Ruoli, teoria dei
Il fatto che individui assai diversi per carattere, appartenenza di genere e origini si comportano nello stesso modo quando occupano la stessa posizione nella struttura sociale è stato al centro dell'interesse della sociologia sin dai suoi inizi: quali sono i meccanismi sociali che determinano questa uniformità di comportamento tra i detentori di una data posizione? quali effetti ciò ha per la struttura sociale, e in che modo gli individui autocoscienti reagiscono al fatto che come detentori di una posizione sociale sono eguali ad altri detentori di posizioni? Il concetto centrale che i sociologi hanno elaborato e in parte ancora utilizzano per rispondere a questi interrogativi e ad altri correlati è quello di ruolo sociale.
Come accade in altre scienze, anche nell'ambito della sociologia l'individuazione dei concetti fondamentali della disciplina e la loro esatta definizione sono oggetto di controversie. Il concetto di ruolo esemplifica con particolare chiarezza queste discordanze di opinione. Come dimostrano le numerose, differenti definizioni che sono state date di tale concetto, le divergenze cominciano già quando si tratta di stabilire quale fatto sociale dovrebbe indicare esattamente il termine 'ruolo'. Nessun altro concetto sociologico ha portato a una tale proliferazione di creazioni linguistiche come quello di ruolo: comportamento di ruolo, distanza dal ruolo, ambivalenza di ruolo, competenza di ruolo, figurazione e configurazione di ruoli, o ancora stress di ruolo, tensione di ruolo, sovraccarico di ruolo non sono che alcuni esempi. Altrettanto ampia nella letteratura è la gamma di aggettivi usata per qualificare il concetto - ruoli multipli, totali, periferici, centrali, specifici, diffusi, ascritti, acquisiti - termini ai quali per di più i vari autori attribuiscono diverso significato. Già nel 1961 Erving Goffman sintetizzava come segue la situazione: "Vi sono pochi concetti in sociologia così comunemente usati come quello di ruolo, ai quali viene attribuita la stessa importanza, e che vacillano così vistosamente ad un esame più ravvicinato" (v. Goffman, 1961, p. 85).
Da alcuni anni si è cominciata a mettere in dubbio la centralità del concetto di ruolo e delle teorie dei ruoli nella sociologia. La proposta avanzata da alcuni autori di escludere la nozione di ruolo dal repertorio di concetti di base della disciplina denota una nuova fase di declino nelle alterne vicende che hanno caratterizzato la storia della teoria dei ruoli nella sociologia. Una rapida ricognizione di tale storia aiuterà a capire perché il dibattito sul concetto di ruolo investa i fondamenti stessi della sociologia.
Occorre tener presente innanzitutto che l'evoluzione della teoria sociologica dei ruoli è stata diversa nell'Europa continentale e nell'area nordamericana. Negli Stati Uniti l'analisi sistematica dei ruoli ebbe inizio negli anni venti del Novecento, e da allora lo studio empirico e teorico in questo campo d'indagine non ha avuto soluzioni di continuità. In Europa, per contro, il concetto di ruolo venne introdotto esplicitamente in sociologia solo dopo la seconda guerra mondiale, suscitando immediatamente un dibattito importante ma alquanto unilaterale rispetto alla tradizione anglosassone. In particolare, nella Germania occidentale la discussione sul concetto di ruolo culminò nell'artificiosa contrapposizione tra individuo (sinonimo di libertà) e società (sinonimo di coercizione). Lo spettacolare successo che godette la sociologia negli ambiti accademici e tra il più vasto pubblico dell'Europa occidentale nel corso degli anni sessanta e settanta fu dovuto non da ultimo all'affermarsi straordinariamente rapido della teoria dei ruoli sia tra i sociologi che tra i profani con interessi scientifici. All'epoca l'analisi dei ruoli costituiva una componente irrinunciabile della formazione di base in sociologia. Non esisteva manuale che non riportasse una dettagliata illustrazione della categoria del ruolo. Anche altre discipline, soprattutto la pedagogia e la psicologia sociale, introdussero ben presto nel loro repertorio concettuale la nozione di ruolo e le teorie correlate. Nei decenni successivi tuttavia la teoria dei ruoli andò perdendo la posizione di primo piano detenuta sino a quel momento. Proprio l'uso generalizzato e la grande popolarità delle metafore attinte dalla teoria dei ruoli contribuirono a banalizzarla prima ancora che fosse stata elaborata in modo sufficientemente approfondito sul piano sia teorico che empirico. Oggi accade spesso di cercare invano nei manuali di sociologia più importanti una trattazione del concetto di ruolo, che nel migliore dei casi viene esaminato solo sotto alcuni punti di vista e in modo del tutto marginale (v. ad esempio Bagnasco e altri, 1997; v. Esser, 1993, pp. 231-232; v. Giddens, 1989).
Un concetto fondamentale della sociologia sul quale sussiste una tale divergenza di opinioni e che ha conosciuto tali alti e bassi nella storia della disciplina suscita da un lato un certo scetticismo, dall'altro stimola il desiderio di venire a capo dei problemi che pone. Una cosa innanzitutto è certa: è del tutto ingiustificato sia eliminare la nozione di ruolo dal repertorio dei concetti base della disciplina, come tende a fare la sociologia contemporanea, sia utilizzarla come concetto polemico in chiave antisociale, come hanno fatto alcuni eminenti sociologi negli anni sessanta e settanta. Tra questi va citato in primo luogo Ralf Dahrendorf, esponente di una teoria che vede nei ruoli un fattore di coercizione. Poiché la teoria dell'homo sociologicus elaborata da Dahrendorf all'epoca ebbe vasta risonanza e continua tuttora ad esercitare una notevole influenza su molti sociologi (v. per esempio Schimank 2000, pp. 44-54), sarà opportuno esaminarne i tratti fondamentali.
L'"homo sociologicus" di Dahrendorf. - Concepito durante un soggiorno presso il Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences di Palo Alto, in California, lo scritto di Dahrendorf Homo sociologicus apparve per la prima volta nel 1958 sotto forma di un esteso saggio in due parti nella "Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie" (v. Dahrendorf, 1958), e appena un anno dopo fu pubblicato come libro (v. Dahrendorf, 1959 e 1967, pp. 383-384). Importanti prese di posizione critiche, in particolare da parte di Friedrich H. Tenbruck (v., 1961) e Heinrich Popitz (v., 1967) indussero dopo qualche tempo l'autore a riconoscere l'insostenibilità di alcune delle tesi proposte in quel saggio (v. Dahrendorf, 1967, p. 384). Tuttavia lo scritto continuò ad essere pubblicato senza modifiche ed ebbe ben quindici edizioni (v. Dahrendorf, 1977¹⁵). Le traduzioni in numerose lingue contribuirono alla sua diffusione a livello internazionale (v. Dahrendorf, 1968 e 1973). Solo a vent'anni di distanza Dahrendorf definì l'Homo sociologicus un "peccato di gioventù", ma questa ammissione arrivò troppo tardi per poter fare piazza pulita degli errori che la sua concezione dei ruoli e della società aveva ingenerato. Le posizioni di Dahrendorf possono essere sintetizzate nei sei punti fondamentali seguenti:
1. Il concetto di ruolo viene introdotto per istituire una mediazione tra le due categorie rigorosamente separate di 'individuo' e 'società'. Sulla scorta di un umanesimo idealistico e romanticamente trasfigurato, Dahrendorf esprime un giudizio morale diverso per le due categorie: la società sarebbe un "fatto vessatorio" (ärgerliche Tatsache), che ad ogni piè sospinto si contrappone all'uomo in lotta per la libertà. La libertà individuale equivarrebbe alla liberazione dal "fatto vessatorio" costituito dalla società (v. Archer, 1995, p. 1).
2. La sociologia avrebbe a che fare con un duplice uomo, da un lato quello "autentico e reale, dall'altro quello artificiale, l'homo sociologicus" (v. Dahrendorf, 1967, p. 133).
3. L'homo sociologicus è tale in quanto detentore di ruoli. Per 'ruolo' Dahrendorf intende un insieme oggettivato e in via di principio indipendente dall'individuo di prescrizioni di comportamento (o norme), i cui contenuti sono definiti dalla società. La sottomissione dell'uomo all'obbligo della conformità alle norme lo trasformerebbe in homo sociologicus (ibid. p. 146). Anche se le norme non sono tutte vincolanti nella stessa misura (Dahrendorf distingue tra 'si deve', 'si dovrebbe', 'si può': ibid. p. 149), ciò non toglie nulla alla loro natura coercitiva.
4. La definizione dei ruoli sociali come prescrizioni di comportamento imposte dalla società ha come conseguenza l'associazione tra il concetto di ruolo e quello di sanzione. "Chi non svolge il proprio ruolo viene punito; chi lo svolge viene lodato, o perlomeno non viene punito" (ibid., p. 146). Le sanzioni costituirebbero il meccanismo sociale attraverso cui si ottiene la conformità al ruolo. La società si presenta dunque all'individuo come istanza punitiva.
5. L'idea che le sanzioni siano il meccanismo di controllo del comportamento di ruolo prescritto porta in ultimo a istituire un rapporto causale tra conformità al ruolo e stabilità della società. Sottomettendosi ai meccanismi sanzionatori, l'homo sociologicus contribuirebbe volente o nolente alla conservazione della società nel suo status quo. I ruoli sociali pertanto non avrebbero unicamente il compito di fare da intermediari tra individuo e società, ma anche quello di garantire la conservazione di quest'ultima a prezzo della libertà del primo.
