 (circa m. 11). La sua porta d'ingresso era rivolta verso oriente, e procedendo dall'ingresso verso l'intemo si trovavano per ordine i tre seguenti ambienti: prima il "vestibolo" (ebraico 'ūlām), lungo cubiti 10 (m. 5,50) e largo 20, con un'altezza imprecisata ma certo superiore a cubiti 30 (m. 16,50); poi l'"aula" (ebr. hēkāl), ch'era chiamata anche il "santo" (ebr. qodesh), lunga cubiti 40 (m. 22) e larga 20, con un'altezza di cubiti 30; infine la "cella" (ebr. dĕbīr), ch'era chiamata anche il "santo dei santi" (ebr. qodesh qodashīm, in senso superlativo), di forma perfettamente cubica con cubiti 20 per lato.
A questo corpo di edificio era addossata all'esterno un'altra costruzione, che lo ricingeva ai tre lati settentrionale, occidentale e meridionale: ne era dunque libero il lato orientale, dove stava l'ingresso e la facciata. Questa costruzione addossata alla "casa" consisteva in tre piani, ciascuno dei quali era alto cubiti 5 (m. 2,75) ma con una larghezza sempre maggiore dal piano più basso a quello più alto; infatti il muro della "casa", sostenente al didentro i tre piani, era rientrante formando come tre alti gradini, epperciò i tre piani - che corrispondevano ai tre rientramenti - avevano una larghezza che cresceva con l'elevarsi del piano: cosicché il primo piano era largo cubiti 5 (m. 2,75), il secondo cubiti 6 (m. 3,30) e il terzo cubiti 7 (m. 3,85). I tre piani erano suddivisi internamente, e contenevano ciascuno 30 piccole camere.
Più in alto del terzo piano si aprivano nel muro della "casa" alcune finestre, destinate a illuminare l'interno del luogo sacro: ma ivi erano illuminati soltanto il "vestibolo" e il "santo" mentre il "santo dei santi" era privo di finestre e totalmente oscuro. I tre ambienti dell'interno erano separati da due pareti di legno di cedro; la comunicazione fra "vestibolo" e "santo" era data da una porta quadrangolare, quella fra "santo" e "santo dei santi" da una porta pentagonale davanti alla quale pendeva una cortina o velo. L'interno dei tre ambienti era rivestito di legno di cedro, salvo il pavimento fatto di legno di cipresso; sulle pareti figuravano intagli di cherubini, di palme e di fiori; il tutto era ricoperto d'oro puro. Nel "santo" stavano l'altare d'oro per i profumi, la mensa di cedro ricoperta d'oro su cui erano posti i "pani della proposizione" e dieci candelabri d'oro con relativi accessorî disposti cinque per parte. Nel "santo dei santi" stava soltanto l'arca dell'alleanza (v.), e ai due lati dell'arca due cherubini scolpiti in legno d'olivastro e ricoperti d'oro, alti ciascuno cubiti 10 (m. 5,50) e muniti di doppia ala distesa, ognuna lunga cubiti 5. Il "santo dei santi", ch'era la parte più interna del tempio, era anche la più santa di esso e di tutto il mondo, essendo la "dimora" del Dio d'Israele; ivi entrava una sola volta all'anno, nel giorno dell'Espiazione (Kippūr), soltanto il sommo sacerdote, e benché i battenti della sua porta rimanessero sempre aperti, nessuno poteva scorgere alcunché al didentro, sia per il velo pendente avanti alla porta sia per l'oscurità assoluta che vi regnava.
Ai due lati dell'ingresso nel "vestibolo" si ergevano due colonne di bronzo, alte ciascuna cubiti 18 (m. 9,90) e coronate da capitelli di forma sferica alti cubiti 5 (m. 2,75). Le due colonne avevano nomi simbolici, i quali sono trasmessi dalla tradizione masoretica sotto le forme rispettivamente di Yakīn "renderà stabile" e di Bo‛az "in esso è forza (?)", ma che probabilmente erano in origine Yakūn "è stabile" e Bĕ‛oz "in forza", con allusione al tempio stesso.
