Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il dibattito sulla trasmutazione porta a interrogarsi sulla liceità dell’alchimia poiché, se da un lato la trasformazione di specie trova giustificazioni sul piano teorico, dall’altro lato restano veri i dubbi di carattere ontologico, se sia umanamente possibile, cioè, intervenire e alterare i processi di generazione naturali. Sulla base di queste considerazioni vengono sollevate questioni di carattere morale e teologico, formalizzate per la prima volta nell’ambito della filosofia scolastica nelle opere di Tommaso d’Aquino e di Egidio Romano.
Anche se Tommaso non affronta mai in maniera sistematica il problema della trasmutazione di specie, nel suo commento delle sentenze di Pietro Lombardo si impossessa degli argomenti antitrasmutazionisti espressi da Avicenna nel De congelatione et conglutinatione lapidum per negare ai demoni la possibilità di portare modificazioni essenziali nei corpi naturali; per la prima volta, quindi, l’alchimia viene associata esplicitamente a un’attività demoniaca, spostando il dibattito sulla liceità di questa disciplina dal piano epistemologico e tecnologico a quello teologico. Sempre in quest’opera Tommaso si esprime ancora una volta in maniera negativa contro la trasmutazione di specie, adducendo come argomento quello della virtus loci, secondo la quale si nega la possibilità che un metallo possa essere riprodotto artificialmente fuori dai luoghi naturali nei quali agiscono le virtù mineralizzanti che ne determinano la generazione. Il giudizio di Tommaso è radicale: tutti i tentativi di riproduzione artificiale di sostanze naturali, poiché generate in luoghi diversi da quelli naturali, saranno necessariamente falsi.
Ancora più incisivo e diretto è l’intervento di Egidio Romano che, sviluppando i temi messi in luce da Tommaso, affronta il problema dell’alchimia direttamente sul piano delle sue conseguenze teologiche. Nella sua quaestio, richiamandosi allo sciant artificies e all’argomento di Tommaso della virtus loci, Egidio conclude che l’uomo non può sostituirsi a Dio e riprodurre l’oro naturale, e che quindi i prodotti dell’arte sono separati e subordinati a quelli naturali. Per Egidio le argomentazioni a favore della generazione artificiale dei metalli, basate sul fatto che gli artigiani possono produrre sostanze non presenti in natura, come ad esempio il vetro, non sono sostenibili; fenomeni come la produzione del vetro, infatti, sono spiegabili con argomentazioni analoghe a quelle che spiegano la generazione spontanea delle api, per le quali questi insetti nascono da un principio materiale (la carne in putrefazione). Per quanto riguarda la generazione dei metalli, invece, Egidio fa un parallelo con le specie vegetali, le quali non possono generarsi senza il proprio seme specifico al di fuori del loro luogo naturale (la terra); anche i metalli, quindi, che sono governati dagli stessi principi dei vegetali, non sono riproducibili artificialmente al di fuori delle viscere terrestri. Per Egidio anche se gli alchimisti riuscissero nell’impresa della produzione dell’oro artificiale, questa nuova sostanza non potrebbe mai sostituirsi a quella naturale perché, come Avicenna, egli ritiene le specie naturali immutabili e quindi non riproducibili. Per Egidio la produzione del vetro non può essere addotta come argomento in favore della trasmutazione, perché non si tratta dell’imitazione di una specie naturale ma di un’invenzione dell’uomo, di qualcosa, cioè, che sul piano ontologico è inferiore ai corpi naturali. Posto che le specie naturali non sono riproducibili artificialmente, l’arte può ugualmente creare nuove sostanze non presenti in natura le quali, però, rispetto a quelle naturali saranno inferiori e sterili, come nel caso dei muli, che sono il risultato dell’accoppiamento innaturale di due specie diverse. Per Egidio in definitiva continua a valere il concetto aristotelico di arte che vuole quest’ultima subordinata alla natura.
Le argomentazioni di carattere ontologico e giuridico conducono in breve tempo alle prime condanne ufficiali nei confronti dell’alchimia. A partire dal 1273 i Capitoli generali degli ordini domenicani e francescani cominciano a emanare divieti per impedire ai loro membri di dedicarsi allo studio e alla pratica dell’arte alchemica, includendo nella loro condanna il possesso di libri e strumenti di distillazione; nel 1317 ammonimenti e sanzioni culminano nell’emanazione della bolla papale Spondent quas non exhibent, decretata da Giovanni XXII, nella quale gli alchimisti sono dichiarati colpevoli in quanto fautori di vane promesse. Nel 1396 l’Inquisitore della corona d’Aragona Nicolas Eymerich (1320-1399), richiamandosi alla bolla papale, scrive un Tractatus contra alchimistas nel quale, oltre a condannare l’alchimia come arte frivola, ribadisce come il rapporto tra arte e natura non possa essere in alcun modo di scambio ma esclusivamente di gerarchia: gli alchimisti non hanno il potere di creare le specie naturali perché questo compito spetta soltanto a Dio. La novità dell’intervento di Eymerich consiste nel focalizzare le proprie critiche sul piano teologico; gli alchimisti vengono ora accostati ai demoni e sono accusati di necromanzia, e si ribadisce al contempo con decisione che l’uomo non può intervenire nei processi di generazione e corruzione delle specie naturali.