WOLF FERRARI, Teodoro.
– Nacque a Venezia il 28 giugno 1878, secondo dei cinque figli maschi di August Wolf, pittore tedesco che lavorava come copista dei maestri rinascimentali, e di Emilia Ferrari, aristocratica veneziana.
La famiglia si stabilì presto in fondamenta Rezzonico, nella zona di campo S. Barnaba, dove in seguito Wolf Ferrari stabilì il suo primo studio veneziano. Tutti i figli di August si appassionarono all’arte e alla musica: in particolare, il primogenito Ermanno divenne presto un noto compositore, impegnato nel recupero del teatro goldoniano e dell’opera buffa settecentesca (già al 1906 si data il suo capolavoro, I quattro rusteghi). In seguito al successo ottenuto da Ermanno, Teodoro cominciò a usare fin da giovane i cognomi di entrambi i genitori – abitudine che poi in realtà presero tutti i fratelli.
Anche Teodoro studiò musica, suonando la chitarra, ma presto seguì le orme del padre. Dal 1892 al 1895 fu allievo dell’Accademia di belle arti di Venezia. La scuola di pittura, allora diretta da Guglielmo Ciardi, prevedeva un severo tirocinio nel disegno, e la varietà e la complessità delle opere giovanili di Wolf Ferrari rendono ben conto della sua preparazione accademica, cui contribuirono anche Pietro Fragiacomo e Millo Bortoluzzi. Poco più giovani di lui, uscirono dalla stessa scuola Umberto Moggioli e Nino Springolo.
Terminati gli studi veneziani e su spinta del padre, Wolf Ferrari frequentò anche l’Accademia di belle arti di Monaco: trascorrere lì i secondi anni Novanta gli permise di far convivere, nella propria formazione, le suggestioni del mondo lagunare e quelle della Secessione tedesca. I due ambienti furono, per motivi diversi, centri preziosi per la crescita del giovane artista: mentre Venezia si preparava alla prima Biennale del 1895, Monaco viveva il felice periodo compreso tra la fondazione della Secessione, nel 1892, e la nascita di Der Blaue Reiter nel 1911. Quella particolare fusione tra arti figurative e arti applicate – raggiunta anche grazie alle coeve suggestioni Arts and crafts – fu un fondamentale stimolo visivo, culturale e teorico per tutta la prima parte della vicenda artistica di Wolf Ferrari (1895-20). A questa prima, determinante attività egli dovette la propria fama: il vivo sperimentalismo rivelato in questi anni – che si interruppe solo durante la prima guerra mondiale, quando fu soldato nell’esercito italiano – rende bene l’idea di cosa potesse affascinare un dotato pittore veneziano a quelle date. Tra i più importanti amici conosciuti a Monaco, Wolf Ferrari ricordò spesso Fritz Erler e Leo Putz: i due artisti, dapprima collaboratori della rivista Jugend e fondatori dell’associazione Die Scholle («la zolla») nel 1899, ebbero un ruolo fondamentale nel creare un legame tra le esperienze tedesche e quelle francesi.
Nei primi anni del secolo Wolf Ferrari trascorse lunghi periodi in Germania e riuscì a esporre il proprio lavoro anche all’estero (1901, galleria Heinemann, Monaco; 1901, Mostra permanente di belle arti, Monaco; 1902, Esposizione internazionale per le arti decorative, Torino; 1904, Kunstsalon, Monaco; nel 1905 espose, in mostre senza catalogo, a Wiesbaden, Norimberga, Berlino, Kiel). Soggiornò spesso nelle zone della Bassa Sassonia e realizzò en plein air una serie di paesaggi ventosi in cui unì toni ancora veneziani a nuove aperture al mondo tedesco (Paesaggi, trittico, 1904; Paesaggio con abete, 1904; Lüneburger Heide, 1904; tutte le opere citate in questa voce sono oggi conservate in collezioni private, e così la gran parte della sua produzione). Nel 1904 sposò la monacense Rosa Golling e si stabilì a Venezia; ebbero due figlie, nate nel 1906 e nel 1913.
