Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La nascita del Novecento sotto il segno della velocità, dell’accelerazione modernista, fa sentire i suoi influssi anche in letteratura. La scrittura per un verso riproduce la frammentazione, il disordine e la complessità del presente, per un altro attua un rapporto nuovo, discontinuo con la percezione dei tempi (emblematici sono la memoria involontaria in Proust o il tempo interiore della signora Dalloway). Il postmoderno avvierà poi un rapporto dinamico con le forme del passato, andando a rileggere i traumi storici, oppure operando citazioni, riscritture, rifacimenti parodici.
Nuove percezioni
James Joyce
Eveline
Sedeva alla finestra guardando la sera prender possesso del viale. Teneva la testa appoggiata alle tendine e aveva nelle narici l’odore del cretonne polveroso. Era stanca. C’erano pochi passanti. Quello che abitava l’ultima casa giù in fondo passò per rientrare; lei sentì i passi risuonare sul marciapiede di cemento e il cigolio dei detriti sul sentiero davanti alle nuove case rosse. Una volta c’era un campo al loro posto in cui andavano a giocare tutte le sere con i ragazzi di altre famiglie. Poi un tale di Belfast comprò il campo e ci costruì delle case; ma non catapecchie scure come le loro, ma abitazioni in mattoni dal color chiaro e dai tetti fulgidi. Ci andavano tutti i ragazzi del viale a giocare in quel campo: i Devine, i Water, i Dunn, il piccolo Keogh lo storpio, e lei con i suoi fratelli e sorelle. Ernest era quello che non giocava mai: ormai era troppo grande. Veniva sovente suo padre a cacciarli con un bastone di pruno; ma in genere c’era il piccolo Keogh a fare da palo e a gettar loro la voce quando lo vedeva arrivare. Eppure erano stati felici allora, così almeno credevano. E poi a quel tempo suo padre non era così cattivo, e sua madre era ancora viva. Tutto questo accadeva tanto tempo fa; adesso lei e i suoi fratelli s’erano fatti grandi e sua madre era morta. Anche Tizzie Dunn era morto e i Water erano tornati in Inghilterra. Tutto cambia. Ora anche lei stava per andarsene e lasciare la casa. [...]
Se fosse partita, domani si sarebbe trovata in alto mare con Frank, diretta a Buenos Aires. Avevano già prenotato i posti. Come avrebbe potuto tirarsi indietro dopo tutto quello che lui aveva fatto per lei? La disperazione le provocò un senso di nausea [...] “Vieni!”. No! No! No! Era impossibile.
J. Joyce, Gente di Dublino, Milano, Mondadori, 1987
All’inizio del XX secolo, la letteratura si confronta con la realtà rispondendo a un inedito senso del tempo. Se l’Ottocento si era distinto per la “serietà”, per il modo con il quale aveva spesso deposto il fantasioso romanzesco (il romance della tradizione inglese) per concentrarsi sugli aspetti quotidiani dell’esistenza, sul racconto realistico dell’esperienza vissuta (e qui, in termini narrativi, si afferma il novel), con i primi decenni del nuovo secolo si impongono fattori legati a una nuova percezione del tempo, del passato come del presente, indubbiamente rappresentativi di un periodo sconvolto da innovazioni e scoperte negli ambiti della scienza e della tecnica. L’Europa è scossa da fremiti di velocità, un concetto che scardina la percezione ordinaria di spazio e tempo: rappresentazioni pittoriche, letterarie, musicali e cinematografiche concorrono con la fulminea bellezza di treni e aerei, a schiudere immagini mai viste di spiccato dinamismo, figure e forme alle quali viene impresso un movimento, una spinta che le rende vive e sottratte al rigore della perfezione classica. Nel segno di un oggi accelerato e cangiante, si esorta a essere quanto mai moderni, sensibili al mutare dei tempi, e la lingua e la letteratura, gli stili, non si sottraggono alla regola: ne è un esempio la tensione avanguardistica propria dei futuristi italiani. Le note prescrizioni del Manifesto tecnico della letteratura italiana (1912) non lasciano dubbi al riguardo: per l’autore, Filippo Tommaso Marinetti, ispirato dall’“elica turbinante” del velivolo che sta conducendo, è necessario sconvolgere l’assetto della grammatica tradizionale, “distruggere la sintassi”, abolire aggettivi, avverbi, segni di punteggiatura, servendosi di “analogie vastissime”, di una “immaginazione senza fili” capace di offrire visualizzazioni istantanee e spericolate dell’oggetto da descrivere. Il tutto è teso a infondere al testo scritto una libertà che è bellezza, una bellezza più prossima all’oggetto dell’idolatria futurista, l’automobile, che alle forme canoniche rinchiuse nei musei. Le rivendicazioni marinettiane abbracciano un progetto di avanguardia, rivolto al pensiero del futuro, a cercare di abbreviare la distanza che separa l’uomo dal suo domani.
