Tendenze recenti del pensiero economico italiano
Obiettivo di questo saggio è individuare le coordinate interpretative per la ricostruzione analitica delle tendenze principali del pensiero economico italiano nei decenni successivi al secondo conflitto mondiale. In questo periodo la ricerca economica nel nostro Paese acquista l’identità complessiva che tuttora la caratterizza. Gli studi economici nell’arco temporale qui considerato si articolano su una pluralità di linee di ricerca, che trovano uno dei principali punti di coagulo nell’attenzione per i problemi della crescita e dello sviluppo economico e per le analisi di tipo strutturale. In particolare, molti studi si concentrano sui cambiamenti delle relazioni economiche fondamentali nei processi di sviluppo, sulle interdipendenze fra settore reale e settore monetario in tali processi, sui collegamenti fra governo delle grandezze macroeconomiche e trasformazione delle strutture economiche, e sulle ragioni di scambio fra settori produttivi, considerate come indici dei vincoli di producibilità e scarsità nel sistema economico.
La prima parte di questo saggio prende in esame alcuni punti nodali della riflessione teorica condotta dagli economisti italiani a partire dal secondo dopoguerra. L’attenzione si concentra su momenti salienti e caratteristici che distinguono il pensiero economico italiano sul piano internazionale, e in particolare sulle seguenti aree tematiche: la distinzione e le connessioni fra scarsità e producibilità nell’analisi di valore e distribuzione, il ruolo degli assetti istituzionali nel determinare la contestualizzazione degli schemi teorici, l’analisi dei sentieri di cambiamento strutturale in una prospettiva di lungo o medio periodo.
La seconda parte del saggio presenta una ricostruzione critica delle proposte di politica economica avanzate dagli economisti nello stesso periodo storico, con l’obiettivo di rendere evidenti i collegamenti – spesso profondi – fra quelle proposte e gli schemi teorici alla loro base. Il tema dello sviluppo e della crescita della nostra economia riveste un ruolo centrale in questa letteratura, intrecciandosi con l’analisi dei modelli di capitalismo e con quella delle caratteristiche specifiche del capitalismo italiano. Pur con un alto livello di apertura nei confronti della letteratura economica internazionale, i contributi italiani alla teoria e alla pratica della politica economica presentano essenziali elementi di originalità che derivano sia dalle caratteristiche specifiche dei problemi studiati, sia dall’elaborazione autonoma e creativa delle tradizioni di pensiero poste a fondamento di analisi e proposte.
A partire dagli anni Cinquanta, le indagini su teoria del valore, distribuzione del reddito e fondamenti dell’analisi economica si intersecano con le questioni di fondo della politica economica e danno luogo a una situazione che rivela l’intreccio fra snodi concettuali e contesti storico-politici dell’elaborazione teorica.
I contributi di Piero Sraffa e Claudio Napoleoni si distinguono per il riferimento all’analisi strutturale e alla teoria economica classica. Sraffa, a partire dagli anni Venti, aveva avviato una ricostruzione della teoria del valore sulla base della critica alla teoria marshalliana dei prezzi normali. Nel secondo dopoguerra il suo ruolo nel pensiero economico italiano è confermato e rafforzato dalla sua edizione degli scritti di David Ricardo, un «monumentum aere perennius» nelle parole del recensore Luigi Einaudi (1951, p. 334). A partire da queste premesse, acquista rilievo centrale la pubblicazione, da parte dello stesso Sraffa, del volume Produzione di merci a mezzo di merci (1960). Questo scritto, che si propone di stabilire «premesse a una critica della teoria economica» (sottotitolo nel frontespizio), muove dal punto di vista degli economisti classici e su quella base sviluppa una struttura analitica che rende evidenti le connessioni reciproche fra processi produttivi in un’economia di tipo circolare. Il lavoro di Sraffa collega il valore delle merci prodotte alla struttura delle connessioni, ma nel contempo si distacca dalla concezione walrasiana e paretiana dell’interdipendenza fra mercati nelle configurazioni di equilibrio economico generale, nel senso che il sistema delle ragioni di scambio determinate da Sraffa riflette direttamente le condizioni da soddisfare perché il sistema economico sia in grado di ricostituire quelle scorte di mezzi di produzione che consentono al sistema stesso di riprodursi alla stessa scala di periodo in periodo (Pasinetti 1975; Donzelli 1986).
Un aspetto notevole del contributo di Sraffa è il rilievo assegnato alla distribuzione del prodotto netto del sistema economico fra salari e profitti nella determinazione delle ragioni di scambio (prezzi relativi) che permettono al sistema di raggiungere quell’obiettivo. In questo modo, Sraffa, da un lato, collega in modo sistematico la determinazione dei prezzi relativi alle esigenze complessive di riproduzione del sistema economico, dall’altro, riconosce l’importanza di fattori socioistituzionali (distribuzione del prodotto netto) nel fissare le caratteristiche del processo di riproduzione. Questi aspetti della determinazione del valore delle merci prodotte sono resi evidenti dal sistema di equazioni che è alla base della teoria dei prezzi di Sraffa. In questa teoria, ciascuna equazione di prezzo descrive la relazione fra il prezzo di ciascuna merce espresso in termini di numerario e il costo di produzione di quella merce, considerato come somma del costo salariale per unità di prodotto, del costo dei mezzi di produzione per unità di prodotto valutato sulla base dei rispettivi prezzi e di un fattore di profitto. Questi prezzi sono determinati tenendo conto delle influenze reciproche fra condizioni tecniche e distribuzione del reddito in condizioni di interdipendenza tecnologica fra settori.
Al centro del contributo di Sraffa sono le relazioni di dipendenza reciproca fra grandezze economiche in un’economia di tipo circolare. La ripresa del problema ricardiano della ricerca di una misura invariabile del valore e l’attenzione per le condizioni che consentono la riproduzione del sistema economico da un periodo all’altro danno luogo a un’accurata analisi degli effetti di un cambiamento nella distribuzione del prodotto netto tra salari e profitti sulle ragioni intersettoriali di scambio. Tali effetti risultano dalle diverse proporzioni tra lavoro e mezzi di produzione nei differenti settori produttivi e riflettono le interdipendenze tra settori in un’economia circolare.
Negli stessi anni Napoleoni avvia una ripresa dell’analisi strutturale di tipo classico in diretto collegamento con le discussioni di politica economica. In particolare, Napoleoni riprende i termini della controversia fra Thomas Robert Malthus e Ricardo circa il ruolo di rendite e profitti in un processo di accumulazione e crescita economica, sottolinea che la distinzione tra profitti e rendite «può farsi, con rigore, solo in sede di teoria dinamica» (Napoleoni 1956, p. 1303), ed esamina l’influenza potenzialmente conflittuale di queste due forme di reddito sull’andamento complessivo del sistema economico. Il richiamo all’analisi classica per grandi aggregati settoriali avviene in stretto collegamento con l’analisi delle condizioni di crescita e trasformazione strutturale del sistema economico. In questa prospettiva lo studio dello schema fisiocratico porta a individuare le condizioni strutturali fondamentali della crescita economica nella dipendenza reciproca fra settori produttivi, nella determinazione del prodotto netto (o sovrappiù) del sistema economico a partire da tali interconnessioni, e nella messa a fuoco dei settori strategici per la formazione del prodotto netto.
Nell’elaborazione di Napoleoni, l’intero corpus teorico dell’economia politica classica viene esaminato dal punto di vista di una progressiva specificazione delle condizioni che permettono l’impiego del prodotto netto a fini di espansione della capacità produttiva del sistema economico. In questa prospettiva, Napoleoni considera i contributi di Adam Smith e Ricardo come tappe di un percorso che porta dapprima a estendere la formazione di prodotto netto dal settore agricolo al sistema economico nel suo complesso, e successivamente conduce alla teoria oggettiva o ‘classica’ del valore. Quest’ultima è considerata strumento analitico per identificare un sistema di ‘pesi’ in grado di ponderare le componenti del prodotto complessivo indipendentemente da cambiamenti nella distribuzione del prodotto netto fra classi sociali. Gli sviluppi successivi dell’analisi economica sono interpretati alla luce di questa caratterizzazione strutturale delle condizioni di crescita.
In particolare, Napoleoni richiama l’attenzione sulla concezione di capitale produttivo appropriata nell’analisi dei processi di accumulazione e crescita e mette in evidenza che lo stock di capitale può essere considerato «come il punto d’inizio e, insieme, il punto d’arrivo del processo [economico]» (Napoleoni 1976, p. 134). In questa prospettiva, si sottolinea la differenza specifica delle teorie di tipo classico rispetto alle teorie neoclassiche in cui «i mezzi e gli scopi» sono «tra loro eterogenei» (p. 134).
Al centro di questa ricostruzione storico-analitica è la considerazione del ruolo specifico della teoria (classica) del valore nel permettere il superamento della distinzione tra mezzi e fini dell’attività economica, attraverso la determinazione di ragioni di scambio derivate dalle condizioni di riproduzione del sistema economico (pp. 133-44, 160-84). Napoleoni individua nell’esistenza del prodotto netto la condizione tecnologico-produttiva fondamentale che rende possibile la crescita autosostenuta di un sistema economico, e nel differimento del consumo la condizione sociale che rende possibile la formazione dello stesso prodotto netto. In questa prospettiva, le teorie dell’astensione dal consumo (Nassau William Senior) e dell’appropriazione esclusiva del prodotto netto da parte di una classe sociale (Karl Marx) sono considerate punti di vista complementari che illuminano la stessa condizione strutturale di base.
Negli anni immediatamente successivi, si assiste a una forte ripresa della tradizione classica nelle ricerche italiane sulla teoria del valore (La distribuzione del reddito nella teoria economica, 1972). Questa ripresa ha luogo lungo una molteplicità di direzioni, che nel loro complesso si concentrano sulle strutture produttive e sui collegamenti fra queste ultime e le ragioni di scambio tra grandi ‘comparti’ del sistema produttivo (industrie o settori). Le ricerche di Sraffa, e le discussioni che le avevano accompagnate soprattutto all’Università di Cambridge, sono all’origine del contributo di Pierangelo Garegnani (1960) sulla teoria del capitale.
Il lavoro di Garegnani si articola lungo due principali direzioni di ricerca. La necessità di ascrivere a una grandezza omogenea (la «quantità di capitale») una collezione di beni eterogenei richiede il ricorso a un sistema di prezzi da utilizzare come «pesi» nel processo di aggregazione; ma la «quantità di capitale» rientra a sua volta come elemento nella determinazione dei prezzi dei beni che utilizzano capitali nei rispettivi processi produttivi. Garegnani richiama l’attenzione sull’aporia che si viene in questo modo a determinare: la determinazione dei prezzi presuppone fra i suoi dati un elemento (la «quantità di capitale») che non è indipendente dalla soluzione del problema in oggetto. Una seconda direzione di ricerca riguarda l’ipotesi neoclassica di un unico saggio di rendimento sul capitale (saggio di profitto) in condizioni di concorrenza perfetta. Secondo Garegnani questa condizione, introducendo un requisito aggiuntivo rispetto a quello dell’equilibrio fra domanda e offerta sui mercati dei beni, rende sovradeterminato il sistema walrasiano di equilibrio economico generale con produzione di beni capitali.
La critica alle equazioni walrasiane della capitalizzazione è all’origine di un’importante discussione scientifica attorno alla metà degli anni Sessanta. A questo riguardo, Augusto Graziani (1965) richiama l’attenzione sull’inadeguatezza della teoria dell’equilibrio economico generale nell’analisi di questioni dinamiche. Infatti, l’impiego di capitali fissi nella produzione di beni introduce un collegamento sistematico fra periodi che rende possibile la formazione di redditi «non concorrenziali» generati dalla logica stessa del modello ma incompatibili con le sue premesse. Questo accade perché prezzi dei beni capitali al tempo t+k diversi dai rispettivi costi di produzione al tempo t fanno sorgere quasi rendite (di segno positivo nel caso di apprezzamento e di segno negativo nel caso di deprezzamento). Questo ragionamento porta Graziani a sottolineare la coesistenza di condizioni concorrenziali e non concorrenziali all’interno dello stesso processo dinamico. Il prevalere di condizioni concorrenziali sui mercati dei beni, oppure di uniformità del saggio di profitto si accompagnano, rispettivamente, a fasi di crescita accelerata (con struttura differenziata dei saggi di profitto), oppure di ristagno (con saggio di profitto uniforme, e rallentamento o arresto delle trasformazioni strutturali; cfr. Costabile 2004). Il contributo di Graziani è all’origine di una discussione sui fondamenti della teoria dell’equilibrio economico generale dinamico. In anni successivi, Garegnani esamina di nuovo il collegamento fra ipotesi sul saggio di rendimento dei beni capitali e teoria dell’equilibrio economico richiamando l’attenzione sul metodo degli equilibri temporanei proposto da John R. Hicks (1939 e 1956). Secondo Garegnani la proposta di Hicks, introducendo il criterio del «periodo singolo», dev’essere vista come tentativo di soluzione di un’aporia fondamentale della teoria neoclassica nelle formulazioni di tipo walrasiano.
La critica alla teoria aggregata del capitale e della produzione s’interseca con la discussione sui criteri di convenienza relativa nella scelta delle tecniche di produzione e costituisce il principale punto di riferimento della letteratura degli anni Sessanta e Settanta sulla «controversia del capitale» (capital controversy). Partendo da studi che negli anni precedenti avevano sottolineato i limiti delle analisi aggregate (Leontief 1947; Chenery 1949; Robinson 1953-1954), Garegnani e Luigi Pasinetti sviluppano questa linea di indagine prendendo in esame, rispettivamente, i problemi connessi alla misurazione dello stock di capitale come collezione di beni eterogenei e alla sua influenza sul mutamento dei metodi di produzione in presenza di cambiamenti nella distribuzione del reddito. Questo insieme di ricerche sviluppa temi che in parte erano stati toccati negli studi degli economisti classici.
In particolare, le conseguenze – talora controintuitive – di un aumento generalizzato dei salari unitari sulle ragioni di scambio fra settori produttivi erano state identificate da Ricardo (1817), precisate analiticamente da Emilio Nazzani (1883), e attentamente ricostruite da Sraffa nella sua introduzione ai Principles of political economy and taxation (1951). I contributi degli economisti italiani nel decennio 1960-1970 partono da queste premesse, e dalla sistemazione analitica proposta da Sraffa nel capitolo XII (Mutamento dei metodi di produzione) di Produzione di merci a mezzo di merci, per studiare le conseguenze dell’interdipendenza fra settori produttivi per quanto riguarda la misurazione della quantità di capitale impiegata in ciascun settore, e quindi anche la relazione fra saggio di interesse e rapporto fra capitale e lavoro (intensità di capitale) nello stesso settore. La scoperta che a variazioni monotòne crescenti del saggio di interesse possono fare riscontro modifiche nella convenienza relativa dei metodi di produzione che consentono a metodi dapprima scartati di tornare a dominare perché di nuovo più convenienti (ritorno della tecnica), si collega allo studio delle condizioni che permettono ‘inversioni’ nell’intensità di capitale del metodo produttivo impiegato. Altri contributi sviluppano lo studio della relazione ‘duale’ tra consumo pro capite e saggio di crescita del sistema economico, e articolano su questa base l’analisi comparata dell’efficienza oggettiva di configurazioni istituzionali alternative (Nuti 1970). Il complesso di queste proposizioni deriva da effetti indiretti in presenza di settori produttivi interdipendenti, e mette in dubbio la possibilità di immediate estensioni del principio di sostituzione dall’ambito delle scelte individuali a quello dei confronti fra metodi di produzione per l’intero sistema economico.
