Teofilo Folengo: Opere
Nel gennaio 1517 usciva, a Venezia, un volumetto in latino maccheronico, in versi e in prosa, sotto lo pseudonimo di Merlin Cocaio, poeta mantovano. Aveva titolo Liber macaronices: occupava la pressoché totale compagine del libretto una ennesima avventura cavalleresca, divisa in diciassette libri o canti. Baldo, il protagonista eroe, della stirpe di Rinaldo, ha un nome che si ritrova già nell'Ancroia, uno dei libri cavallereschi più popolari, al pari del Guerin Meschino, del Buovo d'Antona e dei Reali di Francia. Il nuovo poeta che si cela sotto il fittizio nome di Merlin Cocaio è un venticinquenne frate benedettino, indubbiamente perito in lingua latina, dotato di un innato sentimento della misura metrica che stravolge l'esametro del suo conterraneo Virgilio nella direzione burlesca e goliardica dei maccheronici. Ammira, e non poteva mancare, il padovano Tifi Odasi che dichiara senz'altro suo precursore e suo maestro. Il latino non è un semplice paludamento o una premeditata escogitazione buffonesca, ma conserva una magnetizzante forza attiva, conglomerando i differenti materiali di quella invenzione - il volgare, i dialetti settentrionali, specie il mantovano - capace di piegarli in una realtà linguistica bensì deformante ma al tempo stesso coerente, rude e dissonante ma farcita di eleganza. La disciplina morfologico-grammaticale non sgarra e il complesso esercizio trae da questo rigore, del resto non forzoso ma naturale, un risultato di marcata eccezionalità nei riguardi di tutti i suoi precursori, lo stesso Tifi compreso. Né la storia difetta di vis comica, e la dissacrazione dell'epopea cavalleresca sia nel suo risvolto borghigiano riguardante Mantova e le sue terre sia in quello infernale, l'avventura di quegli eroi trovando conclusione nelle viscere della terra, è sostenuta da un ritmo non meccanico di trovate e di facezie. Due egloghe, pure maccheroniche, precedono il poema e la parodia del petrarchismo vi è palese: motivi e gusto presuppongono la Nencia da Barberino e la Beca da Dicomano. D'altra parte il Pulci dovette ben essere un innegabile amore del giovane poeta che trapianta nel suo Liber macaronices due personaggi tipicamente pulciani, Cingar e Fracasso, due alter ego di Margutte e di Morgante, non disponibili tuttavia a fungere da copie più o meno banali, ma capaci invece di rivendicare, soprattutto il primo, una autonomia inconfondibile. Ben presente al poeta, per prestigio d'arte e ancor più per le tonalità padane del suo sentimento delle cose e della lingua nei confronti della tradizione toscana, si sente l'Orlando innamorato del Boiardo. Mentre per l'Orlando furioso, uscito appunto nel 1516 e poi due altre volte edito con rifacimenti e correzioni dall'infaticabile autore, solo più tardi il giovane monaco poeta potrà vantarne la squisita eccellenza, serbandogli inoltre nella prefazione al pio poema della Umanità del Figliuolo di Dio un riconoscimento di totale ammirazione e devozione: siamo nel 1533 e da poco Lodovico Ariosto è mancato ai vivi. Ma tutta una biblioteca di letteratura cavalleresca è presente nella memoria del poeta come appare anche dagli intarsi più o meno celianti dei suoi testi che testimoniano di appassionate letture adolescenziali, presto trasformate in occasione e pretesto dalla sua geniale creatività. Il volumetto recava inoltre un breve saggio di prosa maccaronica: un Libellus de laudibus Merlini Cocai, non senza significato: e per l'allegria di quell'andamento prosastico e per l'amenità dell'intessuto intrigo editoriale nelle cui pieghe sorride già un incantevole gioco mistificatorio, spia di una ironia, se non pure di un'autoironia, rivelatrice di una componente essenziale dell'anima merliniana sottile e raffinata, un'anima di intellettuale, colta, sapiente e nata per mutare, con indiscutibile gusto aristocratico, i panni curiali in quelli beffardi della comicità e della satira.
Ai lettori - e non solo a quelli abituati a leggere Aiolfo del Barbicone o la Trebisonda - l'opera piacque anche se presupponeva un pubblico addottrinato almeno sino al livello del «latin del messale».
Nel 1520 videro la luce altre due ristampe, una a Venezia, l'altra a Milano. Ma quel che più conta è che l'opera riapparirà nuovamente nel 1521, sostanzialmente rifatta e poi ancora, ulteriormente elaborata, nel 1539-1540; postuma infine nel 1552, recante i risultati di un indefesso labor limae teso al raggiungimento del capolavoro. Lunga, profonda, meditata elaborazione di quel giovanile Liber macaronices che, in nuce, conteneva un potenziale di incrementi fantastici e espressivi atto a concrescere e a pervenire ad una eccezionale esemplarità d'arte. L'ultima edizione composta quando l'autore era ancora in vita ebbe titolo Macaronicorum poema, con la specificazione delle sue parti: Baldus, Zanitonella, Moschaea, Epigrammala: la seconda sezione rappresentando un ampliamento delle prime due originarie egloghe, pervenute alla sorprendente realtà di un vero e proprio canzoniere amoroso rusticano; le altre rappresentative di ulteriori parti originali nel genere maccheronico che, passati al travaglio del rifacimento e della rielaborazione, facevano già parte della edizione del 1521. L'opus infine, nell'edizione postuma citata, con una correzione insolita dello pseudonimo, suonava nel titolo: Merlivi Cocalii poetae mantuani macaronicorum poernata, e assumeva poi per la brevità dell'uso quello fatidico di Macaronea, compendiaria e sintetica denominazione assunta a gloria di un genere che aveva come precedenti le facili e rudi sortite del latinus grossus, i canti goliardici, la lingua mescidata dei predicatori, la fortuna dei primi maccheronici, quali Corado e Tifi Odasi, che si erano dati quelle costituzioni nel mondo culturale di Padova, capitale incontrastata del plurilinguismo italiano.
Tra edizioni principi e ristampe sono una dozzina le uscite dell'opera di Merlino durante il Cinquecento: un rilevante successo editoriale dunque, suffragato dall'incontro e dalle ripercussioni ch'ebbe nel discorso di Rabelais e dal riconoscimento ammirativo di quest'ultimo; sostenuto inoltre, oltr'alpe, dalla traduzione in francese, apparsa all'inizio del secolo XVII e precisamente nel 1606, ad opera di un anonimo ma non mediocre traduttore, con il significativo titolo di Histoire maccaronique de Merlin Coccaie, prototype de Rablais. Di questa fortuna tuttavia, vano sarebbe cercar gli echi nella trattatistica cinquecentesca: il nome di Merlino o per lui del Folengo non compare sotto la penna né dei grandi né dei minimi trattatisti, non sotto quella del Minturno, del Castelvetro né del Bembo, anche se quest'ultimo non potè sottrarsi al fascino o alla iattanza dell'Aretino, che pur militava su un versante linguistico non rivolto, in funzione di una forte toscanità, alla ricerca di un qualche assoluto verbale, ma su un versante fortemente plurilingue ed espressionistico, di conseguenza così affine a quello folenghiano. Del resto troppo anticortigiano, antiletterario, anticurialesco era lo spirito di Merlino, oltreché quello del suo linguaggio, per non venire emarginato dall'opposto spirito della critica aristotelica e dal gusto classicistico imperante. Di conseguenza il solo critico del Folengo, per il secolo che gli appartenne, fu il Folengo stesso che a quella lacuna provvide mediante le sue prefazioni e postfazioni nel nome mistificante di Acquario Lodola e di Vigaso Cocaio che si arricchiscono anche per tale carenza, a posteriori almeno, di una sapida coloritura di beffa e di antiveggenza. Non possono costituire infatti rottura di questo fronte del silenzio un fuggevole ricordo del Doni, né un paio di citazioni del Bruno, nel Candelaio e nella Cena delle Ceneri. Di fronte ad una chiusura così totale del mondo accademico e letterario - ma ben si ricordi che il libro di Merlino circolava toccando un alto indice di godibilità - la fortuna critica del poeta parrebbe meno avara nei secoli successivi. Ma è pur sempre la fortuna di un emarginato e di un eccentrico, il cui ricordo tocca lettori eccezionali come il Mazzarino e i grandi eruditi come il suo bibliotecario Gabriel Naudé, ed alcuni spiriti liberi, soprattutto in Francia, pronti a cogliere per fervore gallicano le tirate contro la Curia romana, la forte polemica e la satira contro i costumi ecclesiastici. E, nel caso, ancora una volta il nome di Merlino è associabile a quello del Rabelais che alla luce dell'incipiente gallicanesimo finirà per trovare quella collocazione letteraria che il suo secolo gli aveva rifiutato in quanto le canoniche allora correnti non erano in grado di classificare non tanto l'immoralità dei contenuti quanto quella della sua anticonvenzionale retorica. D'altra parte la Macaronea aveva finito di circolare dopo l'intervento censorio che, durante il papato di Clemente Vili, aveva visto il libro merliniano finire, nel 1596, nell'indice dei libri proibiti. Onde, alla luce di quest'ultimo fatto, più segnalabile che non le trasformazioni del gusto, inerenti allo spirito barocco, più inclini al sentimento del pittoresco e del comico, e quindi portate a reagire positivamente alla poesia di Merlino, ci pare il perdurare della memoria del poeta nelle pubblicazioni dell'Ordine benedettino che non tralasciarono gli empiti vivi di una perenne celebrazione, unitamente a quella del fratello del Folengo, Giambattista, pur egli monaco, autore di opere religiose di spirito evangelico ed ecumenico, e pure lui sottoposto, al riapparire delle sue opere, al giudizio censorio che impose a quelle stampe non lievi revisioni. La fortuna del poeta maccheronico trova così, nella sopravvivenza della memoria umana, piuttosto che non in quella di un critico riconoscimento, il carattere della sua durata, esplicita anche nel rinnovamento dell'epigrafe, nella installazione di un busto in quella piccola cappella, riattata e abbellita, a Campese, presso Bassano del Grappa dove il poeta morì e venne sepolto.
Ma si vuol ricordare ancora, per non tralasciare un importante debito che il Seicento assolse nei riguardi della fama di Merlino, una edizione napoletana, nel 1692, delle Maccheronee. sotto la finzione tipografica di Amsterdam: essa recava introduttivamente una vita del Folengo, scritta qualche anno innanzi dal vescovo Giacomo Filippo Tomasini. Sono pagine ricche di calda ammirazione e di un felice intendimento letterario vòlto a cogliere il severo impegno morale dietro la finzione paradossale e spropositata del comico.
A petto del lusinghiero ed aperto approccio del vescovo Tomasini, e trascorriamo al calare del secolo successivo, il giudizio del Tiraboschi rimaneva invece ancora severamente chiuso, aridamente indisponibile ad una valutazione che testimoniasse qualche barlume di simpatia almeno, e tale da superare il puro dato della archiviabilità di un documento. Sul maccheronico e sul suo più illustre rappresentante molto restrittivamente il Tiraboschi concludeva affermando che fu un modo di poetare ch'ebbe l'onore di venir coltivato da un uomo che sarebbe stato capace di cose molto maggiori. Al giudizio del dotto gesuita fa buona eco quello del celestino Appiano Buonafede, che qui ricordiamo perché ancora appare implicato il ripudio controriformistico più gretto ed insipiente, quando alla poesia del Folengo non altra idoneità le si riconosce appunto di quella di far ridere le bettole di Lombardia: dove peraltro la significazione geografica non sta senza pertinenza, poiché è giocoforza esser lombardi, se non d'anagrafe comunque d'elezione, per attingere quell'intrinsichezza che la poesia di Merlino richiede, quella stessa del resto che due altri grandi poeti e non disaffini dal nostro esigono: il Porta e il Belli.
