PATINI, Teofilo
PATINI, Teofilo. – Terzo di dieci figli, nacque a Castel di Sangro il 5 maggio 1840 da Giuseppe, cancelliere di Giudicato Regio, poi notaio, e da Maria Giuseppa Liberatore, appartenente a una famiglia benestante.
Iniziò gli studi presso l’istituto fondato da Leopoldo Dorrucci a Sulmona, dove il padre si era momentaneamente trasferito, e qui rimase «ospite dei suoi maestri» anche dopo la partenza del genitore (T. P., 1990, p. 195).
Trasferitosi a Napoli, si iscrisse nel 1856, dopo un’iniziale esperienza universitaria, al Regio Istituto di belle arti, dove frequentò i corsi di Giuseppe Mancinelli, entrando inoltre in contatto con Domenico Morelli, Filippo e Nicola Palizzi, la cui lezione verista avrebbe inciso sulla sua formazione. Alla Mostra borbonica del 1859 ottenne una medaglia d’argento di seconda classe. Attorno a quest’epoca eseguì i dipinti S. Liberata, per la chiesa omonima di Rivisondoli, e Il buon samaritano (collezione Intesa Sanpaolo), composizione di evidente discendenza accademica pur nel forte realismo della scena.
Nel 1860 partecipò all’impresa garibaldina entrando nei cacciatori del Gran Sasso, battaglione formato dal compaesano Antonio Tripoti, combattendo tra Castel di Sangro e la Marsica. Subito dopo l’Unità riprese gli studi a Napoli e nel 1862 fu tra i soci artisti della Società promotrice di belle arti di Napoli. Nel 1863 risulta arruolato nella Guardia nazionale per la repressione del brigantaggio. Come tale appare nell’Autoritratto (T. P., 1990, tav. 11), eseguito quello stesso anno, quando espose alla Promotrice partenopea I napolitani insorgono contro gli spagnuoli nel 1547.
Nel 1864 fu nominato socio effettivo dell’Associazione nazionale italiana di mutuo soccorso degli scienziati, letterati e artisti ed espose alla Promotrice napoletana Innanzi al Bello ogni ferocia è spenta (Napoli, Museo civico di Castel Nuovo), episodio di cronaca in costume, riferito alla vita del Parmigianino, stilisticamente vicino a Bernardo Celentano. Ancora a un maestro antico, di cui è esaltato il ruolo attivo nella società, è dedicato La pietà (o Mattia Preti e gli storpi), ascrivibile agli anni Settanta dell’Ottocento. Nel filone storico, va ricordata anche la tela dedicata alla Morte di Galileo (Castel di Sangro, coll. Cassa di risparmio per la Provincia dell’Aquila), la cui lettura va probabilmente intesa in chiave anticlericale.
Nel 1867 eseguì il ritratto postumo del patriota sulmonese Panfilo Serafini (Sulmona, Pinacoteca comunale) ed espose alla Promotrice di Napoli Arte e libertà (Castel di Sangro, Pinacoteca civica; il bozzetto è presso la Galleria comunale d’arte moderna di Bologna) parte, con La compagnia della morte (T. P., 1990, n. 8/b) ed Episodio della rivolta di Masaniello (Castel di Sangro, Pinacoteca civica), di una serie di dipinti ispirati alla Napoli del Seicento, ai pittori Salvator Rosa, Aniello Falcone e a Masaniello, il più noto protagonista della rivolta partenopea del 1647, tra i simboli rivoluzionari dell’Italia risorgimentale.
Nel 1868 vinse il concorso per due anni di pensionato a Firenze con Edoardo III e i deputati di Calais (Napoli, Galleria dell’Accademia di belle arti). L’anno seguente dipinse il ritratto del noto patologo abruzzese Salvatore Tommasi (T. P., 1990, tav. 12b) e quello del filosofo hegeliano, anch’egli abruzzese, Bertrando Spaventa (Napoli, Museo nazionale di S. Martino; il bozzetto è presso la Biblioteca civica Angelo Mai di Bergamo) cui fu legato da amicizia e sintonia intellettuale. Nello stesso anno si trasferì a Firenze, dove eseguì La zingara, soggetto in costume di stile morelliano (Napoli, Galleria dell’Accademia di belle arti). Entrò quindi in contatto con l’ambito macchiaiolo, ormai evolutosi verso un luminoso naturalismo, senza tuttavia trarne le conseguenze più radicali. In Lettura in convento (Castel di Sangro, collezioni d’arte del Municipio), pur rievocando il pacato intimismo della pittura d’interni di Odoardo Borrani, il riferimento più diretto appare quello alla pittura olandese del Seicento.
