Letteratura, teoria della
L'espressione, elaborata nel terzo decennio del 20° sec. all'interno della corrente dei formalisti russi (B. Tomaševskij, Teorija literatury, 1925; trad. it. Teoria della letteratura, 1978), s'impose negli anni Quaranta grazie a un fortunato manuale di R. Wellek e A. Warren (Theory of literature, 1942; trad. it. 1956). Essa venne a identificare una disciplina in cui la visione s'intreccia continuamente con le tecniche: "senza le tecniche avremmo soltanto l'estetica, da un lato, e la critica letteraria, dall'altro" (Bottiroli 2006, p. xii). Pervenuta al suo massimo sviluppo nel decennio 1963-1973, la disciplina è successivamente entrata in una fase interlocutoria, in cui alle definizioni sistematiche è subentrato un vastissimo dibattito su prospettive, strumenti e, soprattutto, problemi. Di una così ampia e complessa materia, naturalmente, non sarà qui possibile fornire che qualche schematico tratto orientativo.
Determinante, per il suo sviluppo, fu il contributo di F. de Saussure (1857-1913; Cours de linguistique générale, 1916; trad. it. 1967), la cui distinzione tra langue (il sistema linguistico condiviso dai parlanti di una stessa lingua) e parole (l'espressione linguistica individuale) rappresentò la base di tutte le successive teorie strutturaliste che avrebbero assunto a oggetto del proprio studio non tanto i singoli atti comunicativi, quanto piuttosto i sistemi impliciti nelle varie tipologie di comunicazione. Se la langue è un sistema di segni, ciascuno di questi risulta costituito da due parti: il significante, ossia il suo aspetto concreto (sonoro, visivo), e il significato, il concetto espresso dal segno, sulla base di un rapporto quasi sempre arbitrario; ne derivava una forte rivendicazione dell'autonomia del linguaggio, come pure la necessaria adozione di un punto di vista sincronico: i mutamenti diacronici riguardano infatti la parole, non la langue. Infine, i rapporti che costi-tuiscono la lingua in quanto sistema si distinguono in due tipologie: i sintagmi, combinazioni di parole poste, nella linearità del discorso, a formare una catena; le associazioni (o paradigmi, secondo la formula poi introdotta da L. Hjelmslev), intercorrenti tra parole che condividano aspetti in comune. Chiunque comunichi verbalmente, dunque, opera allo stesso tempo sull'asse della selezione (paradigmatico) e su quello della combinazione (sintagmatico): una distinzione fondamentale, perché "consente per la prima volta di mettere in discussione la linearità del testo" (Bottiroli 2006, p. 33).
I primi a giovarsi delle teorie saussuriane nel campo della teoria letteraria furono i rappresentanti del formalismo russo, una corrente critica sviluppatasi tra il 1915 e il 1930 e comprendente, tra gli altri, a Mosca R. Jakobson (1896-1982) e B. Tomaševskij (1890-1957), nell'attuale San Pietroburgo V. Šklovskij (1893-1984), B. Ejchenbaum (1886-1959) e J. Tynjanov (1894-1943). Risale proprio ai formalisti russi il rifiuto della contrapposizione tra forma e contenuto; la prima è infatti da essi intesa non più come rivestimento di un contenuto, ma come principio di organizzazione, da cogliere nella sua specificità. Oggetto della scienza letteraria, precisò Jakobson, doveva perciò ritenersi non la letteratura ma la letterarietà, ossia ciò che fa di un testo un'opera letteraria. Tale posizione fu di capitale importanza perché inaugurò l'aspirazione a fondare una scienza della letteratura; ma l'oggetto di questa scienza, la 'letterarietà', è rimasto termine d'insoluto dibattito: tanto meno identificabile, quanto più chiaro è apparso che uno stesso testo può essere percepito come non letterario in un'epoca e letterario in un'altra.
Pur senza approdare in merito a risposte uniformi, i formalisti concordarono nell'idea che il linguaggio letterario si distingue dagli altri, strumentali, in quanto autonomo, privo di funzioni pratiche, e denso, ossia capace di reagire alla ripetitività indotta dall'abitudine con una specifica funzione defamiliarizzante (Šklovskij). Fondamentale poi, per lo sviluppo del successivo strutturalismo, fu l'interpretazione di Tynjanov dell'opera come sistema e dei suoi elementi come fattori di correlazione con analoghi elementi presenti in testi affini (inter-testualità) e con altri elementi della stessa opera (infratestualità); correlazione soggetta peraltro a una gerarchia, a una dominante. Appartato, ma fondativo nella storia della moderna narratologia, fu il contributo di V. Propp (1895-1970) con Morfologija skazki (1928; trad. it. Morfologia della fiaba, 1966): individuata la fiaba di magia come tipologia distinta di racconto, Propp ne riconobbe le grandezze costanti non nei caratteri dei personaggi ma nelle funzioni delle loro azioni, ossia nel significato da queste assunto nello svolgimento dell'intreccio, riconducibile al regolare succedersi di 31 funzioni narrative.