6. Di qui, secondo Dahrendorf, il compito morale della sociologia di liberare l'uomo dalla 'vessazione della società', vale a dire dalla coercizione dei ruoli. Guidato dall'ideale dell'individuo a- (e anti-) sociale, Dahrendorf attribuisce alla sociologia principalmente il compito di sostenere l'uomo nei suoi sforzi di riconquistare una propria sfera di libertà individuale sottraendola alla società. La dinamica e il mutamento sociale possono partire solo da individui liberati dalla coercizione dei ruoli. Per Dahrendorf, quindi, la nozione di ruolo assume le connotazioni negative di un concetto polemico contro la società come istituzione coercitiva.Il ruolo come maschera. - Questa immagine del ruolo come coercizione sociale venne integrata negli anni sessanta e settanta con la teoria marxiana dell'alienazione, secondo cui il ruolo è una maschera della persona. Nelle condizioni della proprietà privata del capitale né il proletariato né i capitalisti avrebbero la possibilità di realizzarsi attraverso il lavoro. Nella società borghese il loro Io "reale", "autentico", verrebbe celato da una maschera imposta dal modo di produzione capitalistico (v. Haug, 1972; v., Joas, 1978³, pp. 98-101). Il concetto di "uomo a una dimensione" coniato da Herbert Marcuse (v., 1964) è un'altra versione della teoria marxiana dell'alienazione: il prodotto della coercizione rappresentata dai ruoli sociali sarebbe un uomo dimidiato, accompagnato ovunque dal sentimento della propria insignificanza. L'uomo a una dimensione di Marcuse e l'homo sociologicus di Dahrendorf condividono il medesimo destino di una esistenza dimidiata a causa dell'imposizione di una maschera o di un ruolo.
Le diverse sfumature del concetto di ruolo nella teoria della coercizione riflettono l'orientamento antisociale che improntava sia la sociologia marxista che la sociologia liberale del secondo dopoguerra. Il concetto di ruolo divenne la principale categoria negativa della nuova sociologia dell'Europa continentale, che si trovò quindi sin dall'inizio in contrasto con quella americana, che interpretava il concetto di ruolo in chiave di affermazione della società. Tale contrapposizione diede luogo a vari tentativi di elaborare teorie dei ruoli alternative, che tenevano conto in vario modo delle teorie delle classi e del potere, come ad esempio la "teoria critica dei ruoli" di Uta Gerhardt (v., 1971), quella di Hans Joas (v., 1978) o di Hans Dreitzel (v., 1980).
All'inizio degli anni settanta Thomas P. Wilson (v., 1970) riuscì a strutturare il dibattito sulla teoria dei ruoli associando le diverse posizioni a due distinti ' paradigmi', quello normativo e quello interpretativo. Tra i rappresentanti del 'paradigma normativo' Wilson annoverava principalmente gli esponenti dello struttural-funzionalismo, segnatamente Ralph Linton, Talcott Parsons, Edward Shils e Robert K. Merton. Questi autori, a suo avviso, sarebbero accomunati da una immagine negativa dell'uomo, in cui gli individui soddisfano come automi le aspettative normative associate ai loro ruoli. L'importanza attribuita da questi autori al meccanismo delle sanzioni evidenzierebbe questa concezione negativa dell'uomo come essere che solo attraverso la punizione può essere preservato dalla devianza. A caratterizzare gli esponenti del paradigma normativo sarebbe una tendenza conservatrice, come dimostra l'affermazione secondo cui la trasformazione della società può avvenire solo quando cambiano le esigenze funzionali della società stessa, che si traducono in nuove prescrizioni di ruolo. Dagli individui come detentori di ruoli non può provenire alcun impulso di trasformazione sociale. L'associazione in blocco ad un paradigma normativo unitario di una serie di contributi teorici dello struttural-funzionalismo estremamente diversi tra loro e il loro contemporaneo discredito come teorie improntate ad una ideologia conservatrice contribuì ad ostacolare tra i sociologi europei la recezione dell'analisi dei ruoli estremamente differenziata e approfondita sul piano empirico sviluppata fino a quel momento soprattutto dagli autori nordamericani.
Il paradigma interpretativo che Wilson contrappone a quello normativo mette in discussione l'assunto del consenso cognitivo presupposto da quest'ultimo. I detentori dei ruoli non sono semplici automi che seguono pedissequamente norme prefissate e universalmente riconosciute, ma nel corso di processi interpretativi e in via di principio mai conclusi cercano di stabilire se un singolo comportamento possa o meno essere inscritto in un contesto dell'azione più ampio. In questo processo, detto anche interpretazione 'documentaria' o 'indessicale', le singole azioni sono intese come documenti da cui è possibile inferire l'esistenza di modelli di comportamento. Siffatti processi interpretativi non vengono valutati alla luce di strutture di ruolo fisse e unicamente dal punto di vista della conformità o della devianza rispetto alle norme, ma al loro stesso interno si svilupperebbero quei tratti distintivi dell'agire che, in base alle ipotesi correnti, possono essere associati con un grado maggiore o minore di probabilità a un determinato modello dell'agire, ovvero ad un ruolo. Ne consegue che i sociologi stessi vengono coinvolti nel processo interpretativo. Le osservazioni non possono essere condotte in base al tradizionale schema logico-deduttivo né interpretate secondo le regole della logica deduttiva, ma seguono gli schemi osservativi degli attori stessi. Il concetto chiave del paradigma interpretativo, quello di "role taking" (assunzione di ruolo) rimanda non solo al processo di approssimazione ipotetica tra gli attori, ma anche a quello tra i ricercatori e i presunti detentori di ruoli.In questo modo i sostenitori del paradigma interpretativo mettono in discussione pressoché tutti gli assunti della teoria normativa dei ruoli, compresa l'impostazione teorica di partenza. La forza di attrazione di questa posizione risiede principalmente nella radicalità della sfida lanciata ai sostenitori del paradigma normativo; in questo modo tuttavia il nucleo essenziale dei processi legati ai ruoli sociali, ossia la tipizzazione attraverso la normazione, viene stravolto sino a diventare irriconoscibile.
La situazione attuale del dibattito sociologico sulla teoria dei ruoli può essere riassunta a grandi linee come segue: per quanto riguarda questo campo di indagine la sociologia dell'Europa continentale è chiaramente arretrata rispetto a quella statunitense. Nonostante i tentativi di elaborare teorie alternative, continuano a predominare gli approcci basati sulla teoria della coercizione, e persiste la chiusura rispetto alla ricerca empirica statunitense a causa dell'orientamento ideologico conservatore che le viene imputato. Nella sociologia statunitense per contro la ricerca empirica sviluppata sino agli anni settanta è stata messa in discussione alla luce delle critiche generalizzate rivolte allo struttural-funzionalismo, e ciò ha contribuito a raffreddare l'interesse per l'analisi sociologica dei ruoli. I contributi innovativi della ricerca empirica in questo campo sono del tutto sporadici (cfr. ad esempio Meyer, 2000).
Nei capitoli seguenti cercheremo di sviluppare una definizione dei ruoli in chiave interazionistica che integra elementi sia del paradigma normativo che di quello interpretativo, illustrandone le principali caratteristiche. Distingueremo poi due orientamenti teorici: il primo privilegia il rapporto tra ruoli e struttura sociale, il secondo quello tra ruoli e persona, ed entrambi mettono l'accento sulle tensioni e sui conflitti che ne derivano. Il fondamento teorico e l'origine di questa interpretazione della teoria dei ruoli è da ricercarsi secondo Uta Gerhardt (v., 1971, pp. 27-40) e Heinrich Popitz (v., 1967, pp. 32-36) nei famosi 'tre a priori' di Georg Simmel (v., 1908; ed. 1992, pp. 42-61), che costituiscono i presupposti di una sociologia dei ruoli interazionistica e realistica.
ebbene Simmel non abbia utilizzato il concetto di ruolo, nel rispondere alla questione "in forza di quale processo cognitivo possiamo intendere noi stessi come parti, come membri di un sistema differenziato di ruoli" (v. Popitz, 1967, p. 33) ha indicato tre elementi fondamentali che sono costitutivi per ogni analisi dei ruoli.
1. Tipizzazione. - Il presupposto fondamentale per l'interazione tra individui è che essi si percepiscano reciprocamente "in qualche misura generalizzati" (v. Simmel, 1908; ed. 1992, p. 47). Poiché è impossibile conoscere perfettamente l'altro come persona individuale, i potenziali partners dell'interazione devono potersi riconoscere reciprocamente come tipi, o rappresentanti di una categoria generale, ad esempio come membri di un gruppo, o appartenenti ad una classe sociale, o rappresentanti di una categoria professionale. Queste tipizzazioni, per usare l'espressione di Popitz (v,.1967, p. 34), sono una sorta di "protesi della conoscenza mancante dell'individualità". Più precisamente, nella generalizzazione si possono distinguere due diversi processi: da un lato gli attori devono essere reciprocamente nella condizione di riconoscere e di astrarre quelle caratteristiche che corrispondono a una categoria socialmente predefinita, ad esempio la categoria dell'insegnante, del poliziotto, della madre ecc. Dall'altro lato la tipizzazione presuppone la capacità di elevare questi caratteri astratti a un tipo ideale 'perfetto': 'l'insegnante', 'il poliziotto', 'la madre', ecc. Questa costruzione idealtipica è necessaria per poter inferire il comportamento probabile dell'altro e affinché il processo di interazione possa svilupparsi entro certi limiti in modo calcolabile e prevedibile. L'astrazione e l'idealizzazione presuppongono la capacità di distinguere fra tratti personali e tratti sociali, e di catalogare il comportamento concreto sotto l'una o l'altra categoria. Se ad esempio un impiegato dell'ufficio tributario accetta di esaminare la richiesta di un cliente solo dopo aver ricevuto una 'bustarella', per il cliente (e per il sociologo) si pone la questione se questo comportamento sia da ascrivere al tipo generale dell'impiegato dell'ufficio tributario o alla persona concreta di quel particolare impiegato dell'ufficio tributario. Chiameremo questo problema 'problema dell'attribuzione". Il primo a priori implica la constatazione fondamentale per la teoria dei ruoli che le tipizzazioni (astrazioni e costruzioni idealtipiche) non sono meri espedienti con l'ausilio dei quali i sociologi scompongono artificialmente il processo di interazione. Si tratta piuttosto di processi empirici che vengono intrapresi dagli stessi attori concreti (v. Popitz, 1967, p. 20). Pertanto, a differenza di quanto affermano i teorici della coercizione, la teoria dei ruoli non ha a che fare con una duplice esistenza dell'uomo, bensì con l'uomo nella sua interezza inteso come essere sociale. Nello stesso tempo, però, l'uomo non è socialmente determinato nella sua interezza. È questo il concetto espresso dal secondo a priori.