Le modalità di costruzione e misurazione delle grandezze aggregate, insieme alla loro capacità interpretativa, sono di importanza fondamentale anche in altri ambiti della ricerca economica. In particolare, l’analisi dei processi di crescita e cambiamento strutturale richiama l’attenzione su indicatori sintetici delle possibilità di espansione della capacità produttiva di un sistema economico. In questo ambito di indagini, Giulio Pietranera (1963) approfondisce le caratteristiche della teoria smithiana del lavoro comandato (labour commanded) e sottolinea che la misura di un aggregato di merci in termini della quantità di lavoro (volume di occupazione) che quell’aggregato è, direttamente o indirettamente, in grado di mettere all’opera fornisce un’indicazione delle potenzialità di sviluppo del sistema economico.
Giorgio Fuà (1957 e 1981) esamina i criteri di costruzione e valutazione delle grandezze aggregate facendo riferimento alle discussioni degli economisti classici (soprattutto Smith) e ai problemi posti dall’utilizzazione degli indicatori sintetici della contabilità nazionale. In particolare, Fuà (1981) sottolinea che in molti casi quegli indicatori possono solo rispondere a quesiti specifici circoscritti a particolari contesti socioistituzionali:
ciò che possiamo chiedere ai conti nazionali non è affatto quale sia il livello di benessere goduto da una popolazione, ma più modestamente quali siano le dimensioni dell’attività che essa svolge con le forme proprie del mercato (p. 360).
Queste linee di indagine spostano la ricerca sul valore delle merci dal contesto microeconomico e intersettoriale a quello dell’analisi aggregata e dinamica. In una prospettiva convergente si collocano alcuni contributi dello stesso Sraffa, e soprattutto le sue ricerche sull’utilizzazione di una particolare unità di misura del valore (merce tipo) per esprimere il prodotto netto del sistema economico in termini di lavoro comandato (Sraffa 1960, cap. V, sezione 43, e Appendice D, sezione 2). In anni successivi Pasinetti (1973) propone una specifica unità di misura della capacità produttiva di un sistema economico (unità di capacità produttiva verticalmente integrata) per rispondere all’esigenza di un indicatore sintetico delle capacità di espansione di un sistema economico in condizioni di interdipendenza fra settori e cambiamento tecnologico.
Le discussioni sulla teoria del valore si concentrano sulle rappresentazioni analitiche presupposte in schemi alternativi di analisi economica. La distinzione fra modelli di pura producibilità e modelli di puro scambio è discussa in contributi di Napoleoni, Pasinetti, Hicks, Alberto Quadrio Curzio e Roberto Scazzieri. Napoleoni prende in esame la ricostruzione della storia della teoria economica proposta da Sraffa, fa riferimento alla distinzione fra modelli di produzione e modelli allocativi, e sottolinea la complementarità fra logica della scarsità e logica della producibilità all’interno di un’analisi strutturale delle condizioni di riproduzione e sviluppo di un’economia circolare (Napoleoni 1961 e 1962). In particolare, Napoleoni (1985) osserva che, in un’economia circolare di produzione e consumo
la scarsità rilevante non è affatto quella [...] di cose date una volta per tutte, ma è al contrario, appunto, quella delle cose riproducibili indefinitamente, ossia delle cose, che, in quanto devono essere ri-prodotte, sono di volta in volta disponibili in quantità date o, se si vuole, delle cose che possono essere rese disponibili senza limiti ma in un processo e perciò all’interno di vincoli (p. 35).
Secondo Pasinetti, invece, la dinamica complessiva dell’economia politica rende evidenti due diversi punti di vista per quanto riguarda la specificazione strutturale delle relazioni economiche. Nella sua interpretazione è necessario distinguere fra modelli che partono dall’ipotesi di pura producibilità e rappresentano un sistema economico come insieme di processi produttivi interdipendenti e modelli costruiti a partire dall’ipotesi di puro scambio, in cui il sistema economico è rappresentato come insieme di mercati interdipendenti e i collegamenti fra agenti riflettono un criterio di congruenza fra le rispettive decisioni in condizioni di scarsità (1965, p. 574). Successivamente, Pasinetti distingue, all’interno delle due tradizioni analitiche, i nuclei di relazioni fondamentali corrispondenti a ciascun approccio. Questa indagine lo porta a individuare due modelli «primitivi» di relazioni economiche, denominati rispettivamente economia di puro lavoro ed economia di pura preferenza. Il confronto fra le strutture analitiche dei due modelli fondamentali ha richiamato l’attenzione sulla possibile integrazione dei rispettivi punti di vista all’interno di un quadro generale di analisi strutturale (Baranzini, Scazzieri 1986 e 1989).
In stretta connessione con i termini di questa discussione, Hicks (1975 e 1976) mette in rilievo i diversi usi della teoria del valore nelle due ipotesi di producibilità e scarsità (rispettivamente, valori come ‘pesi’ per misurare collezioni eterogenee di beni e valori come indicatori di scarsità relativa). L’analisi di Hicks, qui ripresa per il suo continuo intrecciarsi con il dibattito italiano, mette in rilievo la complementarità dei due punti di vista, ma al tempo stesso sottolinea la loro distinzione giungendo a proporre due denominazioni alternative per gli schemi concettuali corrispondenti (rispettivamente political economy per il punto di vista della producibilità e catallactics per quello della scarsità). Quadrio Curzio e Roberto Scazzieri discutono le condizioni strutturali della complementarità fra producibilità e scarsità. In particolare, la loro analisi sottolinea l’«antagonismo-coesistenza» fra producibilità e scarsità e la distinzione fra le configurazioni strutturali messe in evidenza nell’uno e nell’altro caso (rispettivamente, l’apparato di struttura, che rende visibile la dipendenza reciproca fra settori, e l’apparato di trasformazione, che colloca in primo piano la relazione fra risorse originarie e beni finali di consumo; cfr. Protagonisti del pensiero economico, 1977-1982; Quadrio Curzio, Scazzieri 1985).
In una prospettiva diversa, ma per molti aspetti complementare, si sviluppano ricerche che hanno l’obiettivo di mettere a fuoco la «visione preanalitica» (Schumpeter 1954) e le premesse fondamentali della letteratura teorica sull’equilibrio economico generale, anche nella prospettiva di rendere evidenti gli elementi di continuità o di discontinuità con il punto di vista degli economisti classici. Sergio Ricossa riprende una tradizione interpretativa che ha profonde radici nel pensiero economico italiano (Del Vecchio [1932] 1956) e sottolinea l’esigenza di pervenire a una formulazione unitaria della teoria del valore al di là della distinzione fra teoria classica e teoria neoclassica (Ricossa 1981 e 1983).
Aldo Montesano parte da ricerche sui presupposti fondamentali della teoria dell’equilibrio economico generale, e discute aspetti di teoria e metodo collegati a questo punto di vista. In particolare, Montesano difende la coerenza interna della teoria walrasiana dell’accumulazione, discute possibilità e limiti dell’analisi dinamica dal punto di vista della teoria dell’equilibrio economico generale, e prende in esame temi e problemi di particolare rilievo nella trattazione di questioni dinamiche, come indivisibilità e decisioni economiche in condizioni di incertezza. Elemento unificante di queste ricerche è la considerazione della teoria dell’equilibrio economico generale come costruzione analitica aperta a una pluralità di formulazioni, talora viste come alternative fra loro. A questo riguardo, Montesano (1982) osserva che i teoremi fondamentali di esistenza, unicità, stabilità e ottimo sociale derivano da «ipotesi particolari che specificano gli insiemi delle azioni e dei vincoli e gli ordinamenti di preferenza» piuttosto che ipotesi «di razionalità e simultaneità» (p. 439). Rilievi critici rispetto a «ipotesi e teoremi particolari» non sono quindi rilevanti per quanto riguarda «l’essenza» della teoria dell’equilibrio economico generale (p. 439).
Un aspetto caratteristico della riflessione degli economisti italiani nel periodo considerato in questo saggio è l’interesse con il quale si guarda a configurazioni istituzionali ‘astratte’, spesso viste in alternativa fra loro, ma capaci di rendere evidenti le condizioni per la realizzazione di particolari obiettivi individuali o sociali. Questo punto di vista va di pari passo con l’attenzione dedicata alla specificità dei contesti applicativi, proprio perché la messa a fuoco di situazioni specifiche rende evidente la molteplicità degli assetti istituzionali possibili, e nel contempo sollecita l’analisi delle condizioni storiche per la loro realizzazione (Meacci 1998; Quadrio Curzio 2007).
Bruno de Finetti (1973) esprime con chiarezza questo punto di vista nella sua ricerca dei «requisiti per un sistema economico accettabile in relazione alle esigenze della collettività» (p. 17). Secondo de Finetti, è possibile accostarsi ai problemi economici evitando di dare come scontate condizioni e vincoli che riflettono gli assetti istituzionali esistenti qualora si parta dal presupposto che un problema sia «aperto a tutte le soluzioni non tecnicamente contraddittorie e quindi a tutte le soluzioni che si possono ideare» (p. 18). In questo modo, acquista rilievo centrale l’analisi economica delle istituzioni, intesa come specificazione di modelli istituzionali ideali, che «quasi mai» si potranno realizzare completamente «in forma pratica», ma che costituiscono standard essenziali di riferimento per l’individuazione «dei molti e svariati possibili miglioramenti radicali» necessari o desiderabili rispetto agli assetti istituzionali esistenti (p. 16). Questa posizione conduce a un’analisi dei presupposti razionali di schemi alternativi di coordinamento economico fra soggetti o gruppi, e fornisce un criterio di lettura dei contributi all’analisi teorica delle istituzioni.
Già attorno alla metà degli anni Quaranta, Felice Vinci (1944-1945) aveva proposto uno studio comparato delle istituzioni economiche secondo uno schema analitico di equilibrio economico generale organizzato in base alla distinzione fra «ordinamento economico liberista», «ordinamento economico collettivista», e «ordinamenti economici eclettici». Poco dopo, Cesare Dami e Franco Modigliani si ricollegano rispettivamente alle discussioni anglosassoni di economia del benessere, e alla letteratura italiana sull’equilibrio economico generale, per specificare le differenze sul piano teorico fra economie individualiste ed economie collettiviste, esplorare i caratteri specifici delle esperienze di economia pianificate realizzate nei Paesi occidentali durante il periodo bellico (Dami 1947 e 1950), ed esaminare le condizioni teoriche degli equilibri con produzione nelle economie collettivistiche (Modigliani 1947).
Negli anni successivi, l’analisi economica delle istituzioni segue due percorsi distinti anche se collegati sul piano tematico. Da un lato, alcune ricerche esaminano condizioni generali di aggiustamento e trasformazione delle strutture rispetto a fattori di cambiamento di carattere economico o politico; dall’altro, vengono condotte indagini che mettono a fuoco le caratteristiche specifiche di sistemi economici in cui politiche di sostegno pubblico della domanda effettiva svolgono un ruolo centrale nel governo dell’economia.
Nel primo caso, sono da ricordare soprattutto gli studi di Giulio La Volpe, Giuseppe Ugo Papi e Manlio Resta. La Volpe (1951) elabora uno schema analitico per l’interpretazione generale delle condizioni di flessibilità in un sistema economico sottoposto a tensioni dinamiche; Papi (1933) prosegue precedenti ricerche sulla relazione fra costo di produzione, errori di valutazione e dinamiche cicliche, esaminando collegamenti fra organizzazione della produzione, ruolo dello Stato e sviluppo economico (Papi 1956); Resta (1954) elabora uno schema di analisi strutturale per rispondere all’esigenza di fornire una «base concreta» alla macroeconomia classica in un’ottica di causalità sequenziale (p. 897) ed esamina su queste premesse le condizioni dei processi di sviluppo (Resta 1966).
Nel secondo caso, si sviluppano ricerche alle quali si deve in gran parte l’identità del pensiero economico italiano a partire dagli anni Sessanta. Sul piano strettamente analitico, Vittorio Marrama (1946) elabora una pionieristica analisi keynesiana della relazione fra ciclo economico e trend basata sulla discontinuità nella funzione di investimento ed esamina negli anni successivi le condizioni di sviluppo delle aree arretrate (Marrama 1958). Ferdinando di Fenizio (1948 e 1949) richiama l’attenzione sulla critica keynesiana della «fallacia di composizione» (l’attribuzione al sistema complessivo di proprietà delle sue singole componenti) e sull’esigenza di collocare lo schema analitico di Keynes all’interno di una sistemazione che tenga conto dei diversi contesti applicativi della teoria. Federico Caffè elabora un punto di vista che unisce in modo originale l’attenzione per i contributi anglosassoni all’economia del benessere (Hicks, James Edward Meade) alla ripresa e sviluppo di temi keynesiani. Questo punto di vista è esplicito nel saggio sui «prezzi amministrati», in cui Caffè sottolinea l’esistenza di un’area di discrezionalità nella fissazione dei prezzi e sullo spazio che in questo modo si apre per l’azione di una «politica pubblica». A quest’area di discrezionalità Caffè attribuisce un rilievo metodologico generale, che va al di là della questione specifica considerata in questo saggio. Infatti, essa
attesta la posizione autonoma di chi si occupa dei problemi di politica economica con esclusivo intento scientifico e la portata frequentemente anticipatrice della sua visione rispetto alle decisioni adottate in pratica (Caffè 1960, p. 157).
Caffè (1955) innesta il suo interesse per la teoria e la politica keynesiana sulla struttura analitica dell’economia del benessere. Questo spiega la sua attenzione per i contesti applicativi specifici delle politiche keynesiane e il suo coinvolgimento in riflessioni e proposte di riforma delle istituzioni economiche. Di particolare interesse è il suo atteggiamento rispetto a due punti di vista in apparenza alternativi sul rapporto fra schemi teorici e raccomandazioni operative nella politica economica. Secondo Caffè, è di importanza centrale uno stadio «intermedio» di indagine in cui non ci si limita
ad un’analisi critica di già sperimentati interventi di politica, ma procedendo a una ordinata catalogazione di alternative ipotetiche, basate su differenti possibili forme di relazioni reciproche fra le varie grandezze economiche, si compie […] opera d’indagine diversa dalla costruzione astratta di strumenti d’analisi, come dall’esame contingente di fatti specifici. Si tende, con ciò, ad accrescere le possibilità conoscitive, di fronte al complesso intreccio di elementi da fronteggiare nelle decisioni di politica, studiandosi di stabilire quali relazioni abbiano prevalente importanza, nelle alternative ipotizzate, e quali conseguenze derivino dal fatto che le relazioni stesse assumano valori diversi (1961, p. 185).