Presupposto teorico del formalismo era il principio dell'autonomia della letteratura, da cui sarebbe scaturita la dibattuta questione di una sua conciliazione con la dimensione storica dell'esperienza letteraria; subito, comunque, risultò chiara la sua contrapposizione al presupposto marxista dell'arte come sovrastruttura, fatto proprio dalla classe dirigente sovietica. La quale, mentre osteggiava le voci non ortodosse (nel 1929 Jakobson emigrò a Praga, M. Bachtin, 1895-1975, fu confinato in Kazakistan), trovò nell'ungherese G. Lukács (1885-1971), stabilitosi a Mosca nel 1933, l'elaboratore di un'estetica del realismo, inteso come rispecchiamento della realtà sociale non nel suo aspetto fenomenico (il solo colto, per Lukács, dalle avanguardie novecentesche) ma nelle sue cause interne; una prospettiva in cui al contenuto era assegnata un'evidente priorità rispetto alla forma, che esso stesso determinerebbe. Tali conclusioni suscitarono numerose obiezioni nello stesso pensiero marxista, anche se a costo di sempre meno ortodosse interpretazioni (come quella di Th.W. Adorno) della dottrina ufficiale. Tra i teorici neomarxisti, in ogni caso, l'eredità più duratura appare quella di W. Benjamin (1892-1940), secondo cui (come argomentò nel suo celebre saggio del 1936, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit; trad. it. 1966) la riproduzione moderna dell'arte realizzata con mezzi tecnici, privando l'opera dei suoi originari caratteri d'individualità, insostituibilità, lontananza, ne ha messo in crisi l'o-riginaria "aura" magico-simbolica; effetto di questa evoluzione è la possibilità di un'arte nuova, svincolata da ogni connotazione mitica, fondata sulla politica; da cui, in contrasto con Lukács, la simpatia di Benjamin per l'avanguardia. Ancor meno ortodossa, come confermano le accennate vicissitudini giudiziarie, fu la riflessione di Bachtin, costretto al silenzio, dopo l'esordio del 1929, fino ai primi anni Sessanta. A Bachtin si deve, innanzitutto, il concetto di romanzo polifonico: formula da intendersi non come semplice compresenza di una pluralità di voci, ma come incessante e conflittuale dialogia, interna alla singola voce e operante tra voci diverse (compresa quella dell'autore). Di qui anche, contro le conclusioni della linguistica strutturale, il maggiore interesse per il singolo atto comunicativo, nella sua concretezza e irripetibilità, e nella sua costitutiva 'socialità', dovuta al suo costante rapporto dialogico con altri enunciati. L'analisi del discorso polifonico guidò infine Bachtin a interpretare la nascita delle più peculiari esperienze letterarie della modernità, nate dall'ambito espressivo della parodia (prima fra tutte il romanzo), come effetto di quella logica del rovesciamento e delle ibridazioni che nella cultura occidentale ha nel Carnevale le sue radici.
Contestualmente agli esordi bachtiniani, i componenti del Circolo linguistico di Praga (tra cui J. Mukařovský e l'esule Jakobson) pub-blicarono nel 1929 le loro celebri Tesi, considerate l'atto fondativo dello strutturalismo linguistico. La lingua vi è presentata come ca-ratterizzata da diverse funzioni (tra cui quella poetica), le quali, in disaccordo con i principi del formalismo, si ritengono relazionabili con le altre dimensioni sociali, in quanto tutte serie di un più vasto e complessivo sistema. Tali concetti sarebbero stati precisati da Jakobson, ma anche semplificati, in un famoso intervento del 1960 (Linguistics and poetics; trad. it. in Saggi di linguistica generale, 1966): dati i sei fat-tori della comunicazione (mittente, messaggio, destinatario, contesto, contatto e codice), a ciascuno dei quali corrisponde una funzione linguistica dominante, quella poetica caratterizzerà ogni testo inteso ad attirare l'attenzione, in primo luogo, sul messaggio in quanto tale. Empiricamente, la stessa funzione fu da Jakobson così definita: dato che la selezione (asse paradigmatico) si opera sulla base dell'equivalenza, mentre la combinazione (asse sintagmatico) si basa sulla contiguità, la funzione poetica è quella che proietta il principio di equivalenza dall'asse paradigmatico all'asse sintagmatico.
Proprio nei primi anni Sessanta del 20° sec., in virtù di una generale distensione, la tradizione del formalismo ricevette nuovo impulso in Unione Sovietica, pervenendo ai risultati più significativi nella ricerca semiologica di J. Lotman (1922-1993): teorico del carattere iconico, rappresentativo (e non puramente convenzionale) dei segni dell'arte, con conseguente semantizzazione degli stessi elementi formali; e sostenitore dell'esistenza di una correlazione tra le regole interne al testo letterario e il codice culturale al quale esso appartiene. Tuttavia il metodo strutturalista, incentrato sull'approfondimento della nozione di paradigma, si sviluppò soprattutto in Francia. Esso adottò come procedimento operativo la costituzione di un simulacro (o struttura) dell'oggetto analizzato, capace di rivelarne l'identità funzionale; un simulacro derivante da un'opera di ricomposizione, sul piano sin-tagmatico, dei paradigmi costruiti con i frammenti in cui il testo è stato inizialmente ritagliato.
