AMEYDEN, Teodoro
Il suo nome si trova scritto in molte maniere diverse: Amaiden, Amayden, Amaydenio, a Meyden, à Meijden, Amidenus, Amidenius, Amydenius, Amydenus, Amideno, Maiden. Nacque nel 1586 nella città di 's-Hertogenbosch nel Brabante, regione dei Paesi Bassi spagnoli. Suo padre, Gerardo, servi per ventidue anni il re Cattolico e fu, secondo una testimonianza dell'epoca, ufficiale fedele e coraggioso che morì sul campo di battaglia. L'A. volle seguire - benché in maniera diversa - l'esempio di suo padre a servizio del re di Spagna, soprattutto perché vide in lui il campione e il difensore del cattolicesimo.
Giovanissimo, fece la conoscenza del cardinale Andrea d'Austria, che stabili per breve tempo la sua residenza a 's-Hertogenbosch (1598), quando cioè Alberto d'Austria, suo cugino, gli affidò temporaneamente il governo dei Paesi Bassi per recarsi a sposare la figlia di Filippo II, Isabella Clara Eugenia. Ritornati Alberto ed Isabella a Bruxelles nel 1599, il cardinale Andrea rientrò nella sua sede vescovile di Costanza, e l'A. lo accompagnò per rimanere alla sua corte. Quivi rimase per più di un anno, e nella seconda metà dell'anno santo 1600 pellegrinò a Roma con il cardinale, che vi morì nel novembre.
L'A. ritornò per breve tempo in Germania e nella sua patria, ma l'anno seguente - forse dietro consiglio di suo zio Cristiano Ameyden, celebre cantore e decano della Cappella Sistina e compositore di musica sacra - lo ritroviamo a Roma. Fu assunto quale "convictor" nel Seminario Romano e frequentò i corsi di filosofia e teologia dei padri gesuiti al Collegio Romano per cinque anni. Nel 1606 sposò una romana, Barbara Fabrini, da cui ebbe diciassette figli (nessuno dei quali gli sopravvisse, ed anche sua moglie lo precedette nella tomba nel 1635; sposò un'altra romana, Cassandra Guarnelli, che morì nel 1654). Nel 1607 fu dichiarato dottore in utroque iure a Macerata.
Cominciò allora la sua attività, che lungo mezzo secolo fu sempre instancabile e multiforme. Abitando sempre a Roma si diede con grande impegno al suo dovere quotidiano di giurista ed acquistò grande fama nella Curia romana, della quale fu avvocato in molte cause, soprattutto della Dataria apostolica. Per qualche tempo fu anche decano del collegio degli avvocati romani. Parimenti fu nominato avvocato del re di Spagna presso la corte di Roma, agente politico per il governatore di Milano, assessore legale, fin dal 1633, nel tribunale dei Conservatori romani, consultore ed avvocato di diversi istituti religiosi. Fu anche membro attivo di due confraternite: di S. Maria in Campo Santo dei Tedeschi e di S. Maria dell'Anima, in cui fu eletto più volte "provvisore" e camerlengo.
E come se tutto questo non bastasse, trovò pure tempo per comporre numerose opere e per tradurre composizioni latine, olandesi e spagnole in lingua italiana (alcune manoscritte nella Biblioteca Vaticana). Il suo primo lavoro, Della natura del vino, apparve a Roma nel 1608; seguirono le Rime, dedicate alla principessa Isabella d'Asburgo (nel cod. Ottob. Lat.1683), un commentario erudito sulle Rime di Pietro Bembo, composto nel 1611 (Ottob. Lat. 2265), e nello stesso tempo una serie di recensioni di opere poetiche e letterarie di scrittori italiani contemporanei, intitolata Censure di poeti toscani, e dedicata al principe Alberto d'Austria (Ottob. Lat.1682). Conosciamo ancora di lui una traduzione del Pentateuco negli anni 1634-35 (Vat. Lat.8653), di diverse commedie spagnole, di cui alcune a stampa: Il Cane dell'Ortolano, Viterbo 1642; La Dama frullosa, Roma 1670 e Bologna 1678. Resta dell'A. stesso una tragicommedia, L'amante fida over Corebo (Ottob. Lat.,1683).
Più noto è il suo libretto De Pie tate Romana, Romae 1625, raccolta di informazioni sulle opere di carità cristiana esistenti a Roma, sul governo ecclesiastico e sulla Curia romana; fu tradotto in diverse lingue.
