Tendenze della civilistica postunitaria
Tra il 1860 e il 1865 la formula codice civile assume un significato di un’alta densità politica: nella rappresentazione del governo essa costituisce il sigillo dell'Unità, lo strumento essenziale per consolidare il 'peso' dell'erigenda nazione di fronte alle potenze europee. È dunque imperativo realizzare il più rapidamente possibile il codice civile ritenuto strategico per l’attività di State-building (Cazzetta 1995 e 2011; Solimano 2006, p. 84), come un imprescindibile strumento di stabilizzazione sociale, intimamente connesso con la costituzione: mezzo di soluzione delle complessità, simbolo dell’italianità, cemento dell’ethos italico. Tali ideali e prospettive appaiono condivisi dal mondo dei giuristi ma, quanto alla tempistica e ai contenuti dell’erigendo codice, le proposte divergono. Le ragioni dei civilisti in tal senso meritano di essere qui illustrate, sia pure per cenni sintetici, poiché, come si vedrà, talune proposte, alcuni atteggiamenti possono essere considerati delle costanti nel dibattito della privatistica postunitaria.
Contrariamente a quanto si potrebbe comunemente ritenere, gli esponenti della scienza giuridica hanno avvertito, sin dal 1848, il problema della codificazione nazionale e cioè da quando giusfilosofi come Vincenzo Gioberti, Antonio Rosmini e Giuseppe Mazzini hanno individuato anche nel diritto nazionale lo strumento per affratellare gli italiani. Allorché, alla fine degli anni Cinquanta, l’obiettivo diventa realizzabile, i civilisti si mostrano pronti proprio perché hanno alle spalle già dieci anni di discussioni e appaiono persuasi che l’unificazione legislativa costituisca «il mezzo più efficace di accomunare gli spiriti». Certo, gli orientamenti manifestati sono eterogenei: vi è chi identifica nello ius commune e nel gius romano il genuino diritto italiano, chi suggerisce di adattare il già sperimentato code civil alla penisola, chi propone invece di far tesoro della Rechtskultur germanica, come Carlo Francesco Gabba (1835-1920) e Ludovico Bosellini (1811-1871) che in quest’ora storica assumono Georg Friedrich Puchta come punto privilegiato di riferimento, o come Francesco De Filippis, civilista napoletano il quale, alla fine del 1863, suggerisce al legislatore di introdurre un nuovo ordine sistematico al progetto Pisanelli, enucleando una sorta di parte generale da inserire nel codice (F. De Filippis, Osservazioni critiche sul primo libro del progetto del codice civile italiano, 1864).
La maggior parte di essi, invero, indipendentemente dalle peculiarità delle soluzioni proposte e dalla preferenza per l’una o l’altra di tali fonti concorda sull’opportunità di mirare a un obiettivo degno della migliore tradizione scientifica italiana e conforme alle esigenze dell’erigenda nazione (Solimano 2006, pp. 77-83). Appare necessario elaborare un testo rispondente alle esigenze di una società certamente in evoluzione rispetto a quella rispecchiata nella legislazione preunitaria italiana. Quello del bisogno di effettività, inteso come criterio guida del legislatore – un legislatore, si noti, che si è convinti debba essere sostenuto e anticipato dalla scienza giuridica – rappresenta, infatti, un motivo costantemente tambureggiato negli interventi dei giuristi dalla Sicilia al Piemonte. Scrive nel 1860 Bosellini:
Avant que les lois soient discutées par les Chambres législatives, il faut qu'elles le soient par la science. Celle-ci doit en jeter les bases, en formuler la théorie, en retracer la filiation historique, en faire présager l'avenir (Du crédit personnel, du crédit réel et de leurs phases, 1860, p. 95).
Occorre individuare e percorrere una via legislativa italiana, una strada tutta da costruire, sicché essi paventano che il governo, animato dalla volontà di tagliare il traguardo della codificazione il più rapidamente possibile, punti su un unico modello di codice civile. Ed è proprio questa politica di ‘assimilazione’ che dapprima Urbano Rattazzi e in seguito Cavour imboccano nel momento in cui decidono di sottoporre a revisione il codice civile albertino del 1837. Sia pur preceduto da una serie di tentativi di codificazione – il più importante dei quali è il progetto Cassinis del 1860, che contiene tutte le innovazioni che la dottrina e la storiografia successive giudicheranno gli aspetti tipizzanti del testo definitivo – il codice del Regno d’Italia ha comunque la propria matrice principale nel testo piemontese del 1837 (cfr. Caprioli 2008, pp. 107-22), il «codice francese interpolato» secondo l’espressione di Bosellini (Du crédit personnel, du crédit réel et de leurs phases, cit.).