In questa prospettiva si collocano alcuni contributi in cui le decisioni di politica economica sono considerate alla luce di schemi teorici compatibili con una pluralità di possibili relazioni causali. Nell’ambito della politica monetaria, Giuseppe di Nardi (1970) sottolinea la necessità di interventi differenziati per settore di riferimento nel caso di un’economia dualistica:
la politica monetaria dovrebbe essere più rigorosa rispetto al settore avanzato, quando questo abbia già raggiunto la piena occupazione, perché in questo settore insorgono più facilmente le spinte inflazionistiche […] più blanda verso il settore arretrato, ove bisogna sostenere il livello degli investimenti per introdurre nuove tecniche, per aumentare il livello dell’occupazione, con gli interventi nei più vari settori, dai quali dipende la produttività generale delle risorse (p. 818).
Rainer S. Masera (1972) sottolinea che, in condizioni di tassi di interesse differenziati per durata del debito, decisioni sui tassi a breve termine possono avere effetti molto diversi a seconda delle aspettative macroeconomiche generali. Nell’ambito della politica fiscale, diversi studiosi sviluppano aspetti della tradizione italiana di scienza delle finanze approfondendo i nessi fra obbligazione tributaria e obbligazione politica (Griziotti 1953), il collegamento fra debito statale e investimenti pubblici (Forte, Giardina 1963), le condizioni delle scelte di politica finanziaria attraverso lo studio delle relazioni fra interessi della classe dirigente e interessi della collettività (Parravicini 1967), le relazioni fra condizioni contrattuali e condizioni coercitive della politica fiscale (d’Albergo 1967-1968), i presupposti e i limiti delle politiche fiscali di controllo della domanda globale (Steve 1972).
In questi anni, l’analisi delle configurazioni socioeconomiche alla base delle stilizzazioni teoriche è all’origine di importanti contributi e discussioni intorno alla teoria macroeconomica della crescita in condizioni di equilibrio. Pasinetti studia le implicazioni dinamiche di configurazioni sociali lontane dalla corrispondenza classica tra forme di reddito e comportamenti di risparmio, e quindi estranee alla corrispondente dicotomia fra classe dei percettori di profitto e classe dei percettori di salario. In particolare, Pasinetti prende in esame sistemi economici caratterizzati dalla presenza di gruppi con comportamenti omogenei di consumo e risparmio, ma con fonti di reddito differenziate (nel suo caso, lavoratori che sono al contempo percettori di salario e di interessi sui risparmi accumulati; cfr. Pasinetti 1962). La conclusione di Pasinetti che i comportamenti aggregati di risparmio prevalgono sulla composizione dei redditi personali o familiari nel generare effetti sulla dinamica complessiva del sistema economico richiama l’attenzione sulla stratificazione sociale in gruppi o classi caratterizzati da comportamenti di consumo e risparmio relativamente omogenei nel tempo, e sulle conseguenze di questa stratificazione sull’andamento delle grandezze macroeconomiche (risparmio e investimento aggregato). In una prospettiva diversa, ma per certi aspetti complementare, la teoria del ciclo vitale dei consumi e risparmi, elaborata in anni precedenti da Modigliani, Richard Brumberg e Albert Ando (Modigliani, Brumberg 1954; Ando, Modigliani 1963), diviene punto di riferimento di ricerche che elaborano una formulazione della macroeconomia keynesiana a partire dall’analisi dei comportamenti di consumo e risparmio sia nell’arco di vita dei singoli individui sia in una prospettiva intergenerazionale.
Il dibattito fra i due indirizzi teorici rende evidente la distinzione fra le rispettive premesse socioistituzionali e apre la via a sistemazioni analitiche che spiegano la formazione di comportamenti aggregati relativamente persistenti nel tempo attraverso processi di trasferimento di ricchezza fra coorti demografiche e all’interno di gruppi socioeconomici relativamente omogenei (Baranzini 1991). Implicazioni dell’esistenza di gruppi socioeconomici con comportamenti omogenei di consumo e risparmio sono in modo originale prese in esame nei contributi di Beniamino Andreatta (1958) sulle condizioni e limiti della politica dei redditi e di Quadrio Curzio (1967) sulla formazione di rendite differenziali e le sue conseguenze per le altre quote distributive e per le ragioni di scambio fra settori.
In anni successivi si accentua l’attenzione per le interazioni fra istituzioni economiche, assetto sociale e sistema politico. In questa prospettiva, Giacomo Becattini (1962) studia le premesse istituzionali della teoria marshalliana dell’equilibrio fra domanda e offerta prendendo in esame il ruolo delle unità di analisi in quel tipo di indagine. Su queste premesse teoriche, Becattini sviluppa un complesso di linee di ricerca che lo porta a studiare l’evoluzione del pensiero di Alfred Marshall riguardo l’economia dell’industria, le caratteristiche delle configurazioni produttive a struttura decentrata (distretti industriali), e infine i requisiti di un «capitalismo temperato» caratterizzato dall’inserimento delle attività economiche in contesti a forte densità relazionale e civile.
Questa linea di ricerca porta alcuni economisti, pur da punti di vista diversi, a esaminare le strutture della società civile come presupposto della compatibilità sistemica delle economie di mercato (Gay 1968; Brusco 1989; Scazzieri 1999b; Zamagni 1997; Bruni, Zamagni 2005), le relazioni tra istituzioni, comportamenti e sviluppo economico in un’economia capitalistica (Istituzioni e sviluppo economico nel Mezzogiorno, 1996; Institutions for social well being, 2008; Becattini 2000a e 2000b; Pagano 2003), le relazioni fra diritti di proprietà e organizzazione materiale dei sistemi economici (Pagano, Rowthorn 1994), l’evoluzione storica delle riflessioni su economia civile e società civile (Barucci 1961; Porta, Scazzieri 1996). Altri economisti concentrano l’attenzione sulle relazioni fra istituzioni economiche e sistema politico, e propongono schemi di analisi dell’efficacia dei sistemi politici rispetto a criteri economici di valutazione (Alesina, Rosenthal 1995; Alesina, Roubini 1997; Persson, Tabellini 2000 e 2003), oppure riconducono i principi teorici e operativi delle decisioni politiche in ambito economico a particolari visioni di filosofia politica (Lunghini 2011).
Negli anni più recenti si osserva la ripresa di attenzione per una vera e propria euristica degli assetti istituzionali, e quindi per l’individuazione e configurazione di assetti istituzionali efficaci in vista di specifiche finalità. Questo metodo di indagine, che aveva già trovato espressione nelle ricerche di de Finetti, viene riproposto con riferimento al cosiddetto teorema di separazione che distingue tra proprietà e relazioni fondamentali di un sistema economico e aspetti collegati a particolari istituzioni e modalità di comportamento (Pasinetti 2007). Questa distinzione pone le basi di una nuova riflessione sulla teoria della politica economica, in particolare per quanto riguarda la determinazione di indirizzi strategici efficaci rispetto a particolari obiettivi e sotto l’ipotesi di riforma degli assetti istituzionali.
A partire dalla metà degli anni Cinquanta, la crescita industriale delle regioni settentrionali e le questioni imposte dal dualismo economico fra regioni settentrionali e regioni meridionali fanno da sfondo a un’intensa elaborazione analitica e storico-empirica. Il concetto di struttura economica acquista in molte discussioni una posizione centrale e sollecita riflessioni di metodo e sviluppi analitici, in alcuni casi facendo diretto riferimento a temi e problemi dello sviluppo economico e delle trasformazioni strutturali nell’economia italiana.
Due linee di ricerca teorica acquistano rilievo centrale nelle indagini che studiano caratteristiche e condizioni dei processi di crescita. Da un lato, l’attenzione per le dinamiche imprenditoriali e le trasformazioni tecnologico-organizzative dà luogo a ricerche che uniscono temi schumpeteriani alla considerazione delle condizioni di equilibrio dinamico in modelli disaggregati. Dall’altro lato, gli andamenti macroeconomici in condizioni di crescita accelerata richiamano l’attenzione su modelli economici di derivazione keynesiana, e in particolare su linee di ricerca che in quegli anni mettono a fuoco le condizioni di equilibrio macroeconomico lungo sentieri di espansione.
I contributi di Giovanni Demaria si ricollegano a precedenti lavori dello stesso economista su incertezza e carattere probabilistico dei fenomeni dinamici (in partic. Demaria 1932) e sviluppano una complessa linea di ragionamento che riconosce i limiti soggettivi e oggettivi delle anticipazioni riguardo il futuro ma insieme ammette che condizioni strutturali possano svolgere un ruolo decisivo nel determinare le decisioni degli agenti economici. In questa prospettiva Demaria da un lato richiama l’attenzione sui «fatti nuovi», dall’altro sottolinea l’importanza dei propagatori, considerati «condizioni generali o di settore relativamente permanenti […] in cui si inseriscono in modo imprescindibile gli operatori economici» (1956, p. 250). Altre ricerche di Demaria esaminano le interdipendenze tra condizioni strutturali e criteri di azione con riferimento a specifici ambiti istituzionali, come in un importante studio sulla teoria monetaria di Gustavo Del Vecchio (Demaria 1961).
La Volpe ritorna su suoi precedenti contributi e delinea una teoria generale della dinamica economica in cui si evita di introdurre «particolari leggi della tecnica produttiva, specifiche leggi di valutazione soggettiva dei consumi, dati congegni finanziari, monetari, fiscali e così via» ma si considerano al contrario «forme generali di tali leggi e congegni» (1970, p. 219). La distinzione introdotta da La Volpe tra modelli analitici (di carattere assolutamente generale) e modelli sintetici (di carattere più specifico) apre la strada alla trattazione delle trasformazioni di struttura all’interno di una teoria dell’equilibrio economico generale.
Il tema della definizione metodologica delle dinamiche strutturali è ripreso da Pier Carlo Nicola, che sottolinea la distinzione fra «una soluzione dinamica generata da una struttura permanente nel tempo» (struttura descritta da una funzione che genera, per ogni stato iniziale del sistema economico x0 una successione temporale {xt}) e «una successione di funzioni […] non tutte identiche tra loro» in corrispondenza della quale l’economia può trovarsi in condizioni di dinamica strutturale (1990, p. 57). Nicola sviluppa questo punto di vista nella direzione di una teoria degli equilibri «imperfetti» generati da difficoltà strutturali del coordinamento fra agenti (1994).
A partire dall’immediato dopoguerra, Paolo Sylos Labini si occupa di progresso tecnico e dinamiche della concorrenza, collegando questi studi con tematiche schumpeteriane e schemi analitici derivati dagli economisti classici. Aspetto caratteristico del suo contributo è l’interesse per le conseguenze di progresso tecnico e mercati imperfettamente concorrenziali sulla dinamica ciclica delle grandezze macroeconomiche, l’attenzione per le tendenze di lungo periodo dei sistemi economici, e la messa a fuoco delle condizioni che determinano la realizzazione di quelle tendenze nei diversi contesti storico-istituzionali. Secondo Sylos Labini un’economia con organizzazione industriale fortemente concentrata tende a favorire investimenti a elevata intensità di capitale. In queste condizioni si genera disoccupazione tecnologica che non può essere superata in assenza di adeguati interventi di politica economica. Diviene quindi possibile derivare proposizioni centrali della General theory di Keynes a partire da «assunzioni obbiettive» anziché da «assunzioni psicologiche» considerate «un punto debole nella teoria keynesiana» (1962, p. 187). Nel complesso, la sua ricerca è caratterizzata dall’interesse per le dinamiche storiche dell’economia capitalistica considerata dal punto di vista (che Sylos Labini considera a essa peculiare) della coesistenza fra innovazione tecnologica, andamenti ciclici e trend progressivi di lungo periodo. In questa prospettiva, la relazione fra teoria economica e storia economica assume rilievo centrale. Non solo nel senso che la storia economica costituisce il terreno per esplorare le capacità euristiche degli schemi teorici, ma anche nel senso che non tutte le sistemazioni teoriche si prestano in linea di principio al confronto con le dinamiche storiche.
Come Sylos Labini (1961) osserva nella prolusione tenuta all’Università di Bologna, la considerazione principale
non sta tanto nell’immediata efficacia esplicativa di siffatti schemi teorici – una tale efficacia per definizione non c’è; sta invece nell’analisi critica delle successive approssimazioni. Se, partendo da ipotesi elementari, sia pure, almeno da principio, arbitrarie, è possibile avvicinarsi progressivamente ai fenomeni reali complicando o mutando le ipotesi senza incontrare ostacoli teorici insormontabili [...] quegli schemi sono validi; altrimenti non lo sono (p. 376).
Un aspetto caratteristico del contributo di Sylos Labini è l’attenzione per le condizioni di riproduzione del sistema economico secondo il punto di vista degli economisti classici e di Sraffa. In questa prospettiva, si delinea un’euristica che individua come problema centrale della dinamica economica la relazione tra fattori di cambiamento e condizioni strutturali di interdipendenza tra le attività economiche. Questa euristica è di evidente derivazione classico-schumpeteriana ma rivela anche la profonda influenza delle ricerche di Alberto Breglia (1950 e 1965). Sylos Labini considera l’andamento della produttività del lavoro un indicatore sintetico di fondamentale importanza per quanto riguarda la relazione tra processi microeconomici (o settoriali) e condizioni di riproduzione relative al sistema economico nel suo complesso. Questo spiega l’attenzione rivolta alla leggi classiche dei rendimenti crescenti e decrescenti (Smith e Ricardo): secondo Sylos Labini queste leggi forniscono importanti indicazioni circa il peso da attribuire ai distinti fattori da cui dipende la produttività del lavoro in diverse condizioni storiche e istituzionali.
La relazione tra mercati imperfettamente concorrenziali e dinamica economica è centrale nelle ricerche di Siro Lombardini a partire dai suoi studi sugli andamenti delle grandezze macroeconomiche in condizioni monopolistiche (1954). In una prospettiva diversa, e per certi aspetti anticipatrice di linee di ricerca affermatesi in seguito, Ercole Moroni applica lo schema analitico di Lotka-Volterra per la rappresentazione matematica della lotta per l’esistenza allo studio delle relazioni dinamiche fra due diverse tecniche di produzione (1957). In seguito, Lombardini sviluppa l’analisi delle premesse istituzionali dei modelli di equilibrio economico generale (1968), approfondisce i collegamenti fra premesse istituzionali e schemi teorici alla luce del confronto fra teoria neoclassica e «nuova analisi classica» (La distribuzione del reddito nella teoria economica, 1972; Lombardini, Nicola 1974), esamina le implicazioni di metodo collegate allo spostamento di attenzione da configurazioni di equilibrio a processi dinamici di disequilibrio evolutivo (1996).
Questa linea complessiva di ricerca è sviluppata in anni recenti da economisti che approfondiscono lo studio delle relazioni fra dinamiche imprenditoriali ed evoluzione strutturale dei sistemi economici nel lungo periodo. In questa prospettiva Giovanni Dosi prende in esame il collegamento tra evoluzione strutturale e cambiamenti della tecnologia in un quadro interpretativo di derivazione schumpeteriana. In particolare, Dosi (1982 e 1988) richiama l’attenzione sull’esistenza di sistemi coerenti di tecniche produttive (paradigmi tecnologici) e sulla distinzione fra dinamiche di carattere evolutivo (in cui il sistema economico rimane all’interno di un dato paradigma) e dinamiche di carattere strutturale (in cui il sistema si sposta da un paradigma all’altro).