L'A. si fece conoscere anche quale organizzatore di feste come si legge nella sua Relazione della festa fatta alla Riccia, Roma 1633, per la solenne traslazione di una immagine della Madonna, e nella Relazione delle feste fatte in Roma per l'Elettione del Re de' Romani in persona di Ferdinando III, Roma 1637. Che l'A. si interessasse alla vita pubblica, agli eventi della corte papale e civile è dimostrato da altre opere: Panegyricus ad Urbanum VIII de felici eius ad Summum Pontificatum assumptione, Lugduni 1625; Panegyricus Urbano VIII ob recuperatam e morbo salutem, scritto probabilmente nel 1637 (Ms. Chigi R. V. g. nella Biblioteca Vaticana); Oratio in funere Elisabethae Borboniae, Romae 1645, ed Oratio de trina Ioannis Austriae expeditione, Romae 1653.
Scrisse pure trattati su questioni giuridiche, di cui uno fu stampato: Consultationes duae... in materia cambiorum, Placentiae 1628; 1669. Parecchi altri suoi trattati manoscritti di giurisprudenza si conservano nella Biblioteca Angelica di Roma.
Molto grazioso è il suo scritto Relazione della città e corte di Roma, una descrizione destinata al marchese di Leganes, governatore di Milano, nella quale tratta del sito, del clima della città e della sua campagna, del Tevere, del carattere e delle abitudini dei Romani, dei monumenti, ponti, fontane, giardini, degli studi, delle finanze, del governo civile di Roma. Vi si trova anche un elenco di tutte le famiglie nobili, romane e straniere contemporanee. L'opera ebbe grande diffusione e fu inserita nella collezione di Tesori della Corte di Roma (Bruxelles 1672), pp. 99-184.
Ugualmente interessante per la storia di Roma è Delle Famiglie Romane, una grossa opera, terminata verso la fine della sua vita, contenente un repertorio prezioso - benché non sempre attendibile in tutti i suoi dati - della nobiltà romana: la sua origine, divisione in diversi rami, situazione attuale, stemma, ecc. (edizione C. A. Bertini, 2 volI. Roma 1910-14).
Poco conosciuti sono i suoi Discorsi su diversi temi. Il migliore di questi ci sembra il Discorso sopra l'interdetto della Chiesa et Hospitale di S. Giacomo de Spagna a Roma dell'anno 1628 e dedicato al suo grande amico, il marchese Vincenzo Giustiniani (Barber. Lat. 5285).
L'opera dell'A, finora più letta e citata è senza dubbio Vitae et Elogia Summorum Pontificum et S. R. E. Cardinalium suo aevo defunctorum, certamente anche la più criticata dagli storici moderni, che però non sembrano tener conto di quanto l'autore espressamente dichiara nella prefazione (indirizzata prima al figlio Urbano, poi, dopo la morte di questo, al nipote Filippo) di non volerla cioè dare alla luce ("extra parietes privatos non prodibit"): misura prudenziale, poiché si tratta qui, per la maggior parte almeno, di ricordi personali e giudizi provvisori riguardo a tutti i papi e tutti i cardinali morti durante il suo soggiorno a Roma. Troviamo qui raccolte così circa duecento "Vite", per il periodo che va dal 1600 a tutto il 1655.
Molti di questi aveva conosciuti intimamente, sia per il suo lavoro nella Curia, sia per le sue relazioni molteplici e frequenti con i personaggi più illustri del tempo (come mostra una parte della sua corrispondenza che si conserva nella Biblioteca Vaticana, Urb. Lat.1624, 1625,1629; Ottob. Lat.2318, 2319 ecc., dove sono lettere all'imperatore, al re di Spagna, a cardinali, a vescovi, a principi, ad ambasciatori, ecc.). È facile capire come non solo egli sia abbondante nei suoi elogi, ma molte volte anche aspro nella sua critica: non sempre il suo giudizio è quello definitivo e oggettivo che la storiografia può dare, mancando all'A. quel distacco dai fatti narrati, necessario per una considerazione completa e matura. Tuttavia, quest'opera contiene molti dati interessanti, che spesso gettano una luce particolare su determinate persone. Malgrado il carattere privato del lavoro voluminoso dell'A. che comprende molte centinaia di pagine, gli "Elogi" presto vennero nelle mani di molti e furono copiati e ricopiati: si conservano così ancor oggi circa trenta esemplari manoscritti, di cui la maggior parte nelle biblioteche di Roma. L'originale sembra che sia quello della biblioteca Casanatense, ms. 1336.