2. Individualizzazione. - Il secondo a priori fa riferimento al lato personale degli attori, in virtù del quale essi rappresentano, per usare le parole di Simmel, anche "qualcosa in più", qualcosa di atipico e di inconfondibile. Le persone sono consapevoli di interagire non solo come tipi o rappresentanti di categorie sociali generali, ma anche nella loro inconfondibile individualità. Ciò fa sì che, per tornare all'esempio precedente, l'interazione tra l'impiegato dell'ufficio tributario Schmidt e il cliente Müller sia diversa (entro certi limiti) da quella tra l'impiegato dell'ufficio tributario Rossi e il cliente Müller. Il ruolo dell'impiegato non solo viene inteso diversamente da persona a persona, ma in ragione della diversità di temperamento, interessi, punti di vista, retroterra ecc. dei singoli individui viene anche esplicato in modo diverso, cosicché acquista sempre un'inconfondibile nota personale, senza perdere peraltro il suo carattere di ruolo (cfr. anche Popitz, 1967, pp. 34-35). Il contributo decisivo di Simmel (e ignorato da Dahrendorf) consiste nel fatto che questo "in più" non viene inteso come un fatto antisociale o un 'fatto sociale vessatorio', ma come un complesso di caratteristiche prodotte socialmente. Ciò che distingue gli individui e impronta la loro personalità è il modo particolare in cui partecipano ai gruppi e combinano tra di loro diversi ruoli. Secondo questo punto di vista, la società non è una 'vessazione' per l'individuo, né l'individuo una 'vessazione' per la società; al contrario, società e individuo, ruolo e persona si integrano e si favoriscono reciprocamente: l'esplicazione di un ruolo sociale è la condizione positiva perché l'individuo possa sviluppare la propria personalità. Quanto più il comportamento di ruolo è differenziato, tanto più l'individualità è sviluppata; tanto più l'individualità è sviluppata, tanto maggiore è la capacità di esplicare un ruolo, in breve, la competenza di ruolo.
3. Assunzione di posizione sociale. - I processi di tipizzazione e di individualizzazione resterebbero inconciliabili socialmente se, come ha messo in luce Simmel con il terzo a priori, non fossero inseriti in un sistema funzionalmente differenziato di posizioni sociali. In una società funzionalmente e gerarchicamente differenziata la posizione sociale è legata all'adempimento di determinati compiti. Il contenuto di questi compiti è predefinito dai requisiti funzionali della società per la produzione materiale, la distribuzione e la legittimazione. Solo il fatto che persone qualificate siano disposte ad assolvere questi compiti posizionali e abbiano le competenze per farlo garantisce la stabilità della società. Solo come detentori di posizioni le persone acquistano un "valore di comunità". Particolare importanza riveste a questo riguardo la professione, in cui i due elementi della tipizzazione di ruolo e della qualificazione individuale si incontrano con i requisiti funzionali della società. I processi di socializzazione sono orientati primariamente al raggiungimento di un equilibrio tra posizioni differenziate da un lato e individui qualificati dall'altro.
Sulla scorta dell'approccio simmeliano si possono individuare in sintesi tre elementi costitutivi dei ruoli - tipizzazione, individualizzazione e assunzione di posizione sociale - che si condizionano reciprocamente e si influenzano positivamente. I processi di tipizzazione (il primo a priori) non opprimono l'individualità (secondo a priori), ma sono il presupposto positivo per il suo sviluppo; viceversa, la personalità individuale sviluppata sulla base delle esperienze con ruoli differenziati costituisce la condizione positiva per i processi sociali della tipizzazione (astrazione e idealizzazione). L'inserimento dei ruoli nel sistema di posizioni della struttura sociale (terzo a priori) e la consapevolezza degli individui di poter contribuire con le loro qualificazioni ad assolvere gli obblighi legati a una data posizione fungono da ponte di collegamento tra il secondo e il terzo a priori. In questo modo il processo di differenziazione delle singole individualità non porta all'atomismo, bensì ad un aumento della produttività sociale. In questa prospettiva simmeliana, l'assolvimento degli obblighi legati alla posizione e l'esplicazione dei ruoli sono frutto del condizionamento e della valorizzazione reciproci di ruolo e individui (v. Gerhardt, 1971, pp. 39-40; v. Popitz, 1967, pp. 36-37).
I processi di tipizzazione, individualizzazione e assunzione di una posizione sociale sono i presupposti per il consolidamento del ruolo, della persona e della struttura sociale. Alla luce di questa triade concettuale, le teorie dei ruoli si possono dividere in due categorie, a seconda che pongano l'accento sul rapporto (conflittuale) tra ruolo e persona o su quello tra ruolo e struttura sociale. Prima di illustrare questi due orientamenti teorici, sarà opportuno analizzare il concetto di ruolo che scaturisce dalla combinazione dell'approccio simmeliano con alcuni elementi desunti tanto dal paradigma normativo quanto da quello interpretativo.
Il concetto di ruolo si riferisce espressamente non a "un comportamento desiderato, o considerato obbligatorio e nemmeno soggettivamente atteso" (v. Popitz, 1967, p. 22 e pp. 24-25), bensì a regolarità tipiche ed empiricamente osservabili di comportamento manifestate dagli individui come detentori di posizioni sociali. Al pari di altre teorie delle scienze sociali, anche le teorie dei ruoli andrebbero costruite sotto forma di ipotesi interrelate e falsificabili relative alle condizioni in cui determinate regolarità comportamentali nascono, si modificano e influenzano unità analitiche specificabili. Nonostante l'imponente quantità di contributi che in qualche modo vengono definiti 'teorie dei ruoli', la sociologia contemporanea è ben lungi dall'aver sistematizzato le conoscenze in questo ambito di ricerca arrivando a formulare una teoria dei ruoli unitaria. Data la varietà di definizioni e di interpretazioni che sono state proposte del concetto di ruolo sarebbe poco ragionevole mirare alla costruzione di una teoria dei ruoli unitaria. È più opportuno limitarsi a sviluppare teorie di media portata su aspetti specifici del fenomeno dei ruoli sociali.
Nonostante alcune proposte, è ragionevole limitare il nucleo essenziale del concetto di ruolo a quei processi di tipizzazione che scaturiscono mediante la normazione del comportamento associato alla posizione, differenziando le particolari categorie di membri della società o di gruppi da altre categorie (v. Popitz, 1967, p. 21). La scelta di definire il concetto di ruolo ricollegandolo ai processi di normazione ha molteplici conseguenze. In primo luogo, ciò consente di interpretare l'agire di ruolo come interazione tra detentori di ruoli come destinatari delle norme, mittenti delle norme e responsabili delle sanzioni (o della minaccia delle sanzioni). Per chiarire questa distinzione concettuale di Popitz (v., 1967) attraverso l'esempio dell'impiegato dell'ufficio tributario, quest'ultimo è il destinatario delle norme ('obiettività', 'fedeltà alla legge', 'puntualità' ecc.) che i detentori di ruolo complementari (i superiori, il ministero delle Finanze, i clienti, il legislatore, ecc.) gli impongono in qualità di mittenti delle norme. Il concetto di 'normazione' esprime il fatto che il processo attraverso il quale le norme vengono poste in essere e applicate costituisce un oggetto centrale dell'interazione che coinvolge tutti i detentori di ruolo complementari. I responsabili delle sanzioni o della minaccia delle sanzioni sono quei detentori di ruolo che in caso di violazione delle norme (per tornare all'esempio citato, l'accettazione di una bustarella), decidono le sanzioni, le mettono in atto o ne minacciano l'attuazione. Si può fare qui un'ulteriore distinzione tra i responsabili delle sanzioni che ne decidono l'entità (nell'esempio in questione il legislatore) e coloro che hanno il compito di eseguirle (nell'esempio in questione la Guardia di finanza). Chiariremo più avanti perché l'involuta locuzione 'responsabili della minaccia delle sanzioni' è stata proposta come specificazione alternativa al concetto di responsabili delle sanzioni.
Dall'interpretazione del comportamento di ruolo come processo di interazione triadico consegue, in secondo luogo, che le norme non sono né una coazione esercitata dall'esterno (come sostengono invece i teorici della coercizione), né regole cui gli individui si conformano per consenso spontaneo (come sostengono invece i teorici della socializzazione). Le norme, le sanzioni (o la minaccia delle sanzioni) e il loro rapporto reciproco vengono attivate sotto la guida di indicazioni posizionali, culturali e personali nel processo di interazione tra i detentori di ruolo, e però non vengono concordate liberamente (come vogliono far credere i sostenitori del paradigma interpretativo), bensì entro determinati limiti, e la loro validità per determinate situazioni è fissata in modo (più o meno) vincolante. Contrariamente a quanto fanno gli esponenti della teoria della coercizione, in questa versione interazionistica del concetto di ruolo non viene istituito un nesso causale per cui la normazione porterebbe sempre alla conformità in quanto gli attori temono sanzioni negative in caso di devianza. La questione in che misura i detentori di ruolo si adeguino alle pretese normative delle loro controparti è una questione da indagarsi empiricamente che solleva una molteplicità di problemi correlati, alcuni dei quali furono messi in luce già negli anni cinquanta dallo psicologo sociale Ragnar Rommetveit (v., 1955).
