decisione, teoria della
Studio, attraverso metodi matematici e statistici, della d. preferibile, tra varie possibili, tenendo conto delle conseguenze derivanti da ciascuna di esse. Fissata una d., le conseguenze possono essere certe o incerte. Nel primo caso si hanno i cosiddetti problemi di d. in condizioni di certezza, che risultano immediatamente formulabili come problemi di ottimizzazione deterministica. Nel secondo caso, che è quello più propriamente esaminato nell’ambito della teoria della d., si possono considerare differenti possibilità secondo il punto di vista assunto nei riguardi del concetto di probabilità. Nell’impostazione soggettivista, per es., è sempre possibile assegnare una distribuzione di probabilità in corrispondenza a qualunque situazione d’incertezza. In tal caso si riesce a collegare a ogni d., usando opportuni valori medi, una quantità numerica certa, che può essere considerata come una corretta valutazione della situazione aleatoria data. Se si adottano invece concezioni più restrittive sulla probabilità, per es. le classiche concezioni oggettivistiche, le conseguenze incerte non sono in generale probabilizzabili e risulta più complicato il processo di valutazione delle singole decisioni. Secondo una terminologia diffusa, ispirata a quest’ultimo punto di vista, si parla di situazioni di rischio quando le conseguenze delle scelte sono valutabili probabilisticamente, e di situazioni di incertezza quando non lo sono. Elemento essenziale di gran parte delle applicazioni della teoria della d. è la considerazione esplicita del processo di acquisizione delle informazioni, che viene formalizzato nel modello matematico. Originariamente la teoria della d. è stata formulata da A. Wald (1939) con l’obiettivo di fornire uno schema concettuale capace di unificare la vasta tematica dell’inferenza statistica. Per alcuni aspetti formali la teoria della d. si ricollega invece ai primi elementi della teoria dei giochi (➔) introdotta da J. von Neumann già nel 1928. Le due teorie, che differiscono essenzialmente per il fatto che nella teoria dei giochi si assume la presenza di più ‘giocatori’ in conflitto tra loro, hanno peraltro avuto uno sviluppo quasi contemporaneo e, soprattutto in un primo periodo, denso di reciproche influenze. Si può asserire che la teoria della d. fornisce strumenti di analisi teorica utili ed effettivamente impiegati nei più diversi settori sia dell’elaborazione concettuale sia delle applicazioni pratiche, dalla statistica matematica all’economia, dall’ingegneria (teoria del controllo, affidabilità) alle scienze agrarie, alla geologia applicata, alle gestioni aziendali, e in generale ai più vari problemi concreti della ricerca operativa. Se si indica con Δ={δ} l’insieme delle possibili d., con Θ={ϑ} l’insieme delle circostanze (dette ‘stati di natura’) estranee a colui che decide e capaci di determinare con esattezza le conseguenze della d. prescelta, con Lδ (ϑ) (detta ‘funzione di perdita’) una valutazione numerica delle conseguenze della d. δ quando lo stato di natura è ϑ, fissato ϑ, una d. è preferibile quando la perdita corrispondente è minore (si potrebbe invece considerare una funzione da massimizzare). Escludendo i problemi in condizioni di certezza, in cui quindi è noto quale sia lo stato di natura operante, l’elemento ϑ sarà generalmente incognito; nell’ambito di una concezione ampia della probabilità sarà però sempre possibile stabilire una legge di probabilità P su Θ atta a rappresentare la totalità delle informazioni disponibili. A ogni d. δ ∈ Δ resta così associata una perdita aleatoria Lδ, avente una distribuzione di probabilità determinata da P. Se si considera invece Θ non probabilizzabile, a ogni δ risulta ovviamente associata l’intera funzione Lδ(ϑ). Qualunque sia l’impostazione adottata, è necessario introdurre un criterio di ottimalità capace d’indicare la d. preferibile. Sono stati introdotti sia criteri che utilizzano la legge P (criteri detti bayesiani), sia criteri che non utilizzano P.