Carente in generale di ogni nuovo e valido apprezzamento critico l'esegesi settecentesca non mise a punto col Quadrio altro più dell'ipotesi che a Vigaso Cocaio avesse prestato la penna il Domenichi o il Doni. Una congetturina, come si vede, non priva del suo sale accademico, ma anche diminuente e troppo per il Folengo, cui veniva detratta una capacità burlevole ed ammiccante di un ordine troppo superiore e non tanto al Quadrio, al Doni stesso e al Domenichi, ma al secolo medesimo. Più mossa l'attenzione di Apostolo Zeno nelle Annotazioni alla Biblioteca dell' eloquenza italiana di monsignor Giusto Fontanini, ricca di una ragguardevole conoscenza biografica, e degna infine di menzione, nel, tutto sommato, modesto interesse critico che il Settecento italiano serbò al Nostro, la fatica dell'abate Teranza: un'edizione delle Maccheronee. apparsa nel 1768-1771, anch'essa sotto la finzione tipografica di Amsterdam, in due sontuosi volumi illustrati da tavole. Criticabilissime nel testo, che contagia la redazione del 1521 con quella del 1539-1540 alla ricerca delle più idonee soluzioni cautelative, l'edizione si arricchisce di qualche premessa filologica, seppur incerta, al fine di una valutazione dell'opera del Folengo, oltreché di un vocabolarietto finale a chiarimento dei termini dialettali. Unitamente a quanto giova alla illustrazione e comprensione della vita del Folengo, spezzata dal temporaneo quanto misterioso abbandono del convento, appaiono timidamente le premesse per un'esegesi del complesso caso folenghiano. Ma bisognerà riconoscere che se pur apprezzabili sono i contributi degli eruditi sei-settecenteschi francesi (e menzioneremo Adrien Baillet per un suo fine giudizio sul linguaggio maccheronico nei Jugemens des savans sur les principaux ouvrages des auteurs, il Nicéron nei suoi Mémoires pour servir à l’histoire des hommes illustres dans la république des lettres, e David Clément nella sua Bibliothèque curieuse historique et critique che, oltreché tentare una ricostruzione della complessa storia delle edizioni folenghiane, è ricca di rimandi a repertori settecenteschi della Francia, della Germania, della Olanda e della Svizzera, utilissimi a precisare puntualmente il passaggio delle muse di Merlino attraverso le contrade europee), il rilancio della fortuna dell'opera folenghiana, o meglio ancora le indispensabili premesse critiche per intendere l'oggettiva realtà d'arte ed il suo significato nella storia della poesia europea, sono opera della cultura tedesca, àmbito privilegiato del pensiero protoromantico e della rivoluzione romantica poi. Basta por mente al titolo delle opere di Karl Friedrich Flògel: Geschichte des Burlesken e Geschichte der komischen Litteratur, apparse negli ultimi decenni del secolo, dove parecchie pagine sono dedicate alla poesia maccheronica e sovrastante è il ricordo di Merlino; al titolo della più notevole opera del Genthe poi, la Geschichte der macaronischen Poesie (1829), a quello più che mai significativo di un'opera del Rosenkranz, Aesthetik des Hàssli- chen (1853), di cui il De Sanctis tradusse la precedente opera Handbuch einer allgemeinen Geschichte der Poesie, dov'è schizzato un ritratto del Folengo con tutti i crismi del ribellismo romantico (ed è congetturabile che a quel tempo il grande critico non avesse ancora letto il Folengo, per cui il Rosenkranz è probabilmente il precedente più diretto o l'occasionale occulto iniziatore di quella folgorante assunzione del Folengo nella economia della sua celebre Storia); basta, dicevamo, porre l'occhio su questi pochi titoli, assai emblematici (ma ne soccorre una intera pleiade a sfogliare la parte storica dell' Estetica crociana), per intendere che ci troviamo di fronte non tanto ad una rivalutazione del genere comico, ma ad una interpretazione affatto nuova che manda in frantumi le categorie e gli strumenti dell'analisi classicistica. Il comico, il grottesco, il deforme vengono gradatamente assunti come sintomi estremi e perciò carichi di una significazione quanto mai dialettica del contrasto fra idealità e realtà, il comico diventa insomma il veicolo del negativo nel perenne storico contrasto dell'idea. Di conseguenza l'ironia finirà appunto per porsi come l'atteggiamento romantico di conclusiva superiorità dello spirito rispetto ad ogni realtà finita, una costituente essenziale dell'arte, la garanzia stessa della sua capacità di catarsi e di autosufficienza in quel processo dello spirito romantico che non tarderà a porre l'arte come l'organo stesso dell'assoluto. E proprio in questa congiuntura culturale, entro le prime decadi dell'Ottocento, che si dichiarano quelle premesse critico-ideali idonee a definire la statura del poeta e a liberare la forza significativa del suo discorso poetico dalle limitazioni e dagli approcci parziali di una lettura, se non stentata, certamente del tutto inidonea poiché fuorviata appunto dai pregiudizi classicistici. Lunga tre secoli fu l'attesa di Merlino avanti che scoccasse l'occasione della sua riconquistata verità poetica: un pedaggio che solitamente è in grado di sopportare solo il poeta d'eccezione.
Ma riprendiamo la segnalazione delle ultime tappe di questa trisecolare vicenda della fortuna del Folengo prossima a concludersi con la celebrazione desanctisiana, giovandoci degli ausili, fin qui frequentemente sollecitati, dell'ottimo studio di Attilio Momigliano, La critica e la fama del Folengo sino al De Sanctis (1921). E leggiamo questo giudizio del Bouterweck, risalente al 1802, che si trova in Geschichte der Poesie und Beredsamkeit seit dem Ende des dreizehnten Jahrhunderts : «Soltanto un ingegno gioviale, e un così fine conoscitore della pura latinità e della lingua materna, poteva riuscire a fare un lungo e arguto poema con un miscuglio di italiano e di latino. Le sue maccheroniche sono certo, da un capo all'altro, niente più che buffonate; ma la critica deve dar loro il posto di belle buffonate». E quest'altro del già citato Genthe, attento lettore tra l'altro dell'Orlandino e del Caos. «Il Folengo era un poeta di stravagante ingegno, ma era un poeta; le opinioni sul suo valore sono divise: il giusto sta nel mezzo. Chi lo considera «senza preconcetti», non può contestare il suo valore. Soltanto chi disprezza ogni giocondità e ogni scherzo e non ha affatto il senso del comico, e non sa riconoscere con uno sguardo profondo l'anima che si nasconde sotto quel velo, può giudicare col criterio di Appiano Buonafede». Ai folenghiani odierni tali giudizi possono anche apparire timidi, ma rifacendoci all'altezza di quegli anni è pur certo che nel nostro paese erano del tutto impronunciabili. E trasferiamoci in Francia, un terreno culturale propizio al Nostro per le affinità che lo legano al grande Rabelais, e non solo espressive, non solo coincidenti per l'abito religioso che ambedue portarono, ma forse anche per più di una tonalità esistenziale e morale in comune. Leggiamo questo finissimo giudizio di Charles Nodier che risale al 1834 dove, meglio che nelle pur brillanti notazioni di Philarète Chasles, o nelle applicazioni allegoriche, invero astrattamente dottrinarie, dell'Arnoux e che sedussero il nostro Canello, o nella dotta quanto ricca ricerca di Octave Delepierre in Macaronéana ou Mélanges de littérature macaronique des différents peuples de l'Europe, svetta la fine intelligenza del critico. «Dans la macaronée, le sei de l'expression résulte principalement de la nouveauté singulière et hardie d'une langue pour ainsi dire individuelle qu'aucun peuple n'a parlée, qu'aucun grammairien n'a écrite, qu'aucun lecteur n'a entendue, et qu'il comprend toutefois sans peine, parce qu'elle est faite par le mème art et des mèmes matériaux que sa langue naturelle. Le principal charme du style macaronique est dans le plaisir studieux de cette traduction intime qui étonne l'esprit en l'amusant, et cette impression ne peut jamais ètre produite par une traduction en langue vulgaire. C'est l'envers du rideau, la trame du tapis, le canevas de la broderie».
Siamo ormai prossimi alla formulazione del vigoroso giudizio del De Sanctis, nel mezzo di quella temperie critica del romanticismo vivacemente attiva a cogliere tutti i limiti del classicismo e spregiudicatamente vòlta alla affermazione della letteratura libera, individuale, eslege, scapigliata, antiaccademica, popolare, prevaricante infine in alcune coloriture nel giudizio del De Sanctis stesso che, a livello esternamente cronologico, è preceduto dal riconoscimento di Luigi Settembrini. Nelle Lezioni di letteratura italiana, in un volume apparso nel 1868, l'autore delle Ricordanze della mia vita, con schietto spirito risorgimentale, sottolineava infatti gli elementi satirici e ribelli del Folengo, fino a proporre le Maccheronee. attraverso l'ottica alterante del suo laicismo, come «l'espressione della piena libertà popolare, anzi della licenza plebea». Ma è poi curioso che nel giudizio del critico napoletano venissero, per ragioni d'arte, la Zanitonella e soprattutto la Moschaea, anteposte al Baldus. Dove sarà da vedersi in questa predilezione il riaffiorare del gusto del traduttore di Luciano e la simpatia mai dimessa di quell'estimatore dell'umanesimo napoletano.
Già il 6 maggio 1860, da Zurigo scriveva il De Sanctis a Vittorio Imbriani: «Sto esaminando la Maccheronea del Folengo, e i giovani ci trovano un infinito gusto. Sono due volumi in folio [l'edizione mantovana del 1768-1772, quella Teranza appunto di cui s'è detto, in due volumi, ma non in folio], che ho avuto la pazienza di leggere e ci ho trovato dei luoghi mirabili di poesia. Te ne scriverò a lungo ...». Di codeste letture non è però rimasta traccia nei quaderni degli scolari. Probabilmente sospingevano allora il De Sanctis alla riscoperta del poeta di Cipada le pagine di Philarète Chasles contenute in un saggio del critico francese sull'Aretino, ma soprattutto quelle del «manuale» del Rosenkranz che aveva tradotto in carcere. Una maturazione almeno decennale hanno dunque le pagine della Storia che non escludono pertanto che il De Sanctis avesse poi sott'occhio anche lo scritto del Settembrini. Ma quel che ci preme di notare non sono tanto queste vane ipotesi di precedenza, quanto la circostanza che l'incontro del critico col Folengo avvenne sull'edizione della Vigaso Cocaio, così come il Settembrini lesse sul testo della Cipadense. La fortunatissima Toscolana lascia così il campo al restaurarsi della nuova fama del Folengo che viene giustamente proponendosi quasi per fatale coincidenza, nella direzione perseguita dall'autore e voluta dall'arte, lungo un tirocinio più che ventennale e del quale solo la critica moderna finirà per prendere coscienza.
Nella celebre Storia il Folengo balza così tra il capitolo dedicato al Furioso e quello dedicato al Machiavelli, ai vertici del Cinquecento, in un punto cruciale, ricco di suggestioni e di implicazioni, il cui dibattito fornirà materia ad un secolo di critica successiva. Un dibattito tanto teso che perverrà a questo giudizio, altrettanto coerente che ingiusto, da parte di un folenghista principe, Giuseppe Billanovich, e proprio riguardo alle pagine del De Sanctis: «La presentazione di questo Merlino privo di dottrina e vergine di retorica fa che il capitolo che il De Sanctis ha scritto sulle Maccheronee per la sua Storia della letteratura italiana, anche se scaldato da un entusiasmo esuberante, sia il più debole forse di tutta quella Storia». Giudizio calzante se ci riferiamo all'operazione demistificatoria del mito di Merlino, brillantemente recata a termine dal Billanovich, ma ingiusto in quanto dimentico della concreta situazione di cultura in cui operò il De Sanctis e soprattutto di quella capacità di lettura che fece delle Maccheronee folenghiane un oggetto degno di quell'attenzione che si riserva alle opere più prestigiose di una storia letteraria. Scrive il De Sanctis : «Questo realismo rapido, nutrito di fatti, sobrio di colori, fa di Merlino lo scrittore più vicino alla maniera di Dante, salvo che Dante spesso ti fa degli schizzi, ed egli disegna e compie tutto il fatto. Il suo continuatore e imitatore è fuori d'Italia, è Rabelais, che ha la stessa maniera». Vi sono intuizioni e giudizi nelle pagine del De Sanctis più fini e meno generali, ma è pur certo che nel periodetto che abbiamo ritrascritto l'ordine di grandezza è centrato…, l'oggetto è svelato, il problema è situato ed un secolo di esegesi non potrà che confermare l'eccezionalità della posta in gioco.
Ma bisogna riconoscere che il ritratto schizzato dal De Sanctis è assai immaginoso ed in funzione di uno stereotipo affatto romantico di cui alcuni colori fondamentali erano già nello Chasles ed i più vistosi che potessero concorrere mai alla resa del poeta ribelle, eslege, maledetto insomma. La sfrenata goliardia, le lezioni alla scuola bolognese di quel negatore dell'immortalità dell'anima che fu il Pomponazzi, l'opportunistica monacazione, la fuga dal convento al braccio di una donna, l'impegno anticlericale della sua poesia, l'istintività plebea della sua musa, sono tratti che meglio si convengono ad un fuggiasco del convento della Mottella che non a un monaco appartenuto alla schiera eletta dei Benedettini, ancora vivacemente operanti nel solco rinnovatore aperto dal grande Lodovico Barbo, un secolo prima, in quelle terre veneto-padane. A un tanto abbaglio avevano contribuito le notizie biografiche di Vigaso Cocaio, subdolo ed eccellente artifizio macchinato dal Folengo stesso, come oggi si concorda a credere da parte di tutti i più navigati folenghisti, e dal De Sanctis trapiantate nel suo brillante - troppo brillante - excursus biografico. Così vanno le cose del mondo e che cioè dello scherzo-beffa di Merlino finisse per essere vittima il suo primo più grande estimatore. Ma non senza una certa provvidenzialità, poiché il problema biografico di Merlino non poca acqua coinvolse a quel mulino che avrebbe setacciato l'ottima farina di cui è fatta la sua verità umana e poetica. Quelle coloriture d'altra parte giovavano, fino ad apparire irresistibili, a sostenere quelle dinamiche dialettiche della Storia dei valori e dei disvalori etici, delle alternanze di momenti contenutistici e formalistici in seno al divenire della letteratura, di cui il Folengo finiva per portare più di una investitura nel momento saliente e centrale della crisi cinquecentesca, competenze del resto che non si esauriscono in sede meramente ideologica, ma che fruttuosi risultati recano se vòlte anche in un più sperimentale ordine di esegesi. Ma tant'è: la tesi laicista si pone mediante questa leggenda e ci parrebbe, oggi, dopotutto, irrinunciabile sia perché fa parte della mitografia di un grande poeta sia perché, da quel mito, inizia la sua rinata fortuna.