I sostenitori del paradigma interpretativo mettono in discussione innanzitutto l'assunto che le norme di ruolo siano sempre sufficientemente specificate, chiaramente riconoscibili e interpretabili, e dunque in grado di orientare l'azione in modo univoco. Come ha osservato Margaret Archer a proposito del rapporto di ruolo professore-studente: "Nemmeno nelle clausole scritte in caratteri microscopici del mio contratto universitario viene specificato se mi è consentito offrire ai mie studenti un drink o comunicare loro le mie opinioni politiche" (v. Archer, 1995, p. 187). Appare più realistica l'ipotesi che i mittenti delle norme non sappiano sempre esattamente quali norme vadano indirizzate a detentori di ruolo complementari. Spesso un'idea più precisa in merito al comportamento di ruolo conforme nasce solo quando l'altro assume un comportamento percepito come sconveniente.
Spesso, inoltre, i mittenti delle norme non sanno con precisione a chi vada indirizzata una data prescrizione, anche quando sono in grado di precisarne il contenuto. La norma "il radicalismo va combattuto!" è un esempio di quelle che possiamo definire 'norme erranti', indirizzate a tutti e quindi a nessuno in particolare. In questo e in altri casi simili la capacità (menzionata in precedenza) di attribuzione di una norma a un detentore di ruolo è poco sviluppata. Ne consegue che le prescrizioni normative restano senza referenti e quindi irrilevanti per l'azione.
Un terzo punto messo in luce dai sostenitori del paradigma interpretativo è che anche quando mittente e destinatario hanno un'idea precisa dei contenuti e dei referenti delle norme, tuttavia non sempre sono in grado di definire con altrettanta precisione la situazione in cui esse valgono e la loro osservanza dovrebbe essere controllata. Solo poche situazioni sono culturalmente definite in modo così netto da vietare normativamente l'applicazione di sanzioni. La norma "non ora, non qui!" cui sono soggette alcune riunioni sociali o feste familiari crea uno spazio d'azione esente da sanzioni che concede tipicamente ai potenziali violatori delle norme una libertà assoluta. Chi in queste situazioni volesse applicare le sanzioni diventerebbe egli stesso violatore delle norme. Infine, non sempre i potenziali soggetti delle sanzioni sanno quali sanzioni debbano essere applicate in caso di inosservanza delle norme, e in che modo le sanzioni o la minaccia delle sanzioni vadano comunicate nel corso dell'interazione. La constatazione empirica che non sempre i comportamenti considerati passibili di sanzioni vengono puniti, in molti casi fa sì che il meccanismo sanzionatorio venga disgiunto dal comportamento di ruolo che dovrebbe regolare. Certe misure sanzionatorie 'erranti' (ad esempio la famigerata 'predica' che l'insegnante tiene agli allievi senza motivo apparente, gli arresti in massa col favore delle tenebre o altre misure punitive immotivate messe in atto nei regimi autoritari) possono al più diffondere un clima di terrore, ma non controllare comportamenti di ruolo specifici. La promulgazione e l'applicazione delle sanzioni diventano una faccenda estremamente spinosa quando il controllo non corrisponde necessariamente alle altre prescrizioni di ruolo dell'esecutore delle sanzioni. L'insegnante antiautoritario, ad esempio, troverà difficile esercitare il controllo sugli studenti più pigri attraverso il meccanismo sanzionatorio dei compiti assegnati per punizione come sarebbe propriamente in suo potere. Secondo Popitz (v., 1992, pp. 90-94) il meccanismo della minaccia a causa della sua "remuneratività e della sua elasticità" è assai più efficiente di quello dell'applicazione diretta della sanzione: è 'remunerativo' in quanto le minacce, quando sono efficaci, evitano di ricorrere all'applicazione della sanzione, 'elastico' in quanto le minacce possono essere estese ad un ambito di comportamenti più vasto di quello coperto dalle sanzioni concrete.
La proposta che viene spesso avanzata di considerare anche le sanzioni positive (ricompense di vario tipo) come meccanismi di controllo del comportamento di ruolo appare discutibile in quanto in genere il comportamento conforme non è associato a una gratificazione sociale. "Quando parcheggiamo la macchina secondo le regole, non troviamo nessun biglietto di ringraziamento del vigile dietro il parabrezza. Non troviamo alcuna nota ufficiale di encomio nella cassetta delle lettere perché anche quest'anno non abbiamo scassinato nessuna banca" (v. Popitz, 1992, p. 92).Tutti questi aspetti, cui la sociologia attuale non ha dedicato sufficiente attenzione sebbene sollecitazioni in questo senso siano state avanzate già da parecchi anni (v. tra gli altri Tenbruck, 1961), costituiscono il principale terreno d'indagine di una teoria dei ruoli interazionistica. I suoi risultati metterebbero in discussione l'indebita illazione ruolo-norma-sanzione attuata dai sostenitori della teoria della coercizione per pervenire ad una analisi interazionistica dinamica tipizzazione-normazione-minaccia delle sanzioni.
Una teoria dei ruoli interazionistica di questo tipo può riallacciarsi alla teoria della morfogenesi di Margaret Archer (v., 1995), che analizza i processi di tipizzazione sotto il profilo del consolidamento nel tempo delle prescrizioni di ruolo. Non tutte le norme infatti sono aperte all'interpretazione in ogni epoca, come affermano i sostenitori del paradigma interpretativo. Spesso i detentori di ruolo le trovano fissate al di là della loro possibilità di influenzarle e irrigidite in un 'fatto sociale' (nel senso di Durkheim). A decidere la validità di queste norme cristallizzate non è il fatto di essere più o meno sostenute dalla minaccia di sanzioni o il loro grado di formalizzazione, bensì la misura in cui si sono autonomizzate come qualità emergenti diventando parte integrante della struttura sociale. Un carcerato, ad esempio, non può pattuire individualmente l'ordinamento carcerario, ma lo trova predefinito come condizione di base del suo agire. O ancora la madre che si preoccupa più del lavoro che del figlio, di solito si scontra letteralmente contro un muro di riprovazione sociale che non può abbattere con i propri sforzi di volontà. La teoria della morfogenesi rende conto del processo mediante cui le tipizzazioni creano qualità emergenti e le prescrizioni di ruolo diventano condizioni strutturali incrollabili del comportamento di ruolo.
Secondo Talcott Parsons (v., 1951) i ruoli sociali sono legati a tre diversi sistemi: quello sociale attraverso le posizioni, quello culturale attraverso le norme e i valori, e quello della persona attraverso le disposizioni e le motivazioni individuali. Senza addentrarci nelle implicazioni relative alla teoria dei sistemi, queste tre relazioni possono essere illustrate come segue.L'abbinamento del fenomeno dei ruoli con la struttura sociale e il sistema delle posizioni ha come conseguenza che il concetto di ruolo può render conto solo di quelle regolarità comportamentali che gli individui mostrano in quanto detentori di posizioni sociali e a condizione di assolvere gli obblighi correlati. La teoria dei ruoli pertanto si riconnette alle teorie più generali della differenziazione sociale, dell'istituzionalizzazione e del mutamento sociale. D'altro canto l'associazione tra il concetto di ruolo e quello di posizione sociale presenta il vantaggio di definire il fenomeno dei ruoli in modo più rigoroso, delimitandolo sotto almeno tre riguardi rispetto ad altre forme di regolarità comportamentali. In primo luogo il concetto di ruolo non si applica a quei modelli comportamentali "che restano legati all'unicità e all'irripetibilità di un determinato individuo" - come è il caso ad esempio del leader carismatico. In secondo luogo i ruoli non sono tipi comportamentali come lo snob, il dandy, il capellone ecc., perché il loro comportamento non è ancorato ad una posizione sociale. In terzo luogo, i ruoli non sono figure di gruppo come il buffone della classe, l'uomo di fiducia o la musa, in quanto ad essi non corrisponde alcuna posizione sociale (v. Popitz, 1967, pp. 12-17). In base a tale definizione, sono da respingere anche quelle concezioni del ruolo che riconducono le regolarità comportamentali a situazioni standardizzate (come il lutto o la socialità) o allo status sociale (prestigio, preminenza, o riprovazione). In questo senso Gerhardt (v., 1971, pp. 190-225) parla oltre che di ruoli di posizione anche di ruoli di situazione e ruoli di status. Un vasto ambito di fenomeni che Erving Goffman ha analizzato servendosi del concetto di ruolo (ad esempio il modello di comportamento in pubblico che si differenzia da quello nella vita privata; i modelli comportamentali legati al genere, i gesti tipici dei rapporti di subordinazione/superiorità ecc.) dovrebbe dunque essere classificato nella categoria più generale del comportamento standardizzato, e non già sotto quella del ruolo nella definizione ristretta suggerita qui.