A Venezia Wolf Ferrari rielaborò quanto appreso negli anni tedeschi. Figura fondamentale nell’Accademia di Monaco era stato Arnold Böcklin, che a quelle date sembrava dare, nei suoi notturni, il più calzante equivalente pittorico della poesia simbolista. Al suo quadro più noto, L’isola dei morti (di cui esistono cinque versioni realizzate tra il 1880 e il 1886), e più in generale alla sua opera, Wolf Ferrari fece esplicito riferimento più volte, anche a distanza di molti anni (Bufera, 1908; Notte, 1908; Paesaggio notturno, 1908; Veduta dell’isola misteriosa, 1917; L’isola misteriosa, 1917); questo suo genere di quadri fu particolarmente apprezzato nella Venezia di allora. Grazie a Erler e a Putz conobbe poi la pittura più tarda e sintetica di Paul Gauguin, ma anche i risultati di Paul Sérusier e Maurice Denis, avvicinati anche per merito dei pittori della scuola buranese, e in particolare di Gino Rossi, Umberto Moggioli e Ugo Valeri (Paesaggio di montagna, 1908); il momento in cui risultò più vicino all’à plat dei Nabis fu quello dei pannelli decorativi per paraventi a più ante cui lavorò intorno al 1908. Questa solida matrice modernista rese Wolf Ferrari uno dei protagonisti della stagione di Ca’ Pesaro, il gruppo di pittori veneti che negli anni Dieci animò la laguna sotto la guida del direttore della Galleria d’arte moderna Nino Barbantini. Essere al contempo figlio della tradizione lagunare ottocentesca e aperto alle novità moderniste dell’arte mitteleuropea gli consentì di prendere parte sia alle mostre del circuito ufficiale della Biennale veneziana sia a quelle del gruppo capesarino.
Wolf Ferrari partecipò anche a diversi concorsi per la realizzazione di manifesti e locandine e fu chiamato come pittore decoratore in noti luoghi cittadini come il Grand Hotel d’Italia, il caffè Santa Margherita (entrambi terminati nel 1908) e lo stabilimento Bagni del Lido di Venezia (1910). In quello stesso 1910, accanto ad alcune esposizioni in Germania, ebbe la sua prima importante personale di cinquantadue opere alla mostra estiva del gruppo di Ca’ Pesaro (l’altro protagonista di quella mostra fu Umberto Boccioni); egli stesso si occupò dell’allestimento e della decorazione delle proprie sale. La mostra fu poi riproposta a Stoccolma (autunno 1910) e ad Hannover (1912).
Nel 1912 fondò l’associazione L’aratro, che fin dal nome guardava ancora all’esperienza monacense di Die Scholle: i membri erano impegnati nella realizzazione non solo di dipinti, ma anche di vetrate, oggetti d’arredo, tappezzerie e gioielli, esposti per la prima volta in due sale della mostra capesarina di quell’anno. Wolf Ferrari disegnò alcuni gioielli e tre vetrate, realizzati rispettivamente da Antonio Passoni e Giuseppe Maffioli. Del lungo lavoro ideativo dell’artista ci rimangono interessanti bozzetti, su fogli da disegno e su pannelli decorativi. Furono coinvolti nel gruppo, tra gli altri, Guido Marussig e Guido Cadorin. Nel saggio in catalogo scritto dallo stesso Wolf Ferrari, il richiamo esplicito all’esperienza monacense era affiancato al riferimento più generale alle «associazioni di giovani battaglieri che sentono di poter profferire parole nuove» – cioè coloro che si stavano allora impegnando per la rivalutazione delle arti applicate (ora in Opere giovanili di Teodoro Wolf Ferrari, 1968, p.n.n.). Proprio a queste ultime egli si dedicò con maggiore impegno in quegli anni, soprattutto grazie alla collaborazione con Vittorio Zecchin: le vetrate e i vasi da loro ideati e poi realizzati nelle fornaci Barovier di Murano furono esposti a Monaco nel 1913 e alla Biennale veneziana del 1914 (sul suo lavoro nell’arte del vetro: Teodoro Wolf Ferrari, 2006, pp. 93-108).