Questo edificio della "casa" aveva per recinto un muro che lo circondava a una certa distanza da tre lati, salvo che ad ovest: lo spazio, a cielo scoperto, compreso fra il recinto e la "casa" costituiva l'"atrio" del tempio (ebr. ḥāsēr); questo atrio era chiamato "interno" o "superiore" per distinguerlo da un altro più basso e più ampio che ricingeva anche la reggia ed era chiamato "esterno" o "grande". L'atrio interno aveva tre porte, settentrionale, meridionale e orientale: quest'ultima era sull'asse ideale che divideva longitudinalmente la "casa" prolungandosi a oriente oltre l'ingresso del "vestibolo". Sullo stesso asse, nel mezzo dell'atrio, stava l'altare di bronzo degli olocausti, dove si bruciavano le carni degli animali offerti in sacrificio, e che era forse piantato sulla viva roccia; a fianco stava il cosiddetto "mare di bronzo", che era un enorme vascone poggiato su 12 buoi di bronzo rivolti a gruppi di tre verso i quattro punti cardinali: conteneva l'acqua occorrente per le carni delle vittime, la quale era trasportata, dal "mare di bronzo" mediante 10 ampie conche poggiate su carrelli a ruote.
Come si vede, le linee generali del tempio corrispondevano a quelle del tabernacolo, di cui era il succedaneo, salvo che l'ampiezza era molto maggiore. Ma la sua ripartizione generica ha notevoli corrispondenze con quella di alcuni templi d'Egitto, specialmente con quello di Khons a Karnak, e ancor più numerose con i templi della Fenicia: se infatti gli Ebrei avevano dimorato per secoli in Egitto, i principali artefici del tempio di Gerusalemme erano stati sudditi fenici del re Hiram.
Il luogo già occupato dal tempio di Salomone corrisponde oggi in Gerusalemme al luogo sacro musulmano Ḥaram ash-Sharīf. Nella sua spianata (metri 490 × 321) sorge la cosiddetta Moschea di ‛Omar, ossia la Qubbat aṣ-sakhrah (v. gerusalemme), che racchiude una roccia venerata come sacra anche dai musulmani, e che forse è il posto ov'era basato l'altare degli olocausti del tempio di Salomone: questa "roccia" ha una superficie ineguale di m. 17,94 × 13, 19 e si alza sul piano circostante da m. 1,25 fino a m. 2. Ad ogni modo, la suddetta superficie dell'intera spianata è certamente superiore a quella del tempio di Salomone, compresovi anche l'"atrio", poiché è stata ottenuta in buona parte con sottocostruzioni di rialzo, sia a E. verso la valle del Cedron, sia a O. verso la valle dei Tyropeon, e tali sottocostruzioni furono praticate specialmente ai tempi di Erode il Grande (v. appresso) che diede al rinnovato tempio un'ampiezza molto maggiore di quella precedente.
Confrontato con i grandiosi templi d'Egitto e di Babilonia, quello di Salomone era appena mediocre, benché fosse indubbiamente assai ricco. Inoltre, pur dipendendo in parte dai canoni architettonici egiziani e fenici, sembra che avesse un significato simbolico cosmico: esso, cioè, era una riproduzione in piceolo del tempio celestiale in cui dimorava Jahvè (cfr. Sapienza, IX, 8; Esodo, XXV, 9, 40; Ebrei, VIII, 1-5; IX, 23-24; XII, 22), e che a sua volta era il modello dell'intero cosmo diviso nelle tre parti di "cielo", "terra" e "mare" (Apocal., XXI, 1-2); nel tempio il cielo era rappresentato dal "santo dei santi", dove dimorava Dio, la terra era rappresentata dal "santo", dove stavano i simboli dell'adorazione perpetua a Dio, e il mare era rappresentato dall'atrio dove stava il "mare di bronzo" (cfr. Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, III, 6, 4; 7, 7; Filone, De vita Mosis, III, 4, segg.; S. Girolamo, Epist. 64 ad Fabiolam, 9, ecc.).
