TEODORO di Antiochia
TEODORO di Antiochia (al-ḥakīm Thādhūrī, Teodoro il sapiente). – Secondo il Mukhtaṣar ta’rīkh al-duwal (Breve storia delle dinastie) dell’autorevole teologo e storico Bar Hebraeus (Abū ‘l-Faraǧ Ibn al-῾Ibrī, 1225/1226-1286, un cristiano siriaco, cresciuto nella medesima città), nacque ad Antiochia, all’epoca capitale di un principato franco indipendente e centro culturale di rilievo, in una data imprecisata, ma prima della fine del XII secolo. Appartenne alla Chiesa siriaca (giacobita). Nulla si sa della famiglia di provenienza.
Ad Antiochia Teodoro, che padroneggiava il siriaco e il latino, studiò le scienze degli antichi; poi però, volendo completare la sua istruzione, si spostò a Mosul e di qui a Baghdad, oltrepassando frontiere politico-militari che evidentemente non ostacolavano la circolazione dei dotti. A Mosul studiò con uno dei più celebri maestri del mondo islamico, Kamāl al-Dīn Ibn Yūnus (1156-1242), filologo, teologo, giurista, filosofo, matematico; a Baghdad, invece, apprese la medicina. Risiedette poi probabilmente per qualche tempo a Gerusalemme, dove è ricordato come maestro di filosofia del medico melchita Ya῾qūb Ibn Ṣaqlān. Dopo di ciò, Teodoro riapparve ‘in servizio’, con mansioni non specificate, ma che certo includevano la medicina, presso le corti del sultano selgiuchide di Rūm ῾Alā’ al-Dīn Kay-Qubādh I (1219-37) e del reggente dell’Armenia cilicia Costantino di Lampron (1221-26); con entrambi, secondo Bar Hebraeus, non ebbe un buon rapporto.
In una data non precisata, anteriore però al 1230, approdò alla corte di Federico II per tramiti non conosciuti: forse un’ambasciata imperiale in Armenia, forse i legami con il sultano d’Egitto. Secondo la testimonianza del Mukhtaṣar ta’rīkh al-duwal, Teodoro vi rimase per molti anni, e ottenne dall’imperatore favori e benefici, fra cui un feudo in Sicilia, ancorché desiderasse disperatamente di tornare a casa.
A proposito delle attività di Teodoro alla corte dell’imperatore svevo, da diverse – pur se discontinue ed eterogenee – fonti occidentali (non da Bar Hebraeus, che tace al riguardo), si hanno informazioni che ben si adattano al quadro biografico sopra delineato. Teodoro è designato, nei documenti imperiali, oltre che con il titolo generico di magister, con quello di philosophus: il suo ruolo era quello di filosofo dell’imperatore (imperialis philosophus), una definizione senza precedenti nelle corti occidentali, ma che trovava paralleli nella società islamica.
In quest’ultima, il ḥakīm era impegnato negli studi secolari, cioè nelle scienze degli antichi ‒ aristoteliche, in primo luogo ‒, nella medicina, nell’astronomia e nell’astrologia, ed era spesso al servizio di un signore, che accompagnava nei suoi spostamenti e consigliava in materia sanitaria e astrologica (Burnett, 1995, pp. 248-250). Non stupisce pertanto che Federico II s’ispirasse, in questo come in altri aspetti della sua complessa politica culturale, al mondo islamico contemporaneo: alla sua corte troviamo in primo luogo Michele Scoto, detto magister o astrologus dell’imperatore, e successivamente – con un’importanza crescente dopo la morte di costui (1235/1236) –, appunto Teodoro, con una pluralità di compiti diversi.
Si faceva uso, innanzi tutto, della sua conoscenza dell’arabo: nel 1240 egli scrisse per conto dell’imperatore una lettera in arabo all’emiro di Tunisi; nello stesso anno o poco prima tradusse dall’arabo in latino un trattato di falconeria, o meglio di medicina dei rapaci, conosciuto con il nome di Moamin e destinato a un largo successo in Europa; è anche probabile che Teodoro sia stato coinvolto nell’elaborazione dei quesiti filosofici rivolti dall’imperatore al mistico andaluso Ibn Sab’īn (1240 ca.). A Teodoro, in quanto medico, si richiese inoltre di preparare uno sciroppo per l’imperatore e il suo entourage (1240); egli mandò una scatola di zucchero di viola a Pietro Della Vigna, insieme a una lettera con cui ne raccomandava l’uso; redasse per l’imperatore un Regimen sanitatis in forma epistolare, che si aggiungeva a quelli indirizzatigli da Adamo da Cremona e da Pietro Ispano. Sono probabilmente riconducibili a Teodoro gli scambi di problemi matematici con Leonardo Fibonacci da Pisa e di problemi geometrici con Yehudah ben Shelomoh ha-Kohen: con il primo la corrispondenza avvenne in latino, con il secondo in arabo.
