TEOCRITO (Θεόκριτος, Theocrĭtus)
Poeta lirico greco. Quasi nulla sappiamo della sua vita; poco píù di quello che ci dice egli stesso nelle sue poesie. Siciliano e di Siracusa lo ritiene la tradizione fino dall'antichità e si può dire si dichiari egli stesso, quando, presentandoci Polifemo, il ciclope che egli immagina pascoli la greggia sulle pendici dell'Etna, lo dice "del nostro paese" (XI, 7); e risulta pure da alcuni versi di una sua graziosa poesia, con cui accompagna il dono di una conocchia d'avorio, di fine lavoro siracusano, inviato alla sposa di un suo amico (XXVII, 16 segg.). E siciliano è veramente nell'intimo spirito della sua arte, e soprattutto in quella letizia artistica che così felicemente si compiace dell'arguto acume del mimo. La Sicilia e Siracusa erano state infatti le vere patrie del mimo, con Sofrone e con Senarco, e gli antichi avevano già notato che i Siciliani erano mimi nati. I nomi del padre (Prassagora) e della madre (Filina) ci son riferiti in un epigramma antico, non sappiamo da qual fonte. È possibile che fossero di Coo; entrambi quei nomi si trovano infatti nelle iscrizioni di quell'isola, e questo spiegherebbe il perché di una notizia di Suida, il quale ci dice avere alcuni affermato essere T. di Coo; e spiegherebbe pure i rapporti affettuosi che con Coo ebbe il poeta. Di spirito mobile e amico dei viaggi, come tutti gli artisti dell'età sua, che non hanno più per patria la città, ma tutto il mondo greco, la sua vita e la sua poesia hanno mutevoli orizzonti; ma ovunque lo seguono insistenti i ricordi della sua isola. A Coo egli ritratta il mito siciliano di Dafni con la sua misteriosa dolcezza in ombra di melanconia, ad Alessandria, nel fitto della folla chiassosa della città mondiale, egli ascolta, col più lieto sorriso artistico dei suoi mimi, il cinguettio irrefrenabile di Prassinoe e di Gorgo, le due piccole borghesi, siracusane pur esse e doriesi "come Bellerofonte", con quel loro dorico dialetto siculo dalle sonorità vaste che T. modulò in tutti i toni, dalla più molle dolcezza dell'idillio bucolico ai più realistici accenti del mimo cittadino. Ignote ci sono le date della nascita e della morte. Le notizie vaghe e contraddittorie degli antichi sul tempo in cui egli visse e la sua arte fiorì ci fanno pensare che essi pure, come noi, a questo proposito, fossero ridotti a congetturare dalle allusioni delle sue poesie. La data più antica a cui si possa far risalire l'opera di T. è quella in cui la poesia della sua giovinezza ci appare nel Gerone o le Grazie (XVI), sullo sfondo della vita siciliana, in un'inquieta aspettativa di guerra, in cui il poeta si augura che Gerone guidi le schiere siracusane alla salvezza della patria e liberi l'isola dalla protervia cartaginese. Che si tratti dell'anno 275, in cui Gerone fu nominato stratega contro i Cartaginesi, è l'opinione più probabile. In quei versi T. si rappresenta giovane, quasi sconosciuto e povero, desideroso di trovare un protettore della sua poesia, la quale gli si avviva, nella sua fantasia intenerita di poeta, nella melanconica e graziosa immagine delle Grazie che niuno vuol accogliere e che a sera gli ritornano a casa dolenti e si rannicchiano meste in fondo al vuoto forziere. Difficilmente dunque quel poemetto fu scritto dal poeta dopo i venti o i venticinque anni; ciò che ci induce a porre verso il 300 a. C. la sua nascita, nell'età di Agatocle. Drammatico periodo della storia siciliana, in cui dalle prime esperienze di vita pubblica, aspre e rudi, questo poeta della pace agreste apprese probabilmente quel suo preciso e schietto senso della realtà, che, anche nel bucolico, non ha nulla di sentimentale e d'indefinito, e la coscienza che il mondo non può essere diverso da quello che è, onde conviene ritrarlo serenamente, anche nella sua fatalità melanconica. E nelle Grazie già appare la sua schietta coscienza di artista, che pur tentando, all'inizio, toni troppo alti per la sua voce, non ama star lungamente nel solenne e nell'aulico; onde se egli, qui e nell'Encomio di Tolomeo Filadelfo (XVII), assume l'abito del cortigiano, non ne ha l'anima, o almeno non spontaneo il tono falso e gonfio dell'arte. E appunto nelle Grazie il suo