La ricerca sugli andamenti macroeconomici nei processi di crescita si sviluppa attraverso contributi che partono dalla considerazione dei cambiamenti strutturali in un sistema economico caratterizzato da elevati saggi di crescita e mettono in evidenza la necessità di superare il punto di vista dell’analisi aggregata nell’analisi dello sviluppo. Il saggio di Pasinetti e Spaventa (1960) parte dalla considerazione dei modelli macroeconomici di crescita e individua problemi di efficacia euristica per questi modelli, dovuti all’impossibilità dell’analisi aggregata di mettere a fuoco condizioni ed effetti delle variazioni strutturali che accompagnano la dinamica della produttività. Le ricerche di Graziani, come si è visto, sottolineano l’impossibilità di trattare analiticamente processi di cambiamento strutturale mantenendo l’ipotesi di uniformità del saggio di profitto, e richiamano l’attenzione sulla necessità di saggi di profitto differenziati fra settori produttivi di un’economia dinamica. La linea di ricerca teorica avviata da Graziani prosegue attraverso approfondimenti che riguardano soprattutto la relazione tra «flusso circolare» statico e condizioni dinamiche per il suo superamento. In questa prospettiva, Graziani procede nella direzione di una teoria strutturale e dinamica delle relazioni fra moneta, credito e sviluppo economico. Il ruolo centrale della liquidità nella dinamica degli squilibri innovativi viene collegato alle modalità di svolgimento dell’intermediazione finanziaria in un’economia circolare. Graziani delinea su questa base una teoria monetaria della produzione in cui è essenziale l’analisi della distanza fra gruppi sociali, e in cui le posizioni dei gruppi rispetto all’accesso al credito determinano la rispettiva influenza su distribuzione del reddito e dinamica economica. In particolare, secondo Graziani, è importante distinguere fra gruppo dei produttori che «ha accesso al credito bancario e come conseguenza gode di un potere d’acquisto che non e’ limitato dal livello del reddito reale o dal possesso di ricchezza reale» e il gruppo «dei percettori di salario, che può soltanto spendere reddito già guadagnato» (2003, p. 26).
Questa linea di ricerca, da un lato, sottolinea l’importanza delle relazioni asimmetriche fra gruppi sociali e assegna a quelle relazioni una portata euristica fondamentale nella spiegazione della dinamica effettiva dei sistemi economici, dall’altro contribuisce a chiarire analiticamente il funzionamento di un’economia monetaria e della sua evoluzione nel tempo.
Diversi contributi degli anni Sessanta sulla dinamica non proporzionale dei sistemi economici assegnano un ruolo decisivo alla «legge di Engel». Questa generalizzazione empirica, così denominata dal nome dello statistico che la individuò in ricerche che risalgono alla metà del 19° sec. (Engel 1887), descrive processi in cui all’aumento del reddito pro capite fa riscontro un aumento meno che proporzionale del consumo di beni di prima necessità e un aumento più che proporzionale del consumo di altri beni. La legge di Engel svolge un ruolo centrale nelle ricerche di Antonio Pedone e Spaventa sull’analisi strutturale della domanda nei modelli di crescita economica e negli studi di Spaventa sui problemi delle economie dualistiche negli «stadi intermedi» di crescita.
La considerazione della legge di Engel costituisce un presupposto fondamentale del programma di ricerca sulla dinamica economica strutturale avviato in quegli anni da Pasinetti, e continuato sino agli anni più recenti. Nella formulazione iniziale di questa linea di ricerca, Pasinetti considera un sistema economico a n-1 settori verticalmente integrati in cui ciascun settore produce un bene finale di consumo (1965, p. 581). In uno stadio successivo di elaborazione analitica, ai flussi di beni di consumo sono aggiunti flussi di beni capitali. Infine, viene introdotta l’ipotesi che ciascuno dei settori che produce beni capitali «faccia beni capitali per sé stesso e per il corrispondente settore di beni di consumo» (1965, pp. 598-99). In questo sistema economico,
ciascuna produzione di beni capitali […] comprende non solo rimpiazzi e nuovo investimento per i settori dei beni di consumo, ma anche rimpiazzi e nuovo investimento per i settori dei beni capitali (p. 600).
La dinamica di questo sistema economico è caratterizzata da «un processo di apprendimento» in cui si modificano sia i metodi di produzione sia le preferenze dei consumatori (p. 578). In tale sistema la condizione di domanda effettiva per la piena occupazione tiene conto di «un processo assai complesso di cambiamento strutturale» che «deve avere luogo al di sotto di tutte le grandezze macroeconomiche» (p. 651).
In contributi successivi, Pasinetti sviluppa l’analisi della dinamica strutturale dei sistemi economici lungo due principali direzioni di ricerca. La rappresentazione analitica dei flussi interindustriali attraverso uno schema per settori verticalmente integrati permette di fondare su basi rigorose l’analisi empirica e teorica dei processi di cambiamento strutturale in un sistema economico multisettoriale. Una diversa ma complementare linea di indagine lo porta ad approfondire il ruolo delle ipotesi comportamentali e istituzionali nella teoria della dinamica economica strutturale. In questa prospettiva, Pasinetti elabora l’idea che esistano nei sistemi economici proprietà fondamentali e ‘naturali’ che possono essere studiate prescindendo da specifici contesti istituzionali di riferimento. Infine, le condizioni strutturali della dinamica di piena occupazione sono riproposte nel modello di un’economia di puro lavoro, in cui tutti i beni sono prodotti senza impiego di beni capitali o risorse non prodotte, e i collegamenti fra settori produttivi sono assicurati esclusivamente dalla domanda finale (Pasinetti 1993). In questa linea di ricerca due elementi acquistano un ruolo centrale: la condizione macroeconomica fondamentale espressa dalla relazione Σcili=1 (dove ci è il coefficiente di consumo medio pro capite per il bene i-esimo e li è il coefficiente di requisiti di lavoro per la produzione di ciascun bene) e il teorema di separazione.
Altre ricerche attorno alla metà degli anni Sessanta si sviluppano riguardo a punti specifici della dinamica strutturale dei sistemi economici. Paolo Leon esamina implicazioni della legge di Engel nell’ipotesi di un’economia capitalistica che abbia principi istituzionali in grado di consentire il coordinamento fra dinamica del progresso tecnico, mutamento nella composizione della domanda pro capite per beni di consumo, e mutamento nelle proporzioni fra settori (Leon 1965 e 1967). Il ragionamento di Leon parte dalla considerazione della tendenza di lungo periodo all’aumento del consumo di sussistenza pro capite (1967, p. 93). A causa della legge di Engel, questa tendenza fa sì che nel lungo periodo il consumo di alcune categorie di beni cresca più velocemente del consumo di altre categorie di beni. In queste condizioni si determina una differenziazione fra i saggi settoriali di profitto dovuta alla formazione di monopoli che a loro volta rafforzano questa tendenza (p. 112). La tendenza a un saggio uniforme di profitto fra le imprese di ciascun settore produttivo si accompagna alla tendenza alla differenziazione fra i saggi di profitto dei diversi settori, rendendo così compatibile l’aumento del consumo di sussistenza con il cambiamento nella struttura della produzione richiesto dalla legge di Engel (p. 112). In un successivo contributo (1981), Leon elabora un approfondimento di queste tematiche, soprattutto nella direzione dei presupposti istituzionali e organizzativi dell’economia della domanda effettiva.
Terenzio Cozzi (1969) studia le conseguenze della legge di Engel sulla struttura del sistema economico a partire dal modello multisettoriale di Pasinetti. In particolare, Cozzi introduce l’ipotesi che alcune grandezze economiche si modifichino nel tempo in modo continuo, anche se non necessariamente nella stessa direzione (livelli settoriali di produzione e di domanda, livelli di occupazione) e che altre grandezze si modifichino invece in modo discontinuo (coefficienti di produzione, velocità di introduzione di nuovi beni, cambiamenti nei livelli di consumo pro capite per i diversi beni). Questo punto di vista suggerisce a Cozzi la necessità di assegnare un ruolo centrale alla politica economica, al fine di consentire ai sistemi economici di superare strozzature e ritardi (p. 181). In particolare, Cozzi sottolinea l’esigenza che le misure di politica economica esercitino influenza nei riguardi dei livelli di domanda per i diversi settori senza limitarsi al governo delle grandezze macroeconomiche (p. 153).
Quadrio Curzio richiama l’attenzione sulle rigidità e strozzature alle quali un sistema economico è sottoposto nel corso di un processo di crescita a causa delle scarsità tecnologiche generate dall’esistenza di risorse non prodotte o solo limitatamente producibili. Questi vincoli condizionano la dinamica strutturale del sistema nel senso che imprimono un andamento caratteristico all’evoluzione strutturale delle sue grandezze. Secondo Quadrio Curzio (1967) la necessità di impiegare mezzi di produzione non riproducibili o di fatto non riprodotti richiede profonde trasformazioni strutturali in un sistema economico quanto più il sistema si trova a seguire un sentiero caratterizzato da elevati saggi di crescita. Questa linea di ricerca porta a prendere in considerazione i problemi posti dai collegamenti fra successivi periodi di produzione nel caso di un sistema economico sottoposto a vincoli di risorse scarse e costretto a passare da un insieme di tecniche produttive all’altro via via che si raggiungono i limiti della massima utilizzazione di particolari risorse. In queste condizioni si possono formare «residui» di mezzi di produzione ottenuti con tecniche divenute incompatibili con raggiunti vincoli di scarsità. Questi residui possono essere incompatibili con le tecniche produttive introdotte in presenza di quei vincoli, ma divenire nuovamente utilizzabili dopo il passaggio (dopo un certo numero di periodi) a tecniche produttive ancora diverse (Quadrio Curzio 1975). Strutture dinamiche di questo tipo rendono evidente da un lato la necessità di saggi più contenuti di crescita in presenza della formazione di residui, e dall’altro la possibilità di un aumento dei saggi di crescita (per alcuni settori o anche per il sistema economico nel suo complesso) qualora la dinamica della tecnologia renda possibile l’utilizzazione dei residui nel frattempo accumulati.
Negli anni successivi questa linea di ricerca viene sviluppata approfondendo la distinzione fra tecnologie globali e tecnologie composte, considerate rappresentazioni alternative di uno stesso sistema produttivo. In particolare, viene presa in esame l’applicazione delle tecnologie composte all’analisi di sentieri di dinamica economica non proporzionale. Su questo fondamento analitico vengono avviate indagini riguardanti le conseguenze della distinzione fra diversi ordini di efficienza delle tecniche produttive, gli effetti della formazione di rendite sull’antagonismo tra quote distributive, la distinzione fra progresso tecnico, in cui si ha «un aumento dell’efficienza fisica di una singola tecnica», e progresso tecnologico, in cui si ha «un aumento dell’efficienza fisica di una tecnologia composta» (Quadrio Curzio, Pellizzari 1996, p. 298). Il quadro complessivo di queste ricerche si richiama agli strumenti analitici degli economisti classici, e li orienta verso lo studio di situazioni dinamiche complesse in cui l’antagonismo-coesistenza fra producibilità e scarsità si manifesta attraverso scarsità relative riguardanti
tutti i processi o le tecniche o le tecnologie che hanno dei vincoli di scala per la scarsità di un qualsiasi fattore o per qualsiasi vincolo che comporta l’attività simultanea di due tecniche con diverso grado di efficienza (Quadrio Curzio, Pellizzari 1996, p. 334).
L’analisi strutturale dei vincoli di scala collegati a limiti superiori nella disponibilità di risorse non prodotte porta a riconoscere il carattere generale delle relazioni fra scala di produzione ed efficienza produttiva, al di là delle condizioni specifiche considerate nelle analisi classiche dei rendimenti crescenti e decrescenti. In questo modo si apre la strada a un’unificazione su basi strutturali della teoria economica delle relazioni tra scala ed efficienza produttiva (Scazzieri 1993).
La dinamica strutturale di un sistema economico è caratterizzata dalla sovrapposizione fra cambiamenti apparentemente trascurabili nel breve periodo, ma cumulativi e di grande rilievo nel lungo periodo, e cambiamenti evidenti nel breve e medio periodo ma non sempre duraturi nel lungo periodo (Pasinetti, Scazzieri 1987; Quadrio Curzio, Scazzieri 1990). Questa distinzione apre la strada allo studio delle dinamiche di medio periodo e all’analisi delle connessioni fra medio e lungo periodo. In questo ambito è possibile individuare tre principali linee di indagine. La considerazione dei sentieri di transizione da una configurazione all’altra di equilibrio dinamico è caratteristica delle ricerche che partono da una rappresentazione sequenziale dei processi economici. In questa prospettiva, Marco Fanno approfondisce e inserisce in un quadro sistematico ricerche sulla teoria delle fluttuazioni economiche avviate molti anni prima, Giovanni Caravale e Domenico Tosato esaminano i collegamenti fra dinamiche di equilibrio e sentieri di transizione in una sistemazione teorica di derivazione ricardiana (Caravale, Tosato 1980).
Carlo Casarosa (1978) studia la relazione tra configurazioni «naturali» ed equilibri di mercato in un’economia ricardiana in condizioni di crescita. Lo schema analitico ‘neo-austriaco’ elaborato da Hicks in Capital and time (1973) è alla base di contributi che studiano le caratteristiche dei sentieri di transizione in economie di produzione strutturate secondo sequenze temporali (Amendola, Gaffard 1987 e 1998; Zamagni 1984). Le ricerche di Hicks e Richard Goodwin sulle dinamiche cicliche costituiscono il punto di partenza di studi sulle dinamiche cicliche non lineari, in parte anticipati da Marrama (1946; v. anche Medio 1979; Nonlinear models of fluctuating growth, 1984; Goodwin, Punzo 1987). I tentativi di costruire schemi di teoria della produzione che siano in grado di superare la visione a scatola nera del processo produttivo (Tani 1976; Morroni 1992; Scazzieri 1993) sono collegati a ricerche sulle dinamiche ‘interne’ dei processi di cambiamento tecnologico (v. Production and economic dynamics, 1996) e a confronti tra approcci alternativi nella rappresentazione analitica dei sistemi produttivi (Kurz, Salvadori 1995).
Le proposte di politica economica avanzate dagli economisti nel corso della storia dell’Italia repubblicana – realizzatesi o meno – hanno sempre trovato retroterra e fonte d’ispirazione nelle visioni teoriche e nei modelli analitici sulla cui base la vicenda concreta della nostra economia è stata da essi interpretata.