Si ebbe così qualche anno dopo, nel 1882-1883, la prima edizione ottocentesca delle Maccheronee a cura di Attilio Portioli. Si riproponeva il testo della Toscolana (1521), curiosamente arretrando sugli esiti giovanili della creatività merliniana e ancor più curiosamente espungendo dal testo le glosse marginali, complemento significativo quanto sintomatico che appartiene alle due prime redazioni, del tempo in cui al Folengo stesso non era ben chiaro che la gittata della sua opera poteva aspirare ad un più vasto àmbito di allusività e di significazioni, con quelle glosse marginali appunto sottolineando invece la chiusura ridanciana e, se vogliamo, non poco goliardica, dell'opera. E siccome al poeta sarà pur costato qualcosa la successiva rinuncia a quel supplemento di lazzi di cui veniva intarsiandosi la pagina (al nostro lettore diremo che nelle note della nostra edizione ne ritroverà invece una fitta messe), al livello della redazione della Toscolana l'operazione del Portioli oltreché arbitraria è propriamente amputatrice di un non rinunciabile effetto per bene intendere quel testo. Seguivano quindi nel 1889, ed è pur curioso che uscissero sotto la medesima etichetta di «opere maccheroniche», l'Orlandino e il Caos del Triperuno. In quegli anni Alessandro Luzio dava intanto corso sul «Giornale storico della letteratura italiana», la rivista per eccellenza della nuova scuola storica (e segnalandone la sede vogliamo anche significare che la gestione della critica folenghiana passava così dall'indirizzo desanctisiano, sostanzialmente romantico, a quello positivistico per molti versi ostile a quello del critico irpino), a una serie di ricerche storiche, biografiche e archivistiche che misero ben presto in evidenza come il «caso» Folengo presentasse una serie di incognite storico-biografiche, di mediazioni culturali di assai complessa risoluzione, nell'assenza totale di documenti diretti e di autorevoli fonti. E a prescindere dal problema più strettamente filologico che, senza attrezzature di filologo, il Luzio se non altro abbozzò. Dopo avere infatti optato per l'edizione Cipadense come quella più attendibile ed autorevole, venne invece convincendosi, con gli Studi folenghiani del 1899, del valore della Vigaso Cocaio, dell'edizione postuma appunto, che elesse per la collana laterziana degli «Scrittori d'Italia». Questa edizione delle Maccheronee apparsa nel 1911 (e, in seconda edizione, nel 1927-1928) è quella che ancora circola a tutt'oggi e che maggiormente ha contribuito a edificare la fama del Folengo presso i suoi ultimi ma anche più disponibili estimatori. Nelle ricerche del Luzio la tesi per così dire laicista non viene mai abbandonata e la credibilità della figura che se ne delinea nelle sue componenti umane, intellettuali e artistiche resta arroccata sul discrimine di un marcato contrasto tra il frate e le gerarchie ecclesiastiche. Di contro Umberto Renda, che sempre sul «Giornale storico della letteratura italiana» è stato l'interlocutore antagonista del Luzio, s'appoggiava interamente sulla tradizione benedettina che, come già s'è accennato, non abbandonò mai la fama di quel fratello a una qualche ombra di dubbio e di sospetto sia ortodosso e tanto meno morale, ma compose il ricordo di lui in una cornice di costante elogio mirante a saldare il ricco corpus della produzione folenghiana nella tradizione culturale benedettina. E fu appunto il Renda a curare per la collana laterziana degli «Scrittori d'Italia» le opere italiane del poeta, in tre volumi, negli anni 1911-1914.
Eccezion fatta per l'Orlandino, che aveva già suscitato l'attenzione del De Sanctis - e ben se ne arguiscono i motivi in quanto dello schizzato ritratto del Folengo molti tratti sono inequivocabilmente traslati dagli umori di quella poesia biliosa e violenta attraverso un procedimento tanto pericoloso quanto amato dalla critica romantica, frequentemente portata a far coincidere arte e vita -, la pur cospicua produzione del poeta in lingua, dal Caos alla Palermitana non trovò, praticamente, udienza: la negatività del giudizio fu pressoché, ed è tuttora, totale.
Il caso Folengo minacciava così di spegnersi in una disputa non più che erudita ed archivistica, saldamente ancorata alle piattaforme culturali ottocentesche che potrebbero ancor dirsi guelfe e ghibelline, ed è curioso che Benedetto Croce si decidesse a parlare tanto tardi del Folengo, non prima cioè del 1941, a giochi, si può dire, fatti, quando, sempre sul «Giornale storico», nel 1919, apparve il contributo di Attilio Momigliano su Le quattro redazioni della «Zanitonella». Un contributo di grande acutezza e di finissimo intendimento dove s'anticipa e si individua quel punto di attacco critico che, se non troverà poi prosecutori, rimarrà nella storia della critica folenghiana come l'ideale antecedente di un altrettanto auspicato ideale lavoro cui la critica odierna più ferrata di metodologie stilistiche, di solerzia variantistica e filologica, di propensioni semiologiche, proprio per la marcata disponibilità e ammirazione rivolte un po' dappertutto al Folengo, è attesa con una aspettazione che si prolunga nel tempo, ma che non tarderà a definire, speriamo!, l'appropriata conclusione del plurisecolare «caso». Il Momigliano puntava infatti direttamente sulla oggettualità testuale di quel vivace e prezioso canzoniere, e sulla verità del suo «farsi». Dalle due embrionali egloghe della Paganini vengono non solo rintracciate le sottili vicende tematiche e il loro organizzarsi, ma altresì quelle più strettamente formali, a livello linguistico, di dosaggio lessicale e fonico, comprovanti lo studioso divenire di quella creazione, l'indagato equilibrio raggiunto attraverso un lavoro che non di rado è addirittura di rinuncia e di attenuazione della stessa vivacità della trovata espressionistica o della stessa estrosità poetica. In nuce vi si rivela il modo o meglio il metodo di lavoro del Folengo: la chiave della operazione maccheronea è lì, e dalla Paganini alla Vigaso Cocaio si stabilisce un sottile rapporto di ricerche e di approssimazioni che pongono ciascun intervento sotto il segno della determinazione formale, della sapienza ritmica, della raffinata mescidanza verbale. Dubitare che quella non sia l'operazione di poeta colto e di un umanista non è più possibile: ma sarebbe ancor più giusto scrivere di un grande manierista in assoluto. Tuttavia la brillante indagine del Momigliano, che tra l'altro ci si dimentica troppo spesso di annoverare tra i contributi più significativi di quell'ingegno assai fine, non ebbe prosecutori. Mentre in quegli stessi anni sono invece segnalabili i primi approcci, tra lo storico e l'erudito, in una prospezione di varietà e di curiosità folenghiane angolate nella misura del breve saggio e dell'articolo da parte del più amabile tra i folenghiani del nostro tempo: Luigi Messedaglia, non propriamente critico né letterato, bensì medico e poi patrocinatore della cultura nella sua marca veneta, che venne raccogliendo una fitta selva di coltissimi ragguagli che illuminano il rapporto strettissimo intercorrente fra le Maccheronee e la cultura non istituzionalizzata del suo tempo, quella cioè del costume, non già cortigianesco o ufficiale, ma quello invece perduto nella bassa quotidianità del reale, la cultura contadina senza cronache né annali, quella della taverna, dei mestieri, la cultura della mano e del braccio, dei sentimenti elementari, delle superstizioni, delle fatture, dei bisogni tragici e muti che neanche possono sperare di pervenire a esprimersi, delle coltivazioni, dei cibi, delle stalle, dei cantori, delle plebi urbane, quella coinvolta nei giochi, nei commerci delle meretrici, nella leggenda del mal francese e che spesso si cifra e si incista in un duro grumo verbale, in un lemma, in un idiotismo, in un dialettismo impervio, nella cadenza di un proverbio. E vai qui la pena di ricordare, poiché sono infinite le vie della provvidenza, che il giovane clinico Luigi Messedaglia aveva rivolto la sua scientifica attenzione a ricerche metodiche di storia dell'alimentazione quando s'imbattè nel Folengo appunto - poeta di grandi strippate e di bevute delle quali trasmise l'epico afflato al grande Rabelais -, per riceverne poi l'investitura di profondo esegeta e teorizzatore di quei fatidici maccheroni che sono piuttosto, per le nostre odierne categorie gastronomiche, degli gnocchi (almeno per la foggia e il trattamento culinario). Orbene, l'archivio allestito dal Messedaglia è un ausilio pressoché indispensabile per la lettura delle Maccheronee. per intendere le occasioni di poesia più chiuse ed impensate che possono aver sollecitato la fantasia di Merlino, i dati grezzi che dalle più eteroclite ed inusitate fonti sono stati coinvolti in quel violento impeto sinfonico, ed altresì un filo prezioso per calare nella storia non scritta della vita cinquecentesca italiana.
Il problema del Folengo ritrova vivacità e mordente dal 1934 in poi. E Cesare Federico Goffis che, riaffermando e esasperando le tesi laicistiche vòlte a raccogliere suggestioni e prove suffraganti la fondamentale disponibilità del poeta ad assumere una effettiva posizione di combattimento in seno alla Chiesa pretridentina in favore di un dichiarato rinnovamento o addirittura di una vera e propria riforma in cui si alterneranno posizioni erasmiane, influenze valdesiane e addirittura aperte simpatie luterane, venne organizzando i suoi vari contributi ed i profondi studi in due volumi di sempre vivo interesse: un ampio studio su Teofilo Folengo del 1935 ed il successivo su L'eterodossia dei fratelli Folengo del 1950. Non solo tutto il materiale biografico, che è andato accumulandosi ed ampliandosi attraverso le varie proposte ed ipotesi degli studiosi e di riflesso quello attinente alla vita di relazione ed alla cerchia degli amici e dei nemici del Folengo, viene discusso e organicamente inquadrato, ma il lettore viene indotto a riconoscere con una sottolineatura implacabile, attraverso il riscontro diretto dei testi, una assai sconvolgente, diciamolo!, professione di fede che si concilia con una vera e propria eresia in atto. Tali vibranti sottolineature, per quanto si dissenta da questa linea interpretativa, non sono certamente obliterabili e restano e resteranno come un perigliosissimo scoglio qualunque sia il sestante che s'apra la via alla non facile navigazione del mare folenghiano. Ma altri meriti sono da riconoscere all'indagine del Goffis: la prima lettura paziente ed amorosa dello scorbutico Caos. il primo indispensabile filo pòrto al lettore per attraversare quelle oscurissime selve, e di conseguenza la prima valida lancia spezzata a favore di questa misconosciutissima opera; l'emergere infine alle spalle di Teofilo dell'ombra amata del fratello Giambattista, un personaggio non di secondo piano nelle dispute che infierirono nel mondo dell'ortodossia cinquecentesca, che condivise lo stesso dramma di Teofilo, l'abbandono dell'Ordine, la stretta convivenza nell'eremo di Punta Campanella, le vicende del rientro nella Congregazione, sotto il segno di una precisa condivisione di intenti e di prove che riuniscono i due fratelli in una commovente solidarietà di affetti familiari e di alto fervore religioso. E un altro prezioso merito sarà da ascrivere al Goffis: quello della prima edizione moderna del Varium poema che aveva appunto visto la luce nell'edizione del Pincio del 1533 (in realtà 1534) associato ai Pomiliones di Giambattista (altro arduo testo questi dialoghi di Giambattista, esaminati con paziente attenzione dal Goffis nel volume del 1950). Preziosa edizione, ripetiamolo, questa del Varium poema, per il rigore testuale, per il dotto e nutrito commento e per un utilissimo excursus sulI’usus scribendi del Folengo che gli editori futuri delle opere del Nostro, che appaiono tutte in edizioni di certo non ineccepibili, dovranno tenere presente. E citiamo questo giudizio del Goffis, a proposito di quest'operetta in sapido latino umanistico in cui la perizia del Nostro si raffronta in esametri, rapidi faleci, distici elegiaci, in più ardue saffiche, dove sono sortite epigrammatiche, quadretti oraziani, bucoliche effusioni, mordaci intemperanze, calde testimonianze d'amicizia, che di certo non sfigurano neanche di fronte agli esiti più raffinati della poesia latina quattrocentesca: «Il Folengo è poeta letterato; ma la sua poesia si accosta alla realtà senza eccessivi veli letterari: anzi scrutandola persino con crudezza. È erede in questo del Quattrocento. [...] Le composizioni migliori sono quelle che nascono da un modo umano e umoristico di considerare l'esistenza negli eremi, e che pur iscrivendosi in una tradizione di bucolica religiosa, ne escono per un diverso e non convenzionale sentire. Il mondo idillico dei poeti napoletani rivive come esigenza non soltanto letteraria, ma umana, illuminato, nei momenti felici, di intimità e luce poetica». Se ve ne fosse bisogno il Varium poema è dunque la flagrante prova del sostanziale umanesimo del Folengo a livello della sua più specifica realizzazione, quella tecnica, nel significato etimologico di questa parola, e cioè dell'espressione linguistica latina riappresa e ridonata ad un empito operante di intima e alta creatività culturale. Una definizione, quella di umanista, per il nostro Folengo che non si dovrà mai abbandonare al fine di chiarire il complesso caso dell'uomo e del suo dramma morale e religioso. Il limite tuttavia dei due volumi del Goffis è quello della non sottesa polemica e di un'approccio al poeta vòlto a determinare non tanto la sua verità poetica, ma quella del suo dramma religioso, della sua appartenenza al campo della conclamata eterodossia, con una attenta annotazione degli elementi erasmiani, valdesiani e decisamenti riformati che vi ineriscono. E poco da opporre v'è all'indagine del Goffis, sennonché da questa prospezione intellettualistica siamo portati sul versante di una problematica storico-culturale, e non proprio di un problema critico letterario, dove eccessivo è pretendere che un poeta possa assumere l'autorità e la determinazione d'un eventuale attore protagonista. Va infatti ribadito che la tempra del Folengo non può essere quella di un filosofo o di un ideologo e tanto meno di un eretico : la natura, l'indole, le qualità intellettuali e l'umanità di Teofilo sono infatti inconfondibilmente quelle di un artista; se in lui l'homo religiosus ha rilevanza notevole, questa armonica, anche fondamentale del suo spirito, si esprime e per così dire esiste solo in funzione della vocazione poetica; e potremo anche spingerci a dire che vocazione religiosa e vocazione poetica sono complementari, ma che di conseguenza la prima non sarà verificabile in un discorso coerentemente speculativo, il suo modo di essere appartenendo a quello libero e ambiguo della poesia.