L’occasione per una riforma profonda del diritto civile è andata perduta, aveva osservato già Alberto Aquarone (L'unificazione legislativa e i codici del 1865, 1960, p. 80). Vi è di più. La scienza giuridica è obbligata a ripiegarsi un'altra volta sulla dottrina e giurisprudenza francofone, ritardando di fatto le aperture che senza dubbio si erano manifestate dagli anni Cinquanta dell’Ottocento verso la scienza giuridica d’area germanica. Si pensi alle figure emblematiche in tal senso, del docente patavino Luigi Bellavite (1821-1885) che traduce Rudolf von Jhering e si adopera per diffondere il pensiero di Friedrich Karl von Savigny, oppure ai giuristi napoletani Nicola Pasquale Michele De Crescenzio e Giuseppe Polignani, per tacere di quelli toscani più risalenti come Pietro Conticini, Pietro Capei o Federigo del Rosso.
E ancora: il codice del Regno d’Italia viene approvato impedendo il dibattito parlamentare. Si tratta di una decisione destinata ad accrescere il malcontento di quella parte della società italiana che accusa il governo di aver piemontesizzato il Paese. Eppure, due anni prima, Giuseppe Pisanelli, grande statista e fine giurista, presentando il suo progetto, aveva messo in guardia dall’intraprendere facili vie di fuga e aveva compreso che proprio attraverso il passaggio parlamentare sarebbe stato possibile sanare la ferita provocata dalla politica di assimilazione legislativa. E lo avrebbero capito quei giuristi che si sarebbero impegnati a nazionalizzare – e dunque a far accettare – il codice civile attraverso i loro commentari: alludiamo a Francesco Saverio Bianchi, a Emidio Pacifici-Mazzoni, a Vincenzo Cattaneo e Carlo Borda, e a Luigi Borsari (Cazzetta 2011). Lo scopriremo adesso.
Le strategie impiegate dai giuristi che nei loro commentari al codice civile del Regno d’Italia si preoccupano di legittimare il codice civile come prodotto nazionale sono molteplici. È stato finemente notato che
l’elogio del codice non nasce da una netta scelta di stampo positivistico, non è esaltazione della nuda volontà del legislatore ma racchiude qualcosa di diverso. Quello che più rileva nei commentari post-unitari del Codice non è ‘il culto della legge’ ma l’esistenza di un diritto nazionale dichiarato dalla legge. È la tanto variegata quanto convinta adesione alla mitizzata immagine del Codice nazionale, e non il cieco ossequio all’onnipotenza della legge, a sostenere le letture esegetiche: l’unificazione delle fonti del diritto si presenta come fenomeno di razionalizzazione e statalizzazione del diritto ma anche come semplice riconoscimento di un’unità preesistente, come mera dichiarazione di un diritto espressivo dell’Italia come comunità di lingua e di cultura, come riconoscimento di garanzie fissate in 'princìpii immutabili' (Cazzetta 2011, p. 37).
A detta di questi primi interpreti il legislatore dunque non avrebbe fatto altro che riconoscere ex post un diritto fissato dalla tradizione, secondo una retorica diretta a fondere e conciliare disinvoltamente elementi contrapposti, legalismo/statualismo e storicismo d’ascendenza savigniana (Costa 1991, pp. 387 e segg.) e vichiana (Lacchè 2010, pp. 181 e segg.). Questa impostazione è riscontrabile nel commentario di Cattaneo e Borda e in quello del ferrarese Borsari, docente e magistrato, profondamente suggestionato dalla filosofia di Rosmini. Interessa qui mettere in luce un elemento peculiare del suo pensiero: l’eroicizzazione dell’impresa codificatoria italiana, che lo porta addirittura a deformare gli accadimenti storici. Da un lato, Borsari non ha remore nel condannare la scelta iniziale di avere sottoposto a revisione il codice albertino: «Revisione e non creazione: ecco quello di cui ci stimiamo capaci»; d’altro lato, afferma che «quando si abbandonò la idea di una revisione, allora nacque il nostro Codice civile, […] l'unico lavoro che sia riuscito degno del nome italiano» (Commentario del Codice civile italiano, 1° vol., 1871, p. 7). Forse Borsari non è in grado di rendersi conto che il testo del 1865 non si colloca certo agli antipodi rispetto al progetto del 1860, che quest’ultimo, realizzato in pochi mesi, contiene già tutte quelle innovazioni che la dottrina e la storiografia successiva considereranno gli aspetti più originali del Codice del 1865? Non lo riteniamo verosimile. Ci troviamo piuttosto di fronte alla fabbricazione di un mito, in nome del necessario rassemblement nazionale.
