TEOLOGIA
(XXXIII, p. 526; App. III, II, p. 932; IV, III, p. 816)
Teologie cristiane. - Nel 1978 c'era la netta convinzione che la t. cristiana stesse cambiando, sia nel suo statuto, sia nel suo metodo, sia nei suoi centri d'interesse. Questo tema fu oggetto di numerosi colloqui, di cui resta una sola testimonianza: il numero 135 della rivista internazionale di t. Concilium (maggio 1978), intitolato per l'appunto Les déplacements actuels de la théologie. L'articolo finale di J.-P. Jossua consente di avere nello stesso tempo un'istantanea della t. nel 1978 e una visione del futuro per come allora si lasciava presentire. Rileggendolo, si potrà giudicare se il sogno del 1978 è diventato realtà.
Con il termine déplacement ("spostamento") Jossua intendeva designare qualcosa di più che un approfondimento dei temi o un cambiamento del centro d'interesse, e qualcosa di più anche della comparsa di nuove t. (della morte di Dio o della liberazione). Intendeva parlare piuttosto di uno scivolamento di terreno che stava investendo "la natura stessa dell'attività teologica" e poneva "questioni che riguardano contemporaneamente metodo di lavoro, sistema di riferimenti, condizioni di vita ed esperienza umana complessiva dei teologi". Anzitutto si era oltrepassata una soglia critica, che poneva a repentaglio i rinnovamenti del periodo preconciliare in campo biblico, liturgico, patristico, ecumenico, missionario. Si era seminato il sospetto su tutte le belle costruzioni dogmatiche o pastorali, le vie senza uscita si erano rivelate come tali, e i problemi invece di risolversi si erano moltiplicati. La richiesta di aiuto rivolta alle nuove scienze umane (psicoanalisi, sociologia, linguistica, etnologia, storia) non aveva risolto niente: esse emanano pur sempre odore di zolfo e conducono semmai all'esplosione della teologia. Per giunta, il teologo stava prendendo sempre di più le distanze nei confronti dell'istituzione ecclesiale, e se c'è un esempio tipico nella Chiesa cattolica è appunto quello della morale. Ne risultava una particolarizzazione della t. secondo le aree culturali. Al di là del 1978, Jossua pensava soprattutto a una t. destinata a nascere sempre di più dall'esperienza degli uomini e dei credenti, un'esperienza sottoposta a critica e a verifica, in cui il dialogo con le scienze umane avrebbe assunto l'andamento di un confronto interiore. Ma alla base della t. cristiana del domani sarebbe sempre rimasta una densità spirituale. Le t., meno clericali, si sarebbero contate al plurale, come altrettante famiglie spirituali, altrettante culture, altrettante scommesse sul futuro.
Ci sembra che la constatazione più rilevante di Jossua, vale a dire l'esplosione della t., vada ripresa a struttura stessa della nostra presentazione del periodo 1978-95, perciò proietteremo a livello teologico il grande divario Nord-Sud del mondo, distinguendo: le t. delle antiche Chiese, siano esse cattoliche, protestanti oppure ortodosse, con uno sviluppo prevalentemente tematico nella trattazione; e le t. delle terze Chiese, con uno sviluppo prevalentemente geografico.
Teologie delle antiche Chiese. - Nella storia della t. delle Chiese occidentali e orientali le tappe sono segnate non tanto dalle innovazioni, quanto dalle ricomparse. In questi ultimi anni termini come ''ritorno'', ''risveglio'', ''riscoperta'', hanno avuto successo, sia che si riferissero al sentimento religioso o all'azione dello Spirito; ciò non toglie però che nella storia della Chiesa siano comparse anche problematiche nuove, come quella di una t. femminista.
Ritorno del religioso. Volendo delineare una contrapposizione tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, basta menzionare due libri del teologo statunitense H. Cox. Nel 1965 Cox scrive The secular city, in cui accoglie la secolarizzazione come un'occasione per la fede e un nuovo spazio per il Vangelo, mentre nel 1984 pubblica Religion in the secular city, per dimostrare che la religione resiste a un'interpretazione unicamente sociale: "Non è sufficiente dire che la religione è un fenomeno sociale. La verità è che la società è un fenomeno religioso".
Di secolarizzazione si parla ancora molto; essa esprime l'impatto della modernità sui rapporti tradizionali tra religione e società. Tutti i paesi occidentali ne conoscono i sintomi: diminuzione della pratica religiosa, pluralismo etico, rinvio nel privato della scelta religiosa. La secolarizzazione è l'emancipazione di gran parte delle attività umane nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche: la società si laicizza, si razionalizza e si libera rispetto al potere religioso. Il mondo è interamente rimesso alla responsabilità dell'uomo. Nello stesso tempo, l'aspettativa religiosa viene investita in nuovi settori: la salute, il lavoro sociale, la scienza. Tutto si svolge come se l'uomo non potesse fare a meno della religione. Il trionfo della ragione scientifica e tecnica non si accompagna al totale declino della religione, poiché il mondo secolarizzato è incapace di rispondere alle domande più profonde dell'essere umano: da dove veniamo? dove andiamo? perché? Nel mondo occidentale si assiste dunque a un ritorno della religione o del religioso, che tuttavia non manca di suscitare interrogativi nel teologo. Ne sono indici evidenti il pullulare delle sette, con un marcato accento orientaleggiante, scientifico e terapeutico; il risveglio delle identità religiose tradizionali, che va dalla proliferazione dei carismi all'irrigidimento dell'integralismo, sia nel cristianesimo che nell'Islam; il successo dei mistici dell'Estremo Oriente; la comparsa di nuovi paganesimi che si oppongono al ''veleno evangelico'', quale fonte dell'uguaglianza tra gli esseri umani; la ricerca di salvezza attraverso la magia, lo spiritismo, l'astrologia, ecc. Tutti questi fenomeni sono strettamente legati all'individualismo oggi dominante, e mettono in gioco quattro registri dell'esistenza: la scienza trionfante, la corporeità individuale, il piccolo gruppo e l'avvenire. Negli anni Ottanta-Novanta l'espressione religiosa appare molto più emotiva che razionale; la soggettività è divenuta il criterio primario di giudizio e ciò che personalmente si prova è divenuto il criterio primario di verità. È con questo nuovo ''animale religioso'' che la t. deve confrontarsi.
Cristologia, teologia trinitaria e centralità di Dio. Tra gli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta si è assistito alla pubblicazione di una quantità di cristologie: ogni teologo degno di questo nome si sentiva in dovere di precisare l'identità di Cristo in un contesto di morte di Dio e di liberazione dell'uomo. Ma la domanda su Dio non può essere differita a lungo, e il concentrarsi sulla cristologia rappresentava anche una riduzione del mistero cristiano. Questi ultimi anni pertanto hanno visto un fiorire di saggi di t. trinitaria. Se in quanto cristianesimo è proprio a partire dal Cristo crocifisso che nominiamo Dio, non è certamente di secondaria importanza il fatto di poter scandire il nome di Dio come Padre, Figlio e Spirito Santo. Questa confessione di fede invita a scoprire "una storia trinitaria di Dio con il mondo" (Moltmann 1985), e di colpo la t. patristica e la t. orientale ritrovano un'attualità: l'originalità cristiana va situata proprio dalla parte del Dio cristiano.
È ben vero che la tradizione occidentale aveva sempre parlato del Padre e del Figlio; ma era stata molto più timida con lo Spirito. Quest'ultimo era stato assegnato a risiedere o assoggettato a una gerarchia che dello Spirito si reputava canale obbligato; anche nel Vaticano ii le menzioni dello Spirito sono frammentarie e non strutturano il discorso teologico. Oggi invece non è più possibile parlare dell'attualità cristiana senza fare riferimento al ''rinnovamento nello Spirito'', né prospettare nuovi ministeri senza considerare i ''carismi'', o celebrare l'Eucarestia senza prestare attenzione all'''epiclesi'', cioè all'invocazione a Dio per la transustanziazione eucaristica ad opera dello Spirito Santo. L'oblio dello Spirito ha ceduto il posto a un'esaltazione della sua potenza. Tuttavia, non bisogna mai dare l'illusione che in termini cristiani sia facile parlare dello Spirito. Lo Spirito non è mai un che di fronte a noi, una realtà a distanza ma, secondo H. Muhlen (Mysterium salutis, ed. fr., 13, p. 183), è "l'immediatezza del nostro faccia a faccia con il Cristo e con il Padre". Egli è la presenza che ci conduce a Dio, alla Chiesa e all'uomo che crede, perché il senso cristiano dello Spirito modifica l'apprensione di Dio, l'esperienza della Chiesa e la condotta del discepolo.
Quando assume il nome di Spirito, Dio ci esprime il suo dinamismo, la sua diversità, la sua vicinanza, la sua comunione. Nella Scrittura lo Spirito di Dio è la forza, la vitalità di Dio. Esso appare come l'energia della creazione e così pure della ''ricreazione'' inaugurata dalla Resurrezione di Cristo. È lui all'origine di tutti i grandi inizi: del mondo, di Cristo, della Chiesa. Nello stesso tempo, l'esser designato come Spirito preserva a Dio la sua alterità. Egli resta al di là della nostra portata, inafferrabile. Ma questa differenza non è indifferenza, poiché Dio ha questa capacità di essere intimamente presente a ogni essere, plasmandolo dall'interno attraverso la sua grazia. E dopo tutto ciò lo Spirito è anche il tramite tra il Padre e il Figlio, Spirito di comunione.
Lo Spirito non è tuttavia "l'assicurazione sulla vita dell'istituzione ecclesiale"; al contrario, obbliga la Chiesa ad assumersi "tutti i rischi" disseminati sui percorsi dell'uomo. Lo Spirito è già là dove si pensava che non stesse, eccelle nel confondere e nel disorientare, tutte le frontiere cedono sotto la sua spinta. L'azione globale dello Spirito si esplica attraverso doni precisi e gratuiti che si chiamano ''carismi'', e che sono manifestazioni tangibili della sua azione. Il ''carisma'' viene concesso a un membro della comunità, ma per il bene di tutti, poiché la superiorità di un dono è in funzione del servizio che rende alla comunità. In definitiva ogni cristiano è un carismatico ''in potenza'', un portatore dello Spirito, e la comunità cristiana vale come una sorta di libero accesso ai carismi. Tuttavia, oltre che far fiorire i carismi, lo Spirito è anche quello che ne riconcilia la pluralità in un'effettiva sinfonia: un invisibile direttore d'orchestra, che trasforma la diversità dei doni in una diversità accomunante, diversità conforme al Vangelo di Cristo.
Il rinnovamento della t. trinitaria ha permesso anche di riprendere il primo articolo del Credo, che è il documento del Dio creatore, poiché, secondo J. Moltmann (1985, ed. fr., p. 109), "il Padre è all'origine della creazione, il Figlio le conferisce la sua impronta, lo Spirito la anima. La creazione esiste nello Spirito, è segnata dal Figlio, è opera del Padre. Essa è dunque di Dio, per Dio e in Dio". La creazione è la natura in quanto riportata alla sua origine, in quanto è data; l'uomo deve accettarla nella gratuità rendendo grazie a Dio. Vi è una "precedenza irriducibile" (P. Gisel, 1980): tale precedenza è quella di un atto personale di un Dio d'alleanza, di un Dio che parla e che si nomina. Dio è creatore del senso del mondo. L'essere umano si scopre allora ''immagine di Dio'', espressione che indica con discrezione un rapporto Padre-Figlio in seno all'Alleanza. Il mondo umano viene nettamente distinto da quello animale; alla coppia umana sono affidati il controllo degli animali e la gestione delle risorse terrestri, ed essa ha la responsabilità etica dell'uso di un mondo che ha una sua propria consistenza. Se la creazione si conclude il sabato, ciò sta a significare non un'apologia del lavoro, ma il suo necessario limite: l'homo faber è anche homo ludens e homo orans.
In realtà è la nuova creazione, il rinnovamento del mondo attraverso la Croce di Cristo e il dono dello Spirito, a dare il senso della prima creazione. Secondo la Lettera ai Colossesi (1, 15-20), il Cristo è "capo della creazione perché alla testa della resurrezione" (M. Bouttier). Il Vangelo è la sinfonia della nuova vita. Per esemplificare l'attuale evoluzione del discorso su Dio, riprenderemo il pensiero di due teologi: uno cattolico, W. Kasper, e uno protestante, E. Jungel. Attraverso di loro si potrà cogliere la problematica cristiana di Dio in questa fine del 20° secolo.
Kasper, divenuto vescovo nel 1989, non esita ad affermare (1982) che "Dio è il tema unico e unificante della teologia" e che "la confessione trinitaria è la grammatica di tutta la teologia". Il compito del teologo non è inventare l'idea di Dio, bensì testimoniare il Dio che in Gesù Cristo si è rivelato come la salvezza del mondo. Nel contesto attuale, contrassegnato dall'ateismo e dalla secolarizzazione, una tale attestazione è particolarmente delicata, poiché la parola ''Dio'' e il messaggio di cui è portatrice sembrano privati di senso. Eppure, se l'uomo veramente acconsente ad andare fino in fondo al suo interrogativo, Dio gli apparirà come la sola risposta pienamente valida al mistero che egli rappresenta per se stesso. Kasper parte dunque dall'esperienza che l'uomo può fare di se stesso, poiché l'esperienza della fede può avere senso per l'uomo solo se è in consonanza con la sua esperienza. In altre parole, l'esperienza della fede non diventa accessibile che mediatamente, "entro, assieme e sotto" altre esperienze che a tutti gli uomini è dato di fare, e che sono essenzialmente quelle della finitezza e della sofferenza. Il cammino verso Dio è dunque avviato nell'ambito dell'esistenza stessa dell'uomo, e questo è esattamente ciò che esprime la tradizione, attraverso l'elaborazione di ''prove'' dell'esistenza di Dio a partire dall'essere umano. In virtù della Rivelazione cristiana, ogni uomo viene posto infine di fronte a un'opzione, che si rende necessaria dal momento che tutte le ''prove'' lasciano indeterminata l'idea di Dio. "Se l'infinito dev'essere accessibile, deve esso stesso aprirsi a noi. Deve rivelarsi esso stesso". La Rivelazione è un'autocomunicazione di Dio che manifesta la sua volontà di salvezza per l'uomo, un'apertura completamente libera da parte di Dio che consente all'uomo di accedere alla luce della verità. In Gesù Cristo, Dio si rivela come "l'ultima determinazione dell'apertura indeterminata dell'uomo". In lui, l'essere umano riceve la sua verità estrema, che è dell'ordine dell'amore che si comunica.