canto, iniziatosi come encomio, prende tosto le argute tonalità del mimo; e l'afflato epico della seconda parte svanisce in un profondo respiro di pace che si effonde dalla dolcezza vasta del paesaggio pastorale. Caduta la speranza di trovare un mecenate in Gerone, T. si volse al sovrano di Alessandria Tolomeo Filadelfo, e per lui è scritto l'Encomio, già ricordato, vuota poesia di parata e di occasione, composta prima della morte di Arsinoe Filadelfo (270), la sposa del sovrano. Se con così scarsi risultati egli ritrasse, nel Tolomeo, i re e le corti, si prese però ampiamente la rivincita con la borghesia. Anzi si può dire che egli, più di ogni altro, abbia contribuito a crearne il tipo artistico e a darle il battesimo dell'arte. E non è strano il successo di questa sua delicata simpatia creatrice, perché intorno a lui la borghesia, nelle immense città ellenistiche e nelle monarchie sorte dallo sfacelo dell'impero di Alessandro, s'avanza ora appunto sulla scena dell'arte e della storia.
Alla rappresentazione di un piccolo episodio di questo mondo, e della pittoresca vita di Alessandria, in un giorno di solennità artistica e religiosa, nella reggia dei Tolomei, per la festa di Adone, son dedicate le Siracusane, uno dei capolavori della poesia teocritea, e dell'arte antica.
Qui la regalità del Filadelfo, che nel Tolomeo era, in vane magnificenze encomiastiche, asserita, ma non rappresentata, vive ingegnosamente negli echi dell'ammirazione popolare, rilevata con la stessa voce del popolo, con arte finissima. E bellissima è anche l'arte rappresentativa, onde T. ci trae dagl'interni familiari al brusio della folla, di cui ci ritrae con pochi tratti vivacissimi i tipi più bizzarri, con quella precisione e leggerezza di tocchi che è l'ultima conquista dell'arte. Egli mira sempre infatti a realizzare, in un'atmosfera di pittoresca realtà, quel candore e quella vivezza del vero che non consiste nei singoli elementi e tratti, colti separatamente dall'analisi e accostati, senza che entrino in un armonioso ritmo di vita, ma nel fonderli in un'animata simpatia interiore che tutti se li approprii e li ricrei in quella esigenza di rapidità e di sintesi che è la speciale magia evocatrice dell'arte. E la forma artistica che la poesia di T. assume, il mimo, acquista maggior freschezza anche perché è la più consona al suo spirito e a quello della sua età. Il mimo infatti si può dire che, come espressione dell'ellenismo alessandrino, stia al drammatico, come l'epigramma al lirico. Ambedue queste forme rendono infatti a meraviglia il frammentario e il momentaneo di una società individualistica, senza grandi ideali, né profonde passioni, in cui l'uomo è piuttosto spettatore che attore, nato a godere delle impressioni dell'attimo, e ad arrestarle in quella seconda coscienza riflessa che è la creazione artistica. A questo genere di poesia T. diede la sua meravigliosa arte di sintesi e di armonia, che sa così graziosamente far sorridere la vita in mezzo agli spettacoli prosaici e indifferenti che ci passano sott'occhi ogni giorno. Onde dopo la lettura delle Siracusane, come dei suoi più vividi mimi, non ci rimane solamente nella memoria e nell'animo il brioso capriccio poetico di motivi che s'inseguono e s'intrecciano nella gaia vita drammatica delle sue scene, ma lo stesso sorriso musicale del suo esametro mimico, che è una delle più delicate gioie della bellezza greca. Armonioso fascino che però avviva il vero senza sopraffarlo. La musicalità di T. è, infatti, quasi una vivida e trasparente atmosfera che respiriamo con gioia, senza che nulla ci nasconda degli esseri che essa permea e avvolge. E in ciò è la vera perfezione classica dei suoi mimi, che di un'opera d'arte di mezzo tono fa una così alta scoperta di bellezza. Infatti a un genere letterario che sempre minaccia negli altri poeti di ridursi a un gretto verismo, egli seppe dare la più fine armonia e musicalità; senza però che nella sua poesia vi sia mai nulla di stilizzato: giacché egli musicalmente compone per quel naturale dono proprio dei maggiori artisti greci, i quali non possono tracciare le più sempliei linee del vero, senza che sotto le loro mani, spontaneamente, nascano il ritmo e l'armonia.