Dicevamo che le strategie dei commentatori, volte a nazionalizzare il diritto privato, sono molteplici. La prima è senza dubbio quella della retorica della continuità con la tradizione. In una prospettiva di continuità si evidenziano le identità tra il codice e il diritto romano (una strategia già impiegata quando si è trattato di acclimatare il code civil napoleonico in Italia), oppure si segnalano le contiguità con la tradizione dello ius commune nel desiderio di saldare il codice al diritto previgente senza traumi. Tale prospettiva tuttavia non determina problemi solo finché risulta orientata alla legittimazione del codice. Quando invece taluni giuristi individuano nell’articolo delle ‘preleggi’ lo strumento attraverso il quale trasfondere nella prassi gli elementi della tradizione, in quanto siffatta norma consente all’interprete di colmare le lacune attraverso il ricorso ai principi generali di diritto, la situazione si complica.
I civilisti esprimono sostanzialmente due orientamenti (Solimano 2010, pp. 223 e segg.; Cazzetta 2011, pp. 43-46). Da un lato coloro che ammettono il ricorso al diritto romano (V. Cattaneo, C. Borda, Il codice civile italiano annotato, 1865, p. 30) e, ove esso non soccorra, all’equità (Commentario del Codice civile italiano, 1° vol., cit., p. 76), oppure ai principi di diritto comune (G. Saredo, Trattato di diritto civile italiano, 1869; Id., Trattato delle leggi, dei loro conflitti di luogo e di tempo, 1° vol., 1871, pp. 426-27), ai precetti di diritto naturale (F.S. Bianchi, Corso di codice civile, 1864-65, f. 12; Id., Corso elementare di codice civile, 1° vol., 1869, p. 11).
Sul versante opposto, più compatto, si collocano Pacifici-Mazzoni (1834-1880) e Francesco Ricci (1843-1891), i quali individuano i principi generali del diritto esclusivamente all’interno dell’ordinamento positivo vigente. Nella prospettiva di Pacifici-Mazzoni chi, come Bianchi (1827-1908), si riferisce al diritto naturale non si rende conto di aprire le porte all’arbitrio giudiziale e chi, come Borsari, àncora la disposizione alla tradizione romanistica compie un’operazione espressamente esclusa dalle disposizioni di attuazione del codice stesso. Per Pacifici-Mazzoni i principi generali
si sostanziano nelle teorie del diritto formate coll'operazione dell'astrazione eseguita, sia sui singoli istituti sia sull'intera legislazione e che perciò servirono certamente di guida al legislatore nel comporre gli uni e l'altra (Istituzioni di diritto civile italiano, 1865, 18803, p. 50).
Tale impostazione positivistica verrà sviluppata, come si vedrà più avanti, dal romanista-civilista Vittorio Scialoja e sarà destinata a imporsi anche a livello legislativo. Non che Pacifici-Mazzoni non esalti la tradizione che rivive nel codice civile. A patto tuttavia che essa svolga la funzione di mera ratio scripta:
il diritto romano è, e non può non essere, che uno dei mezzi d’interpretazione del Codice civile italiano, il più autorevole, il più ricco, il primo, se vuolsi; ma pur sempre mezzo d’interpretazione e nulla più (p. XLVI).
Con ciò egli intende non solo criticare Bianchi o Borsari, ma anche riprovare - è questo l’aspetto davvero interessante - coloro «che spingono l’adorazione verso il diritto romano sino al fanatismo» (p. XLIX) attualizzandone a ogni costo i contenuti. Il pericolo
è che altrimenti facendo si corre, o di romanizzare il diritto italiano, o d’italianizzare il diritto romano e di gettare il discredito sopra l’uno o l’altro, secondo che si predilige questo o quello (p. XLVIII).
Un’altra strategia discorsiva impiegata dai commentatori al fine di nazionalizzare il codice è quella seguita dall’ascolano Ricci. Comunemente si valuta la sua produzione scientifica, giusta la rilevanza che egli assegna alla giurisprudenza, come una chiara e meditata guida per i pratici. A scavare più a fondo si scopre che Ricci si è posto un preciso disegno di politica del diritto, ben definito nelle introduzioni alle prime edizioni dei suoi commentari, che conducono a sfumarne l’immagine di magnus practicus:
mi si domanderà perché la giurisprudenza e la dottrina dei nostri vicini d’oltre Alpe io non abbia preso a guida di questo Commentario […]. È stato mio intendimento che il pensiero italiano signoreggiasse in quest’opera, poiché reputo che, trattandosi di cose che ci riguardano, dobbiamo studiare noi stessi anziché gli altri: e reputo altresì che l’Italia moderna non giungerà ad avere una legislazione veramente italiana, se non quando si comincerà a pensare e a scrivere italianamente (Commento al codice di procedura civile italiano, 1° vol., 1876, pp. VII-VIII).