Jungel (1982), teologo luterano, discepolo di K. Barth, si è imposto con forza nel corso dell'ultimo decennio per la sua riflessione su Dio. Il suo punto di partenza è la constatazione che il discorso su Dio è in un vicolo cieco e che dunque bisogna "pensare Dio in modo nuovo, tornando al Dio di Gesù Cristo", poiché "solo Dio parla bene di Dio" (B. Pascal, Pensées, n. 743). Due modi di pensare Dio si contrappongono oggi: il Dio della metafisica, concepito al di sopra di noi, inaccessibile, incomprensibile, inconoscibile; e il Dio della fede cristiana, annunciato "in mezzo a noi" e che ha assunto volto umano in Gesù crocifisso. Il Dio divenuto impensabile è il Dio "al di sopra di noi", mentre il Dio "in mezzo a noi" ancora non è stato neppure pensato. Bisogna abbandonare il terreno su cui si battono ateismo e teismo, che condividono la medesima concezione erronea di Dio, per tornare al Dio della Rivelazione. Solo una "teologia della croce" può uscire dal vicolo cieco. Per il cristiano, Gesù di Nazareth è "l'uomo attraverso il quale e nel quale Dio è diventato definitivamente accessibile". L'unica via che si offre alla comprensione di Dio è quella di pensare Dio a partire dal Cristo crocifisso. "Senza l'accesso aperto da Dio stesso verso di sé, il pensiero non troverà mai accesso a lui". Dio "traccia egli stesso i percorsi che vuole seguire", e la fede è sempre "al seguito di". Entrando nella storia, Dio fa corpo con essa, ma il suo modo di essere implicito in ciò che accade annuncia il trionfo della vita sulla morte, di un avvenire possibile sul nulla. La ''morte di Dio'' significa che, nel conflitto tra l'essere e il nulla, l'essere contiene delle possibilità, gratuitamente offerte, che il nulla non può neutralizzare. Il nulla è annullato dal fatto che il Cristo crocifisso, con la sua morte, lo assume in sé. Dio annuncia così la morte della morte. Bisogna dunque pensare Dio all'interno di "ciò che accade", ma come colui che schiude su un avvenire diventato possibile in lui. Per il cristiano Gesù è la "parabola personale del Padre". Il linguaggio della croce offre una nuova possibilità di dire Dio, perché nel Cristo crocifisso ciò che Dio è "per noi" non differisce da ciò che egli è "in sé". La storia di Gesù schiude all'uomo l'essere intimo di Dio, di cui il concetto di Trinità è l'espressione. Queste "storie su Dio" raccontate da Gesù sono "la storia di Dio", Padre, Figlio, Spirito. Se Dio è amore "per noi", è perché egli è amore "in sé".
La Chiesa. Dal momento che il 20° secolo è stato annunciato come il secolo della Chiesa, possiamo verificare la validità di tale profezia per ciascuno dei suoi periodi. Natura e missione della Chiesa sono oggetto costante di dibattito, sia all'interno di ciascuna Chiesa che tra Chiese cristiane. L'accentuazione propria di questi ultimi vent'anni ha di che sorprendere gli ispiratori del Vaticano ii; si assiste infatti a una riaffermazione d'identità che lancia nuove sfide all'ecclesiologia e al dialogo ecumenico (v. chiesa, in questa Appendice).
Alla fine del 1986 un pastore protestante, A. Benoît, dell'università di Strasburgo, stabiliva quale fosse il legame tra fenomeno sociale e fenomeno ecclesiale: "La nostra epoca vede svilupparsi con una certa frenesia la ricerca delle identità, lo sforzo per ricongiungersi a una tradizione che possa distinguere voi dagli altri. E questo è comprensibile, nell'ambito di una società in cui domina il timore di essere ormai considerati come un semplice numero. Dal punto di vista religioso, questa tendenza si manifesta attraverso una ripresa degli integralismi: si tratta in questo caso di radicarsi nella tradizione religiosa che vi ha circondati alla vostra nascita e di riaggrapparsi ai valori del passato che hanno prodotto la Chiesa e ciò che siamo, senza che questo significhi per forza ben distinguere l'essenziale dal superfluo. È su questo punto che gli integralisti di ogni fronte, sia cattolici che protestanti, convergono nel loro atteggiamento reticente, se non addirittura di rifiuto dell'ecumenismo". L'esempio più caratteristico di questa problematica è evidentemente la Chiesa cattolica. Senza dubbio, il pontificato di Giovanni Paolo ii è contrassegnato dalla riaffermazione della Chiesa, dal riconsolidarsi dell'identità cattolica: un mondo disorientato ha bisogno di riferimenti saldi e della visibilità del corpo dei credenti. Si è dato troppo valore all'autonomia dei rispettivi domini, e ciò che oggi bisogna esaltare è la bellezza della fede cattolica. Questo programma esplicito reclama coerenza disciplinare, morale e dottrinale, e chi devia viene trattato duramente, sia esso pastore o dottore. La bella collaborazione instauratasi tra vescovi e teologi all'epoca del Concilio sembra appartenere al passato.
Bisogna quindi parlare di una strategia di ''restaurazione''? Il cardinale J. Ratzinger (1985) ha utilizzato questo termine non nel senso di un ritorno indietro, ma nel senso della "ricerca di un nuovo equilibrio dopo gli eccessi di un'apertura priva di discernimento nei confronti del mondo, dopo le interpretazioni troppo positive di un mondo agnostico e ateo". In ogni caso, il conservatorismo teologico sta conoscendo un ritorno d'attualità e si esprime attraverso una visione molto pessimistica del mondo e una visione molto mistica della Chiesa. A tutto ciò è sottesa una t. oggettiva e trascendente della Rivelazione che fornisce al cattolico la verità su Dio e sulla società. Questa presa di posizione di tono soprannaturalistico sorvola con troppa facilità sui problemi del funzionamento e dell'istituzione, mentre non disdegna una vigorosa apologetica della storia della Chiesa. La sola autentica liberazione è quella spirituale.
Questa nuova situazione nella quale si trova la t. solleva alcuni problemi di fondo, in particolare quello del rapporto tra Rivelazione e storia, tra Parola di Dio e agire degli uomini. Ed è proprio la differente percezione di questo rapporto che ha dato vita ai molteplici conflitti concernenti l'esegesi, la catechesi, il ruolo del magistero, e la t. della liberazione.
Nel momento stesso in cui ciascuna Chiesa valorizza la propria identità, la definizione della Chiesa s'incentra sul termine di ''comunione''. Da parte cattolica, un'ecclesiologia della comunione tende a cancellare un'ecclesiologia del popolo di Dio, come si è visto al sinodo straordinario del 1985, il cui rapporto finale dichiara: "L'ecclesiologia di comunione è il concetto centrale e fondamentale nei documenti del Concilio". Sarebbe difficile contestare la profondità teologica e tradizionale di questa problematica della comunione, che un teologo come J.-M. R. Tillard (1987) ha ben individuato nel suo valore.
La t. della Chiesa-comunione ha come punto di partenza l'evento centrale della vita della Chiesa visibile, vale a dire la celebrazione dell'Eucarestia da parte della Chiesa locale allorché è presieduta dal vescovo stesso, attorniato dal suo presbiterio, dai diaconi e, naturalmente, dal popolo cristiano. È qui che la comunione si manifesta nella sua pienezza. In effetti, in questo momento eucaristico locale si colgono bene le tre dimensioni della comunione: a) la dimensione verticale, che è comunione con Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo; una grazia ricevuta da Dio che definisce una missione; b) la dimensione orizzontale, che è comunione reciproca tra i credenti; ogni Chiesa locale è una comunione fraterna nella grazia di Dio, attraverso il legame con la tradizione apostolica e con ministri che "garantiscono, promuovono e rappresentano la comunione di tutti" (Tillard 1987); c) la dimensione universale, che è comunione di Chiese locali; la Chiesa universale altro non è che la comunione delle Chiese locali nelle quali è presente la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Oggi la Chiesa di Dio è divisa: essa è ''unica'' per grazia di Dio, ma non è ''una'' per colpa degli uomini.
In ogni epoca il dialogo ecumenico è stato pensato in termini di comunione. Se l'ecumenismo non ha più l'alquanto ingenuo entusiasmo del periodo immediatamente successivo al Concilio, nondimeno prosegue con perseveranza il proprio cammino. Il 1983 è stato contemporaneamente l'anno della sesta Assemblea del Consiglio ecumenico delle Chiese a Vancouver con una presenza di cattolici fino a quel momento mai raggiunta, e l'anno della pubblicazione del nuovo Codice di Diritto Canonico della Chiesa cattolica, in cui si fa obbligo a ciascun vescovo di promuovere l'ecumenismo. Al massimo livello ufficiale, la Chiesa cattolica è partner di una sessantina di dialoghi bilaterali, i più significativi dei quali sono quelli avviati con la Comunione anglicana e con la Federazione luterana mondiale.
Ma il testo ecumenico indiscutibilmente più importante degli anni Ottanta è quello cosiddetto di Lima su Battesimo, Eucarestia, Ministero (1982), designato più spesso con le sue iniziali BEM. Si tratta di un tentativo di risollevare le tradizioni confessionali all'interno della Chiesa Apostolica, testo di convergenza e non di accordo, che rappresenta tuttavia un considerevole passo avanti, sottoposto alla ''ricezione'' delle differenti Chiese. In via molto generale, si può dire che il consenso sul battesimo è quasi totale, dal momento che la questione del battesimo dei bambini è stata affrontata in maniera serena, mentre per quanto riguarda l'Eucarestia la divergenza sulla concezione del sacrificio o della presenza reale è stata notevolmente ridotta. Resta la questione del ministero, ed è a questo livello che permangono alcuni problemi: se esiste una differenza di natura tra il ministero di tutti i battezzati e il ministero ordinato; se la triplice forma del ministero (episcopato, presbiterato, diaconato) esprime una volontà divina o un semplice sviluppo storico; se l'ordinazione è un sacramento; la questione dell'ordinazione delle donne. Come si vede, la strada verso la piena comunione delle Chiese è ancora lunga.
Secondo un termine caro al gruppo di Dombes, gruppo privato franco-svizzero di ricerca dell'unità, il dialogo ecumenico richiede oggi una metanoia ecclesiale, vale a dire "un cambiamento che colpisca non soltanto le disposizioni interiori e i costumi, ma anche le istituzioni ecclesiali nel loro funzionamento e, all'occorrenza, nelle loro strutture". Operazione delicata, perché obbliga a distinguere l'essenziale dal superfluo, il sacrificio necessario dal sacrificio impossibile, tenendo conto contemporaneamente della propria tradizione e delle altrui esigenze. Ma le Chiese non possono progredire nella comunione se non convertendosi ogni giorno di più al Vangelo: verità del detto Ecclesia semper reformanda.
La teologia morale. Mentre negli ultimi anni Sessanta la morale era considerata lo strumento di repressione di una società compiuta, a partire dalla metà degli anni Settanta si è assistito a un ritorno dell'etica e a un ritorno della ricerca di senso, anche al di fuori della Chiesa. L'analisi non basta, bisogna valutare, esprimere un giudizio. Negli ambienti scientifici e medici, nelle istanze nazionali e internazionali, riemerge il discorso sui ''valori'', e con esso un dibattito sulla qualità della vita, sul futuro del pianeta, sulla responsabilità dell'uomo nei confronti di se stesso, degli altri e del mondo. Il carattere universale dell'esigenza morale tende a esprimersi attraverso un consenso sui diritti fondamentali della persona umana. Ciò non significa che ci sia unanimità nel modo di procedere morale. Il ritorno dell'etica è anche la ricomparsa del dibattito tra problematiche morali che spesso si lanciano reciproche scomuniche. In tal senso è possibile individuare due tipi di concezione dell'etica che si ritrovano in tutti i campi: da una parte la problematica della conformità alla legge e dall'altra quella del discernimento etico.
La problematica della conformità alla legge, inscritta nella natura, proviene dal patrimonio culturale classico: l'umanità si sente preceduta e attorniata da una natura che rappresenta il luogo per eccellenza della manifestazione del divino. Ogni realtà trova posto nell'ambito di una gerarchia a tre livelli. All'apice c'è l'autorità di un Dio la cui volontà e la cui legge s'inscrivono in un ordine naturale di cose, stabilito una volta per tutte e per sempre immutabile. Al di sotto, c'è la natura in quanto rivelatrice di questa volontà e, nello stesso tempo, mediatrice tra Dio e l'uomo. Questi è chiamato a obbedire alla natura e a Dio, trovando in ciò il compimento del proprio destino. Tale problematica comprende due momenti essenziali: la lettura di quest'ordine naturale e immutabile di cose, facile e di per sé accessibile alla ragione di ogni uomo; la conformità dei comportamenti a quest'ordine così percepito e, anche qui, alla volontà divina sull'uomo. Si ha in questo caso una morale basata sul rispetto dell'ordine stabilito, perfetto fin dall'origine. Senza voler banalizzare un testo complesso, si può trovare un esempio recente di questa problematica nell'Istruzione Donum Vitae (1987) della Congregazione per la dottrina della fede. La logica di questo testo si basa su due principi fondamentali: l'indivisibilità dell'atto coniugale e il rispetto assoluto, immediato, dell'embrione umano. Da questi principi scaturiscono, con una necessità che non conosce fratture, le conclusioni etiche e pratiche. Di qui deriva l'esclusione di tutte quelle tecniche mediche che vorrebbero sostituirsi all'atto coniugale interamente umano o che potrebbero comportare il rischio di nuocere alla vita o all'integrità di un embrione umano. Tutta la morale consiste nella conformità alla natura; la legge prescrive tutto ciò che dev'essere fatto o, al contrario, evitato, il lecito e l'illecito.