Dal mimo borghese, che T. riprese ancora in due altre bellissime creazioni, L'amore di Cinisca e nella Fattura (II), al mimo bucolico e pastorale, agevole è il passaggio; e nella raccolta delle poesie di T. si può dire, almeno per noi, si compia attraverso a quella che fu detta la "regina delle egloghe" Le Talisie, o La festa della ricolta, in cui il poeta ci appare in fulgida luce di meriggio, in una inebriante ora estiva della sua vita di artista, e in una deliziosa campagna dell'oriente greco, nell'isola di Coo, la quale era ormai un lido secondo di quella rinascenza artistica che, dopo l'impresa di Alessandro, per le nuove vie dell'Oriente, aveva fiorito il morto greco di una cultura raffinata e dotta, sorta da aristocratici cenacoli di artisti e di poeti. Di questi cenacoli ellenistici il ricordo più fine è in questa Talisie (VII), la cui maggiore grazia e modernità è nella stessa esilità del loro tema, fuori di ogni genere di tradizione anteriore: dirci, cioè, l'ebbrezza di un pomeriggio estivo, attraverso gl'incontri letterarî di una passeggiata campestre. Abbandonarsi alle agili impressioni dei proprî ricordi, non per altro che per assaporarne la dolcezza; è infatti quello che meno aveva fatto la poesia antica: i nuovi poeti invece amano coglierle a volo e fissarle nella forma un poco irrigidita dell'epigramma, il poema dell'istante: T. solo, almeno tra i poeti greci che conosciamo, sa, con arte tutta sua, comporle nella sciolta agilità del bozzetto. E un bellissimo bozzetto di vita campestre e letteraria allo stesso tempo è questo poemetto, in cui T. ci rappresenta una gara improvvisata di canto fra sé e un bizzarro poeta in abito pastorale, incontrato mentre si avvia alla festa della ricolta, che celebrano in un fondo suoi amici di Coo, fondendo, con arte nuova, paesaggio e vita con le armonie della nostra gioia interiore. E insieme ci espone i suoi ideali d'arte, contrari alle impotenti ambizioni dei poeti che, starnazzando in gara con Omero, "riempiono l'aria di un vano ridevole lor passerio". Così, con la più fine arte drammatica, ricca di risalti e d'impostature di caratteri, ci espone la nuova estetica, sua e dei suoi amici poeti, Asclepiade e Fileta. Estetica di ambizioni non vaste, ma squisite. I grandi sfondi della tragedia e dell'ode sono ormai chiusi; la nuova poesia non mira a far rivivere forme artistiche e ideali ormai tramontati. Essa è per T. nella stessa gioia della campagna luminosa che gli è dintorno; poesia di orizzonti più limitati, ma con così dolce lume sui campi, e giochi d'ombra così leggiadri tra i sentieri affondati nel verde. Agli antichi era stato concesso di rendere le magnifiche passioni dell'anima ellenica in un grandioso ritmo d'intelligenza dominatrice del mondo; a lui spetterà di far risuonare, nell'accordo della nuova vita greca, un'altra nota, la più raffinata gioia dell'età alessandrina, il piacere in riposo (l'ἡδονὴ καταστηματική) di Epicuro. Piacere di sbocciare e vivere nella dolcezza della natura, gustando