Sarebbe peraltro riduttivo associare il fenomeno dei ruoli unicamente alla struttura sociale. Il carattere coercitivo che molti autori attribuiscono ai ruoli dipende dal fatto che si ignora l'indicazione di Parsons (v., 1951; v. Tenbruck, 1961, pp. 4-8) secondo cui l'agire di ruolo andrebbe considerato anche in rapporto agli altri due sistemi della cultura e della persona. Se si limitano i ruoli al contesto delle posizioni sociali, intendendo per di più queste ultime unicamente in senso negativo come insiemi di obblighi, è inevitabile che il concetto di ruolo assuma quel carattere coercitivo attribuitogli da Dahrendorf e dai teorici dell'alienazione. Se però si tiene conto del fatto che le posizioni sociali esigono di essere legittimate da valori e idee e di essere occupate da persone qualificate, si avrà un quadro dell'agire di ruolo più differenziato e realistico sul piano empirico. A tale fine è necessario ricollegare i processi normativi al sistema di credenze e di valori dei detentori di ruolo. I valori culturali rendono possibile la valutazione del comportamento di ruolo; solo facendo riferimento ad essi infatti è possibile decidere se sia realmente giustificato agire in modo conforme al ruolo e se l'osservanza di una particolare prescrizione di ruolo sia legittima dal punto di vista assiologico. Parsons ha risolto tale problema con la nota teoria delle variabili strutturali o variabili modello (pattern variables). I teorici del consenso partono dal presupposto che il comportamento di ruolo è stabile solo quando il 'controllo esterno' viene sostituito da quello 'interiore' (v. ad esempio Tenbruck, 1961, p. 7). La compiuta interiorizzazione delle prescrizioni di ruolo rappresenta tuttavia un caso limite, in quanto presuppone la perfetta coincidenza tra le prescrizioni di ruolo e gli standard personali del detentore di ruolo. Resta peraltro una questione aperta sul piano empirico in che misura la cultura coincida con la persona diventando il fondamento del comportamento di ruolo. Nei capitoli seguenti ci limiteremo ad illustrare quelle teorie dei ruoli che nonostante tutte le controversie sono da annoverarsi tra i capisaldi della sociologia, dividendole in due gruppi: quelle che tematizzano le tensioni tra ruolo e struttura sociale, e quelle che focalizzano l'attenzione sulle tensioni tra ruolo e persona. Va premessa però un'importante precisazione: pochissimi tra questi approcci si possono definire 'teorie' in senso stretto; il più delle volte non sono niente di più (ma anche niente di meno) che utili quadri di riferimento concettuali con l'ausilio dei quali è possibile descrivere e analizzare il comportamento di ruolo. Se siano anche in grado di spiegarlo resta una questione aperta, ma spesso gli autori che li rappresentano non hanno affatto questa ambizione.
Se la struttura sociale è il presupposto per la differenziazione delle posizioni e dei ruoli, ne consegue che l'utilità delle teorie dei ruoli come strumento di analisi dei processi di interazione è limitata alle società differenziate, e sarà tanto maggiore quanto più aumenta il numero delle posizioni e dei ruoli detenuti dai singoli individui. La differenziazione degli obblighi legati alla posizione va di pari passo con la differenziazione dei ruoli correlati, e ciò porta inevitabilmente all'insorgere di conflitti. Non sorprende pertanto che i sociologi dedichino i loro sforzi all'elaborazione di teorie sul conflitto di ruolo. Presenteremo qui una selezione di tali teorie, che focalizzano l'attenzione sugli effetti di questo potenziale conflittuale sul sistema delle posizioni e sulla struttura sociale nel suo complesso. Sulla scorta della triade ruolo-persona-struttura sociale proposta nei capitoli precedenti cercheremo dunque di analizzare il rapporto conflittuale tra ruolo e struttura sociale.Le teorie del conflitto di ruolo si possono distinguere a seconda dell'unità di analisi cui si riferisce il conflitto. Partendo dall'unità minima, ovvero il segmento di ruolo (detto anche settore di ruolo), per passare poi all'unità più grande, ovvero il sistema dei ruoli nel suo complesso, le teorie del conflitto di ruolo possono essere classificate nel modo seguente: teorie del conflitto all'interno di un segmento di ruolo, teorie del conflitto all'interno di un ruolo, e teorie del conflitto tra diversi ruoli. Un'ulteriore differenziazione concerne il modo in cui questi vari tipi di potenziale conflittuale agiscono socialmente: distingueremo allora tra contraddizione di ruolo, ambivalenza di ruolo e confusione di ruolo.
Per segmento o settore di ruolo si intende il rapporto che detentori di ruolo complementari hanno rispetto ad un determinato segmento dell'agire (ad esempio due scienziati concorrenti rispetto all'attività normativamente prescritta del pubblicare). Nei suoi studi sulla sociologia delle professioni e della scienza Robert K. Merton è giunto alla conclusione che molte azioni sono regolate normativamente in modo contraddittorio. Si parlerà di contraddizione all'interno di un segmento di ruolo quando rispetto ad un dato comportamento vigono norme contrastanti, ossia che prescrivono di fare A e non A. L'analisi delle biografie di alcuni premi Nobel effettuata da Merton (v., 1976, pp. 32-64) ha messo in luce come gli scienziati si trovino di fronte a norme contraddittorie rispetto all'attività del pubblicare. Da un lato, infatti, sono destinatari della norma che impone di agire secondo il motto "pubblicare o perire!", e dunque di pubblicare il più possibile. Dall'altro sono destinatari della norma opposta, che impone di essere modesti e di pubblicare solo quando i risultati delle loro ricerche siano maturi e verificati più volte ("lavorare molto, pubblicare poco!"). Per distinguere la contraddizione di ruolo dall'ambivalenza di ruolo è di fondamentale importanza stabilire quale sia il rapporto tra le due norme contraddittorie. Se una ha maggior peso dell'altra, si avrà un rapporto tra norma dominante e contronorma secondaria (minor counter-norm). Là dove, per usare le parole di Merton, esiste questa forma di "ambivalenza sociologica", sono inevitabili i contrasti conflittuali tra detentori di ruolo, e ciò riguarda in modo particolare non solo gli scienziati, ma anche capi di organizzazioni, medici ed esponenti di altre categorie professionali. Anche se Merton non ha operato una netta distinzione concettuale tra contraddizione di ruolo e ambivalenza di ruolo, si può parlare propriamente di ambivalenza di ruolo solo quando le due norme contrastanti hanno lo stesso peso, e quando ci si aspetta che il loro destinatario le osservi contemporaneamente. Riprendendo l'esempio degli scienziati, ciò significa che la lista delle loro pubblicazioni deve testimoniare che essi pubblicano contemporaneamente poco e molto. È evidente il dilemma che pone l'esigenza di soddisfare entrambe le norme nello stesso tempo e nella stessa misura. La devianza è la conseguenza tipica e necessaria dell'ambivalenza normativa. La contraddizione di ruolo, per contro, offre agli attori varie possibilità d'azione: essi possono obbedire solo alla norma dominante violando la contronorma secondaria; oppure possono scaglionare nel tempo il loro comportamento di ruolo osservando prima la norma dominante e successivamente quella secondaria. Proprio questa possibilità di dislocazione temporale evita l'ambivalenza di ruolo, in quanto per quest'ultima vale l'obbligo di conformarsi alle norme contraddittorie contemporaneamente. Tuttavia l'ambivalenza di ruolo non crea solo problemi ai detentori di ruolo complementari, ma offre loro anche particolari possibilità d'azione: i destinatari delle norme hanno la possibilità di usare le norme ambivalenti l'una contro l'altra, facendo apparire la violazione di una norma come conformità all'altra (gli scienziati poco produttivi potrebbero ammantarsi della virtù della modestia). L'ambivalenza di ruolo inoltre consente di lasciare aperte diverse alternative di comportamento e quindi di differire l'azione nel futuro. I mittenti di norme ambivalenti hanno infine la possibilità di mutare i criteri di valutazione del comportamento di ruolo in base a considerazioni di opportunità strategiche, aumentando in questo modo il loro controllo sui destinatari delle norme. L'ambivalenza di ruolo contiene dunque la possibilità di creare plusvalore sociale dal dilemma dell'azione che ne costituisce il fondamento. (cfr. Calabrò, 1997; v. Donati, 1998; v. Nedelmann, 1997 e 1998).Poiché nella letteratura il concetto di ambivalenza di ruolo viene spesso utilizzato anche per indicare il fatto che le norme sono formulate in modo impreciso o confuso, contrassegneremo con il numero romano (I) il concetto delineato sopra, e con il numero romano (II) l'ambivalenza di ruolo intesa in questo secondo senso, che esamineremo più tardi.
Il secondo, e più noto, contributo teorico di Merton ha come oggetto i conflitti che insorgono all'interno del cosiddetto 'set di ruoli', o complesso di ruoli (v. Merton, 1968). Con questo concetto sviluppato alla fine degli anni cinquanta Merton intendeva mettere in discussione la tesi di Linton (v., 1936) secondo cui ad ogni posizione sociale corrisponde solamente un ruolo. Per Merton, invece, ad una stessa posizione sociale è associata una molteplicità di ruoli reciprocamente correlati. Così, ad esempio, alla posizione dell'insegnante sono legati i ruoli del collega, del subordinato al preside e al Ministero, dell'educatore e via dicendo. Quanto più sviluppata è la differenziazione sociale, tanto più differenziato diventa anche il complesso di ruoli collegati ad una data posizione. Quanto più differenziato è il complesso di ruoli, tanto più aumenta l'esigenza di accordare tra loro le diverse norme. Questa regolamentazione secondo Merton non avviene a discrezione dei singoli detentori di ruolo, ma attraverso meccanismi sociali che sono a loro volta strutturalmente ancorati al set di ruoli. Tra questi meccanismi vi è innanzitutto quello che Merton definisce peso relativo delle aspettative normative: poiché non tutti i mittenti delle norme nel set di ruoli possono avanzare eguali pretese per quanto attiene l'osservanza delle norme, il destinatario ha l'opportunità di osservare solo quelle che vengono fatte valere con particolare forza. Un altro meccanismo è legato alla relativa differenza di potere tra i membri del set di ruoli. Il potere sanzionatorio nel caso di mancata osservanza delle norme di conseguenza è distribuito in modo ineguale. L'insegnante di solito si atterrà a quelle norme la cui osservanza viene controllata con un impiego di risorse di potere relativamente maggiori. Un terzo meccanismo di stabilizzazione del set di ruoli, particolarmente importante, consiste nella possibilità di proteggere l'uno dall'altro, di compartimentare o di segregare i diversi comportamenti di ruolo, dimodoché non tutti i membri del set di ruoli sono in grado di avere una visione completa del comportamento di ruolo concreto. Siffatti meccanismi di protezione o di segregazione riducono la possibilità che vengano scoperte le contraddizioni o le violazioni normative insite strutturalmente nel set di ruoli, contribuendo con ciò a stabilizzarlo. Le posizioni sociali particolarmente esposte alla pressione dell'opinione pubblica, come ad esempio le posizioni politiche nei sistemi democratici, sono tipicamente meno protette dallo sguardo pubblico di quelle nella sfera privata. I detentori di posizioni pubbliche di conseguenza sono maggiormente esposti di altri al rischio che vengano scoperte le incoerenze del loro comportamento di ruolo e di essere accusati di falsità. Per proteggere i loro ruoli politici, pertanto, i detentori di cariche pubbliche ricorrono spesso all'espediente di precisare prima di comparire in pubblico quale ruolo rivestano in quel momento - quello di ministro, di presidente di partito o di privato cittadino. Questa strategia di segregazione dei ruoli incontra i suoi limiti allorché il pubblico esige normativamente 'l'uomo integrale'.