Misure del tempo interiore
Più in profondità si muovono le grandi sperimentazioni moderniste che coinvolgono l’Europa dei primi decenni del Novecento, cercando di riconnettere le pieghe profonde della coscienza all’origine dei traumi nel passato (sono anni profondamente segnati dalla ricerca psicanalitica di Sigmund Freud: la sua Interpretazione dei sogni esce nel 1900), la complessità del momento presente al significato della memoria. Del tutto originale e sorprendente è il modo con il quale la scrittura si rapporta alla dimensione del tempo: i romanzi esemplari di questo periodo flettono la linearità consueta del racconto, interrompono la progressione ordinata delle vicende per introdurre spostamenti, dislocazioni, cesure, interruzioni, narrazioni a ritroso (in consonanza con una tecnica presto elaborata dal cinema, il flashback). La percezione del tempo nei personaggi, in particolare, subisce notevoli trasformazioni: accanto a un tempo oggettivo, storicamente determinato, si affaccia sulla pagina la consistenza di un tempo soggettivo, esperito dalla coscienza dei personaggi e da essi avvertito, nei termini del filosofo francese Henri Bergson, come durata, come flusso che si anima nella mente di chi vive o rivive sensazioni, slegate a loro volta dallo scorrere del tempo effettivo, misurabile. L’influsso di un tale “tempo interiore” sul racconto è stato rilevato da un grande critico tedesco, Erich Auerbach, in opere come Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust (La recherche du temps perdu, 1912-1927) e Gita al faro di Virginia Woolf (To the Lighthouse, 1927). In particolare, nel ciclo romanzesco di Proust si individua la precisa volontà di rimediare alla perdita del proprio passato, di riafferrare il capo delle storie, dei personaggi, dei luoghi che hanno segnato la formazione del narratore, redimere, in una parola, il tempo perduto. Lungo i sette libri di cui si compone l’opera, Proust affida a un disegno non lineare, ma casuale (a quella che teorizza come la “memoria involontaria”) l’evocazione di tutto un mondo altrimenti scomparso per sempre: semplici dettagli della vita quotidiana, come i frammenti di una madeleine, un biscotto inzuppato nell’infuso di tiglio, richiamano alla mente per analogia un momento vissuto nel passato (il tè della zia Léonie), i colori, le case, i sensi tutti di un luogo d’infanzia, la Combray delle vacanze estive, in Dalla parte di Swann (Du côté de chez Swann). Ancora, nel libro conclusivo, Il tempo ritrovato (Le temps retrouvé), il narratore riconnette le pietre sconnesse del cortile di palazzo Guermantes, nelle quali inciampa, a un episodio simile avvenuto a Venezia anni prima: di qui, tutta una serie di ricordi viene messa in moto, associando personaggi ormai lontani nel tempo a una convivenza irreale con chi resta, dove i morti rivivono in un presente continuo, sospeso. Il loro tempo è stato così riscattato; il narratore ha vinto la sua personale sfida contro il tempo, concludendo la narrazione prima della fine della propria esistenza, esattamente come per lo scrittore la parola “fine” apposta alla propria opera, cui si dedica per lunghi anni, coincide con la propria morte. Nella natura insignificante e occasionale della memoria involontaria si può scorgere la distanza tra Proust e Bergson: per il filosofo si tratta di una memoria pura, che possiamo recuperare con un movimento volontario dell’intelletto, in qualsiasi circostanza; per Proust, al contrario, l’ampio edificio del ricordo costituito dalla Recherche è tutto sorretto dall’attesa di istanti isolati, distanziati tra loro nel tempo e sottratti a una precisa volontà di sistemazione, come scrive Stephen Kern. La narrazione proustiana segue allora questo moto ondivago della coscienza ancorata ai ricordi, creando effetti vertiginosi, sbalzi avanti e indietro nella successione temporale, giustapponendo divagazioni, momenti irriducibili a una consequenzialità narrativa di stampo tradizionale.