con i più acuti sensi quanto di bellezza infinita e impalpabile è nell'aria, nella luce, negli aliti di vento marino che cantano tra pini e cipressi. A lui spetterà di trovare una musica più squisita nell'esametro greco, quasi un murmure armonioso di sorgente, di esprimere con una domesticità più intima di particolari la vita greca; anzi di dare alle più semplici e comuni cose che egli tocchi l'incanto istantaneo e misterioso della vita e della bellezza. A questa letizia e felicità artistica T. deve essere giunto dopo tentativi varî, i cui documenti sono forse in alcuni dei suoi epigrammi. E in verità Asclepiade, che egli nelle Talisie considera, in qualche modo, come suo iniziatore e modello nell'arte, è conosciuto per i suoi epigrammi, e nell'epigramma si era espressa la poesia bucolica di Anite di Tegea, di Mnasalca e di Leonida. Ma quei temi che Anite aveva tentati con così gentile riserbo e quasi pudica timidezza femminile e che nei suoi imitatori dell'Antologia sono, non di rado, viete reminiscenze senz'anima, prendono negli Idillî di Teocrito una vita propria indipendente, si sviluppano, si intrecciano, si arricchiscono, nel gioco di una vivida fantasia di grande poeta. In verità, prima di T. era nell'aria e nei cuori l'aspirazione al bucolico; la bella natura è infatti ormai quasi il divino di quel mondo ellenistico senza profondo senso religioso; e spunti di poesia campestre erano nei comici, nei tragici, negli elegiaci, negli epigrammatici; ma solo T. trovò la spirituale forma artistica, per cui quegli elementi varî e dispersi si sono fusi in armoniose vibrazioni di vita. Con lui, e per lui solamente, la gioia della natura si è fatta più limpida e lieta. E l'esempio più significativo dell'arte felicissima di T. nel ravvivare e nell'acclimare al canto bucolico i motivi tolti alla poesia elegiaca ed epigrammatica, ci è dato dall'VIII idillio, in cui, in una vaga cornice pastorale, è inserita una gara in distici elegiaci fra Dafni e Menalca, figure di divini pastori della leggenda, con fine arte ellenistica ritratte e sfumate sugli sfondi della realtà campestre, con lievi attenuazioni di velature mitiche. Nella loro poetica contesa, strofa risponde a strofa, motivo a motivo, in gara appassionata di melodia. Qui T. si è servito di un procedimento artistico dei cenacoli poetici ellenistici, dove poeticamente si gareggiava, riprendendo un motivo proprio o altrui e variandolo di tocchi e di intenzioni argute. Ma nelle strofe elegiache di Dafni e di Menalca non è più l'artificiosa emulazione letteraria di poeti dotti, ma una raggentilita eco di canti amebei, e quasi il volo sinuoso di un'ape che ritorni insistentemente sui medesimi fiori, a suggervi un miele più delicato. E a un tratto batte l'ali dorate e si lancia inebriata nell'azzurro:
Oh non di Pelope il regno, non gli aurei talenti di Creso,
od, in gara col vento, iorrei veloce volar;
ma sotto questo dirupo cantare, tenendoti in braccio,
mentre pascer le agnelle contemplo al siculo mar.