Tra il 1871 e il 1872 fu a Roma, dove frequentò Michele Cammarano, che rappresentò per lui un importante riferimento stilistico e con il quale collaborò a due grandi tempere per gli allestimenti effimeri volti a celebrare l’ingresso nella capitale di Vittorio Emanuele II; dipinse, inoltre, in sua compagnia, soggetti campestri. Nel 1872 partecipò al concorso indetto dal Consiglio provinciale di Roma con Nello studio di Salvator Rosa (Roma, Collezioni d’arte della Provincia), una colorita rievocazione di cronaca in costume, sintesi tra la lezione di Ernest Meissonier e le influenze della colonia spagnola di artisti residenti a Roma alla quale si era avvicinato. L’opera fu inviata all’Esposizione universale di Vienna dell’anno successivo, quando partecipò anche alla Promotrice napoletana con Il ciabattino, esposto con il titolo edificante Ogni buon stivale diventa ciabatta (Napoli, Museo Diego Aragona Pignatelli Cortes, collezione d’arte del Sanpaolo-Banco di Napoli). In quest’epoca soggiornò nuovamente a Napoli, dove entrò probabilmente in contatto con l’opera di Hans von Marées, impegnato ad affrescare la Stazione zoologica Anton Dohrn.
Nel 1875 fu nominato cavaliere dell’Ordine Mauriziano e partecipò al concorso (poi vinto da Antonio Fontanesi) per il posto di professore di pittura nella neonata Scuola d’arte di Tokyo. Nel dicembre 1877 sposò civilmente la modella Teresa Tambasco, dalla quale aveva già avuto due dei cinque figli. Nel febbraio 1878 fu nominato professore onorario dell’Istituto di belle arti di Napoli e lavorò al dipinto I notabili del mio paese (T. P., 1990, n. 33/a), la cui intonazione risponde ai canoni della pittura di genere con una vena ironica. Si dedicò anche, spinto da ragioni di sopravvivenza, alla pittura destinata al mercato, caratterizzata da scene aneddotiche ricche di dettagli domestici, di cui è un esempio La lezione di equitazione (1872, Vercelli, Museo Borgogna), opera esposta a Torino nel 1880 e menzionata nei registri del mercante parigino Adolphe Goupil (Lamberti, 1998, pp. 65, 181).
Nel 1880 dipinse una delle sue opere più celebri, L’erede (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna), maturato quasi contemporaneamente alla scultura Proximus tuus di Achille D’Orsi e inviato all’Esposizione nazionale di Milano del 1881.
Con L’erede, che suscitò l’acclamazione del pubblico, Patini inaugura il proprio impegno nella pittura di contenuto sociale, radicata nella difficile vita rurale abruzzese. Attraverso colori secenteschi che accentuano lo squallore monocorde dell’ambiente e probabilmente riversando nel soggetto un’eco della celebre Rue Transnonain di Honoré Daumier, Patini enfatizza la condizione drammatica di un’intera classe sociale, racchiudendo tuttavia, nella figura del bimbo, il «germe delle grandi riforme sociali» (da una lettera alla principessa Maria della Rocca, cit. in T. P., 1990, p. 27).
Appartenente al medesimo filone, ma con un’intonazione amara e senza riscatto, è Tre orfani (Castel di Sangro, Pinacoteca civica), in cui l’occhio di Patini, attento cronista della realtà che lo circonda, si fissa ancora una volta sul quadro doloroso di un’infanzia desolata, dominata da solitudine e povertà. Collocabile attorno alle stesse date è Il sequestro o Nudo patriottismo (Bari, Pinacoteca provinciale), dove la delusione per gli esiti dell’Unità prende forma nell’irrompere dell’esattore nella casa del patriota – identificato come tale dal ritratto di Mazzini accanto al letto – appena spirato.