La concezione mertoniana del set di ruoli ha il merito di aver richiamato l'attenzione della ricerca empirica su problemi che sono strutturalmente insiti nei singoli sets di ruoli. Il comportamento di ruolo contraddittorio, l'adempimento inadeguato delle norme o la loro violazione spesso non sono da imputare ai detentori di ruolo come individui, ma alla struttura contraddittoria dello stesso set di ruoli. I conflitti di ruolo che non possono essere superati attraverso questi meccanismi e altri tipi di conflitto che non abbiamo menzionato indeboliscono nel complesso il set di ruoli mettendo a dura prova il sistema delle posizioni sociali.
Il concetto di set di ruoli si riferisce ad una posizione sociale e ai diversi ruoli ad essa collegati. Diversa è la situazione in cui una stessa persona occupa diverse posizioni, cui sono associati diversi sets di ruoli. Quanto più la struttura sociale è differenziata e quanto più il sistema culturale si articola in varie comunità di norme e valori, tanto più aumenta la probabilità che insorgano conflitti inter-ruolo. Se la signora Rossi non è solo madre, ma anche insegnante, membro di un sindacato e presidente di una associazione volontaria, è assai probabile che il suo comportamento di ruolo quotidiano sia improntato da una serie di strategie messe in atto per superare i conflitti che ne scaturiscono. I meccanismi per il superamento dei conflitti intra-ruolo indicati da Merton possono essere utilizzati anche in queste situazioni. Nel caso dei conflitti inter-ruolo, però, pesa maggiormente il fatto che le singole posizioni sono rappresentate da organizzazioni e istituzioni (la Chiesa, il ministero della famiglia, il sindacato degli insegnanti, la libertà di associazione, ecc.), in quanto il comportamento di ruolo individuale trova un sostegno istituzionale (v. Scheuch e Kutsch, 1975, pp. 127-132). I conflitti inter-ruolo pertanto possono anche essere intesi come conflitti tra le istituzioni e gli attori nella veste di loro rappresentanti individuali. Molti problemi di cui spesso gli individui si fanno carico, dal punto di vista dei conflitti inter-ruolo possono essere interpretati come problemi tra istituzioni che vengono scaricati sulle spalle degli individui che le rappresentano. Rendersi conto di questo fatto può facilitare ai detentori di ruolo la risoluzione dei relativi conflitti, e stimolare i sociologi a escogitare delle misure per porvi rimedio all'interno delle stesse compagini istituzionali.
L'idea che i contenuti dei ruoli siano concordati tra i detentori degli stessi non risale agli esponenti del cosiddetto paradigma interpretativo, ma venne formulata già negli anni cinquanta da un rappresentante dello struttural-funzionalismo, William J. Goode (v., 1966). Contrariamente agli esponenti del paradigma interpretativo, Goode impernia la sua argomentazione sul rapporto tra ruoli e istituzioni: a garantire la coesione di istituzioni sociali quali la famiglia, la religione, la scuola sarebbe il comportamento di ruolo individuale. L'esistenza delle istituzioni dipende dalla capacità degli individui come detentori di ruoli di assolvere determinati compiti istituzionali (v. Goode, 1966, p. 7). Goode si scosta per molti aspetti dal nucleo essenziale del paradigma normativo degli struttural-funzionalisti in quanto non interpreta il comportamento di ruolo come conformità rispetto alle norme e ai valori connessi ad una data posizione sociale. Egli muove numerose critiche a questa concezione, la più importante delle quali scaturisce dalla constatazione che le norme e i valori indirizzati ai detentori di ruoli sono formulati in modo troppo generale e vago per poter guidare in modo adeguato il comportamento di ruolo. Resta sempre un margine aperto all'interpretazione dei detentori di ruolo. A ciò si aggiunge il fatto che ogni individuo ha una combinazione tipica di obblighi di ruolo che scaturiscono dalle diverse posizioni che occupa. Non vi è però nessuna prescrizione sovraordinata che guida l'azione, nessuna meta-norma che indica come si debba affrontare una molteplicità di sets di ruoli individuali.
Con il concetto di 'role strain' (tensione di ruolo) Goode indica le difficoltà che gli individui incontrano in rapporto alle prescrizioni di ruolo imposte loro istituzionalmente. A queste difficoltà strutturali si contrappongono alcuni meccanismi sociali di riduzione della tensione di ruolo, che contribuiscono all'integrazione tra il set di ruoli individuale e le istituzioni sociali. Oltre ai meccanismi con i quali lo stesso detentore di ruolo cerca di manipolare la sua struttura di ruolo, un altro meccanismo sociale cui Goode attribuisce particolare importanza è quello del 'role bargain' (pattuizione di ruolo), con il quale gli individui concordano i contenuti e l'entità degli obblighi di ruolo. Di conseguenza i rapporti di ruolo sono concepiti come "una sequenza di ' pattuizioni di ruolo', come un continuo processo di selezione tra comportamenti di ruolo alternativi con cui gli individui cercano di ridurre la tensione di ruolo" (v. Goode, 1966, pp. 8-9). Al pari dei processi decisionali nel campo economico, anche quelli relativi alla riduzione della tensione di ruolo sono condotti in base al principio della minimizzazione dei costi. Riallacciandosi alle strategie per superare la contraddizione di ruolo menzionate da Merton, anche Goode afferma che saranno osservati più prontamente quegli obblighi di ruolo per i quali pesa maggiormente la pressione alla conformità. A differenza di Merton, tuttavia, Goode aggiunge che queste pressioni esterne devono essere ponderate anche in vista dei propri obblighi, ossia degli obblighi che i detentori di ruolo si impongono come persone. In conseguenza di questa valutazione delle pressioni di ruolo esterne alla luce dei valori personali, al comportamento di ruolo prescelto viene assegnato un dato prezzo, il cosiddetto 'prezzo di ruolo'.
La tecnica del role bargaining secondo Goode è limitata dal contesto strutturale in cui hanno luogo i rapporti di ruolo. Vi sarebbero delle gerarchie socialmente stabilite di valori che si contrappongono ai processi di valutazione individuali invalidandoli. Esisterebbero inoltre norme socialmente definite di adeguatezza che prescrivono in che modo debba essere esplicato un dato ruolo. Quanto più la norma sociale del comportamento di ruolo adeguato è formulata in modo chiaro, tanto minore è la libertà di interpretazione dell'attore individuale. Posizioni funzionalmente specifiche (come quelle lavorative e professionali) pongono all'interpretazione individuale dei ruoli limiti assai più stretti delle posizioni funzionalmente generiche (come quella della madre). La pattuizione dei ruoli inoltre è limitata dal fatto che l'accesso al 'mercato' dei ruoli non è libero, ma è limitato da caratteristiche di status ascritte. Oggi come in passato, per le donne la scelta della propria combinazione di ruoli è più limitata rispetto a quella degli uomini, e lo stesso vale per le minoranze etniche rispetto agli altri gruppi della società.
Il successo della pattuizione dei ruoli decide in ultimo in che misura i requisiti strutturali delle istituzioni sociali vengano soddisfatti. Se sono soddisfatti in modo insufficiente, ne deriva un mutamento della struttura di ruolo o un adattamento dei requisiti strutturali al comportamento di ruolo individuale. La tensione di ruolo, afferma Goode, mette in moto un processo ininterrotto di decisione e di negoziazione, cosicché il comportamento di ruolo individuale e i rapporti di ruolo strutturali si trovano in un equilibrio dinamico. La teoria della tensione di ruolo ha il merito di prestare maggiore attenzione alle transazioni di ruolo empiricamente osservabili, consentendo di capire in che modo sono affrontati fattualmente gli obblighi di ruolo e quali sono le conseguenze che ne derivano per il contesto strutturale e per le istituzioni sociali.