La seconda problematica, quella del discernimento etico, nel prendere coscienza del mutamento culturale contemporaneo, rifiuta la sottomissione a un ordine di cose integralmente acquisito, determinato in anticipo e dall'esterno, per far posto alla necessaria responsabilità dell'essere umano nella costruzione del proprio divenire. Quello del discernimento etico è un discorso di saggezza più che di autorità. La principale preoccupazione, da questo punto di vista, è quella di far percepire i valori che la comunità credente, fedele alla propria tradizione, reputa fondamentali per la costruzione autentica dell'umano, sia individuale che collettivo. Per es., il bene del bambino che deve nascere, il bene della coppia nella sua dimensione coniugale e in quella familiare, il bene della società. Si tratta allora di destare o ridestare l'intelligenza e il gusto per questi valori e di mettere in guardia contro i rischi di alterazione che esistono nella nostra cultura. La libera coscienza dell'uomo si apre in questo modo a beni umani fondamentali. Una volta compiuto questo primo riconoscimento di valori, il momento successivo è quello del discernimento: nel ventaglio sempre più ampio delle strade che si dischiudono all'uomo si dovranno distinguere quelle che, nelle condizioni concrete in cui si pongono, sono suscettibili di condurre effettivamente verso i valori necessari all'autentica costruzione dell'umano, e quelle che, al contrario, rischiano di comprometterli. In tal senso occorre tutto un ampio lavoro di analisi, concreta e precisa, dei differenti stili di comportamento, di una valutazione che sia disponibile e s'impegni al dialogo con altri punti di vista. Attraverso il dialogo può operarsi l'affinamento e l'arricchimento progressivo di differenti tradizioni etiche dell'umanità. In questo discernimento e in questo dialogo i credenti ovviamente apportano la propria lettura dei beni fondamentali che il Vangelo dà loro da compiere. Preparato da tutto ciò, giunge infine il tempo della scelta e della decisione da cui possono derivare, per la Chiesa, regole e indicazioni di comportamento che non bisogna tuttavia moltiplicare a piacimento. La coscienza personale deve infatti occupare tutto il posto che le è dovuto. Non è difficile rendersi conto che questa problematica modifica in modo considerevole il discorso morale della Chiesa, tanto nella sua elaborazione quanto nella sua formulazione. L'episcopato cattolico statunitense ne ha fornito un esempio con il suo lavoro sulla pace e la giustizia sociale.
Nel corso degli ultimi anni, due settori d'indagine etica hanno conosciuto un notevole sviluppo: la morale della vita (bioetica), che riguarda le nuove pratiche relative alla nascita e al modo di affrontare la morte (v. bioetica, in questa Appendice), e la morale sociale, con la sua preoccupazione di legare insieme pace, giustizia e salvaguardia della creazione, come si è visto nell'incontro ecumenico europeo di Bali (1989) e in quello mondiale di Sŏul (1990).
La teologia femminista. La t. femminista si è sviluppata nel corso degli anni Settanta nel continente nordamericano, dove ormai rappresenta una sezione importante della t.: negli Stati Uniti e in Canada le sue rappresentanti pubblicano lavori che costituiscono altrettanti punti di riferimento per l'Europa e per il mondo intero. All'origine di questa t. ci sono come ovvio i movimenti femministi della società che, pur risalendo alla fine del 19° secolo, si sono sviluppati dopo la seconda guerra mondiale e all'interno dei quali le donne hanno acquisito una più viva coscienza delle discriminazioni di cui sono state oggetto in tutte le culture e in tutte le società. Negli Stati Uniti le donne cristiane sono state tra le più impegnate e attive nelle istanze militanti di questo movimento di liberazione e di promozione della donna. Esse hanno scoperto che le dottrine religiose, come pure le strutture ecclesiali, partecipavano degli stessi schemi svalutanti nei confronti delle donne e che, col proprio carattere di assolutezza, davano sostegno ai modelli che assegnavano come proprio delle donne il loro ruolo inferiore. Di colpo, alcune insegnanti universitarie si sono lanciate alla ricerca di un'espressione teologica corrispondente al rifiuto dell'oppressione e al desiderio di liberazione delle donne.
Le correnti di questa t. sono molteplici, ma animate inizialmente da una medesima convinzione: le Chiese cristiane, nella loro dottrina e nella loro pratica, si sono fondate su un'antropologia in cui soltanto l'essere maschile rappresenta il vero essere umano, e quindi necessariamente domina l'essere femminile, rappresentato come inferiore: una mentalità parziale e riduttrice che ha pervertito il senso profondo della creazione, ha occultato per una parte dell'umanità quanto il Vangelo ha di liberatorio, e ha costruito un universo religioso nel quale le donne non hanno la libertà di cogliere, né di esprimere, la verità della propria esistenza cristiana. La t. femminista si sforza dunque di mostrare come al linguaggio e ai simboli biblici si siano attribuiti significati maschili, e di costruire quindi un diverso discorso che, reinterpretando le fonti bibliche, permetta loro di acquisire senso nell'orizzonte dell'esistenza femminile. Nel fare questo, la t. femminista vuol essere animatrice di una progressiva presa di coscienza da parte delle donne nei confronti della propria alienazione, e nello stesso tempo provocare la conversione delle Chiese alla dimensione liberatrice − anche per le donne − del Vangelo di Cristo. Parlare da teologa femminista vuol dire in primo luogo porsi nell'ottica di una lotta contro le forze oppressive di un sistema patriarcale di organizzazione sociale ed ecclesiale in cui gli uomini detengono tutto il potere, sostenuto da un atteggiamento mentale ''androcentrico'' che promuove l'uomo di sesso maschile a norma di pensiero. In tal senso la t. femminista s'interroga sull'immagine di Dio veicolata nella dottrina tradizionale, contestando i tratti maschili con cui è raffigurata, nonché, ovviamente, le nozioni di creazione e di paternità. Alcune teologhe tentano un avvicinamento della tradizione biblica alle altre tradizioni religiose dell'umanità che evocano Dio come ''matrice materna dell'esistenza'' e che dunque rivelano in Dio il carattere femminile della maternità: perché, si chiede R. Ruether, non potremmo indirizzarci a Dio chiamandolo ''Nostro Padre e nostra Madre'' oppure a volte ''Padre'' e a volte ''Madre''?
Tutte le teologhe femministe, nel ricercare la possibilità di dire il femminile in Dio, insistono sul ruolo dello Spirito nella Trinità e nella relazione di Dio con l'umanità. Lo Spirito, non essendo rappresentato da una figura maschile, si distingue in tal modo dal Padre e dal Figlio, e appare loro più facilmente idoneo a proporre un'immagine di Dio non patriarcale. Fondandosi quindi sul fatto che le parole ruah (spirito), shekinah (presenza), sophia (saggezza) − che designano attributi di Dio − sono termini femminili, la t. femminista propone non un Dio femminile, ma l'affermazione di un principio femminile in Dio. La t. femminista rifiuta inoltre con forza l'importanza attribuita nell'ambito della cristologia alla natura maschile di Cristo, presentata come un elemento fondamentale della sua missione e che condiziona di conseguenza la missione della Chiesa. Essa insiste sulla condizione umana − e non solamente maschile − di Cristo, nuovo Adamo, riassumendo in lui tutta l'umanità rinnovata, uomini e donne, in quanto beneficiari della medesima salvezza.
Le teologhe femministe sono particolarmente attive e organizzate nel Canada e negli Stati Uniti e hanno dato vita a numerosi gruppi di riflessione e di pressione ottenendo, nell'ambito delle rispettive Chiese, alcuni mutamenti significativi, come la nomina di donne a responsabilità importanti. In Europa, malgrado alcune eccezioni nel mondo anglosassone, la t. femminista è ancora poco conosciuta, mentre le teologhe del Terzo Mondo cominciano a prendervi parte con la speranza di accelerare i movimenti di liberazione, anche se il loro esiguo numero ne limita per il momento la possibilità di elaborazione. Ma non tutto il modo di esprimersi della donna in t. si esaurisce in questa t. femminista: un certo numero di teologhe, benché coscienti del secolare atteggiamento discriminatorio della Chiesa e della t. tradizionale nei confronti delle donne, e pur avendo a cuore un profondo mutamento di questa situazione, non intendono accentuare una distinzione arbitraria basata sul sesso e lavorano a un'effettiva collaborazione paritaria tra uomini e donne, in cui l'unico attributo di specificazione della t. dovrà essere l'autenticità cristiana.
Teologie delle terze Chiese. - La grande novità di questi ultimi 25 anni in quel piccolo mondo che è la t., è la comparsa di un nuovo attore, il Terzo Mondo, una realtà non unica e uniforme, ma plurale, cangiante, e soprattutto destabilizzante. La t. cristiana è in procinto di assumerne alcune tinte. L'emergere di nuove t. di provenienza terzomondista non è che la traduzione, sul piano della riflessione teologica, dello spostamento del centro di gravità della cristianità. Ci sono più cattolici in America latina che in Europa e ci sono più cattolici fuori del mondo occidentale che al suo interno: questa constatazione invita a considerare il cristianesimo a partire da altri luoghi che non siano gli spazi tradizionali dell'Occidente.
Per chi avesse interesse a conoscere in profondità la riflessione che si leva dal Terzo Mondo, esiste un comodo filo conduttore: quello dell'Associazione ecumenica dei teologi del Terzo Mondo (EATWOT), associazione che è stata creata e che ha tenuto la sua prima riunione a Dār es-Salāām, in Tanzania, dal 5 al 12 agosto 1976, e che successivamente si è riunita in Ghana (Accra, 1977), in Asia (Wennapuwa, 1979) e in America latina (São Paulo, 1980). L'Associazione ha fatto il bilancio di questo primo periodo di lavoro a Nuova Delhi nel 1981 e ha tentato un dialogo con il Primo Mondo a Ginevra nel 1983. La settima conferenza dell'EATWOT (Ecumenical Association of Third World Theologians) ha avuto luogo in Messico nel dicembre 1986; l'ottava a Nairobi (Kenya) nel 1992. Nel corso di ciascuno di questi colloqui è stato prodotto un documento che consente di seguire l'evolversi della riflessione.
Volendo caratterizzare una t. del Terzo Mondo, diremmo che, quale che sia il suo colore, essa vuol essere politica e non spiritualista, popolare e non accademica, storica e non disincarnata, contemplativa e non secolarizzata, assegnando a se stessa il compito di riflettere sul significato del Dio cristiano a partire da un'identità religiosa e culturale specifica e da un impegno per la liberazione dei poveri. La sua principale preoccupazione è la qualità dell'azione in favore delle vittime di un'oppressione dai molteplici aspetti. Per cambiare il mondo, e non solamente per interpretarlo, l'analisi sociale è d'importanza capitale; ma quando l'impegno è informato da analisi sociali e culturali, la Bibbia non viene più letta nello stesso modo. Essa torna a essere un libro vivo che racconta la presa di posizione di Dio in favore dei poveri. Se vuol essere fedele alla propria missione, la Chiesa non può che seguire le orme di Cristo liberatore. Questo, in estrema sintesi, è il percorso di una t. del Terzo Mondo. Tuttavia, poiché ciascuna t. si caratterizza in base al proprio luogo, esamineremo le t. delle Terze Chiese secondo le loro grandi aree geografiche: America latina, Stati Uniti, Sudafrica, Africa, Asia, cercando di cogliere ogni volta l'originalità di una riflessione contestuale.
La teologia latino-americana. Gli anni Settanta si chiusero con la terza assemblea generale dell'Episcopato latino-americano a Puebla (Messico) sul tema ''L'evangelizzazione presente e futura dell'America latina'' (27 gennaio-12 febbraio 1979). Si è trattato di un severo confronto tra coloro che volevano la condanna delle t. della liberazione, dell'analisi marxista, della Chiesa del popolo, e quelli che invece volevano una Chiesa dei poveri. Nessun teologo della liberazione figurava tra i venti esperti ufficiali di t., anche se alcuni vescovi avevano invitato i più noti di loro come esperti a titolo personale. La conferenza di Puebla, anche se meno originale e creativa di quella di Medellín e preoccupata più d'identità cristiana ed ecclesiale che di audacia profetica, ha ratificato tuttavia le grandi scelte compiute a Medellín (1968): l'opzione per i poveri, la condanna del capitalismo liberale e del collettivismo marxista, la particolare cura per la religione popolare e la comunione ecclesiale, l'importanza delle comunità ecclesiali di base, la specificità della missione della Chiesa. Estremamente insistente è stato il richiamo all'impegno della Chiesa nei confronti dei poveri per la loro evangelizzazione integrale e liberatrice.
Poco dopo (19 luglio 1979) si verificò la vittoria del Fronte sandinista in Nicaragua, un avvenimento di grande portata simbolica. Nell'immaginario dei cristiani impegnati, il Nicaragua rappresentava quello che era la Cuba degli anni Sessanta e il Chile dei primi anni Settanta. Gli Stati Uniti del presidente R.W. Reagan però non sopportavano la vicina presenza di un paese socialista, e fecero di tutto per destabilizzarlo. La democrazia politica tuttavia prese a guadagnare terreno in Brasile, in Argentina, in Uruguay, ad Haiti, senza che seguissero i successi economici, ma semmai il contrario: il problema del debito gravava pesantemente su numerosi paesi, con un'inflazione galoppante. Più che mai, la Chiesa cattolica dell'America latina manifestò le sue divisioni interne. L'assassinio dell'arcivescovo O.A. Romero in Salvador, nel marzo 1980, ne è la tragica testimonianza. La t. della liberazione latino-americana continuava intanto a essere oggetto di critiche severe da parte dell'ala conservatrice della Chiesa, non certo priva d'influenza nel mondo dei media e presso la curia di Roma. A partire dal 1983, il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale J. Ratzinger, attaccò con forza alcuni aspetti della t. della liberazione, prendendo particolarmente di mira i teologi G. Gutiérrez e L. Boff, quest'ultimo ridotto al silenzio per un anno. Egli criticava essenzialmente il voler determinare la t. attraverso l'analisi marxista e la messa in discussione dell'organizzazione e dell'unità della Chiesa (per un'esposizione della t. della liberazione, v. oltre).