Da un lato, la cangiante ispirazione che a tali proposte fa da sottofondo non si sottrae all’influenza delle teorie economiche di volta in volta dominanti a livello internazionale: così, in una prima fase si respira il clima del liberalismo classico basato sulla teoria dell’equilibrio economico generale e sulla sua versione normativa, la teoria del benessere, nella declinazione alla Robbins allora dominante; mentre, negli anni Sessanta, nel dibattito di politica economica si affermano schemi concettuali basati piuttosto sui modelli di sviluppo e di crescita d’ispirazione keynesiana o strutturalista, e sull’idea di un indirizzo pubblico dell’economia, da realizzarsi attraverso la programmazione per porre rimedio ad alcuni «fallimenti» del mercato. Successivamente, come altrove nel mondo, si avvia e si compie, a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, la transizione dal paradigma teorico keynesiano a quello monetarista. E, dagli anni Novanta in poi, pur nella molteplicità degli schemi in cui si frange l’analisi economica, emerge l’approccio teorico-politico neoliberista che, sebbene non maggioritario tra gli economisti italiani, viene assunto come guida ispiratrice – a livello teorico, e con diversi gradi di fede – delle scelte dell’una e dell’altra maggioranza di governo.
D’altro canto, pur collocandosi nell’ambito di queste grandi linee, sincroniche con quelle del resto del mondo, il contributo degli economisti italiani in tema di politica economica presenta spesso caratteri di originalità sostanziale: ciò avviene quando essi riescono a sviluppare autonomamente la struttura teorica del loro ragionamento, anche attraverso il raccordo con le tradizioni del pensiero economico, storico e, talvolta, filosofico, italiano e non; e a fertilizzarla con l’analisi empirica, finalizzata alla comprensione dei problemi specifici della nostra economia.
Questa parte del saggio si propone di ripercorrere sinteticamente, attraverso l’esame dei contributi di alcuni protagonisti, le grandi linee delle interazioni tra le proposte di politica economica da un lato e, dall’altro, le teorie economiche e i modelli interpretativi che ne sono alla base. Pur essendo evidente l’intreccio con la vicenda storica della nostra economia nel periodo postbellico, dovremo qui dare tale vicenda per nota, rimandando alla letteratura sul tema (trattazioni sintetiche e proposte interpretative sono in Nardozzi 2004; Signorini, Visco 1997; per uno studio approfondito della politica economica in Italia nel periodo postbellico si veda il classico Valli 1995).
Nella sua densa – anche politicamente – disamina del dibattito economico negli anni della ricostruzione, Piero Barucci ricordava che fino al maggio 1947, mese che segnò una sostanziale discontinuità nel dibattito sulla politica economica, ci fu «una stagione che produceva dei frutti intellettuali non così diversificati come accadrà di lì a pochi anni» (1978, pp. 60 e 45). Fino a quel momento, non solo «il senso comune […] fu che la ricostruzione poteva avvenire seguendo un piano» (p. 33); ma, anche nella riflessione sui fondamenti più duraturi da dare all’economia del Paese, si era visto un De Gasperi, per es., scrivere che:
la costituzione economica di uomini liberi non si crea […] con cieco automatismo delle forze libere in gara come aveva sperato il liberalismo classico, ma si forma sotto il vigile controllo dello Stato che deve intervenire a disciplinare le forze libere e preservarle dagli uomini di preda (cit. in Barucci 1978, p. 59).
La scansione temporale proposta da Barucci trova conferma nel fatto che, proprio nel maggio del 1947, l’8 e il 9 per la precisione, ebbe luogo all’Assemblea Costituente un dibattito che segnò l’inizio della nuova fase. Le forze politiche si confrontarono in quell’occasione sull’ammissibilità di un riferimento alla parola «piano» nella nostra costituzione economica, nell’ambito della discussione sulla formulazione dell’art. 31 (poi divenuto art. 35) sulla tutela del lavoro. Come si legge negli atti parlamentari relativi alla seduta dell’8 maggio, un emendamento (presentato dapprima da Vittorio Foa, che poi lo ritirò per convergere su quello presentato da Mario Montagnana e recante le firme dello stesso Foa, e di Giancarlo Pajetta, Antonio Pesenti, Ruggiero Grieco e Renzo Laconi) proponeva di inserire il seguente comma: «Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l’attività produttiva, secondo un piano che dia il massimo rendimento per la collettività».
La proposta suscitò scandalo, scalpore e preoccupazione, anche nella stampa del 9 maggio, perché l’introduzione di un «piano» economico tra gli strumenti a disposizione dello Stato fu vista come un colpo di mano dei comunisti per introdurre il socialismo e il collettivismo in Italia.
Pajetta, per smorzare l’allarme, spiegò che per piano bisognava intendere semplicemente un programma di politica economica, secondo quanto facevano tutti i Paesi democratici. In effetti, erano di quegli anni il ‘piano Beveridge’, avviato nel 1944 in Inghilterra, e il ‘Plan de modernisation et d’equipment’ o ‘piano Monnet’ lanciato nel 1946 in Francia. Contemporaneamente, in questi Paesi venivano nazionalizzate molte importanti industrie. Nei Paesi Bassi fu istituito un Ufficio centrale per la pianificazione, affidato a Jan Tinbergen. Nell’occasione della discussione del 9 maggio, Pajetta propose anche di sostituire la parola dirigere con orientare, e la frase «che dia il massimo rendimento per la collettività» con «che assicuri il massimo di utilità sociale».
Forse, se Pajetta fosse stato aggiornato sugli sviluppi della teoria del benessere, avrebbe evitato di sollecitare sul tema del «massimo di utilità sociale» un’assemblea alla quale partecipava Luigi Einaudi (che a fine mese sarebbe diventato vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio del IV Gabinetto De Gasperi). Einaudi intervenne subito in punta di dottrina per smontare il concetto di «massimo di utilità sociale», data l’impossibilità di stabilire «un ponte tra l’utilità di un individuo e quella di ogni altro individuo»: le utilità individuali non si possono paragonare, non si possono sommare e così via. Inoltre, a detta di Einaudi, l’emendamento in discussione voleva conciliare l’inconciliabile, cioè il principio già approvato dalla Costituente della libertà di scelta da parte dei cittadini circa la propria attività o funzione economica, e l’imposizione di un piano da parte dello Stato, perché: «il piano non può logicamente e di fatto consentire la libera scelta della professione, del mestiere o dell’arte da parte dell’individuo». L’idea del piano implicava logicamente quella del «lavoro coatto» (Einaudi 1947, pp. 3778 e 3779).
La reazione di Einaudi si ispirava alla posizione teorica in tema di economia del benessere allora dominante, quella positivista à la Robbins. Questi, negli anni Trenta aveva rinchiuso quella nobile branca della teoria economica dentro una «piccola scatola» (Sen 1988, p. 33), in virtù della combinazione da lui introdotta tra il fondamento strettamente utilitarista e l’idea dell’impossibilità dei confronti interpersonali dell’utilità. Naturalmente, fuori da quella piccola scatola, esiste la possibilità di ordinare gli esiti sociali e di scegliere tra essi in base a una funzione del benessere sociale, come lo sviluppo della teoria avrebbe dimostrato (si pensi, per es., ai contributi dello stesso Sen, di John Rawls e di Tony Atkinson). Ma non poteva saperlo né prevederlo Pajetta, che evidentemente aveva in mente proprio la scelta tra esiti sociali alternativi, in riferimento nel caso specifico alla realizzazione del diritto al lavoro.
Epicarmo Corbino, a differenza di Einaudi, intervenne in forma «politica», e non raccolse nemmeno la provocazione di Pajetta, che l’aveva definito «l’ultimo dei mohicani» in tema di difesa del liberismo economico. Corbino affermò anzi che «noi liberali non vogliamo ostacolare la marcia del socialismo», dato che si era ormai celebrato il «crepuscolo del liberismo» (a causa della perdita di autonomia dei «veri capitani d’industria», divenuti dipendenti «dalle dande della politica governativa» durante la Prima guerra mondiale: «allora è finito, probabilmente, dal punto di vista storico, il regime capitalistico e il regime liberista» (Corbino 1947b, p. 719). Nella riunione di quel 9 maggio, l’economista siciliano sottoscriveva, sul piano della dottrina, l’idea dell’impossibilità di definire l’utilità sociale, «luminosamente» dimostrata da Einaudi; ma poi affermava che in fondo quello che conta non è
il massimo di utilità sociale – che non esiste – ma quel massimo di utilità sociale che dalla classe dominante è volta per volta riconosciuto corrispondente alla definizione che dovremmo dare nella Costituzione.
Insomma, si trattava di trovare un accordo su una definizione che non legasse troppo le mani a ciò che «la classe dirigente» avrebbe desiderato stabilire di volta in volta. Egli quindi riconduceva la questione, più che a «un problema di economia politica», a «un problema di politica in senso stretto», anche con riferimento alle ripercussioni negative che «l’impiego della parola “piano” nella nostra Costituzione» avrebbe potuto avere in sede internazionale, dato l’assoluto nostro bisogno degli aiuti esteri (Corbino 1947a, pp. 3784-85). Di lì a poco, ironia della storia, dagli Stati Uniti gli aiuti sarebbero venuti proprio nella forma di un ‘piano’: il piano Marshall. E sarebbe arrivato anche il famoso country study dell’ECA (Economic Cooperation Administration), che criticava la mancanza di un programma d’azione, suggeriva all’Italia di costituire un’«autorità di piano» e richiedeva piani e bilanci in tema di investimenti, amministrazione del credito, importazioni, controllo delle licenze e dei cambi (P. Hoffman, Country study dell’ECA sull’Italia, 1949).
Quel 9 maggio del 1947 l’emendamento Montagnana insomma non passò. L’episodio è un piccolo punto di una tela complessa la cui trama – gli scontri, gli accordi, le convergenze, le mediazioni – non si conchiude certo nella contrapposizione che si registrò alla Costituente in quei due giorni di maggio (votò contro Paolo Emilio Taviani, e fu contrario anche Ferruccio Parri). La scelta politica tra le alternative dipese, come sempre, dalle forze economiche, politiche e sociali in gioco e dai loro interessi, oltre che dai vincoli internazionali evocati da Corbino. Ma è anche vero che non mancò in quella occasione alla soluzione politica vincente, come si è visto, il contributo della teoria economica in una sua particolare formulazione.
Un altro contributo teorico alla formazione dell’opinione pubblica colta, nella stessa direzione, era venuto nel 1946 da Costantino Bresciani Turroni (il quale pure assunse in quegli anni posizioni non strettamente ortodosse in tema di bilancia dei pagamenti), con la traduzione di una raccolta di saggi curata da Friedrich A. von Hayek, Collectivist economic planning. Si trattava della riproposta dell’argomentazione ‘austriaca’ a favore del libero mercato, fondata sulla funzione informativa dei prezzi, da cui scaturirebbe l’impossibilità di raggiungere l’efficienza allocativa in un’economia pianificata (C. Bresciani Turroni, Prefazione a Pianificazione economica collettivista, a cura di F.A. von Hayek, 1946). Interessante è tra l’altro, in quest’operazione editoriale, l’esclusione di un famoso contributo (che compariva nell’originale inglese), risalente al 1908, di un economista italiano di grande livello, Enrico Barone.
Barone, seguito poi da Oskar Lange negli anni Trenta, aveva dimostrato la possibilità per un’economia pianificata di derivare, avendo fissato ex-ante la distribuzione, un sistema di equazioni dotato di soluzioni uniche «nello stesso senso e con le stesse qualificazioni in cui lo fa un sistema capitalistico perfettamente concorrenziale» (Schumpeter 1954, pp. 988-89). In altri termini, ciò che Barone aveva dimostrato era la possibilità per un’economia pianificata di funzionare altrettanto efficientemente di un’economia di mercato, ma questo contributo venne espunto dalla traduzione italiana del volume di Hayek.
La teoria economica svolgeva dunque in quegli anni un ruolo non secondario, contribuendo a dare forma e dignità alle scelte economiche scaturenti dalla dialettica tra le forze economiche e politiche in campo. Tra le forze economiche si deve ricordare in primo luogo la Confindustria,
che assunse fin dalla sua ricostituzione un orientamento apertamente contrario a interventi di coordinamento settoriale da parte dello Stato, tanto da valutare pregiudizialmente pericoloso e inaccettabile ogni progetto di programmazione industriale concertato con il governo (Arrighetti, Seravalli, in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, 1997, p. 370; cfr. anche Lavista 2010, pp. 486-87);
diversamente da quanto avveniva in quegli anni in Francia e in Germania. A questa osservazione va aggiunta la constatazione che «allora [cioè in occasione della svolta del 1947] e più che altro dopo, i progetti di legge di natura economica erano preparati da esperti delle organizzazioni imprenditoriali, al di fuori degli uffici governativi» (Barucci 1978, p. 131).Venendo alle forze politiche, bisogna aggiungere che le possibilità di avviare lo sviluppo italiano sulla base di un piano, comunque definito, erano in tutti i casi davvero limitate, se perfino Palmiro Togliatti era contrario a una tale ipotesi:
la rivendicazione di un piano economico nazionale in questo momento […] secondo me è utopistica […] anche se fossimo oggi al potere da soli, faremmo appello per la ricostruzione all’iniziativa privata, perché sappiamo che vi sono compiti a cui sentiamo che la società italiana non è ancora matura (Discorso al Convegno economico del PCI, Roma, 21-23 agosto 1945, ripubbl. in Graziani 1972, pp. 111-13).
Togliatti certamente sapeva, ma non diceva, che alla situazione della società italiana, così come da lui descritta, non era estranea la linea del Partito comunista italiano, nel senso che questa linea contribuiva a determinare quella situazione (esiste poi un dibattito storiografico su quanto la linea del Partito comunista fosse autonoma o dipendente a sua volta da quella sovietica; v. E. Aga-Rossi, V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, 1997; S. Pons, Il fattore internazionale nella “leadership” di Togliatti, 1944-1964, «Ricerche di storia politica», 3, 2002, pp. 403-13).
Come risultato di tutti questi fattori, il tema del piano venne, per il momento, accantonato. Ma, come un fiume carsico, esso avrebbe continuato a scorrere nelle vene del dibattito economico e politico italiano (si ricordino il Piano del lavoro della CGIL e lo Schema Vanoni), per riemergere alla superficie negli anni Sessanta allorché, maturata la svolta verso il centro-sinistra, si pose l’esigenza di un intervento organico dello Stato per l’avvio di un processo di sviluppo meno «squilibrato» di quello realizzatosi fino ad allora.
Gli squilibri del modello di crescita dell’economia italiana furono denunciati nella famosa Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa, ministro del Bilancio, nella primavera del 1963. Si trattava di squilibri territoriali (Nord-Sud); di squilibri settoriali (agricoltura e industria); e della «distorsione» dei consumi, cioè del coesistere di consumi caratteristici di livelli elevati di reddito con la mancata soddisfazione di alcuni bisogni primari, e con la carenza di servizi pubblici, specie nel campo dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria.
È questa la prima volta che nel dopoguerra si impone a livello teorico-politico il problema di scegliere un modello di sviluppo per l’Italia, mentre la discussione precedente aveva riguardato da un lato le grandi scelte di fondo sulla collocazione internazionale del Paese e sulla sua costituzione economica, dall’altro la soluzione di problemi specifici, ancorché molto rilevanti, come quello della ricostruzione, dei prestiti esteri, della politica monetaria e di bilancio e così via. In estrema sintesi, la programmazione viene vista in questa fase come lo strumento più idoneo alla soluzione dei «dualismi» dello sviluppo italiano, in primo luogo di quello territoriale tra Nord e Sud; al governo del conflitto distributivo; alla promozione di un modello economico-sociale in grado di garantire il conseguimento non solo degli obiettivi economici, ma anche di quelli del progresso sociale e civile del Paese. Un obiettivo centrale è il riassorbimento della disoccupazione, che in gran parte si collocava, come ancora oggi si colloca, nel Mezzogiorno. Almeno nelle intenzioni di alcuni dei principali protagonisti di questa fase storica, per realizzare questi molteplici obiettivi occorreva promuovere una linea riformista incentrata principalmente sulla crescita degli investimenti, privati e, soprattutto, pubblici.