Le teorie che analizzano il rapporto carico di tensioni tra ruolo e persona si possono suddividere in tre gruppi. Il primo è costituito dalle teorie della socializzazione, che analizzano il processo di apprendimento delle competenze di ruolo nell'infanzia. Questo tipo di teorie verrà trattato qui solo marginalmente. Le tensioni tra persona e ruolo non sono affatto superate con la fine del processo di socializzazione, ma sono tipici fenomeni concomitanti del comportamento di ruolo degli adulti, ai quali nessun processo di socializzazione, per quanto riuscito, può preparare adeguatamente.Il secondo gruppo è costituito dalle teorie dell'adattamento al ruolo, che studiano in che modo gli individui (adulti) che hanno sviluppato una sufficiente competenza di ruolo si adattano a ruoli che contrastano con le loro convinzioni personali di fondo. A quali condizioni vengono osservate prescrizioni di ruolo che in altre circostanze verrebbero rigettate come inaccettabili? Un caso estremo è quello analizzato dallo studio storico-sociologico di Christopher R. Browning (v., 1996) sui fattori che nell'estate del 1942 contribuirono a trasformare "uomini perfettamente normali", in membri della Polizeireserve di Amburgo, in massacratori di uomini, donne, vecchi e bambini ebrei.
Il terzo tipo di teorie, che è anche il più noto tra i sociologi, è legato al nome di Erving Goffman, che con il suo concetto di 'distanza dal ruolo' ha richiamato l'attenzione su una strategia assai discussa per il superamento delle tensioni tra ruolo e persona.
Erving Goffman non considera lo svolgimento del ruolo (role performance) unicamente sotto il profilo dell'osservanza delle prescrizioni normative e quindi della conservazione dei sistemi strutturali o istituzionali. Egli è interessato piuttosto all'altro versante del comportamento di ruolo, chiedendosi come gli individui in qualità di detentori di ruoli possano conservare un'immagine intatta del proprio Sé (self) nello svolgimento del ruolo. Questo interesse analitico richiede una osservazione precisa e dettagliata dell'interazione quotidiana faccia a faccia. L'oggetto di osservazione privilegiato, e non solo per Goffman, è l'istituzione ospedaliera e il gioco di ruoli tra chirurghi, assistenti, infermiere, ecc. durante un'operazione (v. Goffman, 1961). Attraverso una scrupolosa registrazione dei dialoghi e dei gesti si ottengono informazioni sul modo in cui vengono esplicati i ruoli in quello che Goffmann definisce 'activity system' (sistema di attività). Osservando il comportamento di ruolo (il 'fare') si può vedere in che misura esso sia in accordo con la persona (l''essere') del detentore di ruolo. Il caso in cui fare ed essere coincidono costituisce l'eccezione. Solo i ruoli 'totali' coinvolgono la persona nella sua interezza, e in misura tanto maggiore quanto più è esasperata la situazione in cui alla persona è richiesto un comportamento di ruolo adeguato, come nel caso della madre al capezzale del figlio malato, del boss mafioso in lotta contro 'famiglie' rivali o, nell'esempio di Goffman, del vigile urbano in un incrocio stradale molto trafficato. Di regola il fare e l'essere non coincidono. In questi casi empiricamente più frequenti il modo in cui viene svolto il ruolo indica in che misura esso sia lontano dal Sé dell'attore. Goffmann conia a questo riguardo il concetto di 'distanza dal ruolo', un meccanismo attraverso il quale non viene rifiutato il ruolo nella sua totalità, bensì il 'Sé virtuale' contenuto nella concezione del ruolo in questione. Per comunicare la distanza dal ruolo l'attore ha a disposizione un repertorio di segni socialmente prestabiliti e di gesti simbolici - ad esempio l'eccessiva solerzia nello svolgimento del ruolo, le osservazioni ironiche o le battute che accompagnano la messa in atto del comportamento di ruolo. La distanza dal ruolo può essere espressa anche attraverso una serie di rituali con i quali l'attore si giustifica nei casi in cui viola i limiti del lecito per eccesso o per difetto. Così il paziente, il figlio o lo studente possono prendere le distanze dalle prescrizioni del medico, della madre o del professore facendole oggetto di commenti ironici, osservandole con palese malavoglia o mettendole in caricatura attraverso uno zelo esagerato. In ognuno di questi sistemi d'azione (quello del personale dell'ospedale, della famiglia, di un seminario universitario) si può dimostrare in questo modo pubblicamente che il proprio Sé non coincide con il comportamento di ruolo (il 'fare' non è identico all'essere'), che tuttavia viene egualmente attuato. Poiché la distanza dal ruolo ha una funzione positiva per il Sé dell'attore, può contribuire a rendere più duttile anche il sistema dei ruoli nel suo complesso. Ad esempio, un sistema di posizioni fortemente gerarchico improntato a rapporti di subordinazione-superiorità può essere reso efficiente attraverso gesti quotidiani che segnalano la distanza dal ruolo allorché gli attori riducono le differenze di rango - i superiori ammantando il loro ruolo di una veste democratica, e i subordinati valorizzando il proprio. Le strategie riuscite di distanza dal ruolo consentono di preservare l'immagine democratica del Sé e nello stesso tempo di conservare le differenze di rango funzionalmente necessarie. Goffman introduce un altro spunto importante nel dibattito sul rapporto ruolo/persona allorché, riallacciandosi allo scritto di Simmel sull'intersecazione di cerchie sociali (v. Simmel, 1908; ed 1992, pp. 456-511), afferma che gli individui in una data situazione svolgono diversi ruoli e quindi devono gestire una pluralità di immagini del Sé. Il ruolo professionale acquisito si interseca tipicamente con il ruolo di genere ascritto, quest'ultimo si interseca con quello familiare e così via. La gestione di identità multiple viene sostenuta socialmente in modo diverso a seconda del contesto culturale; ad esempio la preminenza può essere assegnata al ruolo professionale rispetto agli altri (attraverso tempi di lavoro regolati istituzionalmente), oppure al ruolo familiare (attraverso possibilità garantite istituzionalmente di ritiro temporaneo dalla professione per 'motivi di famiglia'). Per il resto, per la gestione delle immagini multiple del Sé si può far ricorso agli stessi meccanismi sociali di segregazione, compartimentazione e protezione dei ruoli che abbiamo esaminato in precedenza a proposito del set di ruoli.Il concetto di distanza dal ruolo è solo uno dei molteplici contributi di Goffman alla teoria dei ruoli, ed è stato particolarmente valorizzato e ulteriormente sviluppato soprattutto dagli esponenti della teoria dell'agire comunicativo.
La tensione tra ruolo e persona viene considerata in una prospettiva genetica quando si analizza il modo in cui il bambino apprende i ruoli sociali. In questa sede non possiamo dar conto della sterminata letteratura dedicata all'argomento (v. Mead, 1934; v. Parsons, 1951, pp. 201-248), ma dovremo menzionare per la sua particolare importanza la teoria dell'agire comunicativo di Jürgen Habermas (v., 1973), che si riallaccia alla tematica goffmaniana dell'autorappresentazione attraverso la distanza dal ruolo.
Secondo Habermas, nel corso del processo di crescita il bambino per poter diventare adulto deve acquisire oltre alle competenze linguistiche e cognitive anche competenze di ruolo. Per competenza di ruolo si intende la capacità di padroneggiare quelle norme di interazione che costituiscono il presupposto dell'agire comunicativo (v. Habermas, 1973, p. 196). Le norme devono essere riconosciute, applicate e osservate (o anche non osservate) in modo adeguato alla situazione. Nella prima fase dell'infanzia le competenze di ruolo non sono ancora acquisite, e i bambini piccoli interagiscono solo in modo imperfetto. Nella seconda fase si acquistano le qualificazioni di ruolo primarie (i ruoli legati al genere e all'età); nella terza fase l'acquisizione delle competenze di ruolo va di pari passo con lo sviluppo dell'identità personale e della coscienza morale (Kohlberg). Qui si osserva uno sviluppo in senso contrario: mentre la formazione dell'identità personale negli stadi iniziali è sostenuta dalla conformità al ruolo, negli stadi di sviluppo più avanzati essa è favorita proprio dal fatto che l'individuo acquista la capacità di distanziarsi dalle norme di ruolo e di rapportarsi ad esse in modo flessibile. Un'identità personale altamente sviluppata presuppone la padronanza di un comportamento di ruolo (più o meno) complesso, tipicamente in sé contraddittorio (v. Habermas, 1973, pp. 230-231).
Ulrich Oevermann (v., 1972, pp. 379-391), nel contesto della sua teoria dei codici linguistici ha analizzato le competenze di ruolo che l'individuo deve possedere per acquistare un'identità sociale e personale. Riallacciandosi al concetto di identità egoica sviluppato da Goffman, Oevermann distingue tra una componente sociale e una personale dell'identità, il cui sviluppo è guidato dalla rappresentazione della loro realizzazione ideale. La formazione dell'identità sociale è guidata dall'immagine ideale della normalità sociale, quella dell'identità personale dall'immagine ideale dell'unicità e dell'inconfondibilità della persona. Poiché l'individuo adulto è nello stesso tempo consapevole che queste immagini ideali non sono realizzabili, esse agiscono come 'idee guida', come 'normalità ideale' (phantom normalcy) e come 'unicità ideale' (phantom uniqueness), adempiendo così un'importante funzione di orientamento nel comportamento di ruolo concreto. Rifacendosi alle tesi di Goffman, Oevermann analizza il processo di formazione dell'identità sociale e di quella personale nell'interazione di ruolo:
1. Le norme di ruolo devono essere necessariamente incoerenti, ambigue e aperte. Solo in questo modo possono guidare il comportamento e garantire un consenso minimale tra gli attori (qui entra in gioco il concetto di ambivalenza di ruolo nell'accezione II).
2. Di fronte a obblighi di ruolo incompatibili la scelta non cade automaticamente su uno solo di essi a scapito degli altri; tutti restano presenti come comportamenti di ruolo 'virtuali', in quanto nella situazione concreta non possono essere tradotti in realtà.
