tempo
Nelle grandi partizioni epocali come in quelle più brevi della storia minuta, il t. è sempre scandito, in M., sui ritmi della politica. «Distensione» interna non all’anima (giusta la concezione agostiniana), ma agli scarti e alle continuità dell’agire collettivo degli uomini: dei loro conflitti, dei loro domini.
In un passo ben noto dei Discorsi (II v 1-2), il rapido, sbrigativo richiamo filosofico all’eternità del mondo (→) mira direttamente a demolire l’assunzione teologico-politica cristiana di un t. unitario, dispiegato fra gli estremi metafisici di una Origine-Principio e di uno Scopo-Compimento, il cui convulso percorso terreno, dalla Creazione al Giudizio universale, si risolve nella mente imperscrutabile del disegno di Dio. M. smitizza e materializza questa visione lineare del t.: la ridimensiona a segmento determinato di un perenne movimento, che non ha fine in nessuna dimensione trascendente; distante anche da quel nesso che nel Platone del Timeo fa del t. l’«immagine mobile» (37d) di una eternità ideale e incontaminata, e semmai molto approssimativamente accostabile alla prospettiva aristotelica (Phys. IV, 10-14, 218a e segg.) che nel t. vede la misura eterna del moto universale, dentro al quale si collocano i mutamenti delle cose particolari. Idealmente ancora più vicina, come a volte si è mostrato con buoni argomenti, a una sorta di agonistico divenire eracliteo, o all’atomismo materialistico epicureo-lucreziano, questa concezione del t. (tale da ammettere, per la stessa costanza della mutevolezza, la possibilità della «ripetizione», pur senza risolversi in una prospettiva di meccanica ciclicità) non si definisce, in ogni caso, sulla base di una sistematica trattazione filosofica – non avviene mai, del resto, in M. – che la impianti e la regga.
«Come se il cielo, il sole, li elementi, l’uomini fussino variati di moti, d’ordine e di potenza da quello che gli erono antiquamente» (Discorsi I proemio A 8): M. pone la costanza della natura e della natura umana in funzione della sua stessa, incessante variabilità. E allora ogni presunta «vera religione» (compresa quella cristiana) è motore e parte integrante del conflitto aperto e senza scopo che incessantemente attraversa uomini e civiltà, mai l’impossibile traguardo di un suo definitivo acquietamento. La cancellazione del t., del ricordo del passato, è sempre opera di «una sètta nuova, cioè una religione nuova», che, soppiantando quella antecedente, procede a estinguerne ogni vestigio: così si regolarono i Romani con gli Etruschi, della cui potente civiltà oggi non resta che «la memoria del nome». E così fece anche «la sètta Cristiana contro alla gentile», cancellando con grande fervore ogni traccia dell’«antica teologia». In mancanza di una lingua sua propria, tuttavia, il cristianesimo non ha potuto eliminare il latino, attraverso il quale ci sono rimaste grandi testimonianze del passato, tali da valere ancora oggi come preziosa fonte di imitazione, di riflessione e insegnamento. E poiché le sette religiose «in cinque o in seimila anni variano due o tre volte», è lecito ricavarne – implicitamente – che forse proprio a partire da questo varco il cristianesimo è avviato, agli occhi di M., verso l’ultimo segmento della sua epocale supremazia (Discorsi II v 3-11).
Interno alla politica, il t. si contiene nei confini del sapere di volta in volta elaborato e imposto dai vincitori ai vinti. E tale, per ciò stesso, da trasformarsi esso stesso in «cosa»: in evento da valutare, da praticare. Da condividere o rovesciare. Il t. teologico-metafisico si frantuma nell’insuperabile immanenza dei «tempi», di cui solo la crudezza totalizzante degli scontri determina la durata e la memoria. Strutturalmente contingenti, i t. non rispondono a uno sviluppo unitario, né lineare né circolare. I t. non diventano Storia.