L'ampia monografia del Goffis su Teofilo Folengo inaugura una sostenuta ripresa degli studi folenghiani. E, accennando ai capitali, quelli di Ugo Enrico Paoli sono di perentorio rilievo. In proposito va sottolineato che l'efficacia dei suoi interventi è strettamente legata all'àmbito dei suoi interessi scientifici, che sono appunto quelli di un filologo classico. Il Paoli mise così a disposizione della critica folenghiana un'analisi della lingua del poeta, delle soluzioni metriche dell'esametro folenghiano, minutamente inseguite e metodicamente classificate, indispensabili per tutti i lavori futuri che verteranno appunto sul problema di quel linguaggio poetico e su quello dei testi criticamente riediti: problema quest'ultimo che attende ancora, dopo l'edizione del Luzio, una soddisfacente soluzione. Se era approssimativamente intuibile la ricchezza del lessico di Merlino e la sua perizia di latinista agguerrito, i lavori del Paoli rivelano la sistematicità dell'operazione maccheronica, tutto il mestiere e le risorse dell'arte che il poeta è andato maturando e l'autodisciplina impostasi per offrire allo straordinario pastiche le garanzie dell'equilibrio e della misura. Equilibrio e misura che situano il maccheronico ben al di là del «latinus grossus qui facit tremare pilastros», per configurare invece quel linguaggio in un ordine di alta sperimentazione creativa in cui si consuma il tramonto del bilinguismo umanistico ma anche la rivendicazione, tramite il latino stesso, della urgenza insopprimibile di una espressività conculcata ed emarginata dalla vicenda aulica del monolinguismo classicistico, che otteneva appunto in quegli anni il suo grande trionfo bembesco.
Negli stessi anni in cui il Paoli lavorava sulla lingua del Folengo, un altro filologo, con la determinazione del grande studioso, andava affrontando il non semplice problema biografico e culturale del poeta mantovano. I diversi contributi di Giuseppe Billanovich confluirono nell'eccellente volume del 1948: Tra don Teofilo Folengo e Merlin Cocaio. È quest'opera, a nostro giudizio, l'introduzione ideale al Folengo anche se sarà lecito dissentire in qualche non marginale occasione dalla prospettiva dell'autore; anzi la non condivisione di alcuni giudizi, la stessa sollecitazione polemica che ne può derivare recano alla lettura un fecondo fermento di meditazione e di dubbio, di problematicità, la vita dell'uomo Teofilo, come l'opera del poeta, permanendo così in una prospettiva aperta di fortissima stimolazione e di incessante impegno. Ma l'opera del Billanovich, che si raccomanda anche per la robusta bontà della scrittura, rinnovatrice per quanto riguarda lo schema biografico, è il primo organico felice lavoro che indaga e determina la formazione culturale del Folengo, e definisce inoltre l'àmbito geografico specifico dove accaddero alcuni incontri memorabili a indirizzare la pietà e la dottrina del giovane monaco, in quella atmosfera di grande alacrità spirituale che si era instaurata dai primi decenni del Quattrocento entro la comunità benedettina. A questi due piani di ricerca e di scoperte, che si intrecciano e si dispongono in un organico contesto storico, vivacissimo, drammatico e suffragato da ineccepibili dati d'archivio e di documenti ridati alla luce con raro ardore di studio, un terzo tema infine s'innesta, che è quello di una auscultazione dotta e intelligente delle opere di Merlino (di quelle maccheroniche appunto, ché, salvo l'Orlandino, il giudizio del Billanovich è implacabilmente severo nei confronti di quelle italiane) che vengono esemplarmente situate attraverso la ricca ricapitolazione degli ascendenti e della tradizione in quel punto focale dove l'originalità della buona poesia fa tutt'uno col significato del suo destino storico e culturale.
È questa l'opera che si raccomanda perché insostituibile a quei lettori di Merlino, e non sono pochi, che si sono sinora limitati agli assaggi antologici del poeta, al bozzettismo proposto dalle non numerose antologie, dalle scelte scolastiche, e a coloro che si avvicinassero per la prima volta al poeta mantovano. Un più ricco incitamento all'opera di Merlino, un più chiaro inquadramento cronologico e spaziale, culturale e storico della sua complessa vicenda non sarebbe attingibile, per quanto dotti e utilissimi, da tutti gli altri anche numerosi contributi. Pertanto s'è detto appunto di una introduzione ideale che naturalmente scoraggia ogni prefatore nell'impossibilità di sunteggiarla ed eventualmente discuterla per la nutrita forza argomentativa, per la ricchezza delle inflessioni e dei rimandi. Ci limiteremo pertanto a dire che l'importanza della tradizione benedettina, più che per la comprensione di Merlino, per l'esistere stesso di quell'opera appare inconfutabile, e che il problema della temporanea smonacazione di Teofilo e di Giambattista è dunque un problema interno che tuttavia il Billanovich imposta, semmai, con qualche prevaricazione in quanto il concetto di ortodossia cattolica, in periodo pretridentino, appare piuttosto tradizionalista e convenzionale. Ma non è questo il luogo per aprire un dibattito sulle motivazioni profonde o contingenti dell'uscita dal convento di Teofilo e di Giambattista che, per fissare almeno una data, si consumò negli anni 1525-1527. Nel silenzio pressoché totale degli archivi e dei documenti, affidati come siamo a una sostanziale congetturabilità, diremo solo che le argomentazioni del Billanovich portano a una interpretazione riduttiva di quel fatto. Non sarebbero state ragioni di fede e tanto meno di ordine teologico, e neanche quelle di un particolare impegno apostolico, ma quelle di una più triviale politica interna focalizzata intorno a una pura questione di potere - che divise la comunità fra il partito infeudato all'ispirazione della Curia romana e quello autonomista del Cortese, caratterizzato da una secolare tradizione, che proprio nella marca veneta aveva saputo trascegliere le sue migliori energie-a determinare l'esclusione dall'Ordine di Teofilo e di Giambattista. In questa rissa tra confratelli, Teofilo avrebbe dato esca poi, ma quasi provocandola con l'esuberanza stessa del suo temperamento, a una vera e propria accusa di concussione. Eccolo dunque reus repetundarum Teofilo, cui già impendeva sul capo l'onta familiare dell'espulsione del fratello Lodovico, macchiatosi di non precisabili colpe carnali. Orbene, se il licenziamento dalla comunità, richiesto che sia stato o invece imposto, è un fatto indubitabile, sarà bene che il lettore ponga attenzione al fatto che le fonti delle accuse e delle ipotetiche mancanze di cui furono gravati i Folengo non hanno altro documento che quello dei Pomiliones, i dialoghi latini di Giambattista, fonte di parte, piuttosto che parziale, di una parte infatti cui male si ascriverebbe il disegno di una menzogna, sia pure a titolo di difesa, tanto integerrima e veracemente religiosa ci appare la figura di Giambattista. Ed allora si badi che l'argomento di quei falli è bensì vero che si legge nei Pomiliones, ma non più che a riprova della pretestuosità di accuse assurde, se non addirittura quali fictiones rhetoricae di un cervellotico processo: ipotesi da non scartare, tanto ricco di tropi e di traslati, di bellurie oratorie (ancor che dure e spigolose) è il latino appunto di Giambattista. Il Billanovich invece più realista del re, è il caso di dirlo, sta per la politica dei piedi a terra e della «lettera» pura e semplice, e con tali predisposizioni gli riesce l'assai seducente ipotesi che don Teofilo avesse ottenuto, in seno alla comunità, la funzione di subcellerarius, una carica appunto amministrativa, quella cioè di un cellerarius di conserva che àdito gli desse a compiere quelle operazioni illecite e lucrative. Una carica immaginaria, ma che non stride nel rigore di quelle pagine dove lo storico, il filologo e l'archivista si superano per amore di ricerca, non senza abbassare però quasi insensibilmente, bonariamente, la personalità di Teofilo verso quella che, approssimando piuttosto l'immagine di un frate gaudente, diverge e sempre più scarta da quella di un frate intransigente. Si capisce come questa attenuazione propostaci, vòlta alla liquidazione di una qualsivoglia esacerbazione religiosa, sia frutto più di un gusto di lettura che di pregiudiziali cattoliche, ma rinchiuda poi Teofilo in uno spazio morale assai angusto, e il ritratto colorisca e privilegi tratti pertinenti ad una interpretazione in chiave «umana, troppo umana». Tuttavia non sono limiti, non sono preclusioni queste, si direbbero provocazioni fatte di forbita dottrina e d'arguzia, una sfida a contrapporre altrettanta cogenza argomentativa all'opposta tesi dello spericolato ribelle in questa crux o vexata quaestio del problema folenghiano. Se pur non sia questa crux in gran parte anche uno pseudo problema, e innanzitutto perché nel Folengo prevale l'homo aestheticus su quello religiosa, l'intelligenza umanistica su quella pragmatica di un possibile riformatore anche in sedicesimo; e un problema infine almeno mal posto sino a quando per un personaggio come il Folengo la cultura storica non sarà in grado di uscire dalla gabbia del caso personale e psicologico per situarlo in un contesto oggettivo di relazioni, di fatti, di prove o anche solo di ipotesi rinvenibili in una matrice politica, in un ordine di accadimenti non privati e, se non proprio pubblici, culturali. Orbene una storia dei rapporti che intercorsero tra umanesimo e religione albeggia appena, una storia della reformatio cattolica è sempre e ancora solo ambiguamente formulabile, ma anche quella di una renovatio che potrebbe avere un suo proprio riferimento nel Concilio Lateranense del 1512 ancora da scrivere, così come quella dei rapporti fra Erasmo e la vita religiosa in Italia appena accennata, seppur con qualche brillante intervento specie di Delio Cantimori.