Sul piano interpretativo, viene ripresa la tradizione del meridionalismo classico, e gli altri filoni del pensiero civile ed economico italiano (Francesco Saverio Nitti, Antonio De Viti de Marco, Luigi Einaudi, Gaetano Salvemini, Antonio Gramsci, Piero Gobetti, Benedetto Croce, Emilio Sereni). Ma ci si ricollega anche, in alcuni casi, alle riflessioni storico-filosofiche sui caratteri del modello economico-sociale capitalistico.
Sul piano della modellistica, le proposte di politica economica si basano, da un lato, sui modelli macroeconomici aggregati e disaggregati, e soprattutto sui modelli di crescita postkeynesiani o strutturalisti; dall’altro, sul piano microeconomico, gli economisti superano l’ipotesi della concorrenza perfetta, per confrontarsi con la realtà della grande impresa e dell’oligopolio. Il problema della distribuzione del reddito viene sempre più di frequente esaminato su basi non marginaliste. L’interesse per il problema distributivo è stimolato dalla ripresa del conflitto sociale, in seguito alle lotte operaie che si diffondono all’inizio degli anni Sessanta, dopo la compressione salariale del decennio precedente, ed esplodono poi ancora con più forza alla fine del decennio, con l’autunno caldo, determinando una dinamica salariale più elevata di quella della produttività tra il 1969 e il 1973. Da un certo punto di vista, la ripresa della dinamica salariale può essere vista come un semplice recupero rispetto agli andamenti del decennio precedente, nel corso del quale gli incrementi salariali erano stati inferiori alla crescita della produttività. Tuttavia, è indubbio che essa cambiava i dati del problema economico, perché sia le imprese sia i governi e le istituzioni, tra cui la Banca d’Italia, avevano fino a quel momento dato per scontata la moderazione salariale come condizione della crescita e della stabilità macroeconomica.
Veniamo dunque a un’analisi più puntuale dei principali schemi interpretativi e delle principali proposte di politica economica avanzati nel periodo in esame.
I primi schemi teorici per la programmazione si basano, alla radice, su un modello postkeynesiano di crescita alla Harrod-Domar. Questo approccio parte dalla semplice constatazione che la produzione nazionale è data dal prodotto tra la produttività del lavoro e il numero di lavoratori occupati. Se, dunque, si parte da una situazione di piena occupazione, affinché questa sia mantenuta nel tempo occorre che il tasso di crescita di equilibrio della produzione (cioè il tasso ‘giustificato’ dalla crescita della domanda finale) sia uguale al tasso di crescita ‘naturale’ che è dato, a sua volta, dalla somma del tasso di crescita della produttività e del tasso di crescita della popolazione.
A questo modello si era ispirato Pasquale Saraceno già nell’elaborazione del pionieristico Schema Vanoni, proposto nel 1954 (ma senza una valenza immediatamente operativa), di cui egli era stato autore insieme ai suoi collaboratori della SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno). Pur proponendo in seguito uno schema più disaggregato (secondo le linee dei modelli di crescita strutturalisti, alla Rosenstein Rodan e alla Chenery), Saraceno continuò a ragionare sulla base del modello postkeynesiano negli anni successivi, in particolare nella sua attività di vicepresidente della Commissione nazionale per la programmazione economica (CNPE, o CPE), istituita nel 1962 e presieduta dal ministro del Bilancio Ugo La Malfa, nel cui ambito Saraceno fu anche presidente del Comitato degli esperti. La CNPE faceva seguito alla Commissione Papi (così detta dal nome del suo presidente Giuseppe Ugo Papi), precedentemente istituita dal ministro del Bilancio Giuseppe Pella, nel 1961.
In questi anni, dunque, Saraceno applicò ancora il modello Harrod-Domar, facendo riferimento però non a una situazione iniziale di piena occupazione, bensì a una situazione di grave disoccupazione, come quella propria dell’economia italiana. In maniera logicamente conseguente, egli ne derivava la necessità di realizzare un tasso di crescita più alto di quello della produttività, al fine di assorbire sia la disoccupazione sia la crescita della popolazione. Come egli scrisse in una lettera a Silvano Andriani, membro della Commissione, il 16 novembre 1962:
Un punto resta però fermo dello Schema Vanoni; ed è che finché esistono disoccupati e sottoccupati, primo obiettivo della politica di sviluppo è di ottenere che il saggio di sviluppo sia notevolmente più alto del saggio di aumento della produttività (cit. in Cristiano 2006, pp. 296-97, corsivo aggiunto).
Anche il nesso tra obiettivi e strumenti fu chiarito senza equivoci da Saraceno al Convegno di S. Pellegrino della Democrazia cristiana (DC), nel 1961: quando le convenienze del settore privato non coincidessero con quelle della programmazione, quest’ultima si sarebbe servita dell’impresa pubblica per la formazione di «capitale direttamente produttivo»:
Ci troviamo in presenza di un sistema di mercato che non solo non è in grado, ma neppure può essere posto in grado di avviare il risparmio nazionale verso gli impieghi che la Società Nazionale intende promuovere. In una situazione del genere diviene non solo legittima ma necessaria la costituzione di aziende pubbliche di produzione. Esse svolgeranno un’attività integratrice dell’iniziativa privata nell’ipotesi che questa neppure si proponesse di dar corso agli investimenti richiesti dal processo di sviluppo; tale attività sarà invece sostitutiva di quella privata nei casi in cui il processo di sviluppo si proponga di dar luogo a unità che l’iniziativa privata avrebbe altrimenti fatto sorgere in altre regioni del paese e la cui convenienza viene a cadere in seguito all’iniziativa pubblica. La politica di sviluppo si caratterizza dunque, rispetto ai precedenti tipi di politica economica, per la rilevanza, si potrebbe dire, per l’imponenza dell’azione svolta nella formazione di capitale direttamente produttivo (cit. in Lombardini 1967, p. 61).
Un aspetto della filosofia sociale sottostante all’approccio di Saraceno si può leggere in una sua successiva considerazione, che risale al 1969:
Allora come oggi, gli squilibri più acutamente avvertiti derivano dal mancato appagamento di una diffusa esigenza di minore disuguaglianza tra i cittadini, appagamento non conseguibile se obbiettivi, risorse e modalità di azione non sono ordinati in un programma: la programmazione […] non è un principio astratto [...] ma nasce dalla persuasione che situazioni di minore disuguaglianza – in particolare la soluzione del problema meridionale – non possono essere raggiunte automaticamente, per effetto di un sistema che ci si riserva di regolare solo al momento in cui certe tensioni diventano intollerabili (Saraceno 1974, p. 385).
Il già menzionato studio condotto da Carlo Cristiano sulle carte Saraceno consente anche di vedere in controluce le divergenze teorico-politiche tra i membri della Commissione. In una lettera del 10 gennaio 1963, Ferdinando di Fenizio scrive a Saraceno:
I documenti riguardanti il futuro disegno della relazione conclusiva della C.P.E. sono […] così reciprocamente disformi da non potersi in alcun modo conciliare [….] In particolar modo dissento: (a) da ogni impostazione che conduca direttamente o indirettamente l’economia italiana da un sistema economico di mercato ad un sistema economico diretto dal centro (b) da molte delle correnti proposte in tema di aree edificabili (c) dalla proposta Fuà-Sylos in base alla quale imprese private dovrebbero “sottoporre i loro piani d’investimento agli organi centrali della programmazione”. Giudico anche pericoloso […] che il governo influisca sulle decisioni d’investimento di tutte le grandi imprese (pubbliche e private) “attraverso opportune negoziazioni” (cit. in Cristiano 2006, p. 298).
A differenza di Saraceno, Di Fenizio, come Papi, vedeva la programmazione come un insieme di previsioni atte a orientare la normale gestione della politica economica, senza proporre interventi intesi a intervenire sul processo di accumulazione o a guidare la trasformazione strutturale del sistema. Questi due economisti accettavano quindi la programmazione «indicativa», mentre rifiutavano quella «normativa»: era stato proprio Papi a formulare questa distinzione nella sua relazione a un convegno su “Pianificazione economica in regime democratico” tenutosi nel 1953 all’Accademia dei Lincei (Barucci 1978, pp. 253-57). Si trattava, tra le linee presenti nella Commissione, di quella più vicina al liberismo.
Altri membri della Commissione, nell’ambito dei lavori della Commissione stessa o parallelamente a essa, proposero contributi originali sul tema della programmazione.
Claudio Napoleoni, collaboratore di Saraceno alla SVIMEZ all’epoca della formulazione dello Schema Vanoni, e di La Malfa nella formulazione della Nota aggiuntiva, poi membro della già menzionata Commissione di esperti, innestava il suo contributo su una riflessione di natura teorica costruita a cavallo tra marxismo, storia del pensiero economico e sviluppi recenti della teoria economica. Nell’approccio di Napoleoni, un ruolo fondamentale svolgevano la concezione classica dell’accumulazione, declinata soprattutto nella versione smithiano/marxiana centrata sul ruolo del lavoro produttivo come fonte dell’accumulazione; la critica del mercato come meccanismo di coordinamento inadeguato alla promozione del pieno sviluppo delle forze produttive; l’idea del conflitto fra le classi sociali come inerente alla produzione capitalistica a causa della separazione tra lavoro e capitale, piuttosto che come mero conflitto distributivo; l’approccio «strutturale», piuttosto che keynesiano, alle prescrizioni di politica economica. Su tali basi Napoleoni impostava la sua critica del meccanismo di sviluppo seguito dall’economia italiana negli anni Cinquanta, che a suo modo di vedere era stato trainato dalla crescita delle esportazioni e della domanda di consumi, mentre insufficiente era stata la crescita degli investimenti in capitale fisso. Ciò aveva determinato due ordini di conseguenze, rispettivamente sulla creazione della capacità produttiva e sullo sviluppo della produttività del lavoro.
Dal primo punto di vista, la crescita della capacità produttiva, affidata alle convenienze del settore privato, era stata inferiore a quella potenziale. Un tasso di crescita più elevato avrebbe invece potuto essere conseguito se si fosse adottata una politica di sviluppo programmata, basata su una «regola diversa da quella fornita dal puro meccanismo di mercato» e tesa a promuovere la crescita dell’investimento anche attraverso la temporanea compressione dei consumi, specie di quelli opulenti. Una tale politica, nel più lungo periodo, avrebbe non solo consentito una maggiore espansione dei consumi stessi, ma soprattutto avrebbe promosso, con opportune misure di dislocazione territoriale degli investimenti industriali, il superamento degli squilibri regionali (Napoleoni 1962). Da questo primo punto di vista, quindi, Napoleoni articolava il suo discorso in termini che oggi si definirebbero di allocazione intertemporale delle risorse, facendo della programmazione il mezzo per la riallocazione delle risorse disponibili verso i consumi futuri e anche per la risoluzione degli squilibri regionali.
Dal secondo punto di vista, un ulteriore difetto del modello di sviluppo italiano era il troppo basso rapporto capitale/lavoro, che aveva avuto conseguenze frenanti sulla crescita della produttività. Una massiccia politica di investimenti in capitale fisso avrebbe invece consentito una forte crescita della produttività senza andare a scapito dell’occupazione (Napoleoni 1964). L’insufficiente crescita della produttività, a sua volta, aveva potuto essere tollerata dall’economia italiana finché era durata la moderazione salariale, ma il nodo era venuto al pettine quando la dinamica salariale si era rimessa in moto nel 1963: ne era scaturita allora la flessione dei profitti, e quindi il rallentamento dell’accumulazione e al tempo stesso il peggioramento dei conti con l’estero, per la perdita di competitività dell’industria italiana. Alla base delle conseguenze indesiderabili del meccanismo di sviluppo, era convinzione di Napoleoni, stavano non solo l’insufficiente formazione di risparmio, ma anche l’uso non ottimale del risparmio effettivamente realizzato, a causa degli sprechi e della rendita, soprattutto nell’edilizia e nell’agricoltura. La programmazione diventava così per Napoleoni la base per un’alleanza tra capitale e lavoro contro la rendita e il consumo improduttivo. Da tale alleanza avrebbero potuto scaturire, attraverso una politica dei redditi, non solo la liberazione di risorse da destinare all’accumulazione di capitale, ma anche il graduale superamento del mercato come meccanismo di allocazione delle risorse stesse. Sulla linea dell’alleanza tra capitale e lavoro contro la rendita, nell’ambito di uno sviluppo programmato, si assesterà sostanzialmente, pur con alcune oscillazioni, la posizione di Napoleoni negli anni Settanta (Bellofiore, Beltrame, in La formazione degli economisti in Italia, 1950-1975, 2004, p. 217). Questo ordine di proposte non smetterà di intrecciarsi, nella riflessione di Napoleoni, con una prospettiva più generale e insieme più radicale: la prospettiva di un possibile superamento del lavoro salariato, inteso come fonte dell’alienazione del lavoro stesso.
Sul tema della programmazione in un’ottica di sviluppo si cimentarono altri due membri della Commissione degli esperti presieduta da Saraceno, Giorgio Fuà e Paolo Sylos Labini, i quali proposero nel 1963 un piano a lungo termine che collegasse in un quadro di compatibilità i diversi obiettivi: occupazione, riequilibrio territoriale nei tassi di crescita della produttività e delle remunerazioni, redistribuzione territoriale della produzione e miglioramento della struttura dei consumi e della distribuzione del reddito. La crescita degli investimenti privati era uno dei motori fondamentali dello sviluppo, ed esso richiedeva la garanzia di un certo «valore minimo dei profitti». Ma, essendo i profitti correnti notevolmente superiori a questo minimo, a causa del ritardo accumulato dai salari rispetto alla crescita della produttività durante il decennio precedente, era possibile e, anzi, auspicabile una redistribuzione del reddito a favore dei salari; mentre l’eliminazione delle persistenti, ampie fasce di rendita avrebbe consentito una crescita non inflazionistica. Una volta ottenuta tale redistribuzione, l’incremento dei salari avrebbe dovuto essere poi, nel futuro, in linea con quello della produttività: un obiettivo raggiungibile soltanto con il coinvolgimento dei sindacati nell’elaborazione e nella realizzazione della politica di programmazione. Riorganizzazione della pubblica amministrazione, riforma del commercio, riforma del sistema tributario nel senso di una maggiore progressività, politiche industriali, aumento delle spese per l’istruzione, potenziamento dell’edilizia popolare, politiche per il Mezzogiorno completavano la rosa degli interventi proposti dai due economisti, per i quali, come per l’altro componente della Commissione, Siro Lombardini, la programmazione era il mezzo per «trasformare il sistema economico sociale» in una direzione progressista (Lombardini 1967, p. 82; Fuà, Sylos Labini 1963).