Come si vede, l’obiettivo di Ricci, nella stessa misura di un Borsari o di un Bianchi, è appunto quello di far emergere il canone giuridico nazionale. La peculiarità consiste tuttavia nell’assegnare alla giurisprudenza peninsulare il ruolo principale, mentre alla civilistica compete quello, tutt’altro che secondario, di ordinarne teoreticamente le decisioni:
la giurisprudenza però non può prendersi come unica guida, perché altrimenti si sostituirebbe l’autorità alla scienza, ma è necessario raffrontarla coi supremi principii, e dar così luogo alla critica, senza di che non è dato costruire l’edificio scientifico (F. Ricci, Corso teorico-pratico di diritto civile, 1° vol., 1877, Introduzione, s.p.).
Un’impostazione che Ricci non abbandonerà nemmeno quando si orienterà verso il genere del trattato. Nel 1891, poco prima della morte, scriverà nella prefazione allo studio sulle prove nel processo civile di essere vieppiù
convinto che le sentenze dei magistrati [tesori di scienza] sono il più esatto ed il più autorevole commento delle leggi che ci governano. Occorre però vagliare ed ordinare siffatti materiali che qua e colà sono sparsi alla rinfusa, dando vita ed organismo all'opera del Magistrato (Delle prove, 1891, p. V).
La primazia della giurisprudenza è tuttavia, per Ricci, solo apparente. Non infrequentemente essa è infatti da lui condotta al laccio. Valga un solo esempio, alquanto significativo. Nell’affrontare la questione dei principi generali di diritto, Ricci seleziona esclusivamente quelle sentenze che impediscono il ricorso al diritto romano come fonte suppletiva, poiché egli risolve il problema, lo abbiamo già anticipato, entro una prospettiva rigidamente positivistica (Corso teorico-pratico di diritto civile, 1° vol., cit., p. 26).
Passando alla questione del metodo, è noto che la maggior parte dei giuristi fin qui menzionati perpetua il canone espositivo appreso dai propri maestri, che si sostanzia nel commentare in sequenza le disposizioni del codice, così come avviene in Francia dai tempi di Napoleone. Si tratta senza dubbio di un canone infelice, comunemente qualificato come esegetico, che non stimola l’interprete alle connessioni tra le diverse parti del testo normativo e impedisce uno svolgimento dottrinale continuo e compiuto. Una metodologia, insomma, che non consente al civilista di muoversi agilmente all’interno del codice permettendo di svolgere e sviluppare al meglio il filo autonomo della sua interpretazione. Nemmeno il pensoso Borsari si sottrae a questa tendenza espositiva.
Solo due giuristi, che danno alle stampe due commentari destinati a incontrare il favore del pubblico, mostrano almeno di comprendere il problema. Sono il piacentino Francesco Bianchi e il salernitano Francesco De Filippis (1829-1913). Il primo, sin dagli anni Cinquanta, da quando è salito in cattedra, ha mostrato insoddisfazione per il metodo trasmessogli dai suoi maestri. Ha avvertito subito l’esigenza di strutturare il suo commentario in maniera lineare, organica e sistematica, al di là dei muri che separano ogni singola norma, capo, sezione o titolo del codice: nella stessa misura del tedesco Karl Salomo Zachariae che aveva intitolato il suo commentario al codice Napoleone Des theoretischen französischen Civilrechts (Diritto teorico francese). Certo, va detto che Zachariae e i suoi traduttori francesi Charles Aubry e Charles-Frédéric Rau non sono certo degli sconosciuti nella penisola, quando il giurista piacentino si pone alla loro sequela. Non vi è civilista che non li citi. È tuttavia Bianchi il giurista che è riuscito forse meglio di altri ad accogliere l’essenza del metodo zachariano (più che il suo contenuto), mostrando di essere capace di costruire un commentario che rispecchi il suo pensiero senza complessi di inferiorità rispetto a quella dottrina francofona che certo costituisce il suo primo referente. Se proprio si volesse etichettare il metodo bianchiano, esso potrebbe essere definito come un canone esegetico ben temperato.