Orbene, se la gustosa e colorita immagine di Teofìlo subcellerarius e di conseguenza reus repetundarum, ha una corposa credibilità per gli umorali colori che il Billanovich impiega per il suo amato autore (l'amore, il più genuino, è spesso quello che non cade in ipervalutazioni del suo oggetto), l'ipotesi di Teofilo che ceda al peculato ha di che lasciare fortemente perplessi . . ., forse per arricchire una sua dispensa privata popolata di storioni fagiani pani di burro e formaggi pregiati con cui condire portate di «maccheroni»? Non sarà una rimanenza anche questa di quel mito romanzesco che si compiacque di immaginare Merlino stonacato saltare i muri di Santa Eufemia o di San Benedetto, per fuggirsene a braccetto di una donzella? Ma poi, in questa crux folenghiana dell'abbandono dell'abito e poi del rientro, perché e per quale accusa anche l'irreprensibile Giambattista, senza taccia e senza macchia, avrebbe dimesso il saio? Certamente, a queste domande il dossier istruito dal Goffis ritorna in mente con la messe imponente delle citazioni apertamente ereticali, con la svariata gamma delle intemperanze anticlericali di Merlino. Ma non si dovrà tuttavia dimenticare che anche le prove del Goffis funzionano nell'àmbito astratto di una avulsa ipotesi poco più poco meno che psicologica, assai fragile e semmai solo modestamente indicativa quando si ha a che fare non già con un filosofo, un dottrinario, un legista o un uomo dell'apparato gerarchico e ufficiale, ma con un poeta, e per di più un poeta artista. Ribadiamo dunque la convinzione che anche l'ipotesi laica dovrebbe trovare una sua convincente dimostrazione non solo sui testi, ma anche nel riflesso dei contemporanei che l'avessero recepita in quell'ordine di significati, nella reazione di un'opinione letteraria, in un ordine di testimonianze allargato a ben definiti àmbiti o ambienti culturali, alle esigenze di una vera e propria «fronda» anticattolica. E dicevamo di un gusto di lettura appunto che ci sembra guidi il Billanovich e che contribuisce in qualche modo a caratterizzare la sua interpretazione. Diciamo gusto di lettura, e poiché ci vien scritta questa parola approfittiamone per segnalarne di contro la profondità, la capacità di articolarsi in rara sapienza filologica e letteraria. Orbene, a noi pare che questo gusto di lettura del critico soffra di un certo naturalismo e il cosiddetto realismo di Merlino finisca per condizionare una ipervalutazione contenutistica, una pericolosa tendenza a trasferire con operazione sommaria corrispondenze di natura fra l'operatore poetico e la libertà della sua fantasia, come se l'iperrealismo folenghiano non fosse invece il risultato di una operazione di grande manierista. E con questa definizione, a nostro giudizio più calzante di quella di espressionista, vòlta a ricordare che è propria della poesia manieristica la ricchezza formale, tale a volte da sopraffarne il contenuto, si vuol dare rilevanza al forte intellettualismo che regge la creazione folenghiana, e cioè a quell'ordine di rappresentazione «riflessa», così come si parla di una letteratura dialettale «riflessa», di fantasia alla seconda istanza, di perenne rilancio espressivo attraverso una mediazione culturale che nel nostro poeta perviene a far coincidere tale virtuosismo con un intenso e rivoluzionario vitalismo. E con questo vorremmo affermare che non ci sembrano affatto pertinenti alcuni accenni del Billanovich, che è portato a sottolineare una dipendenza intellettuale di Teofilo rispetto a Giambattista, per non parlare di una certa minorità intellettuale, quasi non fosse concesso o concepibile a chi ha composto l’Orlandino di meditare con originale e autonoma illuminazione le problematiche ardue della Grazia e della Fede, come se l'antiscolasticismo, il sarcasmo nei riguardi della disputa teologica, non fossero indizi di una vigorosa determinazione intellettuale di perfetta consonanza, tra l'altro, umanistica. La definizione di manierista copre invece anche un altro curioso aspetto dell’animus folenghiano, quello così disposto alla mascheratura, alla assunzione del personaggio fittizio, di cui è esempio unico il Caos. gusto della maschera che non ha di certo un'origine occasionalmente prudenziale, ma fa parte del gioco che si conviene alle nature più introverse e violente non aliene da forti cariche nichilistiche. Crediamo di conseguenza di non errare troppo dal vero rilevando nel Folengo più probabili sindromi saturnine che non spacciate vocazioni ridanciane. E ci sia permessa una notazione stravagante: a chi contempli il busto in cotto di Teofilo attribuito a Tullio Lombardo, in quel bell'impasto fisionomico appariranno i tratti ideali della caparbietà di certi grandi irregolari, la determinazione caratteriale che è quella del malinconico non sentimentale, di un rivoltoso saturnino. No, quel concentrato di espressione non può essere né quello di un faceto ghiottone, né quello di un modesto approfittatore della cassa altrui. Ma non disturbiamo più oltre categorie lombrosiane, oltretutto non disaffini da quelle del genere che rimproveriamo al Goffis e al Billanovich in alcuni punti del loro discorso.
Luci che possano orientare meno opinabilmente la crisi che determinò l'uscita dei fratelli Folengo dalla comunità non sono attingibili neppure dalle vicende e dalle procedure che li ricondussero all'ovile. Né fonti né documenti permettono di scavare in quelle motivazioni che l'indirizzo opposto dei diversi studiosi hanno antiteticamente indagato. Con qualche fondatezza è forse presumibile che il periodo di tre anni di vita ascetica ed eremitica, imposto ai due fratelli onde ottenere la reintegrazione nel loro precedente stato monastico, fosse piuttosto una misura diplomatica che punitiva: don Teofìlo non aveva certo dato prova di possedere un qualche principio di carità - né più copertamente lo stesso Giambattista - nei riguardi dello Squarcialupi, di Alberto da Carpi e di Sebastiano di Dionisio, loro confratelli: la memoria di costoro, se pur implacabili antagonisti, e pur anco probi e rigidi monaci, richiedeva il rispetto se non altro delle convenienze. E noi pensiamo che se la vita mondana non era compatibile con l'animo di Merlino, da molti peraltro ritenuto un tepido religioso con qualche forte inclinazione epicurea, la scomparsa dello Squarcialupi e degli uomini più rappresentativi della sua parte abbia agito non secondariamente al rientro dei due fratelli all'ovile, unitamente alla probabile ripresa di quelle forze rinnovatrici e più intensamente evangeliche che facevano capo a Gregorio Cortese e al drappello dei suoi intimi, tra i quali si dovranno annoverare anche Teofìlo e Giambattista, quella falange benedettina d'un fervore religioso tanto acceso quanto audace, non aliena da spiriti, se non proprio simpatizzanti con la Riforma, certamente conciliativi, e che impersonava al meglio la secolare estraneità dei Benedettini alla teologia tradizionale delle scuole, rendendoli invisi a Domenicani e Francescani, ma ben accetti invece agli ambienti umanistici sensibili ai problemi religiosi. Quella milizia spiritualista dal cui seno qualche anno più tardi sarebbe uscito lo scritto ereticale di don Benedetto da Mantova, il Beneficio di Cristo, un confratello e amico dei Folengo, il Fontanini, e pure loro conterraneo oltreché appartenente alla loro stessa leva generazionale. Un' operetta ricca di intensa pietà e di religioso fascino, irta di pericolosa audacia teologale, famigerato indizio valido a convalidare, negli anni successivi alla morte di Teofilo, comminazioni di pene anche capitali da parte della Inquisizione, e che non poche difficoltà creò al cardinale Morene e al cardinale Contarini per la loro accondiscendenza nei riguardi dell'operetta, uomini eminenti ed illustri questi e che col cardinale Reginaldo Pole, lui pure amico e protettore dei Benedettini, rappresentarono appunto la linea teologicamente più avanzata in seno alla ortodossia nei riguardi dei riformati, e di conseguenza il partito dei perdenti e dei vinti durante e dopo le vicende del concilio tridentino.
A questo punto della vicenda di Teofilo, altri ne farà un nicodemita, il Billanovich invece, tenendo ferma la coerenza della sua interpretazione, un monaco sostanzialmente incapace di trovare un rapporto soddisfacente con il mondo durante il periodo della licentia, desioso della quiete sicura che il convento offriva a un carattere privo di slanci, di eroica abnegazione morale e intellettuale, disposto a transare le sue marachelle amministrative e letterarie mediante una rinuncia totale a quelle velleità, non altro che di temperamento, che durante gli anni giovanili aveva pur coltivato. Questa è l'angusta psicologia in cui il Billanovich rinchiude Teofilo, il rovescio di una medaglia sul lato opposto della quale è invece figurato l'amore illuminato del critico per l'opera del suo autore (le Maccheronee evidentemente). E a proposito di una tale interpretazione, che abbiamo detto riduttiva della personalità morale di Teofilo, legge il Billanovich nell'impresa stampata sul frontespizio dell' Umanità del Figliuolo di Dio, il poema scritto appunto da Teofilo, come ammenda dei trascorsi imputatigli, durante il ritiro meditativo e penitenziale a Punta Campanella, nell'impresa raffigurante il miracolo del lebbroso con il relativo motto evangelico, legge il critico «Volo mundari», accusando, con queste simboliche parole di capitolazione, la resa totale di Teofilo alla ritrovata abitudinaria tranquillità del convento. Noi leggiamo invece meno ovvie parole, quelle dette da Cristo: «Volo. Mundare», e dei sinottici appunto, che Merlino non poteva né storpiare né travisare al punto da confezionare un vero e proprio errore teologico. In bocca a quello straordinario giocoliere verbale, cariche oltretutto di un'ombra perfetta di ambiguità, significative a nostro parere della non semplice anima di Teofilo-Merlino. Anima, secondo noi, problematica la sua parte e tempestosa, per la riserva di malcelate angosce che il Caos ci tramanda con quel tanto di pazzo, di chimerico, di contradditorio in cui Triperuno è coinvolto e per quel sentimento di Cristo e di Dio che pulsa in larghi tratti dell' Umanità e della Palermitana che, lette a controaltare del Baldus. propongono l'ineluttabile dualismo di una coscienza in cui preludiano i sintomi di una crisi più vasta, incombente sulla storia e sull'uomo.
Ed ora, dopo aver sollevato le nostre riserve riguardanti alcune conclusioni del Billanovich, anche noi trascinati in una formulazione del caso Folengo destinata fatalmente a spegnersi in quanto più astratta che reale, oscillando, come si fa, dalla psicologia dell'uomo alla ipotetica teologia della mente folenghiana quasi non fosse il nostro un poeta ed un poeta di grosso rilievo, onde queste due componenti non potranno altrimenti risolversi che in funzione di questa realtà, e cioè della tangibile e circoscritta realtà della sua opera, torniamo invece agli apporti raggiunti colla «maniera forte», come scrive il Billanovich, quella della ricerca d'archivio. Ed entriamo in casa Folengo: questa sì è storia. Vi troviamo un padre notaio, il «nobilis vir Fridericus de Folenghis» - come prematuro dovette il latino toccare il timpano del piccolo Girolamo, ché fu questo appunto il nome battesimale di Merlino («Scribere vadit… macaronica verba nodarus») -, la madre Paola di nobile casato anch'essa e sette fratelli, cinque dei quali con Girolamo, a compire la bella sestina, toccati dalla vocazione religiosa affronteranno la vita conventuale. E zio di Girolamo, ecco un fratello di Federico, Nicodemo, figlioccio del marchese Gonzaga e verseggiatore latino che coi carmi tentò d'accattivarsi il favore di Federico da Montefeltro e del Magnifico Lorenzo, da un epigramma del quale sappiamo, godibile scoperta, che era consanguineo di Vittorino da Feltre che proprio a Mantova «aveva mantenuto la scuola che meglio potè gareggiare con quella del suo amico Guarino». Non ci mancava che l'ombra amabile di Vittorino tra le ascendenze di Girolamo, di quel lieto e sereno grammatico! Così, sensazionalmente, s'apre il libro del Billanovich. Il bilinguismo era un destino, la religiosità un secondo fato! Un bilinguismo che ora s'atteggia a elettività di casta, ora si deprime e si corrompe a rogito e strumento di bassa e ordinaria amministrazione. Ma le sorprese non sono finite e incalzano: la verità bisogna agguantarla dopo averla con pazienza pedinata. Così anche la data di nascita, poiché l'atto di quella manca, sarà rettificata. Otto novembre 1491, scrive il Billanovich, e non già, come tradizionalmente si scrisse, 1496. E la data conviene, calza esemplarmente col curriculum di un giovane neofito benedettino, a sedici anni vestendo Teofilo secondo la norma l'abito di novizio per professare, come la sua scheda ci testimonia, il 24 giugno 1509 a Brescia nel collegio di Santa Eufemia, diciassettenne come si soleva. Ma soprattutto a rialzargli gli anni a Merlino è operazione ancor più convincente se facciamo riferimento al Liber macaronices della Paganini (1517), di un'arte già così robusta e così saputa di vita che meglio si conviene ad un giovane venticinquenne che non a un garzoncello che andasse dettandosele sotto la ventina. Crolla di conseguenza, alla luce di una tale cronologia, al dischiudersi delle porte di Santa Eufemia, la mitologia goliardica bolognese, si dissolve l'ombra di Peretto Pomponazzi. Ma, se mai, proprio perché affatto fantastica quanto più acuta e carica di humour l'invenzione merliniana, che perfetta intuizione critica sulla collocazione della sua opera!
Sant'Eufemia, i registri della Congregazione con i loro nudi referti, poco più che nomi, sollecitati da quell'amorosa ricerca del Billanovich danno frutti stupendi. Ecco i maestri, gli amici di Merlino, don Marco da Brescia; insanguinato dal martirio, suppliziato a morte tra i tormenti della ruota dalle truppe inferocite di Gaston de Foix, ecco don Teofilo Bona, retore dotto di latino e di greco, poi la paterna e alta figura di Giovanni Cornaro e il suo magistero di illuminata pietà; 1513 San Benedetto Po (il Padolirone), la grande scuola di Gregorio Cortese, l'amico del Bembo e l'intimo del Sadoleto; s'affacciano le apparizioni dei grandi protagonisti della storia, sullo sfondo il Bessarione, più prossimo Reginaldo Pole; spuntano i volti degli amici, dei quasi coetanei di Teofilo, tra Dionisio Faucher e Luciano degli Ottoni, tanto cari al cuore di Giambattista; proprio lui, infine, anche Benedetto da Mantova, il Fontanini. Sono gli allievi insigni della scuola magnifica di San Benedetto Po. Il cursus di Teofilo procede: è il 1514 e probabilmente Teofilo è a Santa Giustina di Padova, la città di Corado e di Tifi. Gli echi dello Studio padovano: il Pomponazzi vi ha letto fino al 1509, il ricordo di quest'altro insigne
Mantovano è ancora nell'aria. Il profondo rinnovamento impresso all'Ordine dal grande Lodovico Barbo si sostiene ancora, l'intensità di quella grande opera spirituale pervade ancora tutti i chiostri benedettini padani. Le humanitates di Teofìlo sono eccellenti, chiuse perfettamente nel cerchio della grande famiglia benedettina. Non solo non se ne può più dubitare, ma le stesse Maccheronee non sarebbero concepibili fuori di quell'àmbito: non si potrebbero staccare così come non è separabile l'Ariosto dalla Corte di Ferrara. E non v'è dubbio che i primi lettori di Merlino fossero i suoi confratelli, i primi estimatori i suoi più illuminati direttori spirituali. Il fervore intellettuale e morale che circolava da San Giorgio Maggiore a Santa Giustina a San Benedetto Po è tanto alto e maturo da poter innescare e reggere un esperimento fantastico e allotrio come quello del Baldus. Cominciamo a capire come dopo la rissa, dopo le ore buie ed esacerbate dello scontro con la parte dello Squarcialupi, il desiderio di Teofilo fosse solo quello di riapprodare al convento. Nel 1517, intanto, Teofilo era stato ordinato prete. E fu, come sappiamo, anche l'anno dell'edizione Paganini.