Tempio di Zorobabel. - Il tempio di Salomone, pur attraverso spogliazioni e reiterate profanazioni, rimase in piedi fino all'anno 586 a. C., allorché fu incendiato e distrutto alla presa di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor. Tornati gli Ebrei dall'esilio babilonese in patria, la prima cura di coloro che fecero ritorno sotto la guida di Zorobabel fu quella di ricostruire il distrutto tempio di Gerusalemme, e attraverso grandi difficoltà vi riuscirono (v. aggeo; ebrei; zaccaria profeta; zorobabel). Questo nuovo tempio, terminato nel 516 a. C., fu poi chiamato dalla successiva tradizione giudaica il "secondo tempio", in contrapposto a quello precedente di Salomone. Le linee principali e la disposizione di questo tempio postesilico riproducevano in sostanza quelle del precedente (cfr. Esdra, VI, 3 segg.), ma in fatto di sontuosità e ricchezza di materiali gli era certamente molto inferiore. Questa inferiorità materiale, ch'era effetto della ristrettezza di mezzi in cui si trovavano i rimpatriati, fu vivamente sentita dai volonterosi cooperatori già durante l'opera di ricostruzione; ma il profeta Aggeo li rianimò nel loro sconforto preannunciando che il nuovo tempio sarebbe stato in compenso molto più glorioso del precedente, perché in esso si sarebbe manifestata la gloria dell'avvento messianico (Aggeo, II, 1-9).
Nel secondo tempio, però, mancava l'oggetto più sacro conservato nel primo tempio, cioè l'arca dell'alleanza, ch'era andata distrutta nel 586 (in II Maccabei, II, 1 segg. è riportata una leggenda popolare, secondo cui l'arca era stata occultata dal profeta Geremia); cosicché il "santo dei santi", dove prima era stata l'arca, nel secondo tempio rimase vuoto (cfr. Mishnā, Yomā, V, 2), e tale lo ritrovò con sua meraviglia Pompeo Magno, allorché penetratovi da conquistatore nel 63 a. C. non scorse se non vacuam sedem et inania arcana (Tacito, Histor., V, 9). Nel "santo" stavano l'altare d'oro per i profumi e la mensa per i pani della proposizione, ma in luogo dei dieci candelabri precedenti ve n'era uno d'oro a sette bracci (I Macc., I, 21 [23]; IV, 49-51; Flavio Giuseppe, C. Apione, I, 22 [§ 198]).
La spogliazione e la profanazione subite dal tempio per opera di Antioco IV Epifane furono compensate e riparate dalla restaurazione dei Maccabei a cominciare da Giuda, i quali ebbero diritto al sommo sacerdozio ereditario. Pompeo Magno, invece, non asportò nulla dal tempio, anzi a vittoria ottenuta vi fece riprender subito il regolare servizio liturgico.
Il tempio di Erode. - Col passar dei secoli, il tempio di Zorobabel appariva sempre più meschino e inadeguato in mezzo alle splendide costruzioni dei templi ellenistici. A rinnovarlo provvide Erode il Grande; egli fece ciò per tentare di guadagnarsi l'animo dei suoi sudditi giudei e per il suo amore di apparire, secondo la moda ellenistica, un sontuoso costruttore, non già per spirito di religiosità giudaica. Vinte le diffidenze dei Giudei, specialmente dei farisei, e accumulato in precedenza un'enorme quantità di materiali, iniziò la costruzione nel 19 a. C.; in capo a nove anni e mezzo, l'essenziale dell'opera era compiuto, tuttavia i lavori di rifinitura si prolungarono ancora per molti anni, fino verso il 62 d. C. (cfr. Giovanni, II, 20). Per la tradizione giudaica il tempio di Erode non rappresentò un "terzo tempio", ma fu sempre il "secondo", figurando come una sua restaurazione e non essendovi stato mai interrotto durante i lavori il servizio liturgico.