Una lettera di Giovanni Paolo ii all'episcopato brasiliano (aprile 1986) mise temporaneamente fine agli scontri: "Nella misura in cui ci si sforza di dare queste giuste risposte − pervase di comprensione per la ricca esperienza della Chiesa in questo paese, quanto più possibile efficaci e costruttive e nello stesso tempo conformi e coerenti con gli insegnamenti del Vangelo, della Tradizione viva e del Magistero permanente della Chiesa −, noi siamo convinti, voi e me, che la teologia della liberazione è non soltanto opportuna ma utile e necessaria". In particolare la scelta in favore dei poveri e contro la povertà si è concretizzata, nel corso dell'ultimo ventennio, in una forma di Chiesa che suscita l'interesse della cristianità di tutto il mondo: le comunità ecclesiali di base. Riguardo a esse i vescovi brasiliani parlano giustamente di una "nuova maniera di essere Chiesa", una forma di Chiesa che riunisce la gente povera delle zone rurali e delle periferie urbane e la sollecita ad alzarsi in piedi in quanto protagonista della missione e della comunione ecclesiale.
In questi ultimi anni, l'accento più caratteristico della t. latino-americana è la sua insistenza sulla spiritualità: I. Ellacuria, prima di essere lui stesso assassinato nel 1989, parlava di "contemplazione nell'ambito dell'azione per la giustizia", J. Sobrino di "santità politica" e G. Gutiérrez ha scritto sull'argomento un libretto davvero eccellente, Beber en su proprio pozo (1984). L'intuizione è la stessa: un popolo che si libera elabora una sua spiritualità, poiché quest'ultima rappresenta sempre una risposta a una sfida che tocca un punto importante dell'esperienza cristiana. Ogni t., del resto, si nutre di una spiritualità che, insieme all'impegno, è uno dei due luoghi d'incontro di Dio. Lo stesso Gutiérrez tende oggi a porre sullo stesso piano la pratica e la mistica, come punti di partenza di una t. cristiana.
La teologia nera americana. Nata nel 1968-69, contemporaneamente alla t. latino-americana, la t. nera degli Stati Uniti presenta una sua specifica definizione, con un percorso scandito da tre fasi riassumibili nei termini: negazione, affermazione, liberazione. Questa t. si presenta anzitutto come una t. della negazione, nel suo contrapporsi alla t. bianca dominante, percepita come razzista, denunciando, non senza ragioni, il lungo connubio del potere civile e del potere religioso nel contesto degli Stati Uniti. Di contro al Credo ufficiale che glorifica il potere bianco, anglosassone e protestante, essa fa esattamente l'opposto: il cristianesimo bianco è stato il primo supporto dell'ideologia imperialista americana, con l'aver ignorato totalmente la sofferenza e la fede del popolo nero e con l'aver contribuito a suo modo all'''invisibilità'' della Chiesa nera.
La fase della negazione ha fatto rapidamente posto a quella dell'affermazione: l'affermazione dell'identità nera individuale e collettiva ("Nero è bello"), al termine di una lunga storia che ha fatto della comunità nera una Chiesa davanti a Dio. La t. è una delle analisi che permette ai Neri di esplicitare il loro essere e di scoprirvi la mano creatrice di Dio; essa è un modo di tradurre la ricerca religiosa del senso della loro propria esistenza. Una t. che si fa carico della realtà complessa che è stata imposta dall'oppressore: la razza. Ma chi dice condizione negra negli Stati Uniti dice in primo luogo servitù, segregazione, discriminazione, una lunga e dolorosa cattività. La t. nera riprende dunque un itinerario storico, una tradizione orale, una cultura popolare, per scovare in esse la traccia di Dio.
Un'affermazione serena dell'identità nera agli occhi di Dio non è possibile in una società razzista; perciò la t. nera è una t. della liberazione: "Conoscere Dio, è conoscere la realtà attuale dell'oppressione e la certezza della liberazione" (Cone 1984). Tra i Neri americani il linguaggio della liberazione sarà quindi tanto religioso quanto politico. Solo la Bibbia può veramente risollevare la comunità degli antichi schiavi; la liberazione agognata sarà indissolubilmente individuale e collettiva, spirituale e fisica.
La fase attuale della t. nera americana è cominciata di fatto con la conferenza nazionale del Progetto di teologia nera ad Atlanta (2-7 agosto 1977) sul tema La Chiesa nera e la comunità nera: unità ed educazione per l'azione. Il messaggio finale sottolinea l'importanza della Chiesa nera, sia nel passato ("Senza la nostra Chiesa, avremmo cessato di esistere in quanto popolo") sia nel presente ("La Chiesa nera è la sola istituzione sulla quale il popolo nero esercita un controllo totale"). È solo puntando sul legame tra Chiesa e comunità che i Neri potranno costruire il proprio futuro. Ispirati da questo messaggio, gli ultimi quindici anni sono stati contrassegnati da tre caratteristiche tendenze definibili come segue. In primo luogo, la presa di coscienza del Terzo Mondo e il dialogo con i teologi dell'Africa, dell'America latina e dell'Asia: "Non ci sarà libertà per nessuno finché non ci sarà libertà per tutti" (Cone 1984). Ciò che s'impone alle Chiese del Terzo Mondo è una solidarietà di lotta e di preghiera e, su questa linea di tendenza, il dialogo teologico è proseguito in modo particolare in seno all'Associazione Ecumenica dei teologi del Terzo Mondo. In secondo luogo, l'elaborazione di una prospettiva politica che si avvale dell'analisi marxista: uno dei risultati dell'incontro con altre t. è stato quello di porre ai Neri il problema dell'analisi sociale: non è possibile promuovere la liberazione dei poveri se non si mettono a nudo i meccanismi della povertà. Di qui l'affermarsi di una valutazione nuova dell'analisi marxista: imperialismo, capitalismo, razzismo e sessismo rappresentano in definitiva quattro facce della medesima logica di oppressione. In terzo luogo, infine l'avvento di una t. nera pensata da donne e non più soltanto da uomini: la donna nera soffre di un razzismo ulteriore rappresentato dal sessismo: vittima di una doppia discriminazione, è infatti ''la schiava di uno schiavo'', sia nella società americana che nella Chiesa. Grazie alla t. nera, Dio ha cambiato di colore, ma non ancora di sesso.
La teologia nera sudafricana. Con la fine dell'apartheid e la nascita nel 1994 di un ''nuovo Sudafrica'', questa t. ha perso molto della sua ragion d'essere, ma è stata importante negli anni Ottanta. Figlia della t. nera americana, si è dovuta scontrare con lo stesso razzismo bianco a fondamento cristiano, presentandosi come una reazione di riflesso a questo sistema intollerabile, a questa bestemmia contro Dio che nega a esseri umani la loro natura di figli e figlie di Dio. È nota la situazione di razzismo istituzionale che ha caratterizzato la realtà del Sudafrica. Apartheid significa separazione, messa da parte; termine intraducibile che designa una realtà unica nel suo genere: una segregazione razziale integrale, un'accorta politica di suddivisione territoriale che separa le razze nel momento stesso in cui le gerarchizza, facilitando lo sfruttamento economico e politico. Le prime riforme liberalizzatrici avevano variato alcune regole del gioco, ma senza intaccare i pilastri del sistema: "La prigione è riverniciata, ma i suoi muri sono sempre assai alti" (Lory). E un simile sistema di apartheid era fondato su principi cristiani, con giustificazioni tratte dalla Sacra Scrittura.
Nel settembre 1985 fu pubblicato un documento teologico che ha segnato una tappa molto importante per la formulazione di una t. nera sudafricana; si tratta del documento Kairos, che fu sottoscritto da 151 pastori, sacerdoti e laici di 23 denominazioni differenti, sia protestanti che cattolici, e che suscitò un immediato e appassionato dibattito sia all'interno del paese che fuori. Il documento si presentava esso stesso come "un'interpretazione cristiana, biblica e teologica della crisi politica in Sudafrica" e allo scopo di criticare i modelli teologici correnti e di proporre un modello alternativo in grado di far nutrire la speranza. In Sudafrica la t. è presente sotto tre forme; la t. dello Stato, la t. della Chiesa, e la t. profetica.
La t. dello Stato è la giustificazione teologica dello statu quo, con il suo razzismo, il suo capitalismo e il suo totalitarismo; essa utilizza le affermazioni di Paolo sull'origine divina dell'autorità (Rom. 13, 1-7) per fondare come assoluta e divina l'autorità dello Stato qual esso è, e considera ''comunista'' chiunque si oppone. Non è perciò meritevole altro che di un rifiuto totale.
La t. della Chiesa, che è quella delle Chiese di lingua inglese, denuncia l'apartheid ma soltanto superficialmente. Essa parla di riconciliazione, ma è soltanto la giustizia che può renderla possibile. Essa parla di giustizia, ma di quella determinata dall'oppressore e offerta al popolo come una concessione. Essa parla di non-violenza, ma senza distinguere tra la violenza dello Stato e quella delle vittime. Questa t. rivela quindi una totale mancanza di analisi sociale e di strategia politica.
Non rimane dunque che rivolgersi a una t. profetica, capace di operare una scelta di campo tra una minoranza che opprime e una maggioranza che è oppressa. Dio non è neutrale, Gesù si è identificato con la causa dei poveri. La parte migliore della tradizione c'insegna che in situazioni di tirannia il popolo ha il diritto morale di resistere; e poiché l'apartheid non può essere riformata, dev'essere distrutta. "La Chiesa non può collaborare con la tirannia", e perciò raccomanderà il boicottaggio, lo sciopero, la disobbedienza civile, le sanzioni economiche. L'apartheid non è nulla di meno che un'eresia.
La teologia africana. Il dibattito sulla legittimità di una t. africana ha impegnato a lungo le energie dei teologi in Africa. Dopo l'incontro dell'EATWOT ad Accra nel dicembre 1977, e dopo che in quest'occasione fu creata l'Association Oecuménique des Théologiens Africains (AOTA), questo dibattito si è concluso. Di lì in poi si è trattato di costruire la t. africana, con un prodigarsi di tesi, di opere, di articoli, di colloqui a ciò dedicati: "Parto difficile, ma il bambino sarà negro" fu la battuta del defunto cardinale J.A. Malula a proposito della Chiesa d'Africa. Le due parole d'ordine che spiccano nell'attuale t. africana sono ''povertà antropologica'' e ''inculturazione'', il che significa che essa si situa prevalentemente in una prospettiva culturale. Ne è una conferma il dibattito con la t. latino-americana.
L'espressione "povertà antropologica" comparve per la prima volta in occasione dell'incontro tra i teologi del Terzo Mondo a Nuova Delhi nell'agosto 1981, per designare la negazione dell'identità e della dignità africane attraverso secoli di tratta degli schiavi, di colonizzazione e, nel presente, di carestia. Si è trattato di un'aggressione di ordine ontologico e che permane a livello strutturale. E il missionarismo cristiano non sempre ha preso le distanze da quest'opera di annullamento, dando per la maggior parte del tempo testimonianza di una filantropia accondiscendente che ha aggiunto la maledizione divina all'annientamento dell'uomo nero.
In questo contesto, prioritaria rispetto a tutte le priorità diventa l'''inculturazione''. Per spiegare questa problematica che decreta la fine di una t. dell'adattamento, la cosa migliore è rifarsi alla definizione che ha raccolto il massimo dei consensi, quella data da Padre Arrupe nella sua Lettera sull'inculturazione del 14 maggio 1978, in seguito alla 32ª Congregazione generale della Compagnia di Gesù, che suona come segue: "L'inculturazione è l'incarnazione della vita e del messaggio cristiano in un'area culturale concreta, in modo che non solo questa esperienza si esprima con gli elementi propri alla cultura in questione (in tal caso sarebbe soltanto un adattamento superficiale), ma in più che questa stessa esperienza si trasformi in un principio d'ispirazione, a un tempo norma e forza di unificazione, che trasformi e ricrei questa cultura, ponendosi in tal modo all'origine di una ''nuova creazione''". Sulla base di questa definizione è dunque possibile affermare che l'inculturazione vuol essere una trasposizione della problematica dell'Incarnazione sul piano dell'incontro tra fede cristiana e cultura non cristiana. La logica della parola di Dio testimoniata in Gesù è una logica d'incarnazione: è a partire da un radicamento umano, da un'inscrizione culturale precisa, che il messaggio universale di salvezza può rivelarsi. Non può essere salvato se non ciò che viene assunto. Invitando a rivisitare il mistero del Verbo fatto carne, il processo d'inculturazione si dispiega secondo un ritmo di morte-resurrezione, di paolino (Phil. 2,7) "svuotamento di sé" (kénosis) e di rivitalizzazione, nella speranza di una nuova umanità. Le tappe del disegno di salvezza in Cristo assegnano al missionarismo cristiano compiti corrispondenti.
Alla fine, il mutamento prodotto sarà duplice. Quando il Vangelo raggiunge realmente un popolo al fondo della sua esperienza vitale, sia la fede conosciuta sia la cultura preesistente sono provocate a un superamento, a un avanzamento nel mistero di Dio e dell'uomo. La fede viene rivelata a se stessa entro la sensibilità e i valori che sono apportati da quella cultura, dal momento che la sua precedente inculturazione non esauriva la ricchezza del Vangelo, non totalizzava il cristianesimo. La cultura a sua volta è trasformata dalla rivelazione di un al di là che è oltre se stessa. Nessuno dei due interlocutori esce indenne dall'incontro. È esattamente quello che succede tra Pietro e Cornelio nel 10° capitolo degli Atti degli Apostoli.