Toscolano è una località sul lago di Garda. I Paganini avevano quivi una succursale della loro stamperia veneziana. Confortati dal buon successo della prima edizione delle Maccheronee, quei torchi gemettero intorno al 1521 per dare al mondo della poesia la seconda edizione dell'opera di Merlino. Lo svelto libretto del '17 è cresciuto, anzi ha pressoché raggiunto la definitiva compiutezza della materia, non già quella della forma, e s'articola, per meglio accreditare la sua leggenda autobiografica, sull'esempio virgiliano e quello omerico. Così la Zanitonella fa il paio con le Bucoliche, la Moscheide s'associa alla Batracomiomachia, il Baldus, che si è notevolmente incrementato passando da diciassette a venticinque libri, è l'Eneide o l'Iliade merliniana. In coda un manipolo di svelti epigrammi. Teofilo ha trent'anni e l'opus testimonia il vigore creativo e la fecondità di chi è nato per essere poeta di primissimo piano. I margini delle pagine della Toscolana sono, ancor più che nella Paganini, tempestati dalle glosse, un incremento di sali e di facezie in funzione farsescamente didattica, allestite inoltre secondo i suggerimenti della antica retorica, con quelle leggendine di Comparatio, Notandum, Proverbium, Parenthesis, e la segnalazione dei tropi retorici come quando il poeta scrive: Forma Baldi, Forma Lanzagnocchi. Verranno cassate - ma un buon lettore di Merlino non le potrà dimenticare - nelle edizioni successive e per profonda convinzione d'arte e perché dispersive dell'attenzione, perché conferenti eccessiva esuberanza di colore, perché improprie in una pagina dove il maccheronico avrebbe dimostrato ormai la sua potente autonomia ed una autorità di linguaggio non certamente riducibile al mondo giocoso della risata.
Al tempo della Toscolana Merlino è già pienamente conscio dello stacco che separa la sua opera dai precedenti maccheronici, della carica ironica e satirica inerente alla sua vis comica, della capacità d'urto ma anche di impeccabile figuratività che ha la sua violenza plebea poiché la calibra e la trascende un'esigenza spontanea di rigore e di misure formali inflessibili, di quel che va sommuovendo l'impeto sinfonico del suo esametro inarrestabile: non una carnevalata di certo, ma un universo di cultura e di passione riflesso entro lo specchio deformante di chi, come Merlino, ha un potente amore della vita ma pure troppe ragioni, ora quasi selvagge, ora illuminate, per non trovarsi mai in un felice rapporto col mondo. Dalla data della Toscolana la strada che resta aperta alla Maccheronea sarà solo più quella della perfettibilità sempre più felicemente acquisita attraverso le redazioni della Cipadense e poi della Vigaso Cocaio. Un lavoro tuttavia non esterno, non di lima, ma di intonazione sempre più esattamente corrispondente alla coscienza critica del poeta, che di redazione in redazione andrà impadronendosi e svelando a sé stesso le leggi più segrete che conferiranno alla sua invenzione linguistica sempre più matura e sapiente realtà d'arte. Ci sembra tuttavia assai pertinente, mentre qui andiamo sottolineando quell'operazione unificatrice e nello stesso tempo ispirata che sottende il pluriennale lavoro di revisione di Merlino, unificatrice nel sentimento della lingua che s'era data e pertanto capace di armonizzare tra loro la vastità dei temi stessi così come tutta la complessa organizzazione epica dei fatti e delle motivazioni, questa acuta annotazione del Billanovich: «Mentre i Paganini divulgavano la seconda edizione delle Maccheronee. si veniva preparando per la biografia di don Teofilo il dramma oscuro. A chi ne fu vittima parve ingiustizia e disgrazia irreparabile; come il solito era la via dolorosa offerta all'uomo per perfezionarsi e anche al poeta per la bontà maggiore dell'opera sua; la quale solo con l'esilio perde spesso limitazioni anguste - parodie oscurità grettezze - lasciatele dal piccolo mondo in cui era nata, e acquista invece gli spazi aperti per i nuovi e migliori episodi: per il grande cuore ospitale di Berto Panada e per i dolori della povera Baldovina. E il linguaggio - la pietra di paragone dei poeti - raggiungerà l'aurea dosatura maccheronica, di lingua e di dialetto, di solennità e di asprezza, solo nelle prove finali, maturate tra le nuove vicende e tra la pazienza tenace dell'artista Merlino». Dove appunto vien fatto di porre attenzione come la raffinata esigenza dell'artista non sia scollegata dalla vicenda stessa dell'uomo. E al fine di meglio tenere presente l'integrazione, se così possiamo dire, delle tensioni di ordine morale con l'irriducibile vocazione al perseguimento degli ordini formali che conferiscono all'opus maccheronico l'impeto di una rara vitalità, basti richiamare alla mente i risultati di un'opera, di grande fascinazione artistica espressiva, elaborata ed elucubrata con un criterio affine, ma inverso, rispetto a quello di Merlino, mediante cioè la forte latinizzazione dell'italiano, il Polifilo di Francesco Colonna: risultato eccezionale della cultura umanistica, di qualche decennio appena precedente l'opera del Nostro, uscito pur esso dai chiostri, domenicani questi, ma catafratto in una sorta di solipsismo linguistico, di trascesa teratologia verbale chiusa a ogni sorta di partecipazione che non sia quella estetico-edonistica.
A livello della Toscolana le Maccheronee sono già un'opera di alto prestigio, e non dispiace pensare ch'ebbero al loro apparire un lettore almeno capace di penetrarne la sottigliezza e la complessità del gioco. Il Rabelais conobbe infatti la Paganini e sicuramente anche la Toscolana: Francescano, passato all'Ordine benedettino e coinvolto in aspre vicende disciplinari con l'autorità della Chiesa, coperto da sospetti ereticali ben più pesanti di quelli che possono avere sfiorato Teofilo, ma soprattutto inventore di una lingua inaudita e coniatore di combinazioni lessicali stupefacenti e ammiratore dichiarato del Nostro, non può non averne inteso la profonda solidarietà artistica, umana e culturale, oltreché quella più pertinentemente ideologica e combattiva del rinnovamento del costume ecclesiastico e non solo di quello ma della stessa società umana. Orbene, se la definizione più inclusiva e calzante del grande scrittore turennese è quella di umanista, non si vede poi perché non debba essere anche quella che meglio si addice alla figura del Folengo. Non poco vi fece velo la poetica dei generi con la conseguente riduzione del comico ai più bassi ranghi dell'esperienza letteraria, ma anche la meno ben delineata storia del nostro umanesimo religioso rispetto a quello francese più scopertamente avanzato in sede critica e dottrinaria ed anche più sollecitato dalla stessa maggiore indipendenza dalla Chiesa romana e, infine e non ultima, una più specifica ragione letteraria, sostanzialmente classicista e pur legata al ribellismo avulso e sostanzialmente caratteriale del Folengo impostoci dalla critica romantica, del Folengo dissacratore ed iconoclasta, del Folengo barbaro sovvertitore del latino, e vituperevole combinatore di mostruosi accoppiamenti. È una reazione che dove anche tacesse, solamente dorme, tanto diffusa e radicata è la pregiudiziale classicistica della maggior parte dei giudizi e degli approcci estetici, anche se la funzione e la validità dell'operazione plurilinguistica è stata teorizzata da Dante, è alle radici del nostro volgare letterario ed è imprescindibile forse in ogni storia letteraria, e come se non fosse poi proprio dello scrittore o del poeta pasticheur un sentimento della devianza che coincide con quello per l'escluso, il diverso, il non eufemizzabile, per le sottratte linfe quindi di un più generoso e aperto parlar materno. Il favoloso, se così ci possiamo esprimere, dell'operazione folenghiana è proprio quello di aver voluto nel latino, madrelingua verace di tutta la cultura, riinnestare il volgare e ancor meglio il dialetto, la lingua esclusa e tagliata fuori dai canoni imperanti, in una matrice capace di liberarne i significati, di esaltarli, nel più alto ed elaborato gioco dei valori formali. Un'operazione che di certo non si può compiere senza violenza, ma dove la violenza non è distruttiva, né tanto meno iconoclastica, ma felicemente liberatoria.
Alla luce di queste pur sommarie indicazioni che invitano tuttavia a un modo di lettura meno impressionistico e più aderente invece ai procedimenti tecnici dell'artista ed all'ars inveniendi del poeta, l'accusa a volte proposta nei riguardi del Baldus come a opera non perfettamente fusa ed amalgamata, che soffre per le non ben armonizzate spinte dei suoi temi non sentiti e risolti con pari vivacità e felicità di intuizioni, apparirà di per sé mal proposta. Essa è frutto di quell'accostamento al Baldus vòlto a privilegiare il taglio bozzettistico (e i relativi contenuti) che si può operare in quella materia secondo un gusto che solitamente elegge le parti borghigiane rispetto a quelle epico cavalleresche o a quelle infernali, con un conseguente disastroso risultato di lettura. Poche opere riescono invece così compattamente orchestrate e così sicure nel- l'amministrare le varie convenzioni letterarie: quella borghigiana appunto, quella cavalleresca, quella eroica umanistica, quella infine goticheggiante, e infernale, non solo senza squilibri, ma per l'intima necessità e forza del racconto portandole a una verifica di esemplare solidità narrativa. Poche opere infatti hanno la capacità di aggancio sul lettore che detiene il Baldus. una così inesauribile vivacità umoristica non sopraffacente tuttavia mai il tempo e l'attesa drammatica della vicenda, un così ben dosato impiego d'intermezzi, tanta cattivante felicità nell'introdurre i canti, tanta indimenticabile malizia nel concluderli. Non crediamo infatti che ci sia vicenda epica capace di memorizzarsi ad una prima lettura, dettaglio dopo dettaglio, come quella del Baldus. e certo per la imperiosa forza visualizzante che detiene l'iperrealismo del Folengo, ma anche perché favorita dal talento drammatico, dal tempo esattamente calcolato sulla necessità della rappresentazione. Un vero talento da regista per l'uso dei campi lunghi, dei grandi angoli, delle «zummate», un vero uomo da spettacolo, e basterà per questo mettere l'occhio nelle scene corali del poema, nelle epiche battaglie che sono le parti ovviamente generiche di un poema cavalleresco. Bisognerà ancora aggiungere che il buon governo di tanta ricchezza di materiali, delle fitte sollecitazioni culturali e retoriche, delle istanze più direttamente cogenti e impegnate, come il violento attacco al malcostume ecclesiastico, messe in essere dal suo prodigioso gioco linguistico, avviene poi sotto il segno dell'ironia, un'ironia capace di esasperare il comico stesso senza lasciarsene sopraffare e che condurrà il poema a concludersi entro le sue stesse spire. Tutt'altro che esterna dunque l'invenzione finale della zucca dove i poeti sono tormentati per le loro bugie dalle feroci pinze dei cavadenti, ma fatalmente predestinata e stupendamente attutita nel suo risentito nichilistico umore dagli ultimi due esametri dove fiorisce tanta struggente e devota nostalgia del mondo e della poesia virgiliana. L'ironia, nella sua accezione primaria di simulazione, regge dunque il gioco di questa fantastica pseudologia che è il Baldus. dove basterà che la giusta luce cada sulla buffoneria di superficie, sulla grondante materialità degli atti, sul rozzo cinismo, sugli stessi scatologici motivi, per riascoltare, sotto la metafora, la violenza di una coscienza offesa, di una protesta che affianca e spalleggia la rivendicazione di un nuovo ordine morale, e di una reinstaurata e nuova dignità umana, il che fa, paradossalmente, del Baldus il più serio dei poemi eroicomici, e di quella inimitabile lingua il mezzo di una scrittura tra le più libertarie del secolo e tra le più memori anche dei valori civili ed eroici dell'umanesimo. Se non andiamo errati saranno dunque queste propensioni, abilmente dissimulate nell'antifrasi ironica, questo sotteso registro o contrappunto che interviene mediante una possibile e continua permutatio ex contrario, a far sì che il Baldus abbia trovato udienza, e non solo accondiscendente pensiamo, presso un Cortese, un Contarini, un Camillo Orsini, gran lettore di san Paolo, e la schiera eletta dei Benedettini e dei più accesi evangelici e spiritualisti che incontriamo sulla strada di Teofilo.