Il modo in cui, più di una volta, M. fa proprio il detto comune che vuole il t. «padre della verità» non contraddice questa impostazione: al contrario, la rafforza. Lontano dai palcoscenici della metafisica e della teologia, ma distinto anche dalle logiche epocali delle «sètte» e delle civiltà, il t. si presenta in questi casi come la dinamica che svela il consuntivo di un progetto, l’esito specifico di azioni specifiche. Chiunque «dispone una republica» deve «presupporre tutti gli uomini rei», pronti a ricorrere alla «malignità dello animo loro qualunque volta ne abbiano libera occasione»; e quando questa malignità resta momentaneamente nascosta, «la fa poi scoprire il tempo, il quale dicono essere padre d’ogni verità» (Discorsi I iii 2). Nessuna astrazione dal concreto incrociarsi delle azioni e dei desideri; nessun trascendimento dell’umano, nei chiaroscuri dei pensieri, nella obliquità delle dichiarazioni, nelle ambiguità dei comportamenti: «bisogna aspettare el tempo che è padre della verità» (M. ai Dieci, 4 nov. 1503, LCSG, 3° t., p. 323); «vedrassi con el tempo, che è padre del vero, quello che seguirà» (M. ai Dieci, 14 sett. 1506, LCSG, 5° t., p. 467). Tresche amorose, per soddisfare l’eros prorompente dei giovani, contro quello fragile e ingenuo dei vecchi: «di cosa nasce cosa e ’l tempo la governa» (Mandragola I i). Notizie incerte, sulle scaramucce tra francesi e spagnoli, di qua e di là del fiume Garigliano: «Bisogna che ’l tempo chiarisca questa posta, e quanto s’intenderà tanto scriverò a vostre Signorie» (M. ai Dieci, 13 nov. 1503, LCSG, 3° t., p. 351). O dubbi sull’attendibilità dei resoconti del legato papale a Perugia, che vanta il rafforzamento delle «barbe» pontificie nella città: «sono cose da lasciarle approvare al tempo» (M. ai Dieci, 4 ott. 1506, LCSG, 5° t., p. 499). Che queste affermazioni restino per lo più concentrate nelle relazioni del Segretario fiorentino ai vertici della Repubblica, accentua il senso meramente politico, e talora proprio cronachistico, di tale t. e di tale verità. Non esiste la verità, figlia sempre parziale e transeunte dei tempi. La verità, tutt’al più, si svela solo quale invarianza dei limiti della natura umana, quando la pur estrema varietà degli umani artifici non riesce a reggere il prorompente incalzare dei tempi.
I «varii tempi» (Discorsi I xxviii 6; La vita di Castruccio Castracani, § 137; Istorie fiorentine dedica, I i 6, xvii 6, xxxiv 1, III ii 3, xviii 7) rappresentano il contesto determinato nel quale gli uomini (singoli e associati) si trovano a vivere e ad agire: «perché il tempo si caccia innanzi ogni cosa, e può condurre seco bene come male e male come bene» (Principe iii 30). La «qualità de’ tempi» (Principe xxv 11; Discorsi III viii 22; M. a Ricciardo Becchi, 9 marzo 1498, Lettere, p. 8) non ha sostanza se non nell’ottica instabile e situata dell’urtarsi dei desideri, delle paure, delle ambizioni. I t. sono allora «buoni», o «cattivi» e maligni (Discorsi I proemio B 7, x 29, II proemio 25; M. ai Dieci, 23 nov. 1503, LCSG, 3° t., p. 401); «felici», o infelici (“Dell’Ingratitudine”, v. 102; Discorsi II xviii 35); «difficili», o «facili e non pericolosi» (Discorsi III xvi 1e 8, xxxi 11); «quieti», o «avversi» (Discorsi I xvi 6, xxxii 7, II xxii 3e 4, xxiv 21, III xvi 6, xxvii 23; Principe xxiv 8; Istorie fiorentine VII xxx 14); «sospetti» (Clizia III v: «di peste»), o «non sospetti» (Istorie fiorentine VII xxvi 1). I t. sono «di pace» o «di guerra» (Discorsi II ii 23, xvi 30, xxiv 11, III xvi 2, xxx 9; Principe xiv 11 e 12; Istorie fiorentine VIII xxxvi 10); soavi e belli, o «forti» e tristi (Discorsi III xxvii 23; Mandragola prologo: «tristo tempo», e I i; Asino i, v. 97: «tempo dispettoso e tristo»); floridi e «aurei» e «meravigliosi», o «atroci» e «discordi» e «crudeli» (Discorsi I x 23 e 24, xxviii 5, II proemio 16). Sono talvolta «pieni di religione» (Discorsi I xi 15), e quasi sempre «di necessità» (Discorsi II xxx 12).