3. L'identità personale viene costruita attraverso un progetto di unicità della biografia personale.
A conclusione di queste posizioni teoriche goffmaniane, Oevermann delinea quattro tipi di comportamento di ruolo attraverso cui può essere preservata l'identità (sociale e personale) nel corso dell'interazione. La conservazione dell'identità sociale è garantita dall'ambivalenza di ruolo (II) e dalla complementarità dei ruoli. La conservazione dell'identità personale invece è assicurata dalla distanza dal ruolo e dalla flessibilità di ruolo. Mentre l'ambivalenza di ruolo (II) e la distanza dal ruolo sono modalità di comportamento mediante cui vengono eluse le pretese normative che appaiono inconciliabili con l'identità sociale o personale, la complementarità dei ruoli e la flessibilità di ruolo sostengono il sistema normativo e assicurano che l'integrazione della identità sociale e personale continui nel contesto strutturale. Il concetto di ambivalenza di ruolo in questa seconda accezione indica l'ambiguità dell'agire; la complementarità dei ruoli indica un comportamento conforme alle norme; la distanza dal ruolo va intesa nel senso goffmaniano come rappresentazione della non identità con il comportamento di ruolo; la flessibilità di ruolo, infine, indica il parziale adattamento alle norme sociali. Queste quattro strategie possono essere schematizzate come segue:
"phantom normalcy" "phantom uniqueness"
1. Ambivalenza di ruolo 3. Distanza dal ruolo
2. Complementarità di ruolo 4. Flessibilità di ruolo
L'esempio del padre che svolge nello stesso tempo il ruolo di medico può servire a illustrare queste strategie. Poiché l'attore può conservare la propria identità sociale nonostante la notoria inconciliabilità tra i diversi obblighi di ruolo (l'obbligo legato al ruolo di padre di dedicare tempo all'educazione dei figli, e quello di dedicarsi interamente ai pazienti legato al ruolo di medico), è costretto a ricusarne l'assolvimento totale come richiederebbe la 'normalità ideale' (v. Oevermann, 1972, p. 389) adottando un comportamento di ruolo ambivalente. Le diverse norme di ruolo in questo caso vengono osservate in modo volutamente sub-ottimale e ambiguo (la quantità di tempo dedicato al figlio e ai pazienti oscilla, ma in ogni caso non risponde alle immagini ideali associate all'adempimento ottimale di entrambi i ruoli). Affinché questa ambivalenza di ruolo non porti alla rottura dell'interazione (il figlio si ribella al padre, i pazienti abbandonano il medico) occorre utilizzare l'ulteriore strategia della complementarità dei ruoli. Ciò significa che l'individuo deve continuare a riconoscere la validità degli obblighi di ruolo assolti in modo imperfetto (ribadendo con atti linguistici e simbolici la necessità di adempiere gli obblighi normativi derivati dal ruolo di padre e di medico).
La costruzione della personalità individuale, e dunque la realizzazione del progetto di una biografia improntata all'unicità, avviene da un lato attraverso la distanza dal ruolo, dall'altro attraverso la flessibilità di ruolo. L'individuo prende le distanze da quegli obblighi di ruolo che potrebbero minacciare il progetto della propria biografia (il padre dimostra la sua distanza dal ruolo attraverso l'ironia quando la scuola fa pressioni affinché rispetti con maggior solerzia i suoi obblighi di sorveglianza sul figlio, perché ciò non si concilia con la propria immagine di sé). Nello stesso tempo però con la flessibilità di ruolo dimostra di essere disposto a rinunciare a determinate parti del suo progetto di vita per assolvere gli obblighi di ruolo che gli sono imposti. Egli si presenta allora come persona disposta ad imparare e adatta la propria personalità al contesto sociale (il padre accetta alcune concezioni pedagogiche più moderne e le integra nel proprio repertorio di ruolo, rinunziando nello stesso tempo ad altre cui sino a quel momento si era attenuto per ragioni di identità).
Secondo Oevermann queste duplici strategie di osservanza e di imperfetta osservanza delle norme di ruolo costituiscono il presupposto per la conservazione dell'identità sia sociale che personale. Si tratta di strategie interdipendenti: solo la conservazione dell'identità sociale assicura la conservazione del sistema di norme della società, e ciò costituisce a sua volta il presupposto per la salvaguardia dell'identità personale e della coerenza biografica. Nelle loro varie combinazioni, le quattro strategie di ruolo descritte sono da intendersi dunque come meccanismi di integrazione tra identità sociale e identità personale, ruolo e persona. Senza riallacciarsi esplicitamente a Simmel, Oevermann ha quindi specificato e ulteriormente sviluppato i fondamenti concettuali della teoria dei ruoli di quest'ultimo (v. anche Gerhardt, 1971, pp. 106 ss.).
Le quattro strategie distinte da Oevermann che i detentori di ruolo devono padroneggiare per poter svolgere i loro ruoli senza perdere la propria identità mettono in luce quanto siano impegnative le richieste che gli individui devono soddisfare una volta acquisite le competenze di ruolo. L'immagine dell'individuo come essere dotato di competenze di ruolo contrasta fortemente con quella del detentore di ruoli ridotto ad una sorta di automa proposta dai teorici della coercizione. A contraddistinguere il detentore di ruolo competente non è il rigido adattamento e la passiva osservanza delle norme di ruolo, bensì una spiccata dinamicità e duttilità nei processi di interazione. Per citare le parole di Goffman: "l'individuo si contorce, si agita e si dimena in continuazione [...] l'immagine che presenta è quella di un giocoliere e di un sintetizzatore, di uno che sa adattarsi e conciliare, che assolve una funzione mentre è apparentemente impegnato in un'altra; che monta la guardia alla tenda ma lascia entrare di soppiatto amici e parenti" (v. Goffman, 1961, p. 139).
In questa prospettiva acquista dunque plausibilità la tesi simmeliana di un'interazione positiva tra tipizzazione e individualizzazione. Rose Laub Coser (v., 1975/1999) ha ripreso e ulteriormente sviluppato questa idea con riguardo al concetto di set di ruoli proposto da Merton, analizzando (a differenza di quest'ultimo) gli effetti di sets di ruoli complessi per l'attore stesso (e non già per il sistema dei ruoli). Definendo metaforicamente la complessità del set di ruoli come "semenzaio", Laub Coser afferma che essa favorisce lo sviluppo dell'individualità. Qui occorre precisare cosa si intende esattamente per 'individualizzazione'. Da un lato tale concetto si riferisce al fatto che la differenza tra gli individui aumenta nella misura in cui il loro set di ruoli diventa più complesso e articolato. In questo senso si può parlare di individualizzazione quantitativa quando all'aumentare del numero dei ruoli assunti da un individuo le combinazioni di ruoli diventano maggiormente differenziate. Si parlerà invece di individualizzazione qualitativa quando, come ipotizza Laub Coser, a seguito dell'aumentata complessità del set di ruoli vengono acquisite nuove capacità che individui con sets di ruoli meno differenziati non sono in grado di acquisire. Prendendo le mosse dalla teoria della creatività sociale di Alvin W. Gouldner e da quella dei codici linguistici di Basil Bernstein, Laub Coser afferma che i sets di ruoli complessi stimolano le capacità di flessibilità, di empatia, di riflessione e di innovazione, in breve la creatività sociale. Il compito di far fronte ad aspettative contraddittorie diventa sempre più difficile all'aumentare della complessità del set di ruoli, e si rendono necessarie doti di ingegnosità e di creatività sempre maggiori da parte del detentore di ruolo per superare i problemi che ne derivano: deve immedesimarsi più a fondo nella prospettiva di ruolo degli altri e mettere in pratica il 'role taking', non deve attenersi ai modelli comportamentali tradizionali ma affrontare i diversi obblighi di ruolo con notevole flessibilità; deve valutare quali aspettative di ruolo vanno disattese per non fare la figura del 'fanatico', del 'superbo' o dell"arrivista'. L'analisi sociologica dei ruoli risulta utile non da ultimo in quanto favorisce lo sviluppo di queste capacità proprio studiando la complessità delle interazioni concrete e rendendole comprensibili. La conclusione delle ricerche di Laub, ad esempio, è che i sets di ruoli complessi costituiscono i presupposti strutturali fondamentali per lo sviluppo dell'individualità.
Questa conclusione è stata recentemente confermata dal sociologo della medicina svizzero Peter C. Meyer (v., 2000), che l'ha arricchita di nuove prospettive. Dopo aver condotto una serie di ricerche empiriche per stabilire se gli individui che rivestono una pluralità di ruoli (il ruolo professionale, quello di genitore e quello di partner) sono maggiormente soggetti alle malattie di quelli che rivestono un unico ruolo, Meyer è giunto alla conclusione che i detentori del triplice ruolo sopra menzionato sono esposti a un maggiore stress di quelli che svolgono solo due ruoli o un unico ruolo, ma rientrano meno di questi ultimi nella categoria a rischio. Quanto più estese sono le 'configurazioni di ruolo' (per usare la terminologia di Meyer), tanto più efficace è la rete sociale e tanto maggiore il sostegno sociale. I singles, soprattutto di sesso maschile, sono socialmente più poveri e deprivati di sostegno sociale. Le probabilità di contrarre malattie, la frequenza delle visite mediche e la non idoneità al lavoro sono relativamente alte tra i singles di sesso maschile.Il concetto di configurazione di ruolo coniato da Meyer amplia la teoria del set di ruoli in quanto questo non è inteso solo come una cumulazione quantitativa di ruoli, ma come una serie di combinazioni di ruoli tipiche. Le ricerche di Meyer mettono efficacemente in discussione il mito del single come persona libera e privilegiata, dando il colpo di grazia all'immagine dell"homo sociologicus' anche sul piano empirico. Oltre a ciò, le teorie dei ruoli del futuro dovranno richiamare l'attenzione su nuovi problemi. Ci si dovrebbe chiedere, in primo luogo, quali combinazioni di ruoli godono del sostegno sociale e favoriscono nel contempo l'individualizzazione.
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