Successivamente, Sylos Labini interpretò gli effetti dei conflitti salariali del 1961-62 e del 1969-70 alla luce di uno schema teorico in cui i prezzi sono formati sulla base del principio del costo pieno, e gli investimenti industriali, perno centrale della crescita economica, sono funzione della quota dei profitti sul valore aggiunto dell’industria, del grado di utilizzazione degli impianti, e della liquidità presente nel sistema (Sylos Labini 1972, in partic. parte terza, pp. 117-63). Applicando questo schema interpretativo, egli mostrava come i profitti dapprima subirono una pressione al ribasso per effetto sia dell’espansione delle rendite, specie nel settore immobiliare e commerciale, sia della forte ripresa della dinamica salariale sviluppatasi all’inizio degli anni Sessanta, dinamica a sua volta spiegata dalla riduzione del tasso di disoccupazione, dall’aumento del costo della vita e dalla «combattività» sindacale (pp. 71-72). La caduta dei profitti, tuttavia, fu dapprima (1962-63) frenata dalla crescita della domanda e, di conseguenza, dall’aumento del grado di utilizzazione degli impianti: furono quindi deboli in questa fase gli effetti negativi sugli investimenti. Ma questi ricevettero poi il «colpo di grazia» dalla politica restrittiva messa in atto dalle autorità monetarie nel 1963 e mantenuta negli anni successivi; politica che determinò anche la caduta degli investimenti pubblici, proprio in concomitanza con la drammatica caduta di quelli privati (dal 1965 in poi).
Da tale analisi l’autore faceva scaturire un’esplorazione dei rapporti tra capitale pubblico e capitale privato. A suo parere vi era stato, per buona parte degli anni Sessanta, un «conflitto fra il finanziamento dei due settori [quello pubblico e quello privato]» che si sarebbe estrinsecato anche attraverso la fissazione del «volume complessivo di mezzi di finanziamento» (emissione di base monetaria più emissione di titoli pubblici). Secondo l’autore, che critica la politica economica governativa e la politica monetaria nota come «linea Carli»:
l’andamento gravemente insoddisfacente degli investimenti industriali compiuti dalle imprese pubbliche non può essere attribuito che ad una linea politica di contenimento dei suddetti investimenti adottata dal governo per evitare che le imprese pubbliche facessero concorrenza a quelle private nel mercato dei capitali e presumibilmente anche per rassicurare l’industria privata, dopo il trauma della nazionalizzazione dell’energia elettrica (Sylos Labini 1972, p. 125).
In seguito, tuttavia, l’intensificazione della combattività operaia, sia sul terreno salariale sia su quello delle riforme durante l’autunno caldo, e la forte caduta dei profitti e degli investimenti privati avrebbero imposto una «svolta» alle politiche governative verso l’industria pubblica, di nuovo rilanciata in funzione centrale. Il punto da indagare, concludeva l’autore, era quale sarebbe stato lo sbocco di questo rilancio:
uno sbocco di tipo socialistico, ossia una crescente effettiva pubblicizzazione dei mezzi di produzione, accompagnato da un crescente controllo politico e da una crescente partecipazione “dialettica” degli operai e dei tecnici ai poteri decisionali, fin qui riservati a ristretti gruppi d’industriali e di dirigenti. O al contrario una crescente compenetrazione fra potere economico e potere politico in una cerchia ristretta di dirigenti privati e “pubblici”, collegati fra loro sempre più strettamente in una gestione oligarchica, sostanzialmente sottratta a effettivi controlli pubblici e caratterizzata da forme via via più gravi di corruzione e di clientelismo. Oggi sono presenti tanto elementi potenzialmente capaci di far prevalere la prima tendenza (che chi scrive considera fisiologica), quanto elementi che possono far prevalere la seconda tendenza (patologica): non c’è un binario predeterminato – semmai oggi appaiono più rilevanti gli elementi della seconda specie (Sylos Labini 1972, pp. 160-61).
Il senno di poi ha sciolto l’ambiguità. Ma è interessante osservare che secondo la lettura di Sylos Labini – in contrasto con quella successivamente prevalsa come maggioritaria – lo sbocco caratterizzato dalla compenetrazione tra potere economico e potere politico, dalla corruzione e dal clientelismo non era una strada obbligata. La griglia interpretativa proposta da Sylos Labini in questo contesto si riconnette alla teoria dei «fallimenti» del mercato e dello Stato, e delle relazioni tra essi.
Da tutto il dibattito sulla programmazione scaturirono scarsi frutti sul piano delle realizzazioni concrete. Sebbene, nel corso degli anni, alcuni programmi di sviluppo venissero approvati in Parlamento (il Piano Giolitti, il Piano Pieraccini, il Piano Pandolfi e così via) i governi di centro-sinistra non riuscirono, nelle loro effettive misure di politica economica, a mettere in atto la programmazione, né nella sua linea più blanda, né in quella più ambiziosa di un piano macroeconomico di lungo periodo. Come è stato osservato, alla crescente raffinatezza analitica e alla maggiore disaggregazione dei piani in successione formulati, corrispose l’indebolimento degli strumenti, dal momento che «nessuna azione concreta veniva indicata come programma di intervento per la realizzazione degli obiettivi» (Graziani 1972, p. 83, e 1979, p. 94).
In merito alla parabola della programmazione, già nel 1969, intervenendo alla presentazione della seconda edizione del volume di Saraceno, Ricostruzione e pianificazione, Manlio Rossi-Doria ebbe a dire che il «nucleo consistente di uomini illuminati – tra i quali Saraceno è sempre stato in testa – saldamente innestati in poche, ma rilevanti istituzioni, coscienti della loro forza sul piano culturale e molto più uniti di quanto la loro diversa origine e posizione non lascino credere», pur avendo promosso rilevanti innovazioni (dalla riforma agraria all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, dalla riforma tributaria di Ezio Vanoni, al monopolio pubblico dell’ENI ecc.), doveva riconoscere, di «non avere avuto finora la forza per assolvere» al dovere di «dare un’organizzazione razionale al processo produttivo e sociale nel suo complesso», secondo un progetto il cui strumento avrebbe dovuto essere «una pianificazione che investa l’intera politica degli investimenti pubblici e privati e la stessa struttura dello Stato» (Rossi-Doria, in Saraceno 1974, p. 369).
La «via crucis» della programmazione (come l’ha definita Piero Barucci) coincise in qualche modo con la ‘via crucis’ del centro-sinistra e dimostrò la sostanziale impotenza del riformismo progressista in Italia, di fronte, come disse ancora Rossi-Doria, «al dominio di fatto della concezione neo-liberistica e conservatrice» che dominava «negli ambienti degli operatori economici, nella pubblica amministrazione, nell’azione politica quotidiana» (in Saraceno 1974, pp. 368-69). Secondo altri interpreti, come Michele Salvati, il fallimento della prospettiva riformista del centro-sinistra fu anche dovuto al fatto che esso «lasciava fuori dall’accordo una parte troppo ampia della classe operaia e delle sue rappresentanze politico-sindacali» (Salvati 1984, p. 69).
Per valutare con piena consapevolezza la posizione degli economisti riformisti di allora va sottolineato che era da loro chiaramente espressa l’esigenza, ai fini della realizzazione del progetto, di un management indipendente e competente nell’industria pubblica; di una riforma e di un’accresciuta efficienza della pubblica amministrazione; di un sistema di servizi e di infrastrutture sociali adeguato ai tempi e mai poi realizzatosi; e, come si è già visto, dell’eliminazione delle posizioni di rendita. Va ribadito inoltre che essi furono i primi a denunciare tanto la degenerazione del management pubblico, quando essa vi fu (lo si è visto con Sylos Labini); quanto, negli anni Settanta e Ottanta, l’espansione, a fini di controllo sociale, di una spesa pubblica che assunse i caratteri del puro sostegno dei redditi e dei consumi. Rossi-Doria, insieme a molti altri, vi vide la base della costruzione di un blocco di potere paragonabile all’antico blocco agrario:
A giudizio di molti, […] su nuove basi – e precisamente su quelle intricate e complesse, sulle quali si erige nelle province meridionali l’enorme edificio della spesa pubblica, dei pubblici servizi, della previdenza sociale – qualcosa di simile all’antico “blocco agrario” si è ricostituito ed ha assunto, ancora una volta, la forma di un unico sistema di potere sociale e politico, altrettanto forte e dominante quanto l’antico e altrettanto capace di frenare e stravolgere lo sviluppo delle regioni meridionali (Rossi-Doria 1978, ora in M. Rossi-Doria, Scritti sul Mezzogiorno, 1982, p. 172-73).
Il progetto intellettuale della programmazione va dunque visto nella sua complessità, e in questa luce diventa meno facile di quanto sia talvolta apparso attribuirne il fallimento ai suoi limiti interni (Barca, in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, 1997). Certamente forti furono i condizionamenti «esterni» soprattutto, al livello più strettamente economico, per le strategie di gruppi industriali privati non convergenti verso il progetto riformatore e per la forza con cui esse si dispiegarono, come la stessa vicenda della privatizzazione del settore energetico e dei relativi indennizzi si incaricò di confermare (Forte 1966, pp. 101-11). Allo stesso tempo, viene anche da chiedersi quale probabilità di successo avrebbe avuto, al cospetto di quella forza, un approccio basato invece sulla regolazione, cioè sulla fissazione di regole, diritti e doveri per l’impresa privata. L’efficacia del metodo della regolazione è, anche oggi, un quesito aperto. Si ripropone infatti di nuovo, dopo l’era delle privatizzazioni degli anni Novanta, la questione dei rapporti tra capitale pubblico e capitale privato in Italia. Così, mentre alcuni sostengono l’efficacia delle privatizzazioni accompagnate dalla regolazione, e ritengono semmai che il processo di privatizzazione non sia andato abbastanza avanti, altri, con riferimento alla situazione attuale, pensano invece che:
Lo stesso ridimensionamento dell’impresa pubblica – rispetto a una sua corretta ed efficiente gestione – ha fatto venir meno un’alternativa, un potenziale concorrente, rispetto all’impresa privata. Ha aperto all’impresa privata aree e prospettive di quasi-rendita. Le considerazioni precedenti trovano conferma sintetica nella dissociazione fra tasso di profitto, alto, e tasso di crescita, basso, nell’economia italiana durante l’ultimo decennio. Nell’insieme, non ha prevalso un clima percepito dai produttori come più intensamente concorrenziale e da loro risolto in mobilità del capitale, produttività, minori costi, innovazione (Ciocca 2004, p. 21; per una valutazione critica delle privatizzazioni a partire dagli anni Novanta, nell’ambito di un approccio complessivamente a esse favorevole, si v. Barucci, De Vincenti, Grillo, 2010).
Studiando, come facciamo in questo saggio, le interazioni tra la teoria economica, l’analisi del capitalismo italiano e le proposte di politica economica, dobbiamo ora ricordare il contributo di Augusto Graziani sul tema dello sviluppo dualistico, e il suo successivo contributo all’approccio conflittualista (sul tema v. anche Costabile, in La formazione degli economisti in Italia, 1950-1975, 2004, in partic. alle pp. 292-97).
Graziani era partito, sul piano teorico, da un’analisi critica dei modelli di equilibrio economico generale in un orizzonte pluriperiodale. Tale analisi si basava sull’idea che in presenza di beni capitali fissi il meccanismo concorrenziale genera necessariamente quasi-rendite negative o positive nei diversi settori produttivi, in ragione del fatto che i prezzi di mercato dei beni capitali divergono dai costi storici incorsi per la loro produzione (Graziani 1965, in partic. cap. III). Da ciò scaturiva la conclusione, di sapore schumpeteriano, che l’equilibrio, inteso come uniformità intertemporale dei tassi di rendimento, non è compatibile con lo «sviluppo dell’economia intesa come evoluzione della struttura produttiva» (p. 11), e che «il processo dinamico non è un processo di equilibrio» (p. 96) in quanto:
un sistema economico in fase di evoluzione è sempre caratterizzato da intense trasformazioni strutturali, in virtù delle quali settori produttivi tradizionali cedono il passo ad attività moderne e più remunerative. In queste condizioni, l’eguaglianza dei tassi di profitto nelle diverse attività diviene incompatibile con i processi di sviluppo; se i rendimenti fossero ovunque uguali, come la teoria dell’equilibrio vorrebbe, non vi sarebbe alcun incentivo a trasferire risorse da un settore all’altro, la struttura dell’economia resterebbe inalterata, e in definitiva il processo di sviluppo, che nella massima parte si identifica proprio con un processo di graduale evoluzione strutturale, finirebbe con l’arrestarsi (p. 98).
L’interpretazione dello sviluppo economico italiano che scaturisce pochi anni dopo da queste premesse (Graziani, Bagolini, Balestrieri et al. 1969) è basata su un modello a due settori in cui l’evoluzione strutturale, trainata dalle esportazioni, costituisce la chiave dello sviluppo. Il modello teorico è illustrato da Graziani nel III capitolo e da Graziani e Bruno Trezza nel IV capitolo: il dualismo economico è generato dalla compresenza di due settori, uno dei quali è in grado di trainare la crescita attraverso le esportazioni, grazie soprattutto al radicamento nei settori in più rapida espansione della domanda mondiale, e al perseguimento dell’innovazione di prodotto (anche se, in economie in fase di decollo come quella italiana, l’innovazione si basa ancora sull’imitazione); mentre funge da settore residuale l’altro, che è meno dinamico. Nel primo settore, esposto alla concorrenza internazionale, che impone dall’esterno il rispetto della dinamica della produttività realizzata nei Paesi concorrenti, quest’ultima assume il carattere di un dato esogeno, così come esogeni sono gli investimenti, mentre la dinamica occupazionale è la variabile endogena. Invece nell’altro settore, che resta al riparo dalla concorrenza internazionale, l’occupazione (determinata esogenamente dall’esigenza di assorbire tutti coloro che restano fuori dal settore propulsivo) contribuisce, insieme alla dinamica degli investimenti, a determinare la produttività del lavoro, che tipicamente, a causa del vincolo occupazionale, ristagna. Il modello, e l’analisi empirica che lo accompagna, spiegano poi, in questa chiave dualistica, tanto l’evoluzione strutturale dell’economia tra settori dinamici (allora: metallurgia, chimica, mezzi di trasporto) e settori stagnanti; quanto il dualismo territoriale, dovuto alla diversa localizzazione territoriale dei due settori; quanto, ancora, la «distorsione dei consumi», dovuta all’aumento dei prezzi relativi dei beni di prima necessità rispetto a quelli dei beni comparativamente meno necessari, come le automobili e gli elettrodomestici. Dal punto di vista della politica economica, lungi dall’invocare una «romantica» idea di sviluppo autopropulsivo o, ancor meno, la protezione pura e semplice dell’industria nazionale (di cui pure si riconosce la temporanea necessità, per la fase dell’incubazione industriale), il modello propone uno sviluppo basato sull’integrazione internazionale e sul perseguimento della competitività attraverso l’innovazione, cui dovrebbe accompagnarsi però un maggiore sviluppo dei consumi collettivi.