Come pittore da cavalletto Wolf Ferrari continuò a dedicarsi esclusivamente a temi paesaggistici: le sue inquadrature rifuggivano qualsiasi simmetria del soggetto e le cromie erano raffreddate e antinaturalistiche (Giardino con laghetto e salice, 1912; Giardino fiorito, 1912). Negli anni Dieci, poi, ai motivi più nordici e romantici e alle soluzioni sintetiste francesi unì suggestioni giapponiste (visibili soprattutto negli allora diffusissimi tagli compositivi fortemente ribassati) e un nuovo, fondamentale spunto: fu infatti determinante avere visto l’opera di Gustav Klimt, la cui sala alla Biennale del 1910 rimase salda nella memoria dei pittori veneziani. Se però molti di loro avevano badato al preziosismo decorativo klimtiano e ne avevano seguito le orme in maniera più piana, assecondandone ori e ghirigori, Wolf Ferrari guardò soprattutto (ed è facilmente spiegabile) ai paesaggi del pittore viennese, ai suoi prati afocali, disseminati di colori e interrotti da alti fusti terminanti ben al di sopra della cornice (Betulle, 1913; Composizione di salici e primule, 1914; Salici sul lago, 1915; Betulla e glicini, 1919).
Fatta eccezione per qualche piccola mostra, gli anni della guerra furono per Wolf Ferrari un lungo e sofferto periodo di allontanamento dalla pittura, di cui si legge testimonianza nelle lettere ancora inedite al fratello Ermanno (Teodoro Wolf Ferrari, 2018, p. 33). Terminato il conflitto, riprese a dipingere, tornò a esporre a Ca’ Pesaro e fondò l’Unione giovani artisti di Venezia – poi detta Circolo artistico – diventandone vicepresidente e legando l’attività dei pittori agli spazi espositivi della galleria Geri-Boralevi a S. Marco (Bianchi, 2018).
Nel 1920 i rapporti all’interno del gruppo capesarino si complicarono e si arrivò addirittura alla scissione (Portinari, 2018): in questo contesto Wolf Ferrari maturò l’idea di allontanarsi da Venezia per soggiornare a San Zenone degli Ezzelini, il paese ai piedi del monte Grappa dove aveva trascorso le estati della sua infanzia. Mantenne però lo studio a S. Barnaba e continuò a esporre le proprie opere in mostre personali; partecipò poi a tutti gli eventi dell’Opera Bevilacqua la Masa e alle Biennali veneziane fino al 1938. Rinunciò invece al ruolo di animatore che aveva avuto nei primi anni del secolo e, soprattutto, abbandonò lo sperimentalismo che lo aveva contraddistinto. Nel 1925 fu invitato in Libia per documentare pittoricamente i paesaggi della colonia italiana: una prima serie di dipinti a olio eseguiti en plein air (vedute e scene di vita quotidiana) fu esposta già nel luglio del 1925 alla mostra dell’Opera Bevilacqua la Masa al Lido di Venezia, e l’esperienza si ripeté anche l’anno successivo. Nel 1929 fu coinvolto nella realizzazione di ventiquattro vedute di Predappio, paese natale di Benito Mussolini, poi pubblicate in volume.