De Filippis, dal canto suo, tenta di costruire il suo Corso completo di diritto civile comparato (opera davvero originale all’interno del panorama generale, beninteso, e che riflette l’impostazione e il carattere singolarissimo del suo autore) entro una struttura sistematica: muovendo da una concezione organicistica del diritto e visibilmente suggestionato dall’enciclopedismo giuridico tedesco e dalla filosofia vichiana, nei primi due volumi egli compie una trattazione generale del diritto privato. Con alcuni esponenti della Rechtskultur germanica egli è in contatto e sembra godere anche di una certa considerazione, se si pensa che viene consultato dalla Commissione incaricata di redigere il futuro Bürgerliches Gesetzbuch (BGB; v. Sulla Saisine iuris nel codice civile italiano, parere giuridico dato dal Prof. F.D. al Segretario della Commissione germanica istituita per la formazione del codice civile tedesco, «Il Filangieri», 1876, 1, pp. 875-82 e la corrispondenza pubblicata dallo stesso De Filippis, in Corso di diritto civile italiano: giudizi di eminenti giureconsulti italiani ed esteri e della stampa, 1889, pp. 19-31). L’obiettivo dichiarato di De Filippis è superare il metodo didattico francese:
Oggi è così universalmente sentito il bisogno di esporre dalla cattedra, o nelle instituzioni le dottrine giuridiche con un ordinamento scientifico, che l'antica usanza di leggere l'articolo e farvi l'aggiunzione di annotazioni semplici e di casistiche spiegazioni, non è più ricevuta, e trova seguaci nei soli impotenti ed incapaci ad elevarsi al concepimento di un sistema, è impossibile comprendere un qualunque oggetto senza connetterlo a sistema. È compito della scienza lo spogliare gli articoli della forma precettiva che hanno per elevarli all'altezza di veri e connetterli, secondo le loro logiche attinenze, in un solo organismo (Corso completo di diritto civile comparato, 2° vol., 1869, Parte speciale, pp. IX-X).
Certo, i novatori Giuseppe D’Aguanno ed Enrico Cimbali guarderanno non del tutto a torto alla sua opera come un prodotto scientifico velleitario. In ogni caso la sua riflessione non è mai banale: egli appare uno spirito libero, per nulla psicologicamente asservito a quella scienza francese che gli rimprovererà «d'avoir parfois abusé des abstractions germaniques et d'avoir pensé en allemand lorsqu'il écrivait en italien» (Corso di diritto civile italiano, cit., p. 14).
Il contenuto dei commentari al codice Pisanelli si caratterizza per una certa uniformità. Senza dubbio il primo referente di questi giuristi è rappresentato dalla dottrina francese e belga, e, veicolato da questa, dal pensiero dei giusrazionalisti francesi Jean Domat e Robert Joseph Pothier.
Certo, le proporzioni della presenza transalpina mutano da giurista a giurista, così come varia la capacità critica nei confronti di essa. Non privo di spunti problematici appare il confronto con l’opera del civilista lussemburghese François Laurent (1810-1887), il giurista francofono meno banale di quest’epoca. Non infrequentemente viene citato il Savigny del System des heutigen römischen Rechts, conosciuto anch’egli attraverso la mediazione della traduzione francese di Charles Guenoux. La presenza di Savigny è ambivalente: ora viene usato in funzione storicistica, al fine di procedere alla valorizzazione della tradizione scientifica, come in Borsari (Costa 1991, p. 388), ora per rafforzare la percezione dell’ordinamento nel segno della legalità, come avviene nel Bianchi della maturità (Solimano 2010, p. 227). I commentatori italiani sono stati pertinentemente definiti uomini di frontiera, personaggi fra due culture (Grossi 1977, 1992, p. 460), fra l’età dello ius commune e quella della codificazione. L’educazione giuridica di non pochi di questi, così come l’attività professionale, del resto, è avvenuta nell’ambito di un ordinamento giurisprudenziale (si pensi ai ‘pontifici’ Borsari, Pacifici-Mazzoni, Ricci e Oreste Regnoli), sicché è naturale che la tradizione riaffiori carsicamente nelle loro opere. L’àmbito nel quale essa emerge con nettezza in tutti i commentatori è quello del diritto di proprietà, costruito teoreticamente sul concetto di dominio perfetto/imperfetto, che attinge dall’esperienza dello ius commune e che viene giustapposto alla definizione di un diritto di proprietà costruito sul soggetto (Grossi 1992, p. 465 e pp. 532-34). Si tratta di una teorica palesemente contra codicem che peraltro anche gli stessi francesi hanno seguito: dal primo all’ultimo commentatore, sulla scia del Nume per antonomasia, vale a dire il Pothier. Con riferimento al diritto di proprietà valga un’ultima notazione. Nell’ambito del rapporto tra Stato e proprietà, fra i pochi che scoprono una dimensione sociale di quest’ultima figurano Bianchi e De Filippis (Grossi 1992, pp. 515 e 514). Pur negli stretti limiti di questo peculiarissimo angolo di osservazione, che non ci consentono di generalizzare oltremodo il giudizio, è suggestivo notare come aperture di metodo e innovazioni contenutistiche tendano a coincidere in questi due giuristi.