Come è noto dopo il 1973, nella concreta evoluzione dell’economia italiana, la svalutazione si offrirà ripetutamente come succedaneo di una politica della competitività basata sull’innovazione e, mentre l’innovazione di prodotto non riuscirà sufficientemente a svilupparsi, si registrerà anche un indebolimento della specializzazione produttiva dell’Italia nei settori più dinamici e un suo consolidamento, invece, nei settori tradizionali. Queste trasformazioni si collegano anche al processo di ristrutturazione caratterizzato dal
ridimensionamento dei grandi impianti, l’ammodernamento di quelli restanti, lo sviluppo della piccola impresa, sia autonoma che satellite della grande, l’uso capillare della forza lavoro, mediante la pratica del decentramento produttivo e del lavoro a domicilio (Graziani 1979, p. 13).
Le trasformazioni della struttura industriale italiana furono al centro, dalla metà degli anni Settanta, di un intenso dibattito inteso ad appurare se il decentramento produttivo e, più in generale, il prevalere di un modello di industrializzazione basato sulla piccola impresa svolgessero soprattutto il compito «politico» di contenere e ridurre il conflitto fra le classi sociali, frantumando le grandi aggregazioni operaie in piccole isole più facilmente controllabili: un’ipotesi su cui converge lo stesso Graziani, nell’ambito della sua ricostruzione di un modello conflittualista della distribuzione e della sua applicazione al caso italiano (Graziani 1981, pp. 285-340; Crisi e ristrutturazione nell’economia italiana, 1975); o se quelle trasformazioni sancissero, indipendentemente dal conflitto di classe, il ripiegamento del capitalismo italiano verso un modello poco propulsivo e dinamico; o ancora se esse rappresentassero invece, in positivo, il passaggio a un nuovo, più flessibile modo di produrre anche nei settori industriali dinamici (si veda in proposito il dibattito svoltosi nel 1975 su «Inchiesta», e in partic. gli interventi di M. Paci, Crisi, ristrutturazione e piccola impresa, sul nr. 20, e di S. Brusco, Il convegno FLM di Bergamo sull’organizzazione del lavoro e sul decentramento produttivo nel settore metalmeccanico, sul nr. 17, entrambi parzialmente ristampati in Graziani 1979, pp. 235-55). A questo dibattito si collega quello sui caratteri del mercato del lavoro italiano che, aperto dall’importante contributo sul «lavoratore scoraggiato» di Giorgio La Malfa e Salvatore Vinci (La Malfa, Vinci 1970), ha continuato a produrre da allora interessanti frutti e contributi.
Al dibattito sul ruolo della piccola impresa nello sviluppo del capitalismo italiano si ricollega il contributo di Giacomo Becattini, il cui modello del «distretto industriale» si configura come un’affascinante sintesi di teoria economica ed economia applicata, scienza sociale (declinata soprattutto nel suo versante antropologico, culturale, e psicologico-sociale) e filosofia della storia. Sul piano teorico, Becattini parte da una lettura di Alfred Marshall («It all started with Marshall»), in cui risuonano chiari echi marxiani, in particolare sul tema dell’interconnessione tra il processo della produzione di merci e quello della riproduzione dei rapporti sociali (Becattini stesso, del resto, accoglieva divertito la definizione di «Marxalliano» affibbiatagli da Mariano D’Antonio, un altro dei protagonisti del dibattito sullo sviluppo economico italiano; cfr. D’Antonio 1973).
Marshall believed that humans evolved mainly through work and, therefore, evolved differently in different organizational and social contexts. His industrial atmosphere, for instance, is more than just the product of an uninhibited observation of the facts. It is also a symbol of Marshall’s notion of plurality-sociability and of the historical roots of a social process that is simultaneously a process of production of commodities and of society (Becattini 2002a, p. 88).
Marshall era convinto che gli esseri umani si evolvano soprattutto attraverso il lavoro e, quindi, si evolvano in modo diverso in contesti organizzativi e sociali diversi. La sua atmosfera industriale, per es., è più che il semplice prodotto di una disinibita osservazione dei fatti. È anche un simbolo della nozione marshalliana della pluralità-socievolezza, e delle radici storiche di un processo sociale che è al tempo stesso un processo attraverso il quale si producono sia le merci sia la società.
Su tale tema si innesta l’analisi dei distretti industriali, visti come l’espressione, sul piano della produzione, di relazioni sociali caratteristiche di comunità locali socialmente coese, unite da valori comuni, e articolate in «luoghi», dove per luogo si intende «un contesto culturalmente definito, entro cui ogni essere umano definisce la propria identità» (G. Becattini, Metafore e vecchi strumenti. Ovvero: della difficoltà d’introdurre ‘il territorio’ nell’analisi socioeconomica, in Il caleidoscopio dello sviluppo locale. Trasformazioni economiche nell’Italia contemporanea, 2001, p. 18). In alcuni di questi luoghi si costruiscono relazioni sociali particolarmente favorevoli allo sviluppo e qui, grazie alla presenza di «assets collettivi come il capitale sociale, locale o settoriale», nascono i distretti industriali, «isole di produzione e di vita», risultato dell’accumulazione di saperi artigianali tradizionali (Becattini 2002b, p. 131). La presenza, su un territorio circoscritto, di molte imprese specializzate nello stesso settore o nella stessa filiera produttiva consente la realizzazione di «economie esterne» all’impresa ma interne al distretto, grazie alla specializzazione produttiva comune, alla divisione del lavoro tra le diverse imprese, all’accumulazione di conoscenze specialistiche e al loro trasferimento gratuito, per «ibridazione», da un’impresa all’altra; allo sviluppo di regole del gioco condivise; alla formazione di reti di rapporti personali, di fiducia e cooperazione ma anche di concorrenza, che spingono alla continua innovazione, e poi alla diffusione dell’innovazione (p. 129). Nei distretti industriali la crescita della produttività del lavoro non dipende tanto dalla crescita del rapporto capitale/lavoro come nella fabbrica tradizionale, quanto dalla presenza di valori e di conoscenze con cui il lavoratore si identifica e che, inoltre, promuovono spesso il suo passaggio dal lavoro dipendente a quello autonomo, e sono quindi un traino per la mobilità sociale e professionale. In breve, il distretto è ben più di un agglomerato di imprese, è un fenomeno socioculturale non meno che economico.
Nel pensiero di Becattini lo sviluppo distrettuale segna la via di un’alternativa possibile, e già operante, al capitalismo della grande impresa, che sfugge alle concezioni unilineari dello sviluppo storico, e si riallaccia a una visione filosofica di tipo multilineare. Il modello distrettuale costituisce secondo Becattini il contributo italiano (più specificamente, di alcune aree dell’Italia centrale e settentrionale) alla costruzione di un’alternativa al capitalismo anglosassone. Si tratta di un modello di industrializzazione e di sviluppo «dal volto umano», in grado di coniugare efficienza e rispetto dei diritti. Si fonda su imprese autonome dalla grande impresa, che rappresentano «progetti di vita» piuttosto che semplici nuclei di valorizzazione del capitale (pp. 135-37). Configura un modello di società poco polarizzata in termini di classe, e finalizzata al raggiungimento del benessere, piuttosto che all’accumulazione della ricchezza in quanto tale. Visto in questa prospettiva teorica, il modello della piccola impresa, e la specializzazione produttiva su cui l’Italia viene attestandosi dagli anni Settanta in poi non sono, come altri ritengono, il segnale e il risultato di un ripiegamento del capitalismo italiano, della sua perdita di dinamismo, o della sua rinuncia a competere nei settori «avanzati»: al contrario, il made in Italy (con le produzioni meccaniche a esso associate) costituisce il settore in cui si esplica il nostro vantaggio competitivo, grazie alla capacità dei nostri prodotti di soddisfare i gusti raffinati e «gli sfizi dei ceti danarosi di tutto il mondo» in virtù della loro qualità, del buon gusto e del design industriale che in esse si incorpora, e infine di «tutto il crepitio d’innovazioni pratiche, che innalzano di anno in anno, regolarmente, la produttività del lavoro» (pp. 116-18). Il distretto industriale è insomma, nella visione di Becattini, non solo l’espressione e il veicolo di valori progressivi e di coesione sociale, ma anche un modello economicamente vincente, in grado di garantire al nostro Paese uno stile e uno standard di vita soddisfacenti, specie se esteso, come auspicabile, alle aree meno sviluppate del nostro Mezzogiorno (sulla questione dell’estensione del modello dei distretti al Mezzogiorno, su cui diversi meridionalisti nutrirono però molti dubbi, si veda il dibattito su «Il Manifesto», e in partic. A. Graziani, Il paese senza ciminiere, 25 febbr. 1998; G. Becattini, La leggera industria del Mezzogiorno, 6 marzo 1998; G. Becattini, Distretti meridionali, 7 marzo 1998; A. Giannola, Il Sud preso per la coda, 17 marzo 1998; A. Giannola, Nelle tasche del Mezzogiorno, 18 marzo 1998).
Come Becattini, anche Fuà, abbandonando l’idea di un possibile «catching up» dei Paesi di più antica industrializzazione da parte dei Paesi a sviluppo recente, suggeriva la strada dello «sviluppo diffuso» basato sulla piccola impresa, e portava come esempio il modello italiano del «NEC» (Nord-Est-Centro) fondato sull’«imprenditoria popolare» e su valori che «possono essere guardati con invidia da paesi più ricchi del nostro» (Fuà 1983, p. 45; v. anche Fuà 1981).
In queste visioni il modello distrettuale appariva in grado di sopportare da solo il peso della crescita della nostra economia. Altri, pur condividendo l’apprezzamento per il modello distrettuale, ne hanno altresì sottolineato i rischi connessi, per es., alla concorrenza da parte dei Paesi emergenti (Quadrio Curzio 1999). Altri, infine, hanno invece sottolineato la fragilità di un modello di sviluppo troppo sbilanciato verso la piccola impresa e verso i settori tradizionali; sempre più sprovvisto di grandi imprese innovatrici, dalle quali la crescita e l’occupazione dovrebbero comunque essere trainate in un moderno sistema industriale; soggetto ai problemi di crescita della produttività, del lavoro e multifattoriale, che si sono infine manifestati a partire dalla seconda metà degli anni Novanta; e spesso dipendente, sui mercati internazionali, dalla competitività di prezzo, da conseguirsi attraverso la manovra dei cambi (finché questa è stata possibile) o del costo del lavoro. Fattori di fragilità di questa natura, preesistenti rispetto alla «crisi globale» innescata dai mercati finanziari a partire dal 2007, sarebbero secondo questa linea interpretativa alla radice della debolezza e dell’attuale declino dell’economia italiana (Tecnologia, crescita e occupazione, 1998; Costabile, Papagni 1998; De Cecco 2004; Faini, Sapir 2005; Costabile 2009).
Gradualmente, il tema dello sviluppo e della crescita recede sullo sfondo della riflessione degli economisti italiani, mentre si affermano al centro del dibattito, fin dalla fine degli anni Settanta, i due temi del vincolo estero e del debito pubblico: i due problemi, che sono in parte come vedremo connessi tra loro pesano, sia nella riflessione teorica sia nella realtà, sulle possibilità di mantenere e, nell’ultimo decennio, di riavviare il processo di crescita della nostra economia.
Nel periodo precedente (1973-79), l’esperienza dei cambi flessibili aveva consentito l’allentamento del vincolo estero e il recupero dei margini di profitto, pagati però con l’avvio di una spirale tra deprezzamento della lira e inflazione (celebri letture di queste dinamiche sono in Graziani 1981; Giavazzi, Spaventa, Masera 1989, pp. 133-71; Modigliani, Padoa-Schioppa 1977). Ma successivamente il vincolo estero diventa più stringente a seguito della scelta italiana di aderire al Sistema monetario europeo, un sistema che mantiene «tutti i caratteri asimmetrici delle esperienze precedenti» (Spaventa 1990, p. 8). L’adesione, secondo alcuni interpreti, presenta il vantaggio per i Paesi periferici del sistema europeo, propensi all’inflazione e non in grado, da soli, di mettere in atto le necessarie politiche deflattive, di consentire l’importazione della politica monetaria restrittiva della Bundesbank, «legando le mani» alle loro banche centrali (Giavazzi, Pagano 1988). In Italia, il meccanismo si rivela efficace nel promuovere il rientro dall’inflazione. Tuttavia, tale politica monetaria non è priva di gravi costi collaterali: in presenza di piena mobilità dei capitali, il tasso d’interesse, divenuto una «variabile esogena» o strumentale sotto il vincolo della bilancia dei pagamenti, impone l’aumento del costo medio del nostro debito pubblico, ed è quindi una delle cause principali della crescita del rapporto tra debito e prodotto interno lordo (Artoni 1986; Tassi di interesse e debito pubblico. Un’analisi del caso italiano, 1990). Il meccanismo diventa particolarmente virulento in seguito alla scelta tedesca di finanziare la riunificazione in condizioni non inflazionistiche e attraendo capitali dall’estero, determinando il rialzo generalizzato dei tassi d’interesse e, infine, la crisi del Sistema monetario europeo nel 1992-93.
Dopo la crisi valutaria, negli anni Novanta e poi nel nuovo secolo, il paradigma egemone nella nostra politica economica propone la stabilizzazione dei conti pubblici e l’abbattimento del debito, le liberalizzazioni, la privatizzazione di banche e grandi imprese, secondo un progetto di riforma dell’economia e della società che combina diversi modelli economici di riferimento, in una sintesi che rimane ancora da chiarire. Il progetto vede infatti in alcuni casi, come nella riforma del mercato del lavoro o nel bando delle politiche industriali, la propria stella polare nei mercati di libera concorrenza. In altri casi propende invece per i vantaggi di costo derivanti dalle economie di scala e, abbracciando il paradigma dei mercati oligopolistici, resi magari ‘contendibili’ dalla presenza del regolatore, lo promuove nel settore bancario, in quello delle telecomunicazioni e così via. Sul piano del consolidamento dei conti pubblici, viene posto sotto accusa il welfare State e, sia prima sia dopo l’esplosione della crisi dei debiti sovrani in Europa, si fa appello alla teoria dell’austerità espansiva, che modifica una consolidata visione della politica economica e cambia segno agli effetti delle politiche fiscali.
Mentre la disuguaglianza nel nostro Paese si colloca sui livelli tra i più alti su scala mondiale per i Paesi sviluppati, e la produttività e la crescita ristagnano da oltre un decennio, pur in presenza di una moderazione salariale che richiama quella degli anni Cinquanta, emerge gradualmente la riconsiderazione critica di tali paradigmi interpretativi e si fanno strada nel dibattito nuove indicazioni di politica economica per il sostegno della domanda, la crescita e la riduzione della disuguaglianza (per alcuni esempi si vedano Institutions for social well-being. Alternatives for Europe, 2008; Franzini 2010; Bosi, D’Adda 2011; A. Quadrio Curzio, Economie in crisi: Eurolandia dalla resistenza alla ricostruzione, «Moneta e credito», 2011, 254, pp. 105-14; A. Roncaglia, Macroeconomie in crisi e macroeconomie in ripresa, «Moneta e credito», 2011, 254, pp. 115-33; P. Sylos Labini, Prospects for the world economy, «PSL Quarterly review», 2009, 248-251, pp. 59-86; Perotti 2011).
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