Più alto, nel lieve e rapido slancio dell'epigramma, la poesia ellenistica non giunse mai. E tutta la più conscia gioia alessandrina è nell'ultimo distico che chiude in vasto orizzonte di azzurro la sua dolcezza di amore, di canto, di riposi agresti. Lanciata così nel mondo dell'arte l'idea del contrasto pastorale, T. la riprende in successive forme ed espressioni felicissime per un carattere proprio del suo genio di amare massimamente le più squisite variazioni musicali di un tema poetico, in cui si dimostra particolarmente la finezza greca della sua arte. La gamma più acuta di queste variazioni musicali del contrasto bucolico, è data dagli idillî IV e V. Due nuove "tonalità di canto" - che tale è il vero significato della parola greca (così fraintesa dalla tradizione moderna) εἰδύλλιον, idillio - su nuovi sfondi di natura, creatrici di anime nuove. Non più la pastorale, ora più ora meno idealizzata, ai margini del vero e del mito, con figure di pastori tolti alla leggenda, come nell'idillio VIII, ma franche anime campestri. Non più la Sicilia, o l'ellenica Coo, o Alessandria, ma nuovi sfondi paesistici della campagna italica, presso Crotone o Sibari, sfondi che T., secondo la sua arte greca, piuttosto che descrivere, tradusse in quadri di vita e drammatizzò in piccoli drammi di anime oscure, in accordo con lo spirito della loro terra.. E veramente la nuova poesia di questi mimi rustici, frizzante e asprigna come l'aria di questi nuovi paesaggi marini, è tutta intonata al carattere di quelle genti greco-italiche e dell'arte tra veristica e arguta di quella terra, e questo forma il particolare fascino di questi suoi mimi italioti, che fondono con arte sicura i modi ingenui e freschi del dialogo rustico e dell'improvvisazione musicale dei canti campagnoli alla scaltrita gioia d'arte della poesia letteraria. Composti con tale spirito nuovo questi mimi rustici sono tra le ore più ridenti della poesia teocritea. Il IV è un piccolo mimo di anime rustiche in contrasto, che tanto più è vivo e fresco, in quanto l'azione è nulla, né vi sono veri motivi di contesa, e attorno è tutto pace e raccoglimento campestre, fra cui più spicca la vita dell'anima, semplice e lieta, o amara e torbida, quale la fece la natura o la vita. Nel V son due pastori salaci e rissosi, di condizione servile che contendono con dure parole, tra il serio e lo scherzoso. Dalla contesa scoppia la gara del canto. È come un cespuglio di rovi che improvvisamente fiorisca di rose di macchia. Dopo quello stridulo rissare chiassoso, non s'ode più che un lieve frullo di strofe che si levano a volo. Contesa e gara si svolgono così in un bel ritmo di figurazioni campestri e in versi pieni di freschezza e di vita. In questa semplicità d'intonazioni è tutta la greca perfezione dell'arte di T. e il suo schietto senso della natura. E in verità la natura che T. ritrae, non è per nulla la natura artificiosa, voluttuaria e meretricia (come la chiama il De Sanctis) dell'idillio poetico del Rinascimento, né è veduta attraverso a veli di sentimentalità solitaria, vaga d'indefinito. E neppure è la natura virgiliana, su cui calano le ombre della sera e dell'interiore melanconia dell'età nuova. È natura di pieno meriggio che tutta respira la gioia e la salubrità della vita. T. non è il deluso che si rifugi nella natura come in un irreale mondo di fantasia; il suo amore della natura è preciso amore di realtà vissuta e goduta. Gl'idillî di T. sono il mattinale canto di allodola dell'ultima giornata creativa della poesia greca. Tutto pare giovane e fresco nella natura che egli ci ritrae, perché tutto in essa è immediatezza di senso e pienezza di cose, vedute attraverso a piccoli drammi di anime. Non vi è in lui il paesaggio e non la vita campestre, l'amore e non l'amante rustico, la natura romanzata senza l'uomo dei campi. Anzi nella natura di T. è l'uomo che ha dominio supremo. Eppure in essa ci pare di respirare la campagna a pieni polmoni. Perché T. è uno dei rari poeti per cui la realtà esterna, il mondo naturale, esiste realmente, anche quando direttamente non la ritrae. Esiste come atmosfera della sua poesia, come effetto che