Teodoro seguì l’imperatore nelle sue campagne militari. Nel 1238, durante l’assedio di Brescia, sostenne una disputa filosofica con il frate domenicano Rolando da Cremona, uscendone, secondo Umberto da Romans, malamente sconfitto; nel 1239, secondo la cronaca di Rolandino da Padova, preparò gli oroscopi per l’imperatore, pur non avendo potuto, per il maltempo, servirsi dell’astrolabio montato sulla torre del Comune. È inoltre probabile che Teodoro partecipasse alle discussioni filosofiche fiorite nell’entourage federiciano ‒ Michele Scoto, Ya‘aqov Anatoli ecc. ‒ e avesse un ruolo anche nella coeva traduzione delle opere di Averroè, della Retorica e dell’Etica Nicomachea di Aristotele (Burnett, 1995, pp. 244 s.).
La fama di Teodoro è legata soprattutto, come si è accennato, al Moamin, che volge in latino una compilazione in lingua araba, il Kitāb al-mutawakkilī; del nome del suo ultimo compilatore, Muḥammad al-Bāzyār, si trova forse un riflesso in Moamin falconarius. L’opera araba, basata sui più antichi trattati di Adham Ibn Muḥriz e al-Ghiṭrīf Ibn Qudāma al-Ghassānī, è andata però perduta ‒ se ne conserva una versione castigliana, di poco posteriore a quella latina ‒ ed è pertanto difficile farsi un’idea del metodo di lavoro di Teodoro; così come è difficile distinguere, nel Moamin latino, il contributo di Teodoro da quello dell’imperatore, che corresse l’opera durante l’assedio di Faenza (autunno-inverno 1240-41): ci sono infatti pervenute solo versioni del testo posteriori alla correzione, mentre della versione originale è sopravvissuto solo il prologo, diverso, e più lungo, di quello poi vulgato. Nonostante ciò, si può dire che la traduzione di Teodoro sia decisamente ben riuscita, poiché essa sembra largamente comprensibile ai suoi più tardi volgarizzatori e priva di errori semplici imputabili al traduttore. Il lessico della falconeria coincide con quello del De arte venandi cum avibus, il grande trattato sull’addestramento dei falconi composto dallo stesso Federico; in effetti le due opere appaiono in qualche modo complementari, come testimonia la tradizione del testo maggiore, che in due dei suoi cinque manoscritti completi è seguito dal Moamin. È anche possibile che il prezioso esemplare del De arte venandi appartenuto all’imperatore, e da lui perduto nel 1248 durante l’assedio di Parma, contenesse il Moamin, costituendo così una specie di summa della scienza ornitologica federiciana. A conti fatti, il Moamin ebbe una circolazione ben più ampia del De arte venandi: la versione latina, conservata da ventisette manoscritti, fu tradotta in franco-italiano da Daniele Deloc (1249-72), in toscano da maestro Moroello (inizio XV secolo), in napoletano da Iammarco Cinico (1482-89), ancora in italiano da Sebastiano Antonio de Marinis (XVI secolo), per un totale di sette manoscritti e una versione a stampa. Non sembra però, al pari del De arte venandi, aver avuto un impatto scientifico concreto, tanto ai suoi tempi quanto nei secoli successivi (Glessgen, 2001, pp. 73 s.).
La risonanza del nome di Teodoro va però ben al di là delle sue opere e della sua multiforme attività, come dimostra il fatto che, nello stesso XIII secolo, esso compare in due testi singolari, molto diversi fra loro: il Livre de Sidrach e l’Epistola prudenti viro. All’origine della diffusione del Livre de Sidrach, enciclopedia scientifica volgare di grandissimo successo, vi sarebbe «.i. home d’Antioche qui ot non Thodre le phillosophe» (un uomo di Antiochia, che aveva per nome Teodoro il filosofo; Sydrac le philosophe, 2000, p. 2): il testo sarebbe giunto tramite il signore di Tunisi alla corte imperiale, dove Teodoro ne avrebbe ottenuto fraudolentemente una copia e l’avrebbe trasmessa al patriarca di Antiochia Obert, da cui poi sarebbe stata rimandata a Toledo, suo luogo di origine.
Questa confusa genealogia del testo francese, le cui fonti sono in realtà tutte occidentali ‒ anche se l’autore potrebbe essere un franco d’Oltremare ‒ è significativa di luoghi e personaggi che hanno acquisito, all’epoca, uno status semileggendario. Quanto all’Epistola prudenti viro, si tratta di una lettera fittizia, scritta verso il 1238-40 e attribuita al filosofo arabo nestoriano al-Kindī, vissuto in realtà nel IX secolo; questi avrebbe avvertito il suo corrispondente Teodoro, filosofo del più invincibile dei Cesari, della minaccia rappresentata dall’invasione mongola. La lettera, venata da toni apocalittici, si basa in realtà sui Mirabilia mundi e sull’Imago mundi di Onorio di Autun ed è chiaramente finalizzata a propagandare una crociata antimongola fra i sovrani occidentali; ancora una volta, la figura di Teodoro appare associata a quella di Federico II e oggetto anch’essa di manipolazioni fantastiche e strumentali.
In data imprecisata, in ogni caso prima della morte di Federico II (1250), Teodoro morì suicida dopo aver tentato – disobbedendo ai voleri del suo signore – di fuggire Oltremare.
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