Nella continua accidentalità degli eventi, la «qualità dei tempi» è il giudizio inevitabilmente prospettico degli uomini, essi stessi parte integrante di quelle stesse «disposizioni», di quelle stesse «condizioni» che a ciascuno continuamente indicano un’opportunità o un pericolo. La «disposizione di tempi e d’animi» (M. a Ricciardo Becchi, 9 marzo 1498, Lettere, p. 8), «le condizioni de’ tempi e degli uomini» (M. a Francesco Vettori, 4 febbr. 1514, Lettere, p. 310) aprono alla consistenza o alla inconsistenza dell’«occasione», punto cruciale d’intersezione tra chi agisce e i «suoi» tempi. Dare una «forma» al t. (attraversarlo, trattenerlo, cambiarlo) è la sfida mai conclusa imposta agli uomini dalla vita e dalla politica.
Questa alterità drammaticamente interattiva, questa reciprocità inevitabilmente contrastiva spinge talora il testo machiavelliano a una sostanziale vicinanza, quando non proprio alla sovrapposizione, tra la «qualità dei tempi» e la fortuna. È così, soprattutto, laddove l’una e gli altri sembrano agire per istantanea convergenza e simultaneità: «variando la fortuna e’ tempi» (Principe xxv 25); «malignità de’ tempi e della fortuna» (Discorsi II proemio 25); «che ’ tempi si variano e che la cattiva e la buona fortuna non albergano sempre in uno medesimo lato» (M. ai Dieci, 20 nov. 1502, LCSG, 2° t., p. 454). In qualche caso l’accostamento immediato richiama la resistenza attiva, la presenza ordinativa dell’uomo, laddove, per es., M. esprime la sua preferenza per il «ferocissimo e bellicoso» Romolo, rispetto al «quieto e religioso» Numa: perché chi si comporterà come l’uno, «armato di prudenza e d’armi», reggerà saldamente il suo Stato, mentre chi seguirà l’esempio dell’altro «lo terrà o non terrà secondo che i tempi o la fortuna gli girerà sotto» (Discorsi I xix 13); oppure, ancora, quando in una lettera (datata 17 maggio 1526) a Francesco Guicciardini sulla situazione italiana, ritiene arrivato il momento, per il papa Clemente VII, di rompere gli indugi contro gli spagnoli: non è più il caso di rimettersi «alla Fortuna et al tempo, perché con il tempo non vengono sempre quelle medesime cose, né la Fortuna è sempre quella medesima». Al pari della fortuna, tuttavia, i t. possono pur sempre «venire addosso contrari» (Discorsi I xxxii 7), senza che sia né facile, né a volte proprio possibile, trovarvi adeguato rimedio; come nella Firenze del secondo Trecento, travagliata dalla corruzione e dalle lotte intestine: «imputate i disordini antichi non alla natura degli uomini, ma ai tempi» (Istorie fiorentine III v 25); o come nella Firenze orfana di Lorenzo il Magnifico, quando ancora, e con meno speranza, «i tempi, e non gli uomini, causavano il disordine» (Discorsi I xlvii 23).
Fortuna e t., in ogni caso, non sono la stessa cosa. Il debordare convergente dei t. e della fortuna sugli uomini si risolve più volte in un primato della fortuna non solo sugli uomini, ma sui t. stessi. La fortuna è un fattore dinamico extrasoggettivo, l’imponderabile che «el tempo a suo modo dispone» (“Di Fortuna”, v. 37). Ormai al culmine della sua ascesa politica, Castruccio Castracani riteneva che «questo fusse quel tempo che la fortuna gli dovesse mettere in mano lo imperio di Toscana» (Vita di Castrucio Castracani, § 107); e invece, «quando era tempo di dargli vita», la fortuna «gliene tolse, e interruppe quegli disegni che quello molto tempo innanzi aveva pensato di mandare ad effetto, né gliele potea altro che lamorte impedire» (§ 127). È la morte l’accadimento estremo che lascia alla fortuna il suo tragico primato, anche sui t.: come nel caso di Castruccio, appunto; o in quello di papa Borgia, la cui scomparsa sbriciola il t. propizio del Valentino (Principe vii 37-38); o in quello dell’imperatore Teodosio, che lascia i figli Arcadio e Onorio eredi dell’impero «ma non della virtù e fortuna sua», cosicché «si mutorono con il principe i tempi» (Istorie fiorentine I i 8). Talvolta, e più banalmente, è la fortuita occasionalità di un incontro privato che muta la qualità del t. di un individuo, accendendo in lui irresistibili passioni che gli sconvolgono l’esistenza: Callimaco vive «quietissimamente» a Parigi, finché un visitatore fiorentino non gli eccita un desiderio sfrenato per la splendida Lucrezia: «Ma parendo alla Fortuna che io avessi troppo bel tempo, fece che capitò a Parigi un Cammillo Calfucci» (Mandragola I i). Quando la «Fortuna vuol fare ogni cosa» – è un passo dolente dalla più bella e più nota lettera di M. al Vettori (10 dic. 1513) – non resta che «stare quieto e non le dare briga», aspettando che consenta il varco a un «tempo che la lasci fare qualche cosa agl’uomini» (Lettere, p. 294).
