tempo
L’intuizione e la rappresentazione della modalità secondo la quale i singoli eventi si susseguono e sono in rapporto l’uno con l’altro (per cui essi avvengono prima, dopo, o durante altri eventi), vista di volta in volta come fattore che trascina ineluttabilmente l’evoluzione delle cose (lo scorrere del t.) o come scansione ciclica e periodica dell’eternità, a seconda che vengano enfatizzate l’irreversibilità e caducità delle vicende umane, o l’eterna ricorrenza degli eventi astronomici; tale intuizione fondamentale è peraltro condizionata da fattori ambientali (i cicli biologici, il succedersi del giorno e della notte, il ciclo delle stagioni, ecc.) e psicologici (i vari stati della coscienza e della percezione, la memoria) e diversificata storicamente da cultura a cultura.
Il concetto di t. nella filosofia antica si riassume nella definizione di un ordine oggettivo misurabile del movimento. Punti di riferimento diversi compaiono però per questa definizione: cosmologici, come nel caso della filosofia pitagorica e stoica, dove il t. è concepito come ordine, ritmo del movimento cosmico; metafisici, come nel caso di Platone, in cui il t. è definito come «immagine mobile dell’eternità» (Timeo, 37 d) e a essa gerarchicamente inferiore. Nella dottrina platonica, infatti, il t. è misura solo del movimento del mondo materiale della generazione e della corruzione, in cui hanno senso i concetti di passato e di futuro (l’«era» e il «sarà») rispetto all’eternità, eterno presente immobile, che compete alla sostanza eterna. Sintesi dei due punti di vista esposti è la definizione aristotelica del t. come «numero del movimento secondo il prima e il poi» (Fisica, IV, 12, 219 b); da un lato, infatti, Aristotele, attribuendo movimento circolare, quindi perfetto ai cieli, accetta il principio pitagorico dell’ordine cosmico come punto di riferimento oggettivo per la misura temporale; dall’altro, distinguendo il mondo, eterno perché abbracciante l’intera misura del t., dal primo motore immobile, che è fuori del t. e quindi eternamente presente, riproduce lo schema gerarchico di ascendenza platonica. Nella concezione neoplatonica, da Plotino ad Agostino, permane la distinzione fra t. ed eternità, ma il concetto di t. è collegato, anziché al moto del mondo fisico, all’anima e alla sua «vita interna». Per Plotino il t., «immagine dell’eternità» (Enneadi, I, V, 7) è il movimento mediante il quale l’anima passa da uno stato all’altro della sua vita; per Agostino l’eternità, come «eterno presente», non ha successione di istanti; il t. invece, come successione, presenta infinite aporie se lo si esamina secondo il senso comune. Infatti il passato e il futuro, che pure fanno parte integrante della concezione comune del t., non esistono se non in quanto presente, e il presente stesso è fluire, passaggio, ed è quindi inesteso e non sembra misurabile. Escluse le definizioni classiche del t., come moto degli astri e come misura del movimento, non resta ad Agostino che definire il t. come «misura dell’estensione dell’anima» (Confessioni, XI, 14; De civitate Dei, XI, 5), nel ricordo, nell’attenzione e nell’aspettazione (passato, presente e futuro).