In Gita al faro, è ancora la coscienza del personaggio principale, la signora Ramsay, ad accentrare su di sé i movimenti della scrittura: ma, a differenza di quanto avviene in Proust, nel romanzo di Virginia Woolf siamo di fronte a una mente che sovrappone diverse idee, a un fulmineo flusso di coscienza che interrompe di continuo il tempo della narrazione. È un tempo franto, occupato da digressioni, da fughe nel presente o nel recente passato che riflettono la velocità con la quale il tempo della coscienza muove da un pensiero all’altro – molto più rapido, in questo, dei meccanismi del linguaggio verbale e della scrittura. La riflessione sul tempo che Woolf riserva ai lettori è tematizzata, inoltre, dalla mesta sezione centrale del romanzo Il tempo passa (Time passes). Qui, in pagine più lente e meditative, il narratore riprende una salda conduzione del discorso, osservando l’interno della casa per le vacanze alle Ebridi oramai abbandonata, in seguito alla morte della signora Ramsay, in preda al dominio degli elementi naturali, di un caos che sommerge l’ordine del tempo passato, riflettendo lo sconvolgimento avvenuto nella vita familiare. In un altro romanzo di Woolf, l’azione si sposta nel cuore del modernismo, le strade di Londra percorse da Clarissa, la Signora Dalloway (Mrs. Dalloway, 1925) dell’alta società cittadina, dove è il suono cadenzato del Big Ben a scandire il tempo soggettivo del personaggio, a ritmare l’alternanza al suo interno di pensieri ordinari, relativi all’organizzazione di una cena, e al ritorno dall’India di un’antica fiamma, Peter Walsh. Il momento culminante del ricevimento di Clarissa coinciderà con il suicidio di un giovane reduce dal fronte, Septimus Warren Smith, seguito in parallelo dalla narrazione.
Il moderno scenario urbano riflette le “miriadi di impressioni” del personaggio, il suo tempo moltiplicato: non diversamente, nello stesso decennio James Joyce comprime i mille avvenimenti dell’Ulisse (Ulysses, 1922) all’interno di una giornata qualsiasi, il 16 di giugno del 1904 a Dublino. Se nel monologo interiore della signora Ramsay in Al faro è ancora reperibile una trama di associazioni mentali leggibile, con Ulisse “la tecnica del molteplice riflettersi della coscienza e della stratificazione dei tempi viene applicata nel modo forse più radicale”, come afferma Auerbach, caricandosi di variegate valenze simboliche – riferimenti a episodi omerici, della teologia biblica, della filosofia e della letteratura della tradizione. Il tempo interiore del protagonista, l’uomo qualunque Leopold Bloom, novello Ulisse, è attraversato da innumerevoli sensazioni, da preoccupazioni lavorative, politiche, erotiche (in particolare, sospetta l’infedeltà della moglie Molly). La peculiare frammentazione del racconto (una giornata che appare infinita) è ottenuta per mezzo di uno stile quotidiano e al contempo straordinariamente mobile, esplosivo. Il flusso di coscienza come “stile della metropoli” – nella definizione di Franco Moretti – oltre che dei personaggi, Leopold, Molly e il giovane Stephen Dedalus (che salva Leopold da una rissa in un bar e lo riaccompagna a casa, ricomponendo nel finale una sorta di ironica sacra famiglia) che intrecciano i moti della profondità psichica alle mille insidie della città: un’Odissea del quotidiano. Il dibattersi della coscienza intorno alla memoria contrassegna invece un’opera di Joyce paradossalmente legata alla descrizione di Dublino come centro della paralisi, capitale della stasi storica di una nazione: i racconti Gente di Dublino (Dubliners, 1914). In maniera più specifica, Eveline è tutto giocato sulla spinta della protagonista ad andarsene insieme al suo innamorato e sui ricordi di una felicità familiare perduta che la tratterranno a terra; il racconto conclusivo, The dead (I morti), è imbastito sulla descrizione di una malinconica serata presso le anziane sorelle Morkan. Gabriel, loro nipote, assisterà all’affiorare di uno sconvolgente ricordo dal passato della moglie Gretta, animato da una canzone risuonata durante la cena e a suo tempo cantata, in una simile notte nevosa, alla finestra della moglie da un giovane che, innamorato di lei e malato, mise a repentaglio la sua vita. Il passato mina dunque le certezze e la sonnolenta vita quotidiana dei piccoli dublinesi indagati da Joyce – e in generale, di tutta la borghesia europea.