Più spesso, la fortuna si presenta in una versione in parte diversa, come il risultato dell’incrocio tra gli uomini (la loro virtù) e i loro t.: «la cagione della trista e della buona fortuna degli uomini è riscontrare il modo del procedere suo con i tempi» (Discorsi III ix 2). Bisogna agire nel t. e sul t., fermo restando che mai esso risulterà «al tutto commodo a fare una cosa, in modo che chi aspetta tutte le commodità o e’ non tenta mai cosa alcuna o, se la tenta, la fa il più delle volte a suo disavantaggio» (Istorie fiorentine III ix 5). Decisivo, allora, è avere o non avere t. («avanzare tempo», «essere attempo», «disporre» o meno del t.); decisivo, per la fortuna degli uomini, dei principi, degli Stati è perdere o non perdere t. (vedere e afferrare il t. propizio); è dare o togliere t., chiedere o prendere t. (temporeggiare); è gestire il t. come proficua esperienza (come salda, consolidata abitudine) o patirlo e lasciarlo andare, come rilassamento-decadenza. Alternative che attraversano tutti i testi (per occorrenze così numerose da renderne impossibile il resoconto), e che M. riconduce, in ultima istanza, alla componibilità di «tempi» e «caratteri»: a una concordanza sempre ardua, mai stabile e alla lunga (nei t. lunghi) tendenzialmente impossibile. «[...] gli uomini nel procedere loro e tanto più nelle azioni grandi debbono considerare i tempi, e accomodarsi a quegli» (Discorsi III viii 12). Accomodarsi non è confondersi, zittirsi nei tempi. Bisogna agire all’altezza dei t., per piegarli a un fine, orientarli a un disegno, a uno scopo. Occorre certo, per questo, la buona o la cattiva «elezione»: occorre l’analisi, l’attenta valutazione della realtà e la decisione più opportuna, tra le possibili. Ma insuperabile resta la natura di colui che agisce: «alcuni con impeto, alcuni con rispetto e con cauzione» (III ix 3; → riscontro).
Fabio Massimo, o papa Giulio II: l’uno procede «rispettivamente e cautamente, discosto da ogni impeto e da ogni audacia romana», nel momento più pericoloso della minaccia di Annibale, e questo suo modo «riscontrò bene con i tempi» (III ix 5), rendendolo «glorioso»; l’altro agisce «con impeto e con furia» per tutto il suo pontificato: e poiché «gli tempi l’accompagnarono bene, gli riuscirono le sua imprese tutte» (§ 15). Il variare dei t., tuttavia, fa sempre aggio sulla sostanziale fissità dei caratteri: conta l’educazione, contano le circostanze, conta il cambiare delle opinioni in base all’incedere dell’età; ma alla fine, «non ci possiamo opporre a quello che c’inclina la natura» (§ 17). Dopo il Temporeggiatore servono gli Scipioni, quando ormai bisogna aggredire il nemico in campo aperto e sconfiggerlo; e Giulio II muore prima che arrivino t. ben diversi, nei quali di necessità avrebbe sperimentato la propria rovina: perché «non avrebbe mutato né modo né ordine nel maneggiarsi» (§ 16). Ognuno persiste nella propria inclinazione, tanto più dopo averla sperimentata con buoni risultati (Discorsi III ix; Principe xxv 18-24). Ognuno è la propria inclinazione, senza varianti davvero permeabili alle istanze mutevoli del t.: non ci si può «spiccare» dai propri modi. Ciascuno «secondo lo ingegno e fantasia sua si governa» (M. a G. Battista Soderini, 13-21 sett. 1506, Lettere, p. 137). Nessuno è tanto «savio» da conoscere e accomodarsi continuamente ai t. e all’ordine delle cose. È per questo che comportamenti identici producono a volte risultati diversi, e comportamenti diversi esiti identici. Ed è per questo che la repubblica «ha maggiore vita e ha più lungamente buona fortuna che uno principato»: perché può meglio «accomodarsi alla diversità de’ temporali, per la diversità de’ cittadini che sono in quella». Ma neanche per gli «ordini delle repubbliche» è facile reggere il continuo mutare dei t., che continuamente minaccia «le rovine delle cittadi» (Discorsi III ix 11 e 18). Non c’è una formula-fondamento (non una verità religiosa, ma nemmeno una forma politica) capace di sciogliere per sempre la sfida tra l’agire degli uomini (nel groviglio dei loro desideri) e la qualità dei tempi.