Quali che siano i meandri dell'operazione, i fondamenti teologici dell'inculturazione sono estremamente solidi e sono stati ben sintetizzati da Monsengwo Pasinya, dello Zaire, secondo cui l'inculturazione: a) è una conseguenza dell'incarnazione del Verbo, poiché in ogni epoca la parola di Dio deve passare attraverso il condizionamento di un ambiente umano denunciandone il peccato; b) è un'esigenza della cattolicità e dell'unità della Chiesa, la quale sarà ''una'' solo attraverso l'integrazione delle particolarità; c) è un'esigenza della trascendenza del messaggio, poiché nessuna cultura può esaurire la ricchezza del messaggio che può prendere corpo in ciascuna di esse; d) è un'esigenza della Rivelazione, che è sempre storica e richiede di essere attualizzata per ciascuna epoca; e) è un'esigenza epistemologica del messaggio, nel senso che il messaggio si è venuto intessendo dell'apporto di differenti culture; f) è un'esigenza del carattere escatologico del messaggio, poiché la Chiesa non ha mai cessato di scoprire l'inesauribile mistero di Cristo (Eph. 3,8); g) l'inculturazione è un'esigenza della missione in senso totale.
Il contributo decisivo di questa problematica consiste nel prendere seriamente in conto la cultura, nel senso globale che la parola ha oggi assunto in antropologia, e che esprime il modo di vita di un gruppo sociale dato. Non c'è alcuna amputazione preliminare all'evangelizzazione: la parola di Dio raggiunge l'africano laddove egli si trova. Il vero banco di prova è il ''popolo entro la propria cultura'', nel complesso delle sue strutture simboliche. L'inculturazione sottolinea inoltre il ruolo centrale della Chiesa locale. Il primo soggetto dell'inculturazione è infatti la comunità cristiana concreta, in un luogo e in una cultura determinati; ad essa spetta il compito di elaborare il messaggio per farne una realtà africana, dall'interno stesso della propria esperienza.
Tre pericoli incombono tuttavia su questo compito globale d'inculturazione: un atteggiamento volto più al passato culturale che ai nuovi rapporti sociali, l'oblio dello stretto legame tra cultura e religione, e la sottovalutazione della dimensione politica. J.-M. Ela (1980, p. 157) ha particolarmente insistito su questa necessità di farsi carico del politico nel processo d'inculturazione: "Una Chiesa che vuole ''dire'' qualcosa all'africano di oggi non può contentarsi di una liturgia, di una catechesi e di una teologia ''autenticamente'' africane. Nella misura in cui le modalità di espressione della fede hanno senso solo a partire da un inserimento della Chiesa nelle lotte in cui gli uomini operano contro quelle condizioni che restringono le loro libertà di uomini, la partecipazione della Chiesa a queste lotte diventa la condizione della possibilità stessa di ogni liturgia, di ogni catechesi e di ogni teologia in Africa".
La teologia asiatica. Con l'Asia si passa a un continente immenso e diversificato, il più popolato e il più religioso. Dalle pratiche religiose più popolari si passa alle mistiche più sofisticate: buddhismo, induismo, confucianesimo, taoismo, shintoismo. Nell'ambito di quest'insieme variegato, il cristianesimo rappresenta una minoranza, con i suoi cento milioni di fedeli. La t. cristiana dominante è ancora troppo segnata dall'Occidente e dalle sue preoccupazioni, anche se a poco a poco i teologi autoctoni si emancipano dalla cattività tedesca o romana ed elaborano riflessioni che ben s'inseriscono nel contesto locale. Quest'elaborazione appare tesa tra due realtà caratteristiche della situazione asiatica, la religiosità e la povertà, questioni che, secondo A. Pieris (1988a), la t. asiatica deve assumere contemporaneamente e con la stessa serietà. Ciò che la t. cristiana deve fare è forgiarsi a partire dalle prospettive di salvezza delle religioni asiatiche, senza tuttavia esimersi da una dolorosa partecipazione ai conflitti della povertà. La naturale conseguenza è che ne derivano, a un tempo, una t. delle religioni e una t. di liberazione.
Se la questione delle religioni ''altre'' da quelle cristiane accompagna la t. ecclesiale da sempre e sotto tutti i cieli, in nessun luogo tuttavia si pone con maggior forza come in Asia. Mentre per 19 secoli era prevalso l'atteggiamento negativo, i teologi asiatici non hanno potuto fare a meno di obiettare: "Noi non crediamo in un Dio invalido portato a spalla, fino in Corea, dal primo missionario. Dio operava già nella nostra storia, ben prima che arrivassero i missionari" (Younghak Hyun). Un incoraggiamento a una visione più positiva è venuto loro, da parte cattolica, con il Concilio Vaticano ii, con il Decreto sulle religioni non cristiane Nostra Aetate; e fin dal 1971 essi potevano dichiarare: "La rivelazione e l'attuazione del piano universale di Dio per la salvezza dell'umanità sono più antiche e più lunghe della Chiesa". Il Cristo e lo Spirito sono presenti ''nelle'' religioni, senza intervento della Chiesa. Ma, al contempo, non si può certo svendere l'identità cristiana nel senso che la rivelazione di Dio in Cristo perfeziona le religioni del mondo, poiché il Cristo è l'unico mediatore tra Dio e gli uomini. Le altre religioni hanno una validità reale, ma manchevole e incompleta: sono cioè destinate a completarsi in Cristo, non però nella Chiesa, il che induce quest'ultima a un'indubbia umiltà.
Questa prospettiva del Cristo collocato ''al di sopra'' delle religioni è oggi la posizione comune dei teologi cristiani, posizione che tuttavia non soddisfa pienamente i navigati negoziatori del dialogo interreligioso. Se però uno degli interlocutori di questo dialogo pretende di avere la parola normativa e definitiva, non c'è possibilità che il dialogo duri. Perciò alcuni teologi cercano prospettive nuove in direzione dello scarto tra il Cristo e Dio, in nome di un teocentrismo che lasci spazio al dialogo.
R. Panikkar, per es., sacerdote cattolico di madre spagnola e padre indiano, ritiene che nessuna religione possa entrare in dialogo se afferma a priori la sua assoluta normatività. L'evoluzione della situazione mondiale obbliga a una reinterpretazione del modo tradizionale di concepire l'unicità e l'universalità di Cristo, e Panikkar propone una distinzione tra il Cristo universale e il Gesù particolare. Cristo è un simbolo per tutt'intera la realtà: umana, divina, cosmica. Egli esprime l'unità dinamica di Dio, dell'umanità e del mondo. Egli è il Logos, l'espressione esterna, la comunicazione di colui che è Ultimo: è il sacerdote del sacerdozio cosmico, che dappertutto rischiara, dappertutto ispira. Questo Logos-Cristo, eterno e universale, si è incarnato in Gesù di Nazareth, ma quest'incarnazione non è né unica, né normativa. Nessun nome storico può essere l'espressione definitiva di Cristo, per cui Egli non sarà mai totalmente conosciuto in terra. Per i cristiani Gesù è certamente la forma ultima di Cristo, ma nella storia il Cristo ha potuto essere conosciuto sotto altri nomi: Rama, Krishna, Isvara, ecc. Se Gesù è il Cristo, il Cristo non è unicamente Gesù. Tutte le religioni sono dunque pari interlocutrici in un dialogo di salvezza la cui norma è il Mistero divino.
Sull'altro versante della t. asiatica si è venuta sviluppando, in Corea del Sud, una t. di liberazione sotto l'appellativo di t. del minjung, termine risultante dalla combinazione dei due caratteri cinesi: min, che può essere tradotto con "popolo", la gente che non appartiene all'aristocrazia, e jung, che può essere tradotto con "massa", la gente comune. Il minjung designa perciò la ''massa del popolo'', la sua maggioranza. Il termine ''massa'' però non rende adeguatamente il disegno teologico, mentre il termine ''popolo'' è difficile da usare in un paese anticomunista, e sarebbe troppo inoffensivo tradurre l'espressione con ''popolo di Dio''. Il termine minjung si è imposto di fatto a partire dalla lotta politica degli anni Settanta. Nella situazione coreana rappresenta la t. degli oppressi, la loro risposta agli oppressori che si definiscono cristiani, l'articolazione di una presa di coscienza teologica in un regime di dittatura. "Il minjung è presente là dove c'è alienazione socioculturale, sfruttamento economico ed eliminazione politica. Di conseguenza, una donna è minjung quando è dominata dall'uomo, dalla famiglia e dalle strutture socioculturali. Un gruppo etnico è un gruppo minjung quando subisce la discriminazione politica ed economica di un altro gruppo etnico; una razza è minjung quando è dominata da un'altra razza potente, come accade in una situazione coloniale. Quando degli intellettuali vengono soppressi per aver esercitato le loro capacità creative e critiche contro coloro che governano e in nome degli oppressi, appartengono anch'essi al minjung. Gli operai e gli agricoltori sono minjung quando sono sfruttati" (D. Kwang-Sun Suh 1981).
La divergenza fondamentale. Al di là delle specifiche caratteristiche della letteratura teologica sul Terzo Mondo, un po' dovunque appare una netta linea di demarcazione tra due correnti: una socio-economica e una religioso-culturale. I Latino-Americani rappresentano in modo perfetto la prima, gli Africani e gli Asiatici la seconda, mentre i Neri degli Stati Uniti e del Sudafrica cercano un compromesso costruttivo tra le due correnti.
Quanto ai termini del dibattito, essi sono stati posti correttamente nella dichiarazione finale dell'incontro di Nuova Delhi del 1981, al n. 44: "Siamo convinti che una teologia pertinente per il Terzo Mondo debba includere l'aspetto culturale e l'aspetto socio-economico della vita della gente. Attualmente i teologi, nei loro lavori, mettono di regola l'accento quasi esclusivamente su uno solo di essi, escludendo l'altro. Gran parte dei Latino-Americani si rende conto che la propria teologia della liberazione non è riuscita a includere la dimensione culturale del loro popolo né le aspirazioni dei gruppi marginali del loro continente. D'altro canto, alcuni Africani, nel mettere l'accento sull'antropologia, sulle culture e sulle religioni tradizionali, tendono ad accordare poca considerazione alla dura condizione attuale dei loro popoli sul piano economico e politico... È chiaro che la sintesi tra elementi religioso-culturali e socio-economici è un compito che in futuro continuerà a porsi alla teologia del Terzo Mondo".
Da quanto esposto risulta chiaramente che il fatto più imponente di questo ultimo quindicennio è la regionalizzazione della t.; essa infatti si è andata particolarizzando a seconda dei continenti, dei gruppi sociali, delle problematiche, del modo di vivere il rapporto con le scienze umane. La t. non si modella più in un unico stampo determinato dall'autorità, essa si coniuga necessariamente al plurale. Se ci poniamo la questione di un parallelo processo di democratizzazione della t., va detto che, di fatto, nelle facoltà di t. gli studenti laici si sono moltiplicati, manifestando la preoccupazione di portare la loro cultura religiosa al livello della loro cultura profana. Tuttavia è ancora troppo presto perché si possa risentire dell'impatto di questa presenza sulla stessa t. e sul suo insegnamento. Quanto al rinnovamento dei docenti, il problema si pone in modo cruciale nella Chiesa cattolica: attualmente ben pochi laici sembrano disposti, per differenti ragioni, a consacrare la loro vita a questo compito.
Schematizzando, sono due le figure di teologi che tendono a predominare nell'ambito delle differenti Chiese: il teologo universitario e il teologo animatore. Nella maggioranza dei paesi occidentali, il teologo universitario gode dell'aura scientifica e della sicurezza dell'impiego, lavora a distanza dalle autorità ecclesiastiche e si appassiona all'approccio multidisciplinare dei problemi. Il teologo animatore si consacra invece a seguire movimenti e gruppi di base attraverso la propria riflessione; tenta dunque di teorizzare la pratica di fede del popolo cristiano ed è in contatto più immediato con l'istituzione ecclesiale.
Nell'ambito della Chiesa cattolica, lo statuto di teologo è ancora oggetto di vivaci dibattiti. Il malessere seguito al Concilio Vaticano ii non è stato superato, mentre una t. neo-conservatrice regna a Roma. Se ne è vista l'attestazione con la ''Dichiarazione di Colonia'' del 6 gennaio 1989, dove 163 professori di t. della Germania Federale, della Svizzera, dei Paesi Bassi e del Lussemburgo hanno innalzato una protesta in merito a tre questioni sostanziali: le nomine ai seggi episcopali, la missione canonica degli insegnanti di t. e la competenza sul magistero del papa. Altri teologi occidentali hanno successivamente sostenuto quest'appello.
Quali che siano le difficoltà attuali, la t. è più che mai necessaria alla vita della Chiesa nel suo incontro con le culture contemporanee, come ha scritto J. Moingt (1986, p. 198): "Questione aperta sul trascendente e l'universale, passione per tutte le adesioni incondizionate che fanno l'umanità dell'uomo, la teologia è l'interrogativo critico che nella ragione attuale mantiene l'apertura all'altro, all'alterità dell'uomo, al pensiero di altre culture, allo schiudersi del possibile, all'etica del fattibile, alla novità di tutto ciò che nasce e che le impedisce di soccombere, ai totalitarismi che incombono: quello della politica, o dell'economia, o dell'etnocentrismo, e altri ancora. Per tutti questi motivi, essa è interlocutore obbligato del futuro della nostra cultura, affinché tale avvenire non sia semplice deriva, perdita di memoria, esplosione di regionalismi della scienza, chiusura nel sistema e, infine, rinuncia alla domanda critica che ha partorito la modernità".
Bibl.: Teologie delle antiche Chiese: M. Neusch, B. Chenu, Au pays de la théologie: à la découverte des hommes et des courants, Parigi 1979; Initiation à la pratique de la théologie, a cura di B. Lauret e F. Refoulé, ivi 1982-83; H. Kung, Theologie im Aufbruch, Monaco di B. 1987. Ritorno del religioso: H. Cox, Religion in the secular city: toward a postmodern theology, New York 1984; D. Hervieu-Leger, Vers un nouveau christianisme?, Parigi 1986; J. Moingt, in Esprit, aprile-maggio 1986. Cristologia teologia trinitaria e centralità di Dio: P. Gisel, La création, Ginevra 1980; W. Kasper, Der Gott Jesu Christi, Magonza 1982; E. Jungel, Dieu, mystère du monde, Parigi 1983; J. Moltmann, Dieu dans la création, Monaco di B. 1985. La Chiesa: Foi et Constitution, Baptême, Eucharistie, Ministère, Parigi 1982; J. Ratzinger, Entretiens sur la foi, ivi 1985; AA.VV., La réception de Vatican II, ivi 1985; A. Benoît, in Bulletin oecuménique national BSS, 26 novembre 1986; J-M.R. Tillard, Eglise d'Eglises, ivi 1987. La teologia morale: X. Thevenot, Repères éthiques pour un monde nouveau, Mulhouse 1982; Id., La bioéthique, Parigi 1989. La teologia femminista: E. Schussler-Fiorenza, En mémoire d'elle, Parigi 1986.