L’anno successivo all’uscita di Ulisse, il 1923, Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz, corrispondente e amico di Joyce durante il suo soggiorno italiano) dà alle stampe dopo 25 anni il suo terzo romanzo e, ancora una volta, sceglie la Trieste degli uomini comuni per ambientarvi le vicende di un inetto, al centro della Coscienza di Zeno. Rispetto ai suoi illustri paralleli europei, l’opera non si concede al dominio del monologo interiore per attuare, di contro, un rapporto con il tempo narrato del tutto peculiare. La struttura romanzesca è improntata al registro di quel diario che il dottor S. richiede al suo paziente, Zeno Cosini, come terapia psicanalitica. Ma l’ordine delle vicende è volutamente spiazzato; il paziente, visibilmente in malafede, richiama alla memoria grandi episodi della sua vita senza subordinarli a un ordine progressivo; il romanzo si lega così, nel suo costruirsi, a singoli nuclei tematici, come nota Mario Lavagetto “il discorso procede libero, non paga pedaggi alla cronologia del racconto”. Nella sua cognizione della malattia, Zeno guarda indietro ai momenti rivelatori del passato, senza trarne indicazioni né benefici per il presente, mentre si convince che la salute, incarnata dalla moglie Augusta, risiede “nel segregarsi nel presente e starci caldi”, come ha notato Sandro Maxia, sfuggendo all’erosione delle certezze borghesi che lo scorrere del tempo porta con sé, al flusso della coscienza. Il tempo di Zeno è allora, come ha scritto il romanziere e critico francese Alain Robbe-Grillet, un “tempo malato”, mai risolto, inghiottito dai rimandi prolungati al futuro, come accade per il celebre episodio dell’ultima sigaretta, o da salti all’indietro, dall’azione della morte che sottrae le figure intorno al personaggio, confinandolo in una sorta di presente continuo delle vicende (Giacomo Debenedetti). In ultimo, il futuro: è su una scena che si impone per la sua portata apocalittica che il romanzo si conclude, sulla previsione di un ordigno terribile che sconvolgerà fatalmente una vita umana “inquinata alle radici”, segnando la grande distanza della visione di Svevo da quella di Proust. Il tempo, agli occhi di Zeno, appare irredimibile, irrecuperabile. Ma, forse, il prototipo di quelli che un filosofo, Paul Ricoeur, definisce Zeitromane, romanzi sul tempo, è La montagna incantata (Der Zauberberg, 1924) di Thomas Mann, contraddistinto, per Ricoeur, dal “venir meno del tempo cronologico”. Nel romanzo, il giovane ingegnere Hans Castorp rimane bloccato in un sanatorio montano, il Berghof, per sette anni, durante i quali diviene parte di un mondo di malati sospesi al di fuori della vita reale, dove scorre il tempo degli orologi. La stessa attrazione che nutre, all’interno del mondo isolato nel suo incantamento, per la sfuggente Claudia Chauchat è parte di un sentimento nel quale l’eros si compenetra a un senso morboso di sfinimento, a presagi di morte. Il mondo concluso del Berghof si aprirà per Hans al richiamo del tempo della vita, coincidente con l’anno 1914, nel quale scenderà dal sanatorio verso la pianura, per immettersi nell’esperienza della guerra. Lo scenario di distruzione mondiale che Svevo evoca nel finale di Zeno coinciderà, per il reduce, con gli orrori della seconda guerra mondiale e della Shoah.