Una nozione centrale nell’analisi della d. è quella di «utilità attesa», ossia il valore soggettivo che gli individui attribuiscono a un’opzione. La teoria della d. è stata al centro di numerose indagini psicologico-cognitiviste a partire dagli anni Settanta del sec. 20°, soprattutto in seguito alle ricerche di H. Simon. A partire dalla constatazione che il comportamento reale di scelta degli individui costituisce una violazione della teoria dell’utilità attesa, Simon metteva in evidenza i limiti della teoria, che non sarebbe in grado di descrivere il comportamento effettivo dei decisori (caratterizzato da limiti di tempo e di calcolo nonché da informazione incompleta sulle opzioni disponibili), proponendo un approccio alternativo (la cosiddetta «razionalità limitata») in base al quale gli individui, nel prendere delle d., si orientano verso scelte «soddisfacenti» (satisficing), cioè corsi di azione che soddisfano i bisogni più importanti, anche se la scelta non si configura come quella ottimale. Più recentemente gli approcci descrittivi (D. Kahneman, A. Tversky) alla d. hanno evidenziato la distanza del comportamento reale da quello definito dalla teoria della d., sottolineando in particolare le violazioni, nel ragionamento comune, della postulata non contraddittorietà delle preferenze e i limiti nelle capacità di previsioni probabilistiche, spesso causa di semplificazioni ed errori. Attualmente la d. costituisce un ampio capitolo di ricerca nell’ambito della psicologia cognitiva.
La teoria della d., più propriamente rifomulata come teoria della formazione della d. (ingl. decision making), consiste in generale nello studio dei processi e dei meccanismi di interazione fra comportamenti che mettono capo a d. di rilevanza collettiva. Il problema che si pone in merito alle d. in campo sociale è quello di stabilire se vi siano effettivamente differenze fra il comportamento privato e il comportamento pubblico. A riguardo si possono individuare due tendenze teoriche. Una prima che ritiene le d. pubbliche diverse dalle ‘transazioni private’ – soprattutto quelle economiche – in quanto l’unità fondamentale di riferimento è sempre costituita da un gruppo (formale o informale) e non da singoli individui, i ‘prodotti’ che scaturiscono dalle d. pubbliche sono per loro natura beni indivisibili (per es., i servizi amministrativi), gli obiettivi delle d. sono perseguiti sulla base non solo di calcoli razionali ma anche di valori e ideologie (W.C. Wheaton, R.C. Wood). Tale visione contrasta nettamente con quella di A. Downs e di altri autori che si collocano nel solco della tradizione economicista e che tendono a porre sullo stesso piano i due tipi di d., formulando negli stessi termini i concetti relativi alle d. politiche e a quelle aziendali o familiari, con ciò negando la specifica autonomia del contesto politico. Al contrario, la moderna teoria della formazione delle d. rivendica questa autonomia tutte le volte che entrano in considerazione d. ‘collettive’, cioè in qualche modo o misura vincolanti per l’intera collettività, ma si pone il problema di verificarla volta per volta nella realtà sulla scorta dei seguenti gruppi di variabili: (1) situazione della d., che può essere caratterizzata da sorpresa o anticipazione, dai diversi tempi di risposta e dalle implicazioni di valore; (2) partecipanti alla d., caratterizzati dai modelli di personalità, preferenze ed esperienze sociali; (3) organizzazione della d., caratterizzata dall’insieme dei ruoli e delle strutture; (4) processo di d., «come» vengono prese le d., ovvero la somma di tecniche, metodi, strategie specifiche attraverso le quali – consapevolmente o meno – si giunge a una d. (elezioni, accordi, atti discrezionali ecc.); (5) esito della d., che contraddistingue la d. come ‘prodotto’ nei suoi aspetti di complessità, tempestività, efficacia, congruità e stabilità.