Un'opera di più grande valore per la storia è il suo Diario, che in origine fu una serie di "Avvisi", un genere letterario diffuso in quell'epoca, consistente in fogli volanti con le notizie del giorno, notizie di ogni specie quindi: sulla vita di Roma, dei romani, della corte, sulla vita domestica dei nobili; insomma una forma di giornalismo primitivo. Questi "Avvisi" furono scritti regolarmente ogni quindici giorni per tenere al corrente il governatore di Milano; riuniti poi insieme sotto il titolo Diario di Roma, notato da Deone hora temi Dio (anagramma delle lettere di "Theodoro Ameiden"), comprendono notizie dall'anno 1640 a tutto il 1650. Questa cronaca presenta, come è chiaro, particolari e dettagli che è difficile trovare altrove, ed è di grande interesse per la storia privata della società romana di quel decennio. Leggendola però bisognerà sempre tener presente che l'autore appartenne alla fazione spagnola e che non nasconde la sua ostilità verso la Francia. Il manoscritto si trova nella biblioteca Casanatense, n. 1831-1833; l'anno 1650 vi manca, ma si trova nella Biblioteca nazionale di Napoli.
Tragico fu l'avvenimento degli ultimi suoi anni di vita: dopo lunga maturazione l'A. aveva terminato un grosso volume sulla Dataria apostolica, De officio et iurisdictione Datarii et de stylo Datariae, per rispondere alle accuse ingiuriose di parte protestante. Dall'opera risulta che l'autore conosceva a fondo la struttura, il procedimento e la competenza di tale ufficio. Ma essa fu stampata a Venezia nel 1654 senza il "Superiorum perniissu", per colpa - pare - dello stampatore. Malgrado la dedica al papa Innocenzo X, questi comandò che fosse istruito un processo presso la Congregazione dell'Indice, che fu assai duro: l'A. fu bandito 'in perpetuitate' dallo Stato pontificio nello stesso anno. La severità della pena ci sembra un po' misteriosa, e finora non si sa ancora nulla di certo, se la negligenza suddetta ne fosse l'unica ragione (del libro si ebbe una ristampa a Colonia nel 1701).
La sua Apologia e le suppliche a diverse persone illustri non ebbero risultato; sua moglie morì nel frattempo. Per la sua energia instancabile, anche durante l'esilio che trascorse a Firenze non cessò la sua attività letteraria: compose una Relazione del governo di Firenze per il re di Spagna, di cui si conserva una copia a Firenze nel fondo Moreniano, ms. 197 della Biblioteca Riccardiana.
Morto papa Innocenzo X (1655), l'intercessione del cardinale Medici presso i conclavisti gli valse il permesso di rientrare nella Roma da lui tanto amata, ove, un anno dopo, il 30 genn. 1656 morì. Fu sepolto nella sua chiesa prediletta, Santa Maria dell'Anima.
Bibl.: A. Hensen, Dirk Gerritzoon Ameyden, in De Katholiek, CXXIV (1903), pp. 22-36; Id., Dirk van Ameyden, ibid., CXXVII (1905), pp. 421-454; Id., Ameyden, in Nieuw Nederlandsch Biografisch Woordenboek, II, coll. 31-33; J. Orbasii, Bescheiden in baliE omtrent Nederkmdsche Kunstenaars en Geleerdendeel, I, Deel Haag 1911; G. Hoogcwerff, Bescheiden cit., Deel 11-111, Den Haag 1913-17; J. v. 4. Gheyn Deux Erudits belges en Italie au XVII siècle, in Annales de l'A cad. Rovale d'Arckéol. de Belgique, X (1908), pp. 207-238; G. Stienon et Szabó Mihály, Notice sur T. A., un belge, in Mémoires de l'Acad. Royale de Belgique, classe de Lettrea, 2 s., XXVII (1929), fasc. 2, pp. 1-27; L. v. Pastor, Storia dei Papi, XIII, Roma 1931, pp. 1041-1044; I. Tellechea Idlgoras, Los "Elogia Pontificum et Cardinalium" de Ameyden, in Cuadernos de Trabajos de la Escuela Española de historia y arqueologia en Roma, VII (1955), pp.183-217.