Il tempo insensato della guerra
È uno spartiacque fondamentale per la periodizzazione della letteratura novecentesca: nell’opera di Primo Levi risuonano intatte le cupe note della deportazione, vissuta in prima persona dall’autore, nel campo di sterminio di Auschwitz. In Se questo è un uomo (apparso in una prima versione nel 1947), Levi aggrega singoli racconti della sua prigionia, descrivendo il senso di stasi, di confinamento in un tempo “eternamente bloccato”, come lo ha definito Marco Belpoliti, che accomuna i deportati, privati dell’orologio e dunque del senso del fluire del tempo come qualcosa che li possa ancora far sentire parte del mondo esterno. La percezione temporale del sopravvissuto assume, in maniera sempre più accentuata, le connotazioni di memoria e di testimonianza. Ancora in ambito italiano non si può non ricordare la straordinaria testimonianza poetica costituita da una raccolta di Vittorio Sereni, Diario d’Algeria (1947); si ricorderà inoltre il precedente poetico della Grande Guerra riflessa nelle intense, fulminee e cesellate liriche dell’Allegria di Giuseppe Ungaretti, composte tra il 1914 e il 1919, nella quale spiccano i versi composti durante la prigionia: il ricordo afferma l’inquietudine del periodo, ma anche segni di vita, di speranza, come l’immagine consolatoria che raggruppa i compagni di sventura: “Rinascono la valentia / e la grazia. / Non importa in che forme – una partita / a calcio tra prigionieri: / specie in quello / laggiù che gioca all’ala”.
Gli anni che seguono la fine del conflitto segnano anche, in Italia, la necessità di fare i conti con l’orrore alle spalle e di ricostruire un senso plausibile per quanto è accaduto nel frattempo. Due romanzi legati al mondo della Resistenza piemontese sono imperniati su questa ricerca della verità: il ritorno del trovatello Anguilla nelle Langhe, ora illuminate dai falò di morte dei partigiani, ai quali è stata sacrificata una delle “signorine” (le figlie del sor Matteo presso il quale lavorava prima di migrare verso l’America), Santa, accusata di collaborazionismo (La luna e i falò di Cesare Pavese, 1950); e il ritorno di Milton che cerca, in un romanzo breve tra i più alti del Novecento (Una questione privata di Beppe Fenoglio, 1965), di ritrovare la figura amata di Fulvia e di comprendere l’intrecciarsi della sua vicenda con quella dell’amico Giorgio. Il filo del passato amoroso e quello della recente storia politica animano incessantemente la ricerca quasi proustiana del giovane, fino a consegnarlo al fuoco mortale dei Tedeschi.
Lo spettro che si agita accanto ai ricordi del secondo dopoguerra europeo è allora quello dell’amnesia, dell’assenza di ricordi: la cinematografia tra gli anni Cinquanta e Sessanta lo esplica in Hiroshima mon amour (1959) e Muriel, il tempo di un ritorno (Muriel ou le temps d’un retour, 1963), entrambi di Alain Resnais, o ne Il deserto rosso (1964) di Michelangelo Antonioni, ma si potrebbe giungere sino a L’uomo senza passato (Mies vailla menneisyyttä, 2002) di Aki Kaurismäki.