Non infrequentemente questa generazione di civilisti viene presentata come indifferente alle questioni che hanno agitato la società italiana di fine Ottocento. Se ciò è vero, è pure vera un’altra circostanza e cioè che essi difendono l’idea di società che emerge nel codice del 1865, costituzione civile italiana idonea a forgiare eticamente il cittadino della neonata nazione. In questo senso va colto, per es., il loro sostegno incondizionato all’istituto del matrimonio civile, che è considerato il vivaio e il presidio dello Stato stesso. Per quanto banale, non dobbiamo dimenticare che siamo di fronte a giuristi legati a doppio filo con la politica: essi ci appaiono come uomini delle (e nelle) istituzioni unitarie. Bianchi è stato sindaco, senatore e infine presidente del Consiglio di Stato, Ricci deputato nella XIV legislatura, consigliere provinciale ad Ascoli e poi presidente della Provincia, De Filippis deputato di Salerno nella XV legislatura. Pacifici-Mazzoni e Borsari ascendono i vertici della magistratura. I loro commentari rispecchiano la società italiana degli anni Sessanta e Settanta osservata da un punto di vista privilegiato. Il problema è semmai un altro e cioè che essi negli anni Ottanta sono già invecchiati, anche se li si continua testardamente a pubblicare sino alla fine degli anni Venti del Novecento, con revisioni e aggiornamenti più o meno felici. E, del resto, in questo torno di tempo terminano la loro giornata terrena Pacifici-Mazzoni (1880), Borsari (1887) e Ricci (1891).
La società italiana degli anni Ottanta è caratterizzata da profondi mutamenti, noti a tutti. Si tratta di una nazione che ha avviato il processo di industrializzazione e che vede nascere il fenomeno dell’emigrazione e della formazione di un nucleo sempre più consistente di lavoratori operai. È il momento di un cambio di passo politico che ha importanti ricadute anche sul piano culturale e che conduce a una vicinanza sempre più stretta con il mondo austro-germanico. Non è certo il caso di soffermarsi su questo fenomeno. Per i giuristi, o almeno per una parte di essi, guardare a Berlino o a Vienna non è atteggiamento nuovo: gli è, comunque, che il fenomeno assume proporzioni davvero notevoli.
Fra coloro che si formano in Germania e che poi contribuiranno a divulgare anche attraverso importanti traduzioni le opere della pandettistica ritroviamo innanzitutto una folta schiera di romanisti-civilisti accomunati da un medesimo programma. In primo luogo appare infatti strategico rinnovare lo studio del diritto romano agganciandolo alla tradizione e al Risorgimento nazionale (Grossi 2000, p. 40; Cazzetta 2011). Il romanista Filippo Serafini (1831-1897), che si cimenterà nella traduzione delle pandette di Karl Ludwig Arndts tra il 1877 e il 1879, conclude una celebre e celebrata prolusione del 1871 in questi termini:
Come abbiamo rivendicato dallo straniero la nostra terra, rivendichiamo il culto d’una scienza che qui ebbe la culla e raggiunse l’apogèo di sua grandezza (Del metodo degli studi giuridici in generale e del diritto romano in generale e del diritto romano in particolare, 1872, p. 20).
Ma è la parte centrale del discorso che contiene il cuore della strategia: per Serafini il diritto romano è in grado di fornire «luce novella sui nuovi codici» al fine di «apprezzare con esattezza ed a primo tratto i casi non contemplati». Occorre prodigarsi, osserverà un altro giurista di primo piano, Carlo Fadda (1853-1931), affinché lo studio del diritto romano, seguendo Jhering, sia «non solo ricettivo ma produttivo», allo scopo di «costituire una scuola giuridica» nazionale (L'equità e il metodo nel concetto de' giureconsulti romani, prolusione letta a' dì 15 gennaro 1881, 1881, pp. 24 e 22). Prende forma quel progetto di attualizzazione del diritto romano che sia Serafini, sia Fadda hanno già sperimentato. Il primo ha pubblicato nel 1862 un saggio dedicato al Bosellini, intitolato Il telegrafo in relazione alla giurisprudenza civile e commerciale, nel quale si definisce il problema della revoca della proposta contrattuale e della sua eventuale accettazione; Fadda, invece, nella parte finale del suo corposo volume sulla novazione (1880) ha tentato di risolvere taluni nodi problematici concernenti la disciplina della cambiale e del conto corrente sulla base dello studio storico compiuto.
Si tratta di ricerche che ingenereranno in non pochi romanisti la convinzione che il diritto romano possa davvero colmare ogni lacuna. Così l’allora giovane romanista Biagio Brugi (1855-1934):
nello stringere amorosamente l’economia al diritto si tenga a mente che quel vecchio corpus iuris è pronto a darci norme attissime a regolare tutti i rapporti giuridici (I fasti aurei del diritto romano, 1879, p. 285).
Al di là della boutade, un dato è però inoppugnabile. In questo torno di tempo il progetto di attualizzazione del diritto romano è finalizzato alla gestione della complessità, un governo del mutamento sociale realizzato attraverso il recupero del sapere scientifico-sistematico tedesco. Vittorio Scialoja e l’appena ricordato Fadda sono i giuristi che volgono in italiano il primo, a partire dal 1886, il Sistema del diritto romano attuale di Savigny, il secondo, assieme a Paolo Emilio Bensa (1858-1928), il Diritto delle pandette di Bernhard Windscheid, pubblicato a fascicoli dal 1887 in poi, e soprattutto corredato da corpose e dense note.