le cose operano su di noi, con il loro dono di grazia, di gioia o di frescura, di passione o di tristezza, a seconda delle tonalità dello spirito che fra esse vive. I suoi paesaggi non sono dipinti, sono sentiti sul vero e goduti. È l'anima stessa della natura che in T. pare a noi si riveli nei suoi versi. Gli bastano poche e schiette sensazioni, un tono di cielo o di mare, uno svettare di cipressi, una melodia di canto, un respiro di vento tra i pini, un sentore di autunno fruttuoso, un tonfo di una pigna o di un frutto sull'erba, per crearci, non un quadro di paesaggio, ma un ineffabile momento della vita campestre. La quale in nessuna poesia è così viva, come nei suoi Mietitori (X), dove T. crea, con arte così nuova, quell'estroso dialogo del sogno romantico con l'ironia beffarda, che è una delle cose più felici della sua poesia; e senza nessuna coreografia campestre, e senza descriverci la scena, ci rende il paesaggio afoso della mietitura, ci fa vedere i mietitori curvi sul solco a recidere le mannelle, attraverso alle stesse parole da cui impariamo a conoscere le loro anime. Dalla vivida preparazione mimica, il canto dell'amante rustico, di Buceo, sgorga con squisita finezza, pur conservando i toni e la verità delle improvvisazioni campestri, e ci rivela una delle figure di amanti più delicate che mai l'arte nella poesia abbia ritratte. Egli è sì un sognatore, ma sa di sognare, questa è la sua finezza d'anima ellenica. Ed è appunto ingenuo artista nel vedere e accarezzare il suo sogno. Canta la sua flessuosa fanciulla, perché le Muse divine "rendono bello" ciò che toccano, e da quel tocco di armonia il suo amore è come ricreato. Ché la sua Bombica è bella solo per lui, ed egli lo sa e lo dice. Quel suo amore, nato da un sospiro di poesia, in un'anima campestre, non ha lo struggimento del senso, ma una levità deliziosa. Vive nell'incanto di una voce di donna, che è un filtro d'amore, della gentilezza di un tratto che non ha parole che lo descrivano. La sua canzone smuore così nel silenzio delle cose inesprimibili che si effondono nelle pause dell'atmosfera musicale. Un'altr'anima romantica deliziosamente creata da T. nelle armonie del canto bucolico è quella del Ciclope Polifemo, amante della ninfa marina, la Nereide Galatea. Figura che in due idillî (VI e XI) T. ha meravigliosamente ricreata con il suo realismo ammaliato di fantasia, traendola dalla popolaresca esteriorità del comico, in cui era come immersa, all'artistica liricità del sentimento. Né meno felice fu la sua ricreazione della figura di Galatea, che esprimeva nel mito la ingannevole e allettatrice Morgana dell'elemento marino, e che in T. diviene la più misteriosa e moderna realizzazione di una femminea divinità del paganesimo naturalistico greco, facendo egli trasparire, attraverso alla tersa limpidità del naturalismo antico, l'interiore sogno della fantasia. Onde la natura, in questa sua creazione poetica, serba tutta l'animazione plastica del paganesimo antico e l'incantata solitudine cara alla sognante anima moderna. E un altro carattere di delicata modernità di questo XI idillio teocriteo è l'aver presentato il canto di Polifemo come un inconscio conforto di amore, il quale, senza che il rustico amante e cantore se ne accorga, in quella catarsi musicale, si effonde e insieme si placa. L'amore del Ciclope, elevato a queste altezze serene di catarsi musicale dell'arte, in cui T. sembra sorridere al Goethe, acquista un più largo e profondo respiro di vita moderna, e, nello stesso tempo, un magico sorriso di gioconda coscienza di artista, una inimitabile fusione di eternità e di intimità, che costituisce quel pieno trionfo d'armonioso nel veristico, da cui risulta la perfezione di questo poemetto. Con il Ciclope T. prende possesso artistico del mito. Ma la più ardua e mirabile fusione del mitico con l'amoroso e con il campestre egli la compie in un altro dei suoi più bei idillî, nell'Ila (XIII). Qui, infatti, egli riesce a presentarci Eracle quale avventuroso amante, in paesaggi campestri, senza tradire la bellezza e la semplicità eroica del mito, pur dando alla sua creazione artistica una vibrazione