Nelle tante occorrenze colloquiali del lemma, una delle espressioni più frequenti è «questi tempi», con la sua opposta «quelli tempi» (e analoghe: per es., «tempi nostri», «tempi antichi»). Il contesto appare in genere meramente espositivo-narrativo, privo di un preciso spessore teorico, a indicare il presente e il passato, più o meno recente. Almeno in un caso, tuttavia, le due variabili sono messe esplicitamente a tema, sul filo di una densa antitesi concettuale.
Nel proemio al II libro dei Discorsi, M. esprime la sua preferenza-opzione per «quelli tempi» (il mondo romano) rispetto a «questi tempi», il presente dell’Italia. Se gli uomini tendono in genere a lodare il passato e a criticare il presente – è la premessa e contrario – ciò non accade «sempre ragionevolmente», perché questa valutazione dipende dal fatto che chi scrive «delle cose antiche» lo fa al servizio dei «vincitori», così da celebrarne le gesta, nascondendone ogni «infamia». A ciò si deve aggiungere che le «cose passate», proprio in quanto tali, non suscitano più né timore né invidia. Del presente, delle «cose che si maneggiano e si veggono», non è invece difficile scorgere, insieme con il bene, tanti altri aspetti «che ti dispiacciono», e alla luce dei quali sei «forzato giudicarle alle antiche molto inferiori». Si tratta di un errore ricorrente. Ma – e qui l’argomentazione si capovolge – non è sempre così: non è sempre sbagliato giudicare il presente peggiore del passato. Chi nasca oggi «in Italia e in Grecia e non sia diventato o in Italia oltramontano o in Grecia turco» avrà ben ragione di «biasimare i tempi suoi, e laudare gli altri: perché in quelli vi sono assai cose che gli fanno meravigliosi; in questi non è cosa alcuna che gli ricomperi da ogni estrema miseria, infamia e vituperio [...]» (§ 16). Non sarà pertanto infondato celebrare «i tempi degli antichi Romani» e criticare «i nostri». Tale atteggiamento, al contrario, potrà servire a educare gli animi «de’ giovani che questi mia scritti leggeranno», preparandoli a imitare gli antichi, «qualunque volta la fortuna ne dessi loro occasione» (§ 24); è, infatti, un compito dell’«uomo buono» insegnare agli altri «quel bene che la malignità dei tempi e della fortuna tu non hai potuto operare» (§ 25). La contrapposizione antico-moderno prepara in questo modo la strada a quel nesso tempo-eternità che qualche capitolo più avanti (il quinto, come si è visto) demolisce le pretese teologico-politiche del cristianesimo, causa principale della decadenza attuale. Ponendo con ciò stesso le condizioni per una nuova declinazione del t.: per aprire la via – con cauta, disincantata speranza – alla difficile, ma non impossibile contingenza di t. nuovi.
Bibliografia: L. Althusser, Machiavel et nous (1972-1986), préface par É. Balibar, Paris 20092 (trad. it. Roma 1999); A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Torino 1975; J.G.A. Pocock, The Machiavellian moment. Florentine political thought and the Atlantic republican tradition, 1° vol., Princeton 1975 (trad. it. Bologna 1980); V. Jankélévitch, Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, 1° vol., La manière et l’occasion, Paris 1980 (trad. it. Torino 20112); G. Sasso, De aeternitate mundi (Discorsi II 5), in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1987, pp. 167-399; V. Morfino, Le cinque tesi della ‘filosofia’ di Machiavelli, in Machiavelli: tempo e conflitto, a cura di R. Caporali, V. Morfino, S. Visentin, Milano 2013, pp. 157-84.