Sulla linea della critica di Agostino all’idea dei cicli si muovono, più o meno consapevolmente, quegli autori moderni che attribuiscono ai Greci (e secondariamente ai Romani) una concezione ciclica del t. storico (teoria dell’«eterno ritorno»), mentre peculiare del cristianesimo sarebbe una concezione lineare. Ormai si tende però a considerare troppo schematica tale contrapposizione, e a ritenere presenti nel pensiero greco sia una concezione ciclica, a livello cosmologico, sia una diversa e più articolata nozione del t. storico. La soluzione aristotelica influì profondamente sul pensiero medievale e rinascimentale dove, nonostante le polemiche contro le dottrine fisiche di Aristotele, il concetto di t. rimase pressoché indiscusso. Nella stessa tradizione empirista inglese, da Hobbes a Berkeley a Locke, l’attenzione si concentra sull’accentuazione del carattere mentale della costruzione dell’idea di tempo. La definizione hobbesiana del t. come «fantasma» del movimento (De corpore, 1665, 7, 3) riconduce infatti alla più generale concezione di Hobbes per cui oggetto della percezione è il movimento e, dopo la sua rimozione, rimane nella mente, come suo residuo, la successione del ‘prima’ e del ‘poi’ che costituisce l’immagine («fantasma») del tempo. Per Locke il t. non è connesso solo al movimento ma a qualsiasi ordine costante e ripetibile proprio perché è, come per Berkeley, misura della successione (o durata) delle idee nell’intelletto. L’idea di t. si costruisce proprio sulla base del fluire uniforme delle idee nell’intelletto, e non in connessione con il ‘movimento’ (Saggio sull’intelletto umano, 1690, II, 14, 19). Tanto forte rimase il peso della tradizione aristotelica per la definizione del concetto di t. che Newton dovette utilizzare, per la sua distinzione fra t. assoluto e t. relativo, di cui solo il secondo rispondeva alla definizione classica di «misura del movimento», il concetto di «durata». Già Descartes aveva distinto il t., come «modo di comprendere, sotto una comune misura, la durata di tutte le cose» (Principia philosophiae, 1644, I, 57), dalla durata, come «permanere» indefinito della realtà. Newton concepisce il t. assoluto (o durata) come una dimensione oggettiva e metafisica che, con lo spazio, «contiene» gli oggetti naturali e di cui il t. relativo, il t. «numero» della tradizione aristotelica, è «misura sensibile ed estesa mediante il movimento» (Naturalis philosophiae principia mathematica, 1687, I, def. VIII). Sebbene Newton dedichi tutti i suoi sforzi alla definizione metafisica del concetto di spazio (➔), ciò non toglie che egli veda nel continuum spazio-temporale (spazio assoluto-t. assoluto) la manifestazione compiuta di Dio, onnipresente ed eterno contenitore della realtà. Come sul concetto di spazio assoluto, Leibniz polemizza con Newton anche sul concetto di t. assoluto. Egli contesta il carattere oggettivo di ente metafisico che il t. assume nella interpretazione newtoniana, contrapponendovi una concezione tutta ‘relativa’ del t. in quanto misura di movimenti periodici uniformi, cui si commisurano i movimenti non uniformi; il t. quindi torna a essere identificabile solo con riferimento ai movimenti uniformi esistenti in natura, quali le «rivoluzioni della Terra o degli astri». Contro ambedue le concezioni ‘realistiche’ del t., sia quella di Newton, che concepisce il t. come un ente reale esistente per sé, sia quella di Leibniz, che concepisce il t. come rapporto reale di successione tra i fenomeni, polemizza Kant, per il quale il t. è, accanto allo spazio, forma pura della sensibilità. Esso è condizione universale e oggettiva di ogni fenomeno in generale perché, a differenza dello spazio, che è forma pura di tutte le intuizioni esterne, il t. è condizione formale dell’intuizione interna e vale per ogni fenomeno che entri a far parte dell’esperienza. Negando quindi la realtà assoluta del t., Kant non ne nega in alcun modo l’oggettività, garantita dall’identità delle forme pure della sensibilità in ogni soggetto possibile (Critica della ragion pura, 1781, 2a ed. 1787, Estetica trascendentale, sez. 2; Forma e principi del mondo sensibile e del mondo intellettuale, §§ 10, 12-14). Il ruolo del tempo inoltre è centrale nel rendere possibile l’applicazione delle categorie ai fenomeni. La disomogeneità fra le categorie, a priori, e i dati sensibili, a posteriori, che costituiscono il contenuto empirico dei fenomeni, si compone nella sintesi realizzata dalle determinazioni a priori del t., le quali producono ‘schemi trascendentali’. Tali schemi, elaborati dall’immaginazione produttiva, facoltà intermedia fra intelletto e sensibilità, pur essendo a priori possono accogliere il dato sensibile in virtù della loro omogeneità rispetto al tempo. Ogni fenomeno cade infatti nella determinazione temporale sia esterna sia interna (Analitica trascendentale, lib. II, cap. 1). Inoltre, per determinare oggettivamente l’ordine di successione nel t. è necessario per Kant che la relazione fra i due stati (il ‘prima’ e il ‘poi’), successivi nella percezione, risponda a una regola per la quale l’avvenimento successivo segua sempre e necessariamente il precedente