La Moscheide è un'operina un po' frigida, un'esercitazione letteraria che non esce dall'àmbito virtuosistico di Merlino, che meglio d'altra parte se la faceva, piuttosto che con gli ortotteri e gli imenotteri, con le balene e i giganti. Ma la Zanitonella, questa no, è un piccolo capolavoro: un canzoniere parodico, che mira a fare grossolano scempio del genere pastorale, che non misura le trovate becere e per incanto d'arte finisce per cristallizzarsi in un lavoro di fine galanteria poetica, di semplicità persino un po' affettata, tanto pregevole è l'intarsio letterario, l'ammicco dotto e bucolico. La mai presente Zanina finisce per diventare una indimenticabile creatura d'arte, civetta acerba, perfida la sua parte, una ninfa rusticana capace di un fascino più sottile di quello delle sue rustiche sorelle nenciali. Si capisce come a lasciarsi andare ad una lettura impressionistica possa passare nella mente che si tratti di un reale amore giovanile trasposto di Teofilo, che vibri una corda personale e diretta. La tessitura dell'operina ci convince poi del contrario, ordita com'è dentro il mito e la retorica dell'amore pastorale, ma il fantasma d'amore è ben vivo e tale da mettere in soffitta l'ipotizzata misoginia di Teofilo, nient'altro più anche questa d'un topos letterario, Zanina raggiungendo così qualche apparizione indimenticabile di Berta che s'abbella, che danza, rinviando alla calda passione di Baldovina, al suo stupendo amore per il piccolo Baldo, per cui anche l'universo muliebre di Merlino appare compiuto e riscattato entro una ben composta misura che non lascia più spazio ad eventuali pregiudizi frateschi.
Quando Teofìlo approdasse a Venezia non sappiamo con precisione. Certo nel 1526 aveva trovato protezione presso Camillo Orsini, capitano delle repubblica veneta, uomo di forte sentire religioso e di aperte convinzioni «spirituali», amico dei Benedettini più eminenti. Ma dal 1520 al 1525 è impossibile ipotizzare con qualche sicurezza gli itinerari e le sedi dove Teofilo esplicava più durevolmente la sua attività religiosa. Il 1524 fissa invece lo scandalo del fratello Lodovico e da questa data possiamo arguire che si aggravò la situazione anche di Teofilo e di Giambattista. Solidarietà fraterna, ragioni di parte, quella dello schieramento benedettino che faceva corpo intorno all'alta figura del Cortese, coperte e delicate implicazioni spirituali e teologiche rendono la matassa non dipanabile nel pressoché totale silenzio dei documenti. Uscito che fosse dalla Congregazione qualche mese dopo la condanna di Lodovico, come opina il Billanovich, avrà trovato riparo presso Luigi Grifalcone (al quale va un caldo ringraziamento nel Caos) a Venezia appunto, pur sempre anche in quegli anni di gravi tensioni politiche «theatrum totius Italiae splendidissimum» come appariva ad Erasmo. Tra la fine del '24 e il principio del '25 comincia dunque il curriculum mondano del trentaquattrenne Teofilo che, da quell'eccellente letterato che fu, se pur avrà dovuto fronteggiare strettezze materiali - con un pregnante anagramma dello pseudonimo maccheronico si battezzerà infatti Limerno Pitocco -, non si sarà sentito inibire neanche da quello splendidissimo teatro. La conferma sta nella sbalorditiva tempestività con cui prende posto nella professionalità dello scrittore, e come autore «volgare» questa volta, per adire una fama più vasta e forse anche un successo meglio remunerato. Più volte i torchi del De Gregori, dei Da Sabbio e del Soncino tra il '26 e il '27 saranno impegnati infatti dai parti del poeta, col nome di Limerno appunto (e potè essere prudenza!) dapprima per l'Orlandino, con chiara allusività a Teofilo, poi, per il Caos del Triperuno.
«Mensibus istud opus tribus indignatio fecit» si legge nella epigrafe preposta agli otto libri di ottave dell'Orlandino. E non abbiamo difficoltà a credergli poiché uno dei non rari piaceri che la lettura del poema offre è proprio quello di cogliere quella velocità di scrittura in atto, il getto che rischia l'anacoluto, s'affida all'approssimazione, alla contorsione, alla zeppa, ma salva la spinta biliosa, la pressione dell'ira confusa nell'amarezza e nel sarcasmo della risata, quella plebea e istintuale, cui Limerno come Merlino s'affida, non già per gratuita elezione della volgarità, ma per l'estremismo del suo disegno, per l'elementarità in cui non può non sfociare la violenza e la passionalità eccitata. La trasandatezza è calcolata, la sconcezza deflagra tra gli echi di classici ricordi, vanto e protesta di un irriducibile e accanito «Lombardo» contro la tirannide del toscanesimo e dell'accademismo, con finta tontaggine l'autore insinuando le sue tremende proclamazioni evangeliche: quella di Berta e quella di Raineri. A noi, così coperte come sono entro un alibi di furore comico-parodistico, appiattite dalla stessa facilità della versificazione, paiono ancor più significative che se mostrate con qualche teologico rigore. Altri può pensarla diversamente, ma che l’Orlandino sia un libro di battaglia è indubitabile: alzarne o abbassarne il bersaglio, chiuderlo cioè nel cerchio del risentimento gretto o intenderne l’escamotage mediato attraverso la trivialità del grottesco dipende dall'immagine che del Folengo ognuno di noi riesce a comporre. Ma non correrà così troppa discrepanza se in quegli stessi giorni in cui i fogli dell'Orlandino gli uscivano dalla penna il poeta teneva probabilmente sullo stesso scrittoio quelli abbozzati del Caos del Triperuno. A meno che non si stia dalla parte del Billanovich che ritiene «questo sciocco libro, aborto di un grande intelletto,» lo scotto pagato per la protezione dell'Orsini. «Probabilmente la conclusione dei patti della clientela con il devoto capitano della repubblica» scrive il Billanovich «lo persuase a dare un colpo brusco di timone: e, con il braccio ancora stanco dalla scrittura del canagliesco Orlandino, incominciò a distendere nel Caos del Triperuno pagine calligrafiche di letteratura devota. Riprendeva con il Caos una delle tradizioni più vecchie e più sbiadite della nostra letteratura; dove già con l'Amorosa visione e più ancora con l'Ameto si era impaludato il Boccaccio: che anche nella frequenza e nella gravità di incertezze e di sbagli, provocati da esuberanza di calore e da difetto di abiti raziocinanti, è buon fratello maggiore del Folengo. Al fondo di questo vicolo chiuso Folengo segna il passo; sforzandosi nella pretesa vana e ridicola di tradurre in immagini rachitiche purificazioni di convertito che egli non soffre e aspirazioni mistiche che non comprende. Per gli imbrogli confusi e vuoti che vi si aggrovigliano dentro, il Caos è una scrittura più debole e più irritante delle molte opere pie, pallide di anemia congenita ma per lo meno liscie e uniformi, di cui il Folengo alterna la composizione alla revisione delle Maccheronee nella seconda metà della sua vita». Giudizio ricusatorio e persino brutale che liquida e destina tutte le opere italiane del Folengo, tranne qualche condiscendenza per Orlandino, al più immediato oblio; ma giudizio provocatorio sostanzialmente e tutt'altro che inintelligente se porremo mente alla intransigenza e alle preclusioni che a volte inevitabilmente la perentorietà della dimostrazione impone agli interpreti e agli esegeti. Di troppe bellissime pagine siamo infatti debitori al Billanovich e al suo Folengo per non trovare in queste negative risoluzioni uno stimolo di più alla lettura del Caos che di certo ha i suoi limiti, ma non sconforta mai il lettore e oltreché di ottima retorica non difetta del tutto di anche buona poesia. E a proposito di quest'ultima ci conforta di trovare allineato al nostro giudizio un lettore «emunctae naris» come Massimo Bontempelli che in una seletta antologia della lirica italiana (apparsa a Milano nel 1943) dal Caos appunto trasceglieva qualche pagina non indegna di confrontarsi con gli esiti più alti della nostra lirica. Opera singolare questo Caos. di ardua lettura, se può dar luogo alla liquidazione intrapresa dal Billanovich e di contro a quegli esiti di lettura sapidi di eresia e di provocazioni quali sono quelli del Goffis, e anche incompresa. Se l'abbondanza di allegorie e lo spreco dei simboli, degli acrostici addirittura appartengono all'emblematica medioevaleggiante, per cui si può giustamente risalire anche alle convenzioni boccacciane menzionate più sopra e ad altri ancora più remoti archetipi, i tre alter ego in cui si triplica e si scinde l'anima del poeta, Merlino, Limerno e Fùlica tra le peripezie delle tre selve onde attingere il riconoscimento appagante di Dio, sfuggono poi all'ordine astratto di una convenzionale dialettica moraleggiante per assumere una sufficiente carica autobiografica, una incidenza esistenziale e psicologica capace di determinare una curiosa ambiguità di toni, una diffrangenza tra il realistico e il convenzionale assai accattivante per un lettore moderno. E questo lettore non sarà solo compreso degli interessi culturali di cui l'opera è portatrice, valori compositi di prosa e poesia, di volgare, latino, maccheronico, di echi petrarcheggianti e di echi danteschi a raffronto e in connubio, ma anche felicemente sorpreso di trovarsi di fronte ad un modo nuovo di fantasticare e di comporre, ad una vera e propria «opera aperta» ante litteram, incuriosito dal gioco delle stesse variazioni compositive, oserei dire tipografiche, glosse incluse che rinascono ai margini della pagina quasi a rivendicarne l'impiego da parte di un futuro pasticheur non immemore di tali artifizi e di tali ausilii. Ma non ultima ragione della presenza di un cospicuo stralcio del Caos nella presente antologia sarà, oltre quella di mettere a fuoco la poliedrica figura dello scrittore, di ritrovare anche sul piano rialzato di questo itinerarium in Deum una rilevante messe di allusioni biografiche, un repertorio di amici e di nemici, di affetti stupendi e di odi incalzanti: tratti, indizi, suggestioni dei quali nessun ammiratore del Folengo vorrebbe mai privarsi.
Siamo agli anni 1526-1527 e scrive il Billanovich: «Ora una serie di annunci di morte veniva a alzare una fila di croci lungo la strada dolorosa di Teofilo in esilio. Morivano i più cari: il disgraziato Ludovico, quasi insieme padre e madre, forse qualcun altro dei fratelli; morivano gli avversari: nel '26 lo Squarcialupi, nel '27 Sebastiano da Firenze». Nel 1527, vivendo a Mentana in una terra degli Orsini, Teofilo sente tutto l'orrore del Sacco di Roma. Lo stesso Camillo Orsini si salva a malapena dalle orde dei Lanzichenecchi. Con l’Orlandino e il Caos anche una certa operazione catartica si sarà compiuta nell'animo di Teofilo, molti risentimenti saranno defluiti per quei canali e la morte dei suoi nemici ne sarà stato anche il suggello. Presto avrà intuito che la sua vita non si sarebbe risolta né sistemata con l'attività letteraria e pubblicistica a Venezia, così come Giambattista non avrebbe potuto continuare con la conduzione degli improvvisati commerci in Liguria. La stessa dissacrazione del Sacco piombata sulla Roma papale era un segno di un prossimo rinnovamento, gli amici veneti avevano riacquistato vigore in seno all'Ordine benedettino. Gli avranno preparato la strada per il rientro all'ovile. La pietà religiosa di Teofilo è indiscutibile, il sentimento della sua appartenenza all'Ordine forte: lo testimonia lo stesso Caos. Se occorrevano prove di risipiscenza tangibili e ufficiali, venissero! Così perché Teofilo e Giambattista potessero essere riammessi nell'Ordine si chiese loro all'inizio del 1530 un triennio di vita eremitica. Dapprima Giambattista fu a Monte Luco, presso Spoleto, poi i due fratelli si unirono al Monte Conero, presso Ancona, e la maggior parte del loro eremitaggio trascorsero infine più distesamente e laboriosamente a San Pietro a Crapolla nella penisola sorrentina.
A stimolare la nostra immaginazione giova il quadro di quella bellissima natura e non altro soccorre all'infuori degli scritti dei due fratelli, i Pomiliones di Giambattista, il Varium poema e il Ianus di Teofilo unitamente all' Umanità del Figliuolo di Dio, a risarcimento quest'ultimo delle trascorse intemperanze. Se non forse ancora sullo sfondo qualche amichevole ombra, ma, ancorché significative, assai evanescenti (per la mancanza di prove testimoniali): il cenacolo napoletano dei valdesiani: Scipione Capece, Vittoria Colonna, Girolamo Seripando e naturalmente, e ancor più inafferrabile, Juan de Valdés; figure squisite e vibranti della spiritualità cinquecentesca, ma anche - si badi bene - non disponibili in una storia della pietà religiosa legata alla teologia romana. Giova dunque soprattutto ad acuire la nostra fantasia per quei lontani anni di Teofilo a San Pietro a Crapolla il vigoroso e bel latino del Varium poema, quello più arido e secco teso tra una assurda convivenza di scolasticismo e di ciceronianesimo di Giambattista, ricco però di forza meditativa e di una non arresa audacia teologica, ma soprattutto le ottave dell' Umanità. Si spegne la poesia di Teofilo, è certo, quando gli manchi il linguaggio e l'ispirazione maccheronica, ma che i dieci canti dell'Umanità ci rivelino solo o poco più che la fatica documentata di una penitenza, del penso richiestogli per la riammissione, numerosi momenti e troppe ottave Io smentiscono. Innanzi tutto la gradevolezza di lettura percorre quasi da cima a fondo il poema, il piglio icastico e diretto di Merlino non raramente affiora, la colorata e pittoresca sfilata dei personaggi testamentari è vivace e nuova, piantata e atteggiata con una robusta forza immaginativa e figurativa ... e poi qui ancora quella tipica velocità di penna come nell'Orlandino che, se può finire nell'abborracciato, è pur sempre un suo modo di fare, di sorvolare se l'impulso si spegne, di non potere insomma attender troppo. Ma chi legge l'Umanità non se ne va deluso: poesia religiosa nel secolo del Folengo e in quelli successivi così decorosa e con la vivacità dei suoi estri non se ne trova, in Italia, poi molta di più. E più spettacolare che profonda, ed il Folengo ci pare anche uomo da spettacolo e per questo è stata detta e sentita come poesia in certo modo già controriformistica, ed anche questo è abbastanza esatto, purché si tenga presente che è poi più prossima a certi valori figurativi carracceschi che non ai risultati della stanca letteratura edificativa post-tridentina. Nel 1533 l'opera era già stampata a Venezia da Aurelio Pincio che fu probabilmente lo stesso editore dei Pomiliones e del Varium poema che con il Ianus uniti in uno stesso volume recano la medesima data, ma appariranno l'anno dopo.