Teologie delle terze Chiese: B. Chenu, Théologies chrétiennes des tiers mondes, Parigi 1987 (trad. it., Brescia 1988). La teologia latino-americana: G. Gutiérrez, La fuerza historica de los pobres, Salamanca 1979 (trad. it., Brescia 1981); Id., Beber en su proprio pozo, en el itinerario espiritual de un pueblo, ivi 1984 (trad. it., Brescia 1984); Id., Hablar de Dios desde el sufrimiento del innocente, Lima 1986 (trad. it., Brescia 1986); L. Boff, Eglise, charisme et pouvoir, Petropolis 1981 (trad. it., Roma 1982); R. Gibellini, Il dibattito sulla teologia della liberazione, Brescia 1986. La teologia nera americana: Black Theology: a documentary history, 1966-1979, a cura di G.S. Wilmore e J.H. Cone, Mayknoll 1979; J.H. Cone, For my people. Black theology and the Black Church, ivi 1984. La teologia nera sudafricana: D. Tutu, Anch'io ho il diritto di esistere, Brescia 1985; Sfida alla chiesa. Il Documento Kairos, in Il Regno - Documenti, 1 (1986), pp. 47-55; The unquestionable right to be free, a cura di I.J. Mosala e B. Tlhagale, Braamfontain 1986; A. Nolan, God in South Africa, Cape Town-Johannesburg 1988. La teologia africana: J.-M. Ela, Le cri de l'Homme africain, questions aux chrétiens et aux églises d'Afrique, Parigi 1980; J.-M. Ela, R. Luneau, Questo è il tempo degli eredi, Bologna 1983; J.-M. Ela, Ma foi d'Africain, Parigi 1985 (trad. it., Bologna 1987); AA.VV., Chemins de la christologie africaine, ivi 1986 (trad. it., Cristologia africana, Cinisello Balsamo 1987). La teologia asiatica: D. Kwang-Sun Suh, in Miniung theology, Singapore 1981, p. 39; A. Pieris, An Asian theology of liberation, Maryknoll 1988; Id., Love meets wisdom, ivi 1988.
Teologia della liberazione. - Un linguaggio per parlare di Dio. - Negli anni Sessanta il continente latino-americano ha attraversato un periodo di cambiamenti e di movimenti sociali molto intensi, caratterizzati dalla ricchezza e dalle ambiguità di ogni evento storico. Gruppi sempre più consistenti di cristiani hanno scoperto un nuovo modo di vivere la propria fede impegnandosi nel processo di liberazione in quanto espressione del loro amore verso il prossimo. L'urgenza e la vastità di quest'impegno nella lotta per la giustizia e nella solidarietà con i poveri hanno a loro volta posto nuove questioni e indicato temi fecondi alla riflessione sulla fede; questa si è presentata allora come una t. della liberazione, ossia come un modo d'intendere l'opera salvatrice e gratuita di Cristo nel momento attuale della storia e della condizione dei poveri.
Fin dal suo nascere quest'ottica teologica appare legata sia alla vita e all'impegno delle comunità ecclesiali di base, sia alla missione evangelizzatrice della Chiesa; essa quindi si riflette subito sul magistero ecclesiastico, come risulta chiaramente dai documenti della conferenza dei vescovi dell'America latina tenutasi a Medellín (Colombia, agosto-settembre 1968) e delle successive conferenze episcopali sudamericane (Puebla, Messico, 1979; Santo Domingo, 1992), nonché da numerosi altri testi (per i documenti delle Conferenze generali dell'episcopato latino-americano, pubblicati in italiano, v. bibl.).
Partire dal ''rovescio'' della storia. Il discorso sulla fede viene a essere sollecitato dalle concrete condizioni sociali e culturali in cui vivono i credenti e le persone alle quali viene annunziato il Vangelo di Cristo; la presa di coscienza di queste condizioni fa maturare la vita della Chiesa e dà origine a riflessioni teologiche radicate in realtà diverse, che occorre vedere alla luce della fede.
L'"irruzione del povero", ossia la presenza attiva di coloro che fino ad allora erano stati esclusi dalla storia del continente, ha caratterizzato negli ultimi decenni la vita e la riflessione della Chiesa nell'ambito latino-americano e caribico. Questa nuova presenza si manifestò inizialmente con un crescente movimento popolare, un intensificarsi della lotta per la giustizia, una fioritura di nuove organizzazioni sociali e politiche, una maggiore coscienza della dignità personale e dei diritti delle popolazioni indigene, nonché con tentativi da parte dei governi di attuare importanti riforme sociali e perfino, in alcuni casi limite, con episodi di violenza guerrigliera. Questa situazione ha influito sull'azione della Chiesa con tanto maggior vigore in quanto il popolo che irrompe alla ribalta della storia è un popolo povero e al tempo stesso cristiano: la fede dà l'impronta al suo modo di vivere la povertà e l'oppressione, e queste ultime condizionano la sua esperienza del Vangelo. La coscienza di trovarsi in una fase nuova della vita delle popolazioni latino-americane e caribiche e la necessità d'intendere questa fase come un appello del Signore ad annunziare debitamente il suo Vangelo stimolano la riflessione teologica con l'esigenza di una duplice fedeltà, al Dio della fede cristiana e al popolo latino-americano; e questa matrice impedisce di separare il processo storico di liberazione dal discorso su Dio.
La realtà latino-americana è segnata da una povertà che la conferenza di Puebla ha bollato come "il flagello più umiliante e devastante" (Puebla 1979, documento n. 29), definendola "antievangelica" (n. 1159). Secondo la celebre formula di Medellín, si è di fronte a una situazione di "violenza istituzionalizzata" (Medellín 1969, documento Paz, n. 16), a cui si aggiungono in vari paesi violenze terroristiche e repressive altrettanto inaccettabili. Oggi si percepisce sempre più chiaramente la posta in gioco: la povertà significa morte, carenza di cibo e di tetto, impossibilità di far fronte adeguatamente ai bisogni della salute e dell'istruzione, sfruttamento del lavoro, disoccupazione permanente, mancanza di rispetto per la dignità umana, inique restrizioni della libertà personale e nell'espressione delle proprie convinzioni politiche e religiose, sofferenza quotidiana. Povertà vuol dire distruzione delle persone e dei popoli, delle culture e delle tradizioni. Ciò vale soprattutto per i più diseredati: gli Indios, i negri e le donne, che in questi ambienti sono doppiamente emarginate e oppresse. Non si tratta dunque, come talvolta si ritiene, di affrontare solo una ''questione sociale'', estranea alle esigenze fondamentali del messaggio evangelico: si è piuttosto in presenza di qualcosa che è contrario al Regno di vita annunziato dal Signore, ed è per questo che non è possibile limitare la nozione di povertà a una particolare classe sociale.
La povertà presente nell'America latina e nei Caribi va indagata mediante descrizioni appropriate, affiancate dall'analisi delle sue cause: questi studi e queste interpretazioni rientrano nell'ambito delle scienze sociali. Negli anni Cinquanta, in seguito a vari fattori, si diffuse l'interesse per il cosiddetto desarrollo, ossia per lo sviluppo economico e sociale, il che portò all'applicazione di politiche di sviluppo intese a far uscire quei paesi dal loro stato di prostrazione; ma l'ottimismo che animava questi progetti ebbe breve durata. In opposizione al desarrollismo (non allo sviluppo, che è un concetto tecnico e rappresenta una necessità per i popoli) nacque la ''teoria della dipendenza'', i cui primi elementi furono elaborati negli ambienti neostrutturalisti del CEPAL (Comisión Económica Para América Latina, un organismo delle Nazioni Unite). A differenza del desarrollismo, la teoria della dipendenza esamina acutamente e con fermezza le cause della povertà nell'America latina, inquadrandole nel panorama internazionale, e cerca − è questo un punto essenziale −d'indagare a fondo la linea di sviluppo che ha portato a questo stato di cose, insistendo sul fatto che le nazioni vivono in un contesto storico sempre più globale. Trovare il modo di spezzare la dipendenza dai grandi centri di potere rappresenta in quest'ottica un'esigenza fondamentale. Questa teoria segnò senza dubbio un notevole salto di qualità nella conoscenza della realtà latino-americana, e diede inizialmente un significativo apporto alla riflessione teologica che si andava elaborando nell'America latina. Tuttavia, come sempre nella storia della t., l'intelligenza della fede non s'identifica con la ricerca intellettuale che essa intraprende per accostarsi a una data dimensione dell'esistenza umana, anche se tale ricerca, definendo meglio le sfide poste alla fede, porta a stabilire priorità che incidono su una riflessione volta a trasformare la realtà, nel nostro caso attraverso l'opera di evangelizzazione. Pur riconoscendo il contributo che essa ha fornito in un determinato momento, oggi molti considerano la teoria della dipendenza come uno strumento insufficiente a spiegare la situazione attuale, e anche retrospettivamente si è più consapevoli dei limiti che ha sempre avuto.
La teologia come riflessione critica. - La t. della liberazione si presenta come una riflessione sulla prassi alla luce della fede. Per comprendere la portata di quest'affermazione occorre prendere in esame la questione che segna l'inizio del nostro discorso sulla fede, per riconoscere come in questa prospettiva il metodo teologico e la spiritualità siano strettamente legati tra loro.
Gran parte della t. contemporanea sembra aver preso come punto di partenza la sfida lanciata, fin dai tempi dell'Illuminismo, dallo spirito moderno che mette in discussione la fede e il mondo religioso, ed esige da esso una purificazione e un rinnovamento profondi. Ma nel mondo latino-americano e caribico la sfida viene in primo luogo non dal non credente, ma dalla ''non persona'', ossia da colui che non viene riconosciuto come persona dall'ordinamento sociale esistente: il povero, lo sfruttato, l'individuo sistematicamente e legalmente privato della sua qualità di uomo, colui che a stento si riconosce come essere umano. La non persona mette anzitutto in discussione, più che l'universo religioso, la realtà del mondo economico, sociale, politico e culturale, reclamando una trasformazione delle basi stesse di una società disumanizzante. Sorge allora il dubbio che nel nostro ambiente la domanda sia non "Come parlare di Dio in un mondo adulto?" (così la formulò D. Bonhoeffer in ambito europeo), bensì "Come annunziare Dio padre in un mondo disumano? Come dire alle non persone che sono figli di Dio?".
Nell'ottica della t. della liberazione, il ''contemplare'' Dio e il ''mettere in atto'' la sua volontà costituiscono il primo momento, e solo in un secondo momento è possibile ''pensare'' Dio: ciò significa che l'adorazione di Dio e il compimento della sua volontà sono condizioni necessarie per riflettere su di lui. In effetti, solo sulla base della preghiera e dell'impegno è possibile elaborare un discorso autentico e riverente su Dio. Nell'impegno, e concretamente nel gesto verso il povero, incontriamo il Signore (Matt. 25, 31-46), e al tempo stesso quest'incontro rende più profonda e più vera la nostra solidarietà col povero. Contemplazione e impegno nella storia sono dimensioni fondamentali della vita cristiana, dalle quali non si può prescindere nell'intelligenza della fede. Il mistero si rivela nella contemplazione e nella solidarietà con i poveri, in ciò che chiamiamo ''momento primo'' (la vita cristiana, la prassi); solo in seguito, in un ''momento secondo'', questa vita può ispirare un ragionamento. La t., in quanto riflessione critica − fatta alla luce della Parola accolta nella fede − sulla presenza dei cristiani in un mondo in fermento, deve aiutarci a vedere come può stabilirsi una relazione tra la vita della fede e l'esigenza di edificare una società giusta e umana. La t. è chiamata a rendere espliciti i valori di fede, di speranza e di carità racchiusi in quest'impegno, ma dovrà anche contribuire a correggere le possibili deviazioni e a ricordare certi aspetti della vita cristiana che rischiano di essere trascurati rispetto alle esigenze dell'azione politica immediata, per generosa che sia. Punto di partenza di ogni t. è l'atto di fede, inteso però non come semplice adesione intellettuale al Messaggio, ma come accoglimento vitale del dono della Parola ascoltata nella comunità ecclesiale, come incontro col Signore e amore per i fratelli, come esistenza presa nella sua totalità. Accogliere la Parola e renderla vita, gesto concreto, è all'inizio dell'intelligenza della fede, è il senso del credo ut intelligam di sant'Anselmo. Il primato dell'amore di Dio e la grazia della fede conferiscono al lavoro teologico la sua ragion d'essere: una t. autentica è sempre spirituale, come la intendevano i Padri della Chiesa. Ciò significa che la vita della fede è non solo il punto di partenza, ma anche il punto d'arrivo della riflessione teologica: credere (vita) e comprendere (riflessione) sono quindi associati in una relazione circolare.
La distinzione tra i due momenti che abbiamo chiamato ''primo'' e ''secondo'' è un punto chiave del metodo teologico, ossia del procedimento da seguire (il metodo, la via) per compiere una riflessione alla luce della fede. Negli Atti degli Apostoli, in cui sono narrati i fatti della prima comunità cristiana, questo modo di essere è chiamato "la via": un termine specifico e originale, usato spesso in forma assoluta, senza alcun aggettivo qualificativo. Seguire la via significa tenere una condotta, e in effetti il vocabolo ebraico derek, tradotto in greco con hodós, indica sia la via che la condotta. I primi cristiani si caratterizzano dunque per un comportamento, per uno stile di vita che li distingue dal mondo ebraico e pagano in cui vivono e rendono testimonianza: la loro condotta è un modo di pensare e di agire che li fa "camminare secondo lo Spirito" (Rom. 8,4). Il seguire Gesù definisce il cristiano: e quest'itinerario, secondo le fonti bibliche, è un'esperienza comunitaria, perché in verità è tutto un popolo a mettersi in marcia. Oggi i poveri dell'America latina si sono messi in moto nella lotta per l'affermazione della loro dignità umana e della loro condizione di figli di Dio, e in questo movimento si attua un'esperienza spirituale: si presentano cioè il luogo e il momento di un incontro col Signore, prende forma una ''via'' al seguito di Gesù.