Memoria e Storia
Rispetto alla prima metà del secolo, alle sue vertiginose sperimentazioni, le opere degli anni in esame presentano un rapporto meno caotico e disorientante, più composto e ortodosso, rispetto al tempo della narrazione: lo scopo primario resta quello di illuminare il passato per mezzo di una memoria precisa e analitica.
Si prepara così la strada agli anni del postmoderno e al ritrovato piacere per il racconto che esso esprime, recuperando non di rado espressioni stilistiche tradizionali. In mezzo a questa tendenza, però, si distinguono alcune opere che propongono un ritratto del passato problematico, tutt’altro che risolto. Con W o il ricordo d’infanzia (W ou les souvenirs d’enfance, 1970), Georges Perec fonde in un libro peculiare diverse direzioni di racconto: una storia della propria infanzia, che ruota intorno a un nucleo generativo, la perdita della madre, e un romanzo d’avventure vissuto da Gaspard Winckler, alter ego dell’autore, che sbarca in un’isola al largo della Terra del Fuoco dominata da un severo codice olimpico, da competizioni sportive che sfociano in una sadica disciplina. L’avventura e l’utopia servono a Perec per stornare da sé un eccessivo rigore autobiografico (egli si fa allora “testimone”, e non “attore” delle vicende) e allo stesso tempo divengono territori immaginari dove disseminare tracce, segni che rimandano alla sua infanzia, alla condizione erratica delle sue origini ebraiche. Tale condizione verrà poi scrutata a fondo dall’autore in un testo in cui la scrittura assume forme liriche, di litania, un regesto delle tracce, delle testimonianze dei migranti europei che si trovavano a entrare negli Stati Uniti attraverso le strette porte di una selezione umiliante: i frammenti di storie che Perec enuclea, e che fungono da testo per un film di Robert Bober, sono in Ellis Island. Storie di erranza e di speranza (Récits d’Ellis Island: histoires d’errance et d’espoir, 1980).
Anche nella narrativa mitteleuropea degli ultimi decenni l’insistenza sulla memoria si fa più avvertita: può ancora prendere la forma di un ritorno sui luoghi del passato da parte del protagonista, come l’indagine sull’inspiegabile suicidio della madre in Infelicità senza desideri (Wunschloses Unglück, 1972) dell’austriaco Peter Handke, oppure può tradursi in un lamento, una “irritazione”, un’espressione di sdegno senza interruzioni, da parte di un narratore che ha covato per anni il proprio odio nei confronti di una società borghese meschina e viziata (il quale riprende da Montaigne l’idea che “nulla è più difficile, ma anche più utile, dell’autodescrizione”). È il movente dei romanzi di Thomas Bernhard, che concepisce il racconto come modo per affidare alla meditata violenza della parola il coacervo di memorie che riaffiorano dall’Austria provinciale descritta dai suoi monologhi (Perturbamento – Verstörung, 1967; L’origine. Un accenno – Die Ursache. Eine Andeutung, 1975; Il freddo. Una segregazione – Die Kälte. Eine Isolation, 1981; A colpi d’ascia. Un’irritazione – Holzfällen. Eine Erregung, 1984). In ultimo, poco prima della sua prematura scomparsa, un professore di letteratura tedesca contemporanea in Inghilterra, Winfried Georg Sebald, si impone all’attenzione internazionale per la straordinaria qualità di un romanzo-labirinto quale Austerlitz (2001). Attraverso la figura di un professore di storia dell’architettura, Jacques Austerlitz, dimentico del proprio passato, Sebald progetta un recupero a ritroso di luoghi e storie del Novecento, sempre filtrato dalla prodigiosa capacità di raccontare del personaggio, ricreando dal vuoto della storia figure, immagini, insegne di negozi, stanze di biblioteche, che il lettore ritrova sotto forma di fotografie accluse al testo. Con Austerlitz il Novecento si è davvero chiuso cercando di restituire alcuni punti fermi al problematico dibattito sul potere della memoria.