Tra gli anni Venti e Trenta proseguì l’indagine sul tema paesaggistico, ma schiarendo nettamente i toni ed evitando le precedenti allusioni simboliste. Si dedicò invece a un più attento studio della luce, ora molto più compenetrata al colore, e allargò il campo visivo prediligendo la veduta più ampia al dettaglio ravvicinato (Veduta di San Zenone degli Ezzelini, 1921; Monte della Madonna, 1921); rimase però fedele ad alcuni motivi iconografici a lui molto cari, come le chiome affusolate dei cipressi, che tornarono continuativamente anche in alcune opere più tarde (San Zenone degli Ezzelini, 1924; San Zenone degli Ezzelini. Cipressi sul Monte della Madonna verso la Val Sugana, 1942).
In alcuni pensieri del 1925, pubblicati solo in occasione della mostra per il decennale della morte presso la Fondazione Bevilacqua La Masa (1955), si legge una lunga riflessione sul significato pittorico del quadro di paesaggio: a partire dagli anni Venti Wolf Ferrari finì per difendere la più totale adesione al vero, come chiariscono anche i risultati pittorici, tentativi ormai del tutto mimetici che sul retro portano sempre l’indicazione precisa di luogo, data e ora del paesaggio ritratto: «come si procede dinanzi al vero per ritrarre un punto “che ci è piaciuto”? Dipingendo fedelmente, nel più corto tempo possibile, il massimo possibile evitando l’impossibile, sintetizzando, e abbandonando il posto quando s’è fatto tutto quanto sta nelle nostre forze per ritrarlo “com’è”, ottenendo, così, “l’immagine sacra” alla quale non è possibile, poi, togliere o aggiungere una linea, senza deturparla. Così io ho “capito” la “Pittura di paesaggio” dopo trent’anni di prove e di esperimenti, rinunciando di “farla mia” con i miei pennelli e colori, fissando il massimo che Essa permette in quel pochissimo tempo che mi è dato, poiché essa è assai mutevole e non vuol essere annoiata» (ora in Teodoro Wolf Ferrari, 2006, pp. 44 s.).
Il desiderio di trascorrere la maggior parte del tempo nella campagna veneta, che emerge chiaro nella decina di racconti autobiografici pubblicati nel 1932 dal Gazzettino sera di Venezia, non gli impedì di organizzare anche più tardi periodiche mostre personali, ma sentimenti di delusione e sfiducia lo portarono al progressivo isolamento e al netto ridimensionamento dell’impegno attivo.
Trascorse dunque la maggior parte degli ultimi venticinque anni a San Zanone, dove morì il 27 gennaio 1945.
Fu sepolto nel cimitero di S. Michele a Venezia.
Dopo le prime retrospettive veneziane tenutesi in gallerie private, fu allestita nel 1968 un’importante mostra delle sue opere giovanili (1885-1919) nella Sala Napoleonica di Venezia, a cura di Guido Perocco (Opere giovanili di Teodoro Wolf Ferrari, 1968). Due esposizioni più recenti, a Bassano del Grappa e a Conegliano, hanno ripercorso l’intera vicenda dell’artista ampliando la riflessione anche agli anni Venti e Trenta (Teodoro Wolf Ferrari. Diario di un paesaggista, 2006; Teodoro Wolf Ferrari. La modernità del paesaggio, 2018).
Fonti e Bibl.: Opere giovanili di T. W. F., 1885-1919 (catal.), a cura di G. Perocco, Venezia 1968; G. Perocco, Origini dell’arte moderna a Venezia (1908-1920), Treviso 1972, pp. 325-348; T. W. F. Diario di un paesaggista (catal., Bassano del Grappa), Dolo-Trieste 2006; G. Bianchi, L’Unione giovani artisti all’Esposizione di Ca’ Pesaro del 1919, in Gli artisti di Ca’ Pesaro e le esposizioni del 1919 e del 1920, a cura di S. Portinari, Venezia 2018, pp. 59-70; S. Portinari, ‘Dissidenti’ e invitati alle mostre del 1920, ibid., pp. 161-180; T. W. F. La modernità del paesaggio (catal., Conegliano), Venezia 2018.