Per quanto concerne la cruciale figura di Scialoja, qui preme evidenziare che questo giurista ha modo di illustrare il suo programma scientifico fin dalla notissima prolusione tenuta nel 1879 a Camerino (Del diritto positivo e dell’equità) che analizziamo brevemente solo per creare un collegamento con il tema già affrontato dai commentatori postunitari e al fine di illustrare l’orizzonte mentale di una parte della civilistica successiva. La risposta di Scialoja al problema delle lacune è legalistica, non così diversa da quella del suo maestro Pacifici-Mazzoni, in quanto i principi generali di diritto sono identificati nel diritto positivo vigente: il quid novi et pluris è rappresentato dal pieno recupero dell’impostazione dogmatica e autopoietica tipica della pandettistica tedesca che si viene a innestare in un ordinamento codificato e che finisce con l’esasperare una concezione formalistica conchiusa entro il binomio codice e sistema. Una vera e propria costante dei romanisti-civilisti e di quei civilisti che si incammineranno lungo questa via. «Pel nostro diritto nulla vi è di giuridico al di là del sistema positivo» scrivono Fadda e Bensa nelle note a Windscheid. Ed esaltano il sistema come strumento dagli sviluppi indefiniti:
il sistema ha sempre in sé la base per la decisione delle questioni tutte, che nella vita possono sorgere […]. Il giudice e lo scienziato di fronte al silenzio della legge ricorrono a’ princìpi del sistema, sia pure elaborandoli opportunamente. Ma appunto perché lavorano in base a’ principi esistenti, e li applicano non creano norme nuove […]. I trasporti ferroviari, quelli sulle navi a vapore, il telegrafo, il telefono hanno sollevato una grande quantità di questioni […]. Si son forse, per risolverle, creati principi nuovi? Mainò! Si modificarono combinandoli e adattandoli, principi esistenti, regolatori di rapporti e di istituti analoghi (B. Windscheid, Lehrbuch des Pandektenrechts, 1862-70; trad it. 1887-1902, 19264, pp. 31 e 25).
Come è stato rilevato felicemente da Luigi Mengoni, la metodologia pandettistica,
che si legittimava dall’interno in virtù della propria razionalità formale, era l’espressione e insieme la garanzia di una società omogenea, identificata da un blocco di valori assunti quali elementi incontestati e incontestabili dell’ordine sociale, e rispondeva a un’idea del progresso come sviluppo organico di strutture semplici e relativamente stabili dentro un orizzonte definito da una volontà normativa costante, che assicurava le condizioni di ricostituzione spontanea degli equilibri sociali (1996, p. 38).
Non stupisce scoprire allora che Scialoja si mostri contrario all’utilizzo dello strumento della legislazione speciale (M. Nardozza, Tradizione romanistica e ‘dommatica moderna’, 2007, p. 58). Sappiamo che la cultura pandettistica veicolata da figure del calibro di Scialoja, Fadda, Alfredo Ascoli, Roberto De Ruggiero, Gino Segrè, Giovanni Pacchioni e Carlo Longo contribuirà a elaborare concetti e categorie che si verranno a innestare sul vecchio tronco del codice francesizzante, tentando di innalzare su di esso un sistema dogmatico, solo a voler far menzione della notissima categoria del negozio giuridico. E con riferimento al diritto di proprietà, si assiste adesso, in forza della recezione del pensiero di Puchta e di Windscheid, al superamento della teorica del dominio perfetto/imperfetto attraverso il concetto di elasticità del dominio stesso.
Il metodo sistematico, proprio perché volto a elaborare concetti e teoriche generali – è elementare, ma va pur detto – si presta meglio di altri strumenti euristici al compito di organizzare la realtà sociale e per sua natura tende a esaltare la creatività del giurista: esso è sostanzialmente «affrancatorio» (Grossi 1988, p. 23). Ebbene, su questi due caratteri della metodologia sistematica insistono particolarmente alcuni giuristi che non possono essere annoverati tra i romanisti-civilisti. Nel 1873 Francesco Filomusi-Guelfi, civilista e filosofo del diritto, muovendo da una concezione vichiana e organicistica dell’ordinamento, esorta la scienza italiana ad accogliere il metodo sistematico, individuando in De Filippis un precursore (Enciclopedia giuridica ad uso di lezioni, 1873, 18752, pp. 35-38, 19106 p. 125, n. 4).