nuova di modernità e di sensibilità squisita. In questo poemetto infatti T. lascia alle figure del mito eroico (Eracle e il giovinetto Ila da lui amato e rapito dalle ninfe) il loro vago e una certa rigidità antica piena di poesia, mentre il movimento e la sensibilità nuova (che sono così moderni in questo breve poemetto, e per cui esso è veramente una scoperta nell'arte greca) non è nelle figure degli eroi rappresentati, e neppure veramente nelle loro anime, che serbano essenzialmente il fascino del loro inespresso mistero, ma negli sfondi su cui campeggiano. Questi, con la loro varietà di vivido, di campestre, di pittoresco, di mosso, rinnovano lo spirito del mito, e, quasi, avvicinano a noi le figure dei personaggi che in sé rimangono misteriose in classica purezza di espressione. Con arte simile, sebbene non così perfetta, riprese T. altri soggetti epici, in nuovi poemetti in cui, con delicata armonizzazione di antico e di moderno, seppe fondere l'eroico all'umano, l'umiltà degli sfondi e delle vicende consuete della vita con la solennità della leggenda epica, senza cadere nel lezioso del quadretto di genere. Tale è soprattutto l'Eracle fanciullo (XXIV, che il recente papiro teocriteo di Ossirinco ci rivelò essere incompiuto nei codici) e, se è di T., come si crede dai più, l'Eracle uccisore del leone (XXV). Ma, per quanto anche in queste opere si senta la finezza dell'arte teocritea non sono questi i capolavori di T., come neppure le poesie d'amore personale in cui T. appare, dai canti della giovinezza sino a quelli degli anni canuti, quale fronda lieve nel turbine della passione, e pur sempre capace di raggentilire la brama ardente di amore nella coscienza superiore d'artista che del nostro dolore sappia creare una forma di squisita bellezza che debbano invidiarci i venturi. I capolavori di T. sono nelle più profonde poesie di passione umana, in cui dagli sfondi del mimo borghese o bucolico egli seppe elevarsi alle più pure altezze della lirica: esse sono la Fattura (II) e la Passione di Dafni (I).
La Fattura si può dire segni veramente una data nella storia artistica della passione umana. Nessuno, a quanto ci risulta, aveva ancora ritratta in poesia, senza intenzioni o velature comiche, la donna amante con tanta immediatezza, non cercando in lei altro che la sua potenza di dolore e di amore, senza sfarzo di miti, di grandezze regali, di peripezie ingegnose, senza intervento di numi, senza la sonorità dell'eloquenza antica. Di fronte alle grandi figure di amante dell'arte precedente, Simeta, la eroina della Fattura, tradita da Delfi, che essa cerca di conquistare con la magia, è la più umile; è un piccolo nulla della vita, un'anima sperduta nel mondo, tutta natura, tutto popolo. E intorno a lei, umile è tutto, la povertà, la solitudine della casa, l'abbandono in cui vediamo questa creatura fragile e ardente che non poteva non essere presto disillusa e infelice. Ma quella stessa umiltà delle cose e delle vicende, e della sua dedizione a un amore or selvaggio or rassegnato, le compongono un'anima di rara bellezza. Simeta non è uno di quei ritratti a chiaroscuro che ama Euripide. Tutto intorno a lei sono zone d'ombra; il fosco del rito e della notte, il silenzio dell'ancella, la solitudine del luogo, l'abbandono dell'amante; ma essa è tutta fiamma, in quella sua limpidezza di anima, in quella sua passione che si lanciò con i flutti di un sangue vergine dal più profondo del suo essere, in quell'ardore che ora consuma il suo povero corpo di fanciulla perduta. La sua immediatezza di passione, la sua stessa umiltà, è la sua ricchezza di poesia. Con questa vinta della vita si inizia infatti il trionfo della donna nella poesia classica. E ciò che è soprattutto nuovo e moderno nella Fattura è l'aver guardato in quel comune e in quell'umiltà e in quella povertà d'amore, con uno sguardo d'artista così acuto e così profondo e così commosso, di una commozione e un'artistica pietà che non è mai espressa visibilmente, ma che nasce dagli avvenimenti e dalla stessa potenza della rappresentazione, tanto lucida e tanto intensa, da riuscire, allo stesso tempo, implacabile e pietosa.