Nella primavera del 1534 Teofilo venne riammesso nell'Ordine e probabilmente fu accolto nel monastero della sua professione, Santa Eufemia di Brescia. Fu poi frate e poscia rettore a San Benedetto di Capra sopra Sulzano sul lago d'Iseo, poi governatore dell'ospizio di Santa Maria del Giogo fino al 1538. Non gravi le cure di queste modeste comunità, riprese Teofilo i testi maccheronici che sarebbero appunto stati recati alla maturità della edizione Cipadense. Una edizione questa senza data - ma del 1539-40 come dimostrò il Luzio - uscita col fittizio luogo di Cipada, terra natia dell'autore, e senza nome di stampatore (ma quasi certamente Alessandro Paganini come per le precedenti principi del '17 e del '21).
Quando questa nuova redazione uscì, da un anno o più Teofilo aveva nuovamente attraversato l'Italia per raggiungere la Sicilia. «I monasteri della congregazione siciliana» seguiamo il Billanovich «erano stati uniti alla grande congregazione cassinese nel 1506, particolarmente per l'abilità diplomatica dell'affettuoso protettore di Teofilo l'abate Cornaro. Per mantenere un'unione omogenea e concorde nella vasta congregazione cassinese due larghe correnti di monaci salivano e scendevano ogni anno tra la Sicilia e la penisola. In questi anni vediamo giungere in Sicilia con don Teofilo altri monaci mantovani. Forse, per spiegare le discese di questi mantovani e per togliere un po' di mistero a quella di Teofilo, basterà solo riflettere che in Sicilia era allora governatore un Gonzaga, il bravo capitano don Ferrante». Riprende dunque per Teofilo una attività di edificazione più intensa, e come giunse al monastero di San Martino delle Scale a Palermo eccogli commissionato l'incarico di preparare una rappresentazione sacra, con la descrizione dei misteri della Redenzione, dal peccato d'Adamo all'Annunciazione. Ne uscì quel curioso ma anche bel lavoretto drammatico dell' Atto della Pinta, bello soprattutto per la pienezza del latino liturgico, che invita a pensare al canto, curioso per la minuta attenzione dello scenografo che fissa i colori dei costumi dei personaggi e, vero e proprio merliniano sigillo, mette in bocca a Michea e a Sofonia un dettato in lingua ebraica. La serata della Pinta non può non venir fantasticata da chi ami il Folengo, anche pensando come lui, buon musico, avrà ordinato le entrate al suono delle trombe o col rullare dei tamburelli o chissà con quale commento di cennamelle. A quella distesa serata non avrà quasi certamente partecipato don Benedetto da Mantova, il Fontanini, che si trovava però in Sicilia dove aveva da poco preceduto Teofìlo, e conduceva la sua missione di Benedettino in una parte più orientale della Sicilia. Ma dell'ufo della Pinta avrà pur inteso, disponendosi proprio in quegli anni a scrivere le sue ascetiche meditazioni che recheranno il titolo poi tanto scottante di Beneficio di Gesù Cristo verso i Cristiani. A Santa Maria delle Ciambre, un piccolo monastero alle dipendenze di San Martino, la penna alacre di Teofìlo riprendeva, infaticabile. Ora traduce nella Palermitana, un poema di due libri rispettivamente di trenta e di diciotto canti, lo stesso argomento dell'ufo della Pinta, in una specie di «coliseo pastorale» sul tono dei Trionfi del Petrarca: dalla creazione degli angeli al fallo di Adamo ed Eva fino alla natività di Cristo. Dura prova in terzine dalla quale il poeta non esce vinto, in qualche occasione ritrovando anche impennate che reggono l'altezza di una poesia sacra da far tremare le vene e i polsi. Lavora anche all’Hagiomachia, uno sterminato progetto di passioni di martiri; ne sono rimaste diciotto (con ventun vite di santi) in ormai stanchi esametri latini. Due titoli poi che non sono più che mera nominanza, una Vita e qualità di Nemo, in prosa, e una satira in maccheronico, Le Graticce, poiché quelle opere sono andate perdute.
Riapproda nel 1542 nelle sue terre ed elegge, nella solitudine di Campese, il piccolo priorato di Santa Croce dove il Brenta sbocca nella pianura. Una dipendenza del monastero di San Benedetto Po là dove l'adolescente aveva seguito i corsi del valoroso umanista e teologo Gregorio Cortese. Due anni appena lo separano dalla morte ed il poeta è ancora chino sulla sua Maccheronea, ha ancora tanto estro e tanta arguzia per scrivere la prefazione di Vigaso Cocaio, così ricca di sapori padani e lombardi che non par vero potesse mai essere attribuito al Doni uno scherzo tanto genialmente folenghiano. L'affetto di Giambattista passerà poi quei fogli al libraio Giovanni Varisco. Nel 1552 uscirà infine, ancora a Venezia, la Vigaso Cocaio.
E giunti alla fine di questo rapido avviamento alla vita e alla fortuna di Teofilo Folengo leggiamo, per saggiare quella buona dottrina, un paio di paginette del volume Tra don Teofilo Folengo e Merlin Cocaio. Il lettore che non conoscesse questo fondamentale lavoro di Giuseppe Billanovich troverà, pensiamo, stimolo a ricercarlo poiché, ne condivida interamente il giudizio o ne dissenta in parte, è prefazione insostituibile al Folengo.
«La prefazione di Vigaso Cocaio si chiude con l'esaltazione dell'Orlando innatnorato e i biasimi per il rifacimento con cui il Berni aveva mutato quel poema, e con l'esaltazione dell'Orlando Furioso. Anche questi elogi canori al vecchio e al nuovo poeta di Ferrara equivalgono a una firma, non certo di un toscano, ma del lombardo Folengo. Folengo nasce a Mantova e vi riceve la prima istruzione. È accolto ragazzo a Brescia; muore, correggendo ancora il poema, a Campese. Vive il massimo numero di anni a Brescia Padova e Venezia; e a Brescia ha probabilmente la fantasia prima del capolavoro. Dunque egli nasce al di sopra del Po; e vive e compone nelle terre della repubblica veneta: e ne ricorda insistentemente istituzioni soldati monete. Perciò soggiace anch'egli alle norme che regolano il corso della letteratura in quelle regioni. Le intense tradizioni umanistiche impregnate nella sua casa, l'istruzione esclusivamente classicistica che egli ricevette nella congregazione cassinese e questa cornice mantovana e veneta entro la quale fu stretta la sua biografia, fecero risolvere la vocazione artistica del Folengo nella professione di poeta maccheronico; anzi che in quella, in cui altrimenti avrebbe potuto espandere il suo ingegno estroso e balzano, di poeta burlesco in volgare. L'Orlandino è un diversivo tardo e momentaneo; invece le Maccheronee assorbono tutto l'impegno del Folengo e bastano a dargli intera la fama. Difficoltà di cultura e di retorica, ma particolarmente contrasti ancora insanabili tra dialetto e lingua letteraria, impediscono che nel primo Cinquecento vi possa essere un grande poeta in volgare al di sopra del Po. Il successo massimo prodotto dall'allargarsi della rete culturale e letteraria tra il Quattro e il Cinquecento è il sorgere oltre l'Appennino e verso il Po, cioè al di là dei confini toscani e tanto più a nord di Firenze, della scuola poetica di Ferrara. E Folengo anziano avverte quel successo e vi applaude con lo sfogo lieto del letterato settentrionale che invano ha aspirato per lunghi anni a conquistarsi una maestria di poeta in volgare.
I letterati educati nei paesi che nell'età del Folengo erano riuniti nella repubblica di san Marco erano stati costretti da tempo per quelle difficoltà a decidersi tra due alternative: o poeti in dialetto o maestri di retorica. Una larga schiera si volge a una letteratura risolutamente popolaresca e dialettale, accettando coraggiosamente i limiti e gli svantaggi che quella scelta comporta: sfilano dentro quella schiera, diversissimi per origine per istruzione e per valore, Leonardo Giustinian, i compositori di mariazi, Cavassico e il grande Ruzzante. Due frati educati e vissuti in conventi della terra veneta, stretti da queste difficoltà, tentarono di combinare un concordato tra l'educazione che li aveva forniti di un possesso sicuro di grammatica e di retorica latina e le loro preferenze per la nuova letteratura. Con questo calcolo frate Francesco Colonna compone nel latino italianizzato l’Hypnerotomachia Polyphili; e il monaco Teofilo Folengo, riprendendo una tradizione che era stata particolarmente curata nello Studio veneto di Padova, detta in latino maccheronico le sue Maccheronee. Ma in una regione che ha al centro, nella università di Padova, una scuola che per gli studi di grammatica e di poetica fu per lunghe età la prima d'Italia sorsero e si mantennero intensissime le preoccupazioni di preparare con norme linguistiche, grammaticali e retoriche lo sviluppo e la diffusione di una letteratura che si aspirerà progressivamente a volere solenne e ricca come le letterature classiche e unica per tutta l'Italia. A Padova e nel Veneto si composero formulari metrici che fornirono tavole di leggi ancora incerte e bonarie ai versificatori trecenteschi o ai loro mutati eredi del Quattrocento. Antonio da Tempo e Gidino da Sommacampagna, e più tardi Francesco Baratella furono i compilatori di questi breviari di metrica. La tradizione esilissima del De vulgari eloquentia si mantiene e si salva nel Veneto e a Padova. E finalmente, quando si giunge all'età delle più vaste speranze e dei propositi più decisi, sorgeranno nel Veneto e si educheranno nello Studio padovano i banditori risoluti delle conversioni e dei canoni che dentro il Cinquecento muteranno l'educazione e la produzione letteraria d'Italia e d'Europa: Bembo, Trissino, Speroni. E questi innovatori, proprio per la loro origine settentrionale e veneta, porranno al centro delle loro attenzioni e dei loro codici retorici, le norme per la scelta e per l'uso della lingua.
La nuova retorica che, appoggiata dai consensi caldi e potenti dei retori veneti, predicò e attuò una letteratura nazionale, colta e volgare, nel volgare delle «tre corone» fiorentine del Trecento, riportò una vittoria così veloce e così piena che le tradizioni di letteratura dialettale o i patteggiamenti ibridi con la letteratura latina - cioè tutto il corpo della letteratura veneta composta prima del trionfo delle Prose della volgar lingua - furono dispersi e dimenticati. Le Maccheronee ricominciarono a essere lette con occhi commossi solo dai lettori romantici; il nome di Ruzzante fu pronunciato con attenzione sufficiente solo alcuni decenni fa; la biografia e la figura di Francesco Colonna sono ancora da ricomporre e la sua Hypnerotomachia attende ancora che lettori armati e acuti aprano entro quel testo difficile e pesante le vie per delle quiete letture normali.
Poiché Mantova fu la sua prima patria e Brescia la seconda, Folengo si sentì sempre più lombardo che veneto, e fu più allievo della provincia che della capitale, e perciò egli resistette con più asprezza alla proposta, a cui i veneti, e particolarmente i letterati dell'aperta Venezia, già si abituavano e acconsentivano, di sottomettersi pacificamente alla supremazia linguistica toscana. Il linguaggio ispido e screziato dell'Orlandino. i brontolii che accompagnano alcune dispute linguistiche imbastite nel Caos. gli applausi rivolti alla scuola ferrarese nella prefazione di Vigaso Cocaio, con la quale Merlino concluse la sua professione di artista, sono dichiarazioni esplicite di queste sue resistenze; e fanno intendere lucidamente come il suo ingegno burlesco si convertì al maccheronico e vi si mantenne».
Licenziando così questa laboriosa antologia folenghiana, a una immagine ancora, di questo grande Lombardo, ricco di potente e originale poesia, di non tiepida fede (una vita certamente tra le più belle e intense della nostra letteratura, di cui non si conosce un atto di servilismo né di piaggeria), vogliamo affidarne la conclusione. Siamo tra il 1537 e la prima metà del 1538 a San Benedetto di Capra sopra Sulzano. La Cipadense sarà in procinto di essere licenziata e, tra gli ultimi ritocchi, Teofilo postilla una Bibbia ebraica, quella del Frobenio in due volumi del 1536. Chi ancora la vide negli scaffali della biblioteca di Santa Eufemia postillata dalla mano del poeta commise la notizia al Gradenigo, l'affettuoso biografo del Folengo. È una immagine profonda e commovente, triplice nella sua unità, e vorremmo scrivere «triperunica»: vi si affaccia l'umanista, il poeta poliglotta e lo schietto Benedettino dal nome non meno risplendente di quello degli altri valorosi campioni del Padolirone.