Dopo di lui, agli inizi degli anni Ottanta, una pluralità di civilisti, che il Grossi ha definito ‘neoterici’, erompono sulla scena per lo più attraverso il genere delle prolusioni accademiche. Si tratta di figure eterogenee accomunate però dal disegno di dar vita ad una scienza autenticamente nazionale, dai tratti originali e vocata a risolvere le nuove complessità della società italiana: sono civilisti che rivendicano «la libertà della [loro] opera» (Grossi 1988, p. 17). Ai loro occhi appare indefettibile l’esigenza di individuare il giusto mezzo «tra il crudo meccanismo francese e l'organismo astratto tedesco», come rileva il giovane giurista siciliano Cimbali (1855-1887) nella sua notissima prolusione romana (Lo studio del diritto civile negli Stati moderni, 1881, p. 30). Appare opportuno procedere alla costruzione del diritto civile italiano invitando il giurista
a guardare attentamente nel mondo dei fatti senza più contentarsi di un sapere formale, e accanto al momento di produzione della norma, [valorizzando] la vita della norma nel tempo e nello spazio, quel momento interpretativo/applicativo che la dommatica costituzionale borghese aveva minimizzato (Grossi 2002, pp. 29-30).
Per questo motivo appare necessario abbandonare lo studio del diritto romano poiché «deve considerarsi, dopo le opere di tanti eminentissimi giuristi, come un edifizio in ogni sua parte compiuto», osserva con toni concilianti Emanuele Gianturco nel saggio Gli studii di diritto civile e la quistione del metodo in Italia (1881, p. 25).
Tale affermazione rappresenta il punto di avvio della polemica contro il diritto romano in cui si cimenteranno, per es., Carlo Francesco Gabba (ripetutamente nel 1887 e nel 1893), D’Aguanno e Cimbali, con sfumature e accenti diversi. Ora il diritto romano è rappresentato come un ostacolo all’adeguamento del diritto all’incandescente realtà sociale, ora come un diritto individualistico inapplicabile a una società soggettivamente complessa come quella di fine Ottocento. Certo, vi è chi, pur avvertendo fortemente la necessità di innovare il metodo e manifestando ampie aperture, preferisce comunque rimanere nell’alveo della tradizione, come fa Gian Pietro Chironi.
Su questa pluralità di giuristi ancora due notazioni brevissime. Occorre rilevare che per non pochi di loro il concetto di sistema è posto in stretta correlazione con il mondo delle scienze fisiche. Complesso è il mondo fisico alla luce delle scoperte scientifiche anche evoluzionistiche; complesso quello giuridico, sicché il sistema è lo strumento che può ordinare e valorizzare la complessità dell’organismo giuridico, come insegna a questi giuristi Albert Eberhard Friedrich Schäffle, tradotto in italiano nel 1881 (che a sua volta si ispira ad Auguste Comte, Herbert Spencer e Charles R. Darwin): alla luce di questo approccio vanno lette non poche pagine dell’originalissimo Cimbali (La nuova fase del diritto civile, 1885) o di un Giuseppe Vadalà Papale (1854-1921, La nuova tendenza del diritto civile in Italia, 1883). L’ultima notazione riguarda la circostanza che molti civilisti novatori guardano non solo all’esperienza tedesca ma anche a quella austriaca. A Vienna ha operato e opera Joseph Unger (1828-1913), un civilista che ha incontrato (e risolto) le medesime difficoltà che si presentano in Italia: Unger si è trovato a concepire un sistema teorico partendo da un codice già esistente, si è scontrato con una prassi per sua natura adusa a seguire i sentieri già tracciati e percorsi da dieci lustri e inoltre ha realizzato uno strumento didattico di taglio sistematico, il System des österreichischen allgemeinen Privatrechts (1856-1864). È il modello per antonomasia per Gianturco (Gli studii di diritto civile e la quistione del metodo in Italia, «Il Filangieri», 1881, p. 21) e per Vadalà Papale (Grossi 1988, p. 26).
Desideriamo concludere menzionando due giuristi che in tempi successivi, pur nella loro diversità di temperamento e di accenti, si adopereranno per garantire l’adeguamento del diritto alla complessità del reale. Intendiamo alludere alle figure di Vittorio Polacco (1859-1926) e di Giacomo Venezian (1861-1915). Il primo, che si impegnerà anche sul fronte del solidarismo giuridico, nel 1908 rifletterà sulla necessità di dotare il codice di organi respiratori (Le cabale del mondo legale, discorso letto all'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti nel 1908, ora in Id., Opere minori, Parte I, 1928, pp. 41 e segg.), il secondo utilizzerà il sapere sistematico con esiti felicemente creativi: grazie alla sua apertura verso l’esperienza giuridica anglosassone scrollerà le fondamenta romanistiche della responsabilità civile ispirandosi al concetto di Tort, riuscendo così «a reperire il fondamento del nesso causale oggettivo tra danno e sfera giuridica del soggetto e a disegnare l’obbligo del risarcimento con una base oggettiva e impersonale» (Grossi 2002, p. 39).
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