Anche in questo tempio la "casa" era in tutto analoga a quella del tempio di Salomone, ma aveva un'altezza maggiore: un'enorme differenza fu invece apportata nelle costruzioni circostanti, sia per ampiezza sia per sontuosità. La spianata attorno alla "casa" fu allargata circa del doppio per mezzo di sottocostruzioni praticate ai margini della collina (ottenendo così circa la spianata dell'odierno Ḥaram ash-Sharīf: v. sopra): in questa spianata furono edificati tre atrî, che a partire dalla periferia verso la "casa" erano in posizione sempre più elevata. Quello più esterno era accessibile a tutti, e perciò chiamato "atrio dei gentili", poiché potevano entrarvi anche i pagani; ma, procedendo verso la "casa", sorgeva a un certo punto uno sbarramemo in pietra che segnava il limite permesso ai pagani e recava iscrizioni in greco e in latino comminanti la pena di morte al pagano che l'avesse oltrepassato (una di queste iscrizioni in greco fu ritrovata nel 1871). Alquanto più in là e più in alto dello sbarramento sorgeva l'"atrio interno", racchiuso da potentissime mura e accessibile ai soli Giudei: era diviso in due parti, di cui l'esterna costituiva l'"atrio delle donne" accessibile alle giudee, e l'interna l'"atrio degli Israeliti", dove non entravano donne. Avanzando verso l'interno e salendo ancora, veniva l'"atrio dei sacerdoti", dov'era l'altare degli olocausti; e infine, ancora più addentro e più in alto, la "casa". Tutto questo complesso di costruzioni era dominato a nord-ovest dalla fortezza Antonia, costruita da Erode in luogo della precedente rocca (bīrāh, βᾶρις) e da lui dedicata al triumviro Antonio; era di una potenza straordinaria, e costituì il maggiore ostacolo all'espugnazione che Tito fece della città nel 70.
I due lati esterni, orientale e meridionale, dell'"atrio dei gentili" erano costituiti da due sontuosi portici. Quello orientale, che guardava sopra la valle di Cedron, era chiamato impropriamente "portico di Salomone": fu frequentato sia da Gesù Cristo sia dagli apostoli (Giovanni, X, 23; Atti, III, 11; V, 12). Quello meridionale, che andava dalla valle di Cedron a quella dei Tyropeon, era chiamato "portico regio", e mostrava veramente una sontuosità regale, ma era di tipo totalmente ellenistico e non aveva nulla di tipicamente giudaico: era formato da 162 colonne in quadruplice fila e triplice navata; ogni colonna aveva una circonferenza che non poteva essere abbracciata da tre uomini insieme, ed era sormontata da un capitello corinzio di squisita fattura.
La splendida costruzione di Erode durò brevissimo tempo: fu incendiata il 10 del mese Loos (6, altri 29-30, agosto) dell'anno 70 durante l'espugnazione romana di Gerusalemme. È probabile che un tentativo di ricostruzione fosse fatto durante l'insurrezione di Simone Bar Kōkhĕbā (v.) negli anni 132-135, ma il sopravvento romano lo interruppe. Per gli ulteriori avvenimenti, v. erei; gerusalemme; palestina.
Bibl.: Tutte le storie degli Ebrei, i dizionari biblici, i trattati d'archeologia ebraica e i commenti ai libri di (Samuele-) Re trattano del tempio: per cui v. bibbia, VI, pp. 916-18; ebrei; re, libri dei. Sono poi da consultare: M. de Vogüé, Le temple de Jérusalem, Parigi 1864; Laurent de Saint-Aignan, Le temple de Jér., ivi 1876; G. Perrot e Ch. Chipiez, Histoire de l'art dans l'antiquité, IV: Sardaigne-Syrie-Cappadoce, ivi 1887 (ristampa, ivi 1911 segg.); Th. Friedrich, Tempel und Palast Salomo's, Innsbruck 1887; Ch. Chipiez e G. Perrot, Le temple de Jér. et la maison du Bois-Liban, Parigi 1889; C. Schick, Die Stifthütte, der Tempel in Jerusalem und der Tempelplatz der Jetztzeit, Berlino 1896; J. Prestel, Die Baugeschichte des jüdischen Heiligtums und der Tempel Salomons, Strasburgo 1902; E. Schmidt, Salomon's Temple in the light of other Oriental Temples, Chicago 1902.