Tra il giugno e l’agosto del 1882 dipinse, per una sala del liceo provinciale aquilano (oggi Biblioteca provinciale Salvatore Tommasi), la grande tempera L’aquila, dove il rapace è protagonista di una scena verista, carica di pathos (un grande bozzetto conclusivo è di proprietà della Cassa di risparmio della Provincia dell’Aquila). In settembre fu nominato direttore artistico e insegnante di pittura della scuola serale di arti e mestieri dell’Aquila, con lo scopo, secondo le parole del contemporaneo Primo Levi, di promuovere con la sua autorevolezza e capacità «lo sviluppo dell’arte industriale» (cit. in T. P., 1990, p. 197).
Al 1884 risale Vanga e latte, soggetto naturalista affrontato con l’impegno del quadro di storia, dove grazie al punto di vista ribassato e al paesaggio desolato sotto il cielo nuvoloso, la dimensione quotidiana assume una grandezza epica.
L’opera è giocata sul contrasto tra le cure di una madre sfinita dalla fatica e la durezza del lavoro dei campi; pur nello squallore della miseria, gli umili sono presentati come figure che resistono, in certo modo eroicamente, all’avversità del destino. Come Patini stesso raccontava in una lettera a Levi, in osservanza dei più stretti principi veristi i modelli furono fatti posare per buona parte all’aperto comportando notevoli difficoltà a causa della rigidità del clima. Vanga e latte fu inviato all’Esposizione nazionale di Torino del 1884 insieme a L’erede, opera che nel frattempo era stata rubata e ritrovata a Londra. Alla mostra torinese L’erede venne acquistato dalla Galleria nazionale di Roma, mentre si segnalano due versioni successive, una nel Municipio di Calascio e l’altra presso l’Accademia di belle arti di Napoli. Vanga e latte fu invece comprato dal ministero dell’Agricoltura.
Nel 1886 dipinse Bestie da soma (Aquila, collezioni d’arte dell’Amministrazione provinciale), presentato all’Esposizione nazionale di Venezia del 1887.
Il dipinto compone con L’erede e Vanga e latte un’ideale trilogia sociale, segnando una tappa fondamentale dell’arte realista italiana, attraverso l’applicazione di un rigoroso principio di aderenza al vero. Le contadine, i corpi abbandonati e lo sguardo assente per la fatica, sono immerse in una luce naturale che fa risaltare il paesaggio roccioso sullo sfondo, quasi un traslato poetico della bellezza indifferente della natura tesa a illuminare impietosamente la miseria umana. A Palazzo Pitti a Firenze è conservato un bozzetto riferibile alla prima versione dell’opera, mentre un altro, relativo a una seconda stesura, si trova presso il Museo di Capodimonte a Napoli. Si conoscono inoltre altri bozzetti e studi di particolari in collezione privata (T. P., 1990, nn. 58-63b e T. P. Bestie da soma, 2011, pp. 68-79).
Patini fu anche paesaggista, dedicandosi soprattutto a scorci abruzzesi tra i quali si ricordano Via Paradiso a Castel di Sangro, nel quale rivela una sensibilità luministica partenopea, e Alle sorgenti del Sangro (entrambi Castel di Sangro, Pinacoteca civica).
Nel 1888 risulta membro della Commissione conservatrice degli scavi e monumenti dell’Aquila e, nello stesso anno, fu eletto presidente della Società operaia dell’Aquila, in seno alla quale organizzò, poco dopo, il I Congresso regionale operaio.
In quest’epoca aveva già eseguito Il Medico condotto (anche noto come Il medico del villaggio o Pulsazioni e Palpiti; Aquila, Amministrazione provinciale; del 1891 è una seconda versione), tutto incentrato sul nodo emozionale dei personaggi riuniti intorno al capezzale del malato, ed era intento a finire il S. Carlo Borromeo tra gli appestati, commissionato dal priore della Confraternita dei Ss. Ambrogio e Carlo del popolo milanese, poi collocato nel duomo dell’Aquila.