Seguire Gesù è dunque il criterio in base al quale ci si orienta nell'attività teologica; si può dire quindi che la metodologia è in questo senso anche la spiritualità, ossia un modo di essere cristiani.
Annunziare il Vangelo di Cristo. - Sapere che il Signore ci ama, accogliere il dono gratuito del suo amore è la sorgente profonda della letizia di chi vive della Parola; comunicare questa letizia è evangelizzare, e verso questa comunicazione è orientata la riflessione della t. della liberazione. Annunziare il Vangelo significa annunziare il mistero della filiazione e della fraternità. Evangelizzare vuol dire quindi chiamare a raccolta in un'ecclesia, riunire in un'assemblea: solamente nell'ambito della comunità la fede può essere celebrata, approfondita e vissuta in un unico gesto come fedeltà al Signore e come solidarietà con tutti gli esseri umani.
Accettare la Parola significa convertirsi all'Altro, vivere con gli altri la Parola. La fede non si colloca su un piano privato e intimistico, è al contrario la negazione di ogni ripiegamento su se stessi. Il Dio che è annunziato da Gesù è autore di un appello universale, rivolto a ogni essere umano, ma è anche il Dio che ama di un amore preferenziale i poveri e i diseredati: l'universalità non contraddice questa predilezione (che non è esclusività), ma anzi la esige per precisare il proprio significato, mentre la preferenza trova il suo orizzonte nell'appello universale di Dio. Abbiamo qui la forma esplicita e autentica di ciò che Giovanni xxiii ha chiamato "la Chiesa dei poveri", vista come vocazione di tutta la Chiesa.
Nella nozione di liberazione si possono distinguere tre dimensioni o livelli: la liberazione sociale, politica ed economica; la liberazione dell'uomo nei suoi vari aspetti; e, alla radice, la liberazione dal peccato.
In tale processo, unitario ma non monolitico, vanno distinte più dimensioni tra loro inconfondibili, evitando sia la separazione che la commistione, sia il verticalismo che l'orizzontalismo. Questa prospettiva di "liberazione totale in Cristo" affermata dalla t. della liberazione è stata accolta nei documenti di Medellín (Justicia, n. 3) e più dettagliatamente in quelli di Puebla (nn. 321-29). I caratteri distintivi dei tre livelli sono: a) la liberazione sociale e politica mira a eliminare le cause dirette della povertà e dell'ingiustizia, in particolare certe strutture socioeconomiche. Su questa base si può cercare di costruire una società fondata sul rispetto dell'altro, specialmente dei più deboli ed emarginati; b) parlare di liberazione dell'uomo significa rendersi conto che, per quanto possa essere importante il mutamento delle strutture sociali, è necessario agire più in profondità: si tratta di liberare la persona umana da tutto ciò che le impedisce − non soltanto nella sfera sociale − di svilupparsi in libertà e in dignità. Siamo qui al livello di ciò che il Concilio Vaticano ii ha chiamato "nuovo umanesimo" (Gaudium et spes, 55); c) la liberazione dal peccato va più in profondità: in quanto rottura dell'amicizia con Dio e con gli esseri umani, il peccato è la ragione prima di ogni ingiustizia e di ogni separazione tra le persone, ed è chiaro che solo la grazia di Dio, l'opera redentrice di Cristo possono vincerlo. Questo livello della liberazione, il più profondo e radicale, ci porta alla comunione con Dio e con gli altri (Lumen gentium, 1).
La crescita del Regno è un processo che si attua storicamente nella liberazione, nella misura in cui questa è intesa come realizzazione dell'essere umano in una società nuova e fraterna. Ma il Regno non può essere identificato con le forme della sua presenza nella storia dell'uomo: esso si manifesta in eventi storici portatori di liberazione, e senza di essi non vi è crescita del Regno; ma il processo di liberazione non arriverà a distruggere le radici dell'oppressione e dello sfruttamento degli esseri umani se non con l'avvento del Regno, che è anzitutto un dono e una grazia.
Dal punto di vista della riflessione teologica, il problema che si pone nell'America latina è di trovare un linguaggio per parlare di Dio che nasca dalla situazione d'ingiusta povertà in cui vivono grandi masse di persone, e che al tempo stesso sia alimentato dalla speranza di un popolo in cerca della sua liberazione.
Ci sembra di poter dire che in queste terre di spoliazione e di speranza stanno nascendo un linguaggio profetico e un linguaggio mistico. Occorre parlare di Dio, come nel Libro di Giobbe, a partire dalla sofferenza dell'innocente: se il linguaggio della contemplazione riconosce che tutto proviene dall'amore gratuito del Padre, quello della profezia denunzia − indicandone le cause strutturali − la situazione d'ingiustizia e di deprivazione in cui vivono i poveri dell'America latina. In questo senso i documenti di Puebla parlano di saper scoprire "i tratti sofferenti di Cristo Signore" nei volti segnati dal dolore di un popolo oppresso (nn. 31-39: questo testo è stato poi recepito e ampliato nella conferenza di Santo Domingo, 1992). Senza la profezia, il linguaggio della contemplazione rischia di non incidere sulla storia in cui Dio opera e in cui noi lo incontriamo; senza la dimensione mistica, il linguaggio della profezia potrebbe restringere la sua visione e attenuare la percezione di Colui che rende nuova ogni cosa. Tra la grazia e l'esigenza della giustizia si svolge la vita cristiana. All'origine c'è, onnicomprensivo, l'amore libero e gratuito di Dio; ma questo dono richiede un comportamento che si traduca in opere d'amore verso il prossimo, e in particolare verso i derelitti.
I due linguaggi intendono comunicare il dono del Regno di Dio rivelato nella vita, morte e risurrezione di Gesù, La t. nasce in una Chiesa che nella storia deve rendere testimonianza di una vita vittoriosa sulla morte. Accettare una realtà di morte e di peccato significa negare la risurrezione: testimone della risurrezione è invece colui che può rivolgere alla morte, secondo le parole della Scrittura, l'ironica domanda "Dov'è la tua vittoria?". Ed è questa, in effetti, la domanda che emerge da testimonianze come quella del vescovo salvadoregno O.A. Romero e di molti altri.
Celebrare la vita nell'eucaristia è funzione primaria della comunità ecclesiale. Dividere il pane è al tempo stesso il punto di partenza e quello d'arrivo della comunità cristiana: in essa si esprime la profonda comunione nel dolore umano, spesso provocato dalla mancanza del pane, e si riconosce in letizia il Risorto che dà la vita e innalza la speranza del popolo chiamato a raccolta dal suo gesto e dalla sua parola.
Prospettive della teologia della liberazione. Sviluppi futuri. - La t. della liberazione rimarrà vitale nell'America latina finché vi saranno dei poveri e dei credenti che respingono, partendo dalla fede nel Dio della vita, la povertà e l'ingiustizia. Ma "non vi sarà una vera teologia della liberazione finché gli stessi oppressi non potranno innalzare liberamente la loro voce ed esprimersi direttamente e creativamente nella società e in seno al popolo di Dio" (Gutiérrez 1971, p. 433).
Fin dall'inizio l'autenticità di questa t. è dipesa dal ruolo attivo esercitato nella vita sociale ed ecclesiale dai cristiani poveri e da coloro che s'impegnavano a loro favore: si è sempre trattato di una t. posta al servizio dell'evangelizzazione dei poveri a partire da essi, con tutte le conseguenze che ciò implica in campo sociale. In effetti, in questo scorcio del secolo 20° tale processo è appena cominciato, perché i poveri non sono ancora arrivati a far sentire liberamente la loro voce nella società e nella Chiesa latino-americana. Di fronte all'irruzione dei poveri, la vera novità continua a essere la testimonianza di solidarietà della Chiesa, spinta fino all'estremo sacrificio di alcuni suoi membri. Questa testimonianza ha favorito nell'America latina la fioritura di una nuova sensibilità che ha influito su tutta la cultura della nostra società.
Le nuove sfide. Nell'America latina, così come sul piano internazionale, il sistema socioeconomico si rinnova tecnologicamente e provoca l'emarginazione sociale dei più deboli, rendendo più drammatica la situazione con l'impedire definitivamente alla grande maggioranza l'accesso al lavoro e la partecipazione ai suoi benefici. Negli anni Novanta la povertà dovuta all'emarginazione è cresciuta, mentre il sistema, grazie all'innovazione tecnologica, produce in abbondanza con minor impiego di manodopera e di materie prime. I poveri, molti dei quali prima si organizzavano a seconda delle condizioni di lavoro (spesso di sfruttamento) tradizionali, vanno perdendo sempre più la relativa stabilità entro cui si situava la loro povertà e vedono quindi accrescersi l'insicurezza economica: esclusi dalla produzione, sommersi dal mercato, non hanno altra alternativa che competere tra loro per accedere al lavoro. I ceti popolari dell'America latina hanno sofferto in questi anni sia per le conseguenze delle difficoltà incontrate dai tentativi di mutamento sociale, sia per l'avvento dell'ideologia neoliberale, fautrice di un radicale individualismo. Questa situazione richiede dalla Chiesa un rinnovato impegno verso i poveri del continente, e le propone un lavoro di riflessione teologica che include nuovi campi. In tale contesto si può dire che la validità della t. di liberazione si basa su tre punti fondamentali: la prospettiva metodologica, la nozione di liberazione, nei suoi vari livelli, e la "scelta preferenziale a favore dei poveri".
La teologia come ''momento secondo''. Stando a quest'impostazione innovatrice, per fare t. sono essenziali la preghiera e l'impegno all'interno della storia in quanto prassi su cui riflettere alla luce della fede. La nuova situazione richiede l'approfondimento della funzione pedagogica e sapienziale di questa t., che ha il compito di guidare alla scoperta di nuovi punti di riferimento e di correggere i modi di essere evasivi e le eventuali cadute di tensione della vita cristiana, favorendo l'ancoraggio di quest'esperienza alla realtà e specialmente alla sua complessità storica. Di fronte alla gravità della crisi e all'emarginazione subita dai poveri, il loro "diritto a pensare la propria fede" si fa più pressante: la t. dev'essere conoscenza della vita in mezzo alla morte quotidiana, proprio per difendere, promuovere e celebrare la vita.
La liberazione e i suoi livelli. Se in passato il distinguere tre dimensioni o livelli della liberazione all'interno di un unico processo aveva lo scopo di combattere i riduzionismi (quello politico e quello spiritualista), oggi il problema è di affrontare la rinascita delle commistioni tra la sfera politica e quella religiosa, ossia gli integralismi.
In questo contesto è essenziale contribuire alla ricostruzione dell'identità degli individui così che possano diventare persone libere prima ancora che si arrivi a un'estesa liberazione sociale e politica. L'emarginazione sociale ed economica di cui parlavamo prima genera non solo povertà, ma anche cattiva salute, gravi sofferenze, traumi e crisi personali profonde. La t. dovrà affrontare anche quest'aspetto del problema, dialogando con la psicologia e con altre discipline per sostenere la liberazione e recuperare la speranza di ognuno, specialmente dei poveri; soprattutto, bisognerà rafforzare la personalità individuale promuovendo l'unione della vocazione personale (amore di sé, autostima) con quella sociale e politica (amore per i poveri, carisma di servizio).
È essenziale inoltre approfondire l'affermazione della t. della liberazione secondo cui il peccato è la radice ultima dell'ingiustizia e della discriminazione sociale. In questi ultimi tempi l'analisi degli aspetti sociali del peccato ha portato alla nozione di ''peccato sociale'', la cui ispirazione biblica appare chiara, ma le cui applicazioni al nostro tempo dovranno essere ancora oggetto di studio. Un esempio potrebbe essere dato dall'idolatria del denaro, del potere e del consumo presente nella società contemporanea: l'esame di questo tema metterà in risalto la profondità e la gratuità dell'azione salvifica di Cristo.
La scelta a favore dei poveri. L'aver messo in evidenza la prospettiva della scelta preferenziale a favore dei poveri e il suo fondamento biblico è senza dubbio uno dei contributi più importanti forniti dalla Chiesa latino-americana e dalla t. della liberazione. Il criterio fondamentale per verificare la prassi della liberazione è l'affermazione del valore della persona umana in una cultura in continua trasformazione. Da parte dei poveri si è esteso l'impegno verso la liberazione, che ha imboccato strade promettenti a partire dalla presa di coscienza della propria identità e dignità d'indigeno o di negro, o della propria appartenenza alla condizione femminile.
Dalla prospettiva liberatrice hanno avuto così origine alcuni movimenti dotati di un fecondo spessore teologico: la t. secondo l'ottica femminile, che nasce dal risveglio della donna, divenuta consapevole della propria dignità e soggetto di liberazione, ed è la risposta a una sprezzante sottovalutazione della donna − specialmente di quella povera, doppiamente oppressa ed emarginata − in un'America latina in cui il maggior peso della vita e dell'ingiustizia ricade su di lei. Il riconoscimento della condizione della donna, della sua diversa sensibilità e comprensione, è anche un punto di partenza per conoscere Dio e per vivere nella Chiesa; la t. india, che, partendo dall'attuale realtà di oppressione delle popolazioni indie dell'America latina e dalla loro importanza decisiva per la cultura latino-americana, accoglie l'apporto delle loro tradizioni culturali e religiose, trascurate a causa della pretesa supremazia culturale moderna, e cerca di ripensare la fede considerando i caratteri peculiari di quelle tradizioni; la t. negra, che cerca di parlare di Dio in base all'esperienza di una secolare discriminazione razziale e della condizione dei negri nell'America latina, e riconosce la ricchezza della loro cultura, elaborata come rifiuto della schiavitù e come recupero di specifici valori ancestrali.
La coscienza ecologica è sempre stata viva nel continente latino-americano, specialmente fra le popolazioni contadine e fra gli indios. L'attuale regime, imposto a danno dell'armonia interna della realtà naturale, si fonda su una depredazione e una distruzione che sono gravide di conseguenze per il futuro sviluppo non solo dell'America latina, ma anche di tutta l'umanità.