e il t. risulti quindi irreversibile. Questa regola è il concetto del rapporto di causa ed effetto mediante il quale viene «determinato necessariamente quale fra i due stati deve essere posto prima e quale dopo e non inversamente». Il t., come ordine di successione, viene così ridotto da Kant all’ordine causale, secondo un principio che avrà grande fortuna nell’epistemologia moderna fino ad Einstein e Reichenbach (The direction of time, 1956). Nel senso di un superamento della concezione ‘scientifica’ del tempo muove invece la riflessione di Hegel che a partire dalla Fenomenologia dello spirito (1807) e fino alle Lezioni sulla filosofia della storia (post., 1837) rimodula il problema all’interno dell’Io e dell’autocoscienza e sullo sfondo speculativo del prodursi progressivo della storia, considerando il t. come «divenire intuito». Già Schelling, nel Sistema dell’idealismo trascendentale (1800, sez. III, 2a epoca) afferma che il t. «non è se non il senso interno che diviene oggetto per sé». Per Hegel, il t., inteso nel senso ‘naturalistico’ o ‘omogeneo’ delle scienze, non è integrabile nella concezione dialettica dello sviluppo dello spirito: il t. è «il concetto stesso nella sua esistenza»; al di fuori della ‘grandezza’ e dell’‘uguaglianza’ esso è «pura inquietudine della vita e differenziazione assoluta» (Fenomenologia dello spirito, Prefazione, II, 2). Nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817) il t. si precisa, in rapporto dialettico con lo spazio, come «indifferente verso la giustapposizione immobile» (§ 257) e come «principio medesimo dell’io=io della pura autocoscienza». Tuttavia il t. si rapporta a tale principio proprio in quanto questo è colto nella sua «esteriorità e astrazione» (§ 258) come divenire. Il t., anche così inteso, attiene però alle cose naturali, ossia al finito, mentre «il vero […] l’idea, lo spirito, è eterno» (§ 259). Tale eternità però non si colloca al di fuori del t. come un contenitore, né oltre esso come una sorta di futuro, ma si rapporta, in quanto negazione dialettica, al divenire inteso come temporalità.
Completamente diversa da quelle finora esposte, anche perché radicalmente antiscientifica, è la concezione del t. di Bergson. Per Bergson il t. della scienza è una schematizzazione e spazializzazione del t. vero che, come t. vissuto, altro non è che la durata della coscienza. Il t. vero è infatti, per Bergson, un fluire non spazializzabile di stati della coscienza in cui non ha alcun senso la distinzione del prima e del poi e, quindi, il concetto d’irreversibilità. Il t. della coscienza è composto di momenti indistinguibili che trapassano l’uno nell’altro, si mescolano e costituiscono un tutto unitario, in cui ogni istante è assolutamente nuovo e insieme si conserva, costruendo la «valanga», via via ingrossantesi, della memoria. Questo t. non spazializzato, che è la dimensione principale della coscienza come fluire ininterrotto e come slancio vitale, è quindi l’oggetto privilegiato di quella intuizione, organo irrazionale o sovrarazionale specifico della filosofia, che Bergson contrappone all’intelletto, organo della scienza, destinato a cogliere l’immobilità della materia, puro meccanismo (Durata e simultaneità, 1922). Di tipo profondamente diverso il discorso di Heidegger sul t., nodo centrale dell’«analitica esistenziale» delineata in Essere e tempo (1927). Invece che fornire una definizione o una caratterizzazione più o meno complessa della nozione, Heidegger considera il t., o meglio, la temporalità, nelle sue tre dimensioni del passato, del presente e del futuro, come la caratteristica essenziale e costitutiva di quell’ente che è l’«esserci» (Dasein), cioè dell’uomo in quanto essere «gettato» nel mondo e, come tale, legato al passato non meno che al presente, ma anche proiettato nel futuro attraverso la progettualità e le possibilità che gli sono proprie. In questa prospettiva, che non è estranea allo storicismo di Dilthey, Heidegger intravedeva un superamento della metafisica tradizionale di ascendenza platonico-aristotelica, responsabile dell’identificazione dell’essere con qualcosa di dato, presente e immutabile, comune a tutti gli enti, e dell’occultamento della sua dimensione essenzialmente temporale. La riflessione sul t. era già stata svolta in prospettiva fenomenologica da Husserl in Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, 1905-1911; e inoltre Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, 1913, I, § 81), incentrata sul rapporto, nella coscienza intenzionale, di «vissuto» ed «estasi», ossia della coscienza come «presenza» in cui si implicano la «ritenzione» del passato e la «protensione» del futuro. Da diversa prospettiva origina inoltre la riflessione epistemologica sorta dalla teoria della relatività, cui prendono parte, in diversa misura, Poincaré, Whitehead, Cassirer fino agli sviluppi più recenti in cui tutti i termini che concorrono all’identificazione del t., ordine, misura, movimento, sono considerati secondo nuovi approcci, che ne ridefiniscono lo statuto fino a privare di significato non soltanto la riflessione classica sul t., ma la possibilità stessa della sua esistenza.