Dell’opera si conoscono uno studio e tre bozzetti, dei quali uno si trova nelle collezioni d’arte della Cassa di risparmio della Provincia dell’Aquila, un secondo, di grandi dimensioni (più quadro compiuto che bozzetto), presso il Comune dell’Aquila, il terzo in collezione privata.
Tra il 1888 e il 1892 dipinse ad affresco le figure degli Evangelisti, nei pennacchi della chiesa aquilana di S. Maria della Concezione. Nel 1889 partecipò all’Esposizione di belle arti di Roma e, con la delegazione massonica aquilana, fu presente alla cerimonia d’inaugurazione del Monumento a Giordano Bruno in Campo de’ Fiori. Tra il 1891 e il 1901 lavorò a Il Messia (T. P., 1990, tav. 76), acquistato da Enrico Camerini, più tardi sindaco dell’Aquila, mentre nel 1892 terminò L’Annunciazione per la chiesa di S. Nicola a Calascio, antico borgo che conserva, del medesimo artista, nella chiesa di S. Antonio, Le tentazioni di S. Antonio abate e un’altra Annunciazione.
A partire da questi anni si concentrò particolarmente sui soggetti religiosi, tra cui ricordiamo Crocefisso (1897) per la cattedrale di S. Pelino a Corfinio, Cristo nell’orto (Collezione Intesa Sanpaolo; un altro esemplare è a L’Aquila, collegio d’Abruzzo dei padri gesuiti) e L’evangelista Matteo (T. P., 1990, n. 81).
Al 1894 risale la prima redazione di Orfanelle (T. P., 1990, tav. LI), dove la luce morbida che si posa sui volti sembra materializzare l’innocenza dell’infanzia ancora inconsapevole dei mali dell’esistenza. Il soggetto sarebbe stato in seguito parzialmente ripreso nell’Angelo custode, realizzato tra il 1901 e il 1903 per la chiesa di S. Maria dei Raccomandati (oggi in deposito presso la Curia arcivescovile dell’Aquila) a San Demetrio ne’ Vestini. Tra il 1894 e il 1895, decorò la sala Baiocco dell’albergo Italia a L’Aquila; nel 1895 la regina Margherita di Savoia gli fece visita nello studio aquilano.
Si infittivano intanto i contatti di Patini con l’ambiente massonico, in particolare con Vincenzo Orsini e Luigi Frasca, che lo aiutarono economicamente attraverso acquisti e incarichi. Simbologie e interpretazioni massoniche permeano alcune opere della sua stagione matura (Cioffi, 1990).
Nel 1898 eseguì la tela con S. Antonio da Padova per il santuario della Madonna della Libera a Pratola Peligna.
Nel 1900 due opere chiave dell’impegno sociale patiniano, ovvero Pulsazioni e palpiti e la seconda versione de L’erede, furono scelte, insieme a Pancia e cuore (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna), da un comitato napoletano per figurare all’Esposizione universale di Parigi; una commissione nazionale formata da Francesco Jacovacci, Ettore Ferrari e Camillo Boito optò tuttavia per l’esposizione solo di Pancia e cuore che, a quel punto, fu ritirata dall’artista. Nello stesso anno partecipò al concorso per il posto di professore di pittura nell’Accademia di belle arti di Napoli, città nella quale in quel periodo risulta in cura per problemi nervosi presso la casa di salute villa Petrilli a Capodimonte.
Nel maggio 1903 fece ritorno all’Aquila dove portò a termine Redenzione per San Demetrio ne’ Vestini. Nel 1905, grazie all’interessamento di Leonardo Bianchi, rettore dell’Università di Napoli e membro del Gran Consiglio della massoneria italiana, partecipò al concorso indetto dal ministero della Pubblica Istruzione per la decorazione dell’aula magna dell’ateneo partenopeo del quale risultò vincitore. Nel 1906 ricevette dal Consiglio comunale la cittadinanza onoraria dell’Aquila. Poco dopo si trasferì a Napoli per lavorare alla decorazione dell’Università che non riuscì a portare a termine (ne resta testimonianza in alcune foto d’epoca dei bozzetti, cfr. T. P., 1990, tavv. 106-109).
Morì a Napoli il 16 novembre 1906.
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