Il creato è non soltanto un oggetto di dominio, ma il luogo in cui gli esseri umani s'incontrano in armonia, in modo che i più deboli non abbiano a soffrirne. Liberare il mondo dalla depredazione fa parte di un atteggiamento di solidarietà con i poveri: il mondo diventa allora un mezzo per dare vita ai più deboli, un luogo di esperienza disinteressata e ludica e non "un semplice deposito di materiali da costruzione". Nello sviluppare questo progetto bisognerà naturalmente evitare di cadere in un vacuo naturismo, estraneo a chi soffre.
La scelta preferenziale a favore dei poveri è una prospettiva importante per la riflessione sia ecclesiologica sia cristologica. Tale scelta si fonda sulla gratuità dell'amore di Dio e sull'autoidentificazione di Gesù con il povero.
La "Chiesa dei poveri" fu il disegno perseguito da Giovanni xxiii per edificare una Chiesa di tutti, e la scelta preferenziale a favore dei poveri indica la strada verso un'autentica universalità. La nuova situazione mondiale, caratterizzata dalla presenza del Mondo, incita a "guardare lontano", come diceva Giovanni xxiii, tenendo conto delle necessità e della pluralità dei poveri e restando fedeli alla Chiesa di Cristo.
Bibl.: Medellín. Documenti della seconda Conferenza generale dell'Episcopato latinoamericano, Bologna 1969, 19773; G. Gutiérrez, Teología de la liberación, Lima 1971; Puebla. L'evangelizzazione nel presente e nel futuro dell'America Latina. Documenti della terza Conferenza generale dell'Episcopato latinoamericano, Puebla de Los Angeles, Messico, 27 gennaio-13 febbraio 1979, Bologna 1979; Nueva evangelización, promoción umana, cultura cristiana. Cuarta Conferencia general del Episcopado latinoamericano, Santo Domingo, Republica Dominicana, 12-28 de octobre 1992, Bogotà 1992.
Teologia politica. - Sotto la categoria di ''t. politica'', che risale ad antiche origini non cristiane, ricadono, per quanto riguarda il 20° secolo, soprattutto due posizioni, una elaborata nell'ambito del diritto pubblico e della filosofia del diritto, l'altra nell'ambito propriamente teologico. Queste due posizioni hanno in comune il fatto che si trovano in conflitto con i processi dell'Illuminismo europeo e con le conseguenze politiche e culturali da esso derivate. C. Schmitt, filosofo del diritto e dello stato, aveva sviluppato la sua t. politica (Politische Theologie, 1922) nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, richiamandosi alle teorie di diritto pubblico del cosiddetto tradizionalismo francese, critiche nei confronti dell'Illuminismo. Con la sua concezione decisionistica della sovranità e con la sua teoria giuridica che criticava la democrazia e avversava il parlamentarismo, questa t. politica divenne tragico sostegno intellettuale alla concezione nazionalsocialista dello stato-guida, per di più con accenti antisemiti.
Questa t. politica − che si può dire ''teologica'' solo in quanto considera tutti i concetti giuridici come concetti teologici secolarizzati ed esalta il cattolicesimo come paradigma delle forme di vita predemocratiche − è divenuta un esempio influente di tutti quegli orientamenti politici, giuridici e culturali in genere che (nella storia tedesca) ritenevano di aver superato l'Illuminismo senza averlo attraversato.
A partire dalla metà degli anni Sessanta è venuta affermandosi una nuova versione della t. politica, subito designata anche come ''nuova teologia politica''. Il suo programma, elaborato soprattutto da J.B. Metz nel quadro della t. cattolica e in particolare dell'ecclesiologia, si rivelò presto stimolante anche sul piano ecumenico (in area di lingua tedesca grazie soprattutto ai lavori di J. Moltmann e D. Sölle). Venivano così valorizzati pensatori come E. Bloch e gli esponenti della scuola di Francoforte, nonché, sul versante cristiano, S. Kierkegaard e D. Bonhoeffer, interpretati in chiave non esistenzialistica, e veniva altresì riscoperta sempre più la rimossa eredità ebraica presente nel cristianesimo; e questo, inoltre, in netto contrasto con i paradigmi concettuali di tipo neoscolastico o idealistico-trascendentale fin allora dominanti in teologia. Nella sua sostanza, infatti, la nuova t. politica non è né una variante dell'etica cristiana né una dottrina sociale cristiana, ma una t. sistematica che sa di dovere molto ad autori come K. Rahner, K. Barth, R. Bultmann ai quali pure si rivolge con interrogativi critici. E non va dimenticato che in questa nuova t. politica hanno trovato il loro humus anche la t. della liberazione e la t. del femminismo. Soggetto, prassi e alterità divengono i temi guida della teologia. Ben a ragione la nuova t. politica è stata qualificata come ''postidealistica'', carattere che essa rivela in quanto assume nella scienza e nella coscienza teologica la provocazione dell'Illuminismo, l'esperienza di Auschwitz e la sfida all'Europa da parte del Terzo Mondo. Di fronte a realtà di questo genere, la t. viene a trovarsi nel pieno di una rottura sociale, storica e culturale, di una svolta di cui appunto la nuova t. politica cerca di prendere precisa coscienza.
La provocazione illuminista. - Prima di tutto, essa cerca di elaborare l'abbandono, da parte della t., della sua innocenza sociale e politica. Un simile abbandono era in realtà già proclamato e imposto dall'Illuminismo europeo e poi dalla critica delle ideologie e della religione del secolo scorso. E intanto è divenuta ineludibile la questione di quali siano i soggetti e i contesti dei processi teologici: "Chi fa teologia? Quando e dove e per chi?". È questa, appunto, la domanda di fondo che si pone la nuova t. politica. Non si tratta di questioni marginali, ma di questioni centrali e costitutive della teologia.
La nuova t. politica parte dalla constatazione che, dopo l'Illuminismo, il tema classico del rapporto tra fides e ratio, l'assioma della fides quaerens intellectum, dev'essere trattato a un nuovo livello, che possiamo a buon motivo definire ''politico'': il cristianesimo deve misurarsi con una ragione ed essere trasmesso tramite una ragione che per parte sua vuole divenire pratica e realizzarsi come libertà, anche come libertà degli altri, e quindi come giustizia. Questo è il principio teologico fondamentale della nuova t. politica, la quale non vuole ridursi soltanto a etica politica, o a dottrina sociale o a pastorale. Certo, essa ha anche forza di orientamento dell'azione. La sua concezione del mutamento sociale include l'idea di una libertà capace di colpa e bisognosa di conversione. Ciò non deve voler dire un romantico prendere le distanze dalla politica; deve semplicemente sottrarre alla politica la base dell'odio e della violenza. Molte posizioni della nuova t. politica possono essere racchiuse sotto l'etichetta di ''mistica e politica'', intendendo con questo, però, non già una mistica del potere e del dominio politico, ma − per dirla in metafora − una mistica empatica degli occhi aperti, una mistica di rafforzata capacità di percepire la sofferenza ''invisibile''.
La nuova t. politica, naturalmente, ha anche conseguenze ecclesiologiche. In essa, per es., la Chiesa viene intesa come ''istituzione in cui vive la libertà della fede che critica la società'', o anche come ''trasmettitrice pubblica di una memoria pericolosa''. Questa ''Chiesa nella forza dello Spirito'' si dispiega per la nuova t. politica in volti molteplici: da Chiesa dell'assistenza a Chiesa del servizio, a Chiesa orientata verso le comunità di base. In questo quadro, la nuova t. politica si pone criticamente anche nei confronti di quell'intesa (insensibile alle contraddizioni dei processi illuministici) fra Illuminismo e cristianesimo che assume la forma di ''religione borghese'', e nei confronti dell'estrema privatizzazione della fede che la anima. Il tentativo della nuova t. politica di prendere sul serio l'Illuminismo come cultura politica non la rende cieca di fronte all'incompiutezza e all'ambivalenza dei processi illuministici.
L'esperienza di Auschwitz. - La nuova t. politica considera Auschwitz come un segnale dell'abbandono, da parte della t. sistematica, della sua presunta innocenza storica. In questo senso la nuova t. politica cerca di distaccarsi da un idealismo privo di riferimenti a soggetti e situazioni concreti, caratterizzato da un alto grado di apatia nei confronti dell'infelicità degli altri, delle catastrofi e dei crolli della storia. Insieme con la t. della liberazione, la nuova t. politica sottolinea che il pensiero teologico deve ogni volta lasciarsi ''interrompere'' dalla visione delle vittime della storia.
La nuova t. politica è segnata da un terrore: quello che nella t. si ascolti e si veda così poco la storia delle sofferenze degli uomini. Si può fare t. cristiana volgendo le spalle ad Auschwitz? Questa è stata una delle inquietanti domande di partenza della nuova t. politica. Forse si può dire che questa t. cerca di rendere indimenticabile, nel logos della teo-logia cristiana, il grido delle vittime di Auschwitz. In questo senso la nuova t. politica si distacca da ogni idealismo vuoto di umanità e senza volto. Per la nuova t. politica il logos della teo-logia è segnato da una memoria storica (non a caso la ''memoria pericolosa'' è divenuta una delle sue categorie centrali) che non può rimuovere né può dimenticare o eliminare idealisticamente la storia del dolore degli uomini.
La sfida del Terzo Mondo. - La nuova t. politica assume esplicitamente come dato di partenza il fatto che la situazione empirica di fondo del cristianesimo e della Chiesa si è modificata negli ultimi tempi: oggi la Chiesa non ''ha'' più semplicemente nel suo seno una Chiesa-del-Terzo-Mondo, ma piuttosto essa ''è'' sempre più Chiesa-del-Terzo-Mondo con alle spalle un'irrinunciabile storia europea delle origini. E ciò comporta un ulteriore distacco, di cui la nuova t. politica cerca di tener conto. Da un lato, con essa passa al centro dell'attenzione teologica la divisione sociale del mondo, il cosiddetto conflitto Nord-Sud, che passa attraverso il cristianesimo e la Chiesa. Fenomeni che contraddicono direttamente il Vangelo − come l'umiliazione, lo sfruttamento, l'impoverimento, il razzismo − divengono sfide anche per la teologia. Esse richiedono la formulazione della fede in categorie di resistenza e cambiamento. Dall'altro lato, questa nuova situazione di partenza contiene in sé il passaggio da una Chiesa europea culturalmente più o meno monocentrica a una Chiesa mondiale culturalmente policentrica.
Ciò costringe la t. a distaccarsi infine dalla sua presunta innocenza etnico-culturale, e anche di questa svolta la nuova t. politica cerca di tener conto. Come inizio, essa lavora allo sviluppo di una nuova cultura ermeneutica postidealistica: la cultura del riconoscimento dell'altro nel suo essere altro. Tale cultura ermeneutica, alla quale è effettivamente estranea ogni ''volontà di potenza'' nel riconoscimento degli altri, e per la quale esistono sicuramente punti d'appoggio nella Bibbia, è stata continuamente messa in ombra nella storia dell'Europa come nella storia delle missioni della Chiesa. E qui la nuova t. politica non può non coinvolgere una problematica attuale, con alcuni elementi di carattere decisamente politico. Non si tratta, in questa ermeneutica del riconoscimento, di difendere un totale relativismo dei mondi culturali, che porta già in sé il germe di nuova violenza. L'idea del riconoscimento che la nuova t. politica cerca e promuove nel cristianesimo non può quindi prescindere dalla tensione tra l'autenticità dei diversi mondi culturali e l'universalismo dei diritti dell'uomo sviluppatosi originariamente nelle tradizioni europee. Il che certamente non esime il cristianesimo dal dovere di rispettare le caratteristiche proprie delle identità sociali e culturali e di verificare continuamente su di esse i vincoli di sistema della civiltà occidentale, che si presumono neutrali e liberi dal punto di vista politico e morale.
Di fronte a simili questioni e altre analoghe appaiono chiare anche le carenze che la nuova t. politica presenta allo stato attuale, e gli interrogativi che rimangono aperti. Ci si può chiedere, cioè, se nello sforzo di conquistarsi una propria identità teologica e una propria competenza politica, essa forse non abbia trascurato troppo quegli ambiti e quelle discipline come il diritto, l'economia, ecc. di cui non si può fare a meno per una migliore determinazione della vita politica. Se non sia quindi rimasta troppo una metafisica politica. Se ha chiarito a sufficienza il rapporto fra teoria e prassi, che costituisce una delle sue questioni di fondo. Se il mutamento strutturale della vita pubblica è sufficientemente considerato nel suo programma di deprivatizzazione. Se ha per caso sottovalutato la secolarizzazione del mondo, contro la cui astratta generalizzazione essa muove appunti critici.
Bibl.: J.B. Metz, Zur Theologie der Welt, Magonza 1968 (trad. it., Brescia 1969, 19743); J.B. Metz, J. Moltmann, W. Oelmüller, Kirche im Prozess der Aufklärung. Aspekte einer neuen ''politischen Theologie'', Monaco 1970 (trad. it., Una nuova teologia politica, Assisi 1972); AA.VV., Dibattito sulla 'teologia politica', Brescia 1971; D. Sölle, Politische Theologie. Auseinandersetzung mit Rudolf Bultmann, Stoccarda 1971; J. Moltmann, Der gekreuzigte Gott, Monaco 1972 (ed. ingl. The Crucified God, Londra 1974); AA.VV., Ancora sulla 'teologia politica': il dibattito continua, Brescia 1975; J.B. Metz, Glaube in Geschichte und Gesellschaft. Studien zu einer praktischen Fundamentaltheologie, Magonza 1977 (trad. it., Brescia 1978, 19852); Id., Zeit der Orden? Zur Mystik und Politik der Nachfolge, Friburgo 19773 (trad. it., Brescia 1978); J. Moltmann, Politische Theologie - Politische Ethik, Monaco 1984; J.B. Metz, F.-X. Kaufmann, Zukunftsfähigkeit, Friburgo 1987 (trad. it., Brescia 1988); J.B. Metz, T. Peters, Gottespassion, Friburgo 1991 (trad. it., Brescia 1992).