Nella Passione di Dafni (I) è forse il T. più vario e più ricco. Questo poemetto, in cui, prima di cantare la morte di Dafni, si descrivon mirabilmente la scena campestre e i bassorilievi della coppa che si dara in dono al cantore, come premio del canto bucolico, e che si chiude con la gioia del cantore che ottiene la vittoria, è una mirabile sintesi dell'arte di T., in cui è il suo senso finissimo del campestre, delizioso ed esatto, e la sua magia d'arte divinizzatrice e purificatriee; la sua verità e il suo sogno; la sua malizia e la sua comprensione profonda del dolore umano. È qui la grazia sorridente dei suoi idillî migliori, di cui solo le Muse sanno il segreto; ma da essa si eleva qualcosa di doloroso, di grande, di solenne, di divino e di supremamente umano nel medesimo tempo (nella passione di questo eroe del mito), che mai ci era apparso nella sua poesia. Ed è mirabile che il poeta del cicaleccio femmineo delle Siracusane, delle stridule contese dei mimi rustici, abbia qui trovata questa altissima poesia del leggendario misterioso, di cui sa avvolgere l'amore che conduce Dafni a morte, in un cosmico sfondo di natura e in un grandioso accorrere di figure divine che l'arte sua commuove dalle olimpiche sedi e chiama spettatrici dell'umano dolore. In questo suo canto, T. supera interamente l'alessandrinismo, e appare l'ultimo dei classici, il più puro figlio delle Muse, nell'età, troppo umana ormai e borghese, dell'ellenismo trionfante.
Ediz.. e trad.: L'ed. principe è di Milano, circa 1493; importanti quella con comm. variorum del Heindorf (1810) e quella del Meineke (1856); ipercritica, ma notevole, quella dell'Ahrens (1855-59); fondata sui suoi nuovi studî della tradizione del testo (esposti in Textgeschichte der griech. Bukoliker, 1906) è quella assai pregevole del Wilamowítz (2a ed., 1910, nei Bucol. Graeci di Oxford); più recente l'edizione con introduzioni e traduzione francese del Legrand (Bucol. grecs, Parigi 1925). Un'edizione italiana è in preparazione a cura di C. Gallavotti. Commenti: latino del Frietsche (1865-69), tedesco di Frietsche-Hiller, 1881, inglese di Cholmeley (3a ed., 1909). La più importante scoperta papirologica per il testo di T. è quella dei due papiri pubblicati dal Hunt e dal Johnson (Londra 1930), uno di Ossirinco (n. 2064), l'altro di Antinoe: il primo della seconda metà del sec. II d. C., contenente frammenti degl'idillî I, III-VIII, che conferma che l'idillio VIII era ritenuto di T. il secondo della fine del sec. V, o del principio del VI, contenente frammenti di molti idillî, fra cui l'Eracle fanciullo (XXIV) in una forma più compiuta (onde appare essere esso decurtato nella fine nei nostri codici) e scarsissimi resti di una nuova poesia di T. di argomento erotico. Traduzioni italiane: E. Bignone, Palermo 1924; E. Romagnoli, Bologna 1925.
Bibl.: Ph. E. Legrand, Étude sur T., Parigi 1898; E. Bignone, T., studio critico, Bari 1934; cfr. le introduzioni agl'Idillii nella traduzione di A. Taccone, Torino 1914; A. Rostagni, Poeti alessandrini, Torino 1916. Per il dialetto, v.: Morsbach, De dialecto Theocritea, parte 1a in Diss., Bonn 1874, la parte 2a in Curtius Studien, X, come pure l'Appendice del comm. del Cholmeley. Per la cronologia, vedi l'Appendice dello studio critico del Bignone e G. Perrotta, Studi di cronologia teocritea, Firenze 1924. Per l'autenticità dell'idillio VIII, attestata da tutta la tradizione concorde, e a torto negata da parecchi studiosi, si veda E. Bignone, l'Idillio VIII di T. e la sua autenticità, in Atene e Roma, 1933, pp. 221-64 e in opuscolo a parte, Firenze 1934. Un vocabolario di T. è quello di S. Rumpel, Lexikon Theocriteum, Lipsia 1879.