Sul piano teorico, d'altra parte, lo strutturalismo francese si sviluppò secondo due fondamentali impostazioni. Una, detta grammaticale, si basò sul presupposto che il linguaggio denotativo fosse anteriore a quello figurale, e sulla ricerca non solo di rapporti ma anche di costanti, sino all'individuazione di una matrice generativa: basti pensare ai mitemi (unità minime del mito) di C. Lévi-Strauss (n. 1908), o al mo-dello narratologico di A.J. Greimas (1917-1992), assai più universale rispetto a quello di Propp, strutturato in tre coppie di funzioni denominate attanti: soggetto e oggetto, destinatore e destinatario, aiutanti e oppositori. L'altro indirizzo, i cui massimi rappresentanti furono R. Barthes (1915-1980), J. Lacan (1901-1981) e M. Foucault (1926-1984), si definisce invece trasformazionale in quanto, tendendo a rilevare e non a sopprimere i conflitti su cui l'opera si fonda, ricerca le 'trasformazioni' che i suoi elementi reciprocamente si determinano. Tale tendenza, sulla base della sintesi operata da Lacan tra linguistica saussuriana e psicoanalisi freudiana, considera inoltre i fenomeni psichici inconsci come formazioni linguistiche, le quali, colte in una fase anteriore alla loro interpretazione, si mostrano pertinenti al regime figurale: tanto più che i processi dell'inconscio, la cui logica risulta dunque di natura retorica, presiedono a continui slittamenti tra signi-ficanti e significati, mai compiutamente sovrapponibili.
Dagli anni Settanta, in virtù di sollecitazioni provenienti soprattutto dal pensiero di M. Heidegger, il dibattito teorico ha mostrato la tendenza a spostarsi sul ruolo del lettore. In tal senso, per iniziativa soprattut-to di W. Iser (n. 1926) e H.R. Jauss (1921-1997), si è sviluppata una teoria della ricezione che pone come oggetto della ricerca letteraria non più il testo ma la sua concretizzazione, quale si determina all'atto della lettura. Il testo letterario infatti, per l'assenza di una perfetta correlazione tra i suoi contenuti e le situazioni della vita 'reale', appare caratterizzato da una sostanziale indeterminatezza e apertura, alla quale solo il lettore pone termine. Mentre tuttavia Iser guarda a questo processo come esperienza individuale, Jauss lo concepisce in termini storici e collettivi: individuando nel tempo il succedersi di vari paradigmi interpretativi, all'origine di precisi orizzonti di aspettative nel lettore, egli può con-cluderne che "la completa arbitrarietà delle interpretazioni è limitata dalle condizioni storiche di domanda e risposta" (Fokkema, Kunne-Ibsch 1977; trad. it. 1981, p. 161).
Il ruolo dell'interprete è determinante, pur se per tutt'altre strade, anche nel decostruzionismo di J. Derrida (1930-2004), particolarmente fortunato nel mondo delle università americane. Suo fondamento è il rifiuto di una costruzione gerarchica dominante nel pensiero occidentale, secondo la quale il linguaggio orale precede quello scritto, il significato precede il significante, ed è a sua volta semplice riflesso della verità effettuale; ne consegue che il significato assume la consistenza di una presenza, la quale si pone, di volta in volta, come centro che governa la struttura (logocentrismo). A questo meccanismo si può reagire rifiutando che in un sistema (quale è l'opera letteraria) uno dei due poli di ciascuna ambivalenza diventi un centro; così, l'operazione di ribaltamento cui Derrida sottopone la visione del linguaggio orale come forma di trascrizione originaria del significato (fonocentrismo), e dunque privilegiata rispetto alla scrittura, per considerarla invece come una sottospecie della seconda, è appunto ciò che egli chiama decostruzione.
Individuare 'gerarchie' nei testi e ribaltarle, va detto, rappresenta un esercizio attento ai rapporti intertestuali e all'aspetto paradigmatico dei testi, non certo a quello sintagmatico. Non a caso il rifiuto di ogni centro di significato ha rappresentato un importante sostegno per diversi e fortunati (in particolare negli Stati Uniti) orientamenti teorici, accomunati dal rifiuto di quel occidentale'che ha invece trovato uno strenuo difensore in H. Bloom (n. 1930; The western canon, 1994, trad. it. 1996); orientamenti, va aggiunto, in cui la t. della l. ridimensiona largamente le proprie ambizioni scientifiche, per riassumere uno stretto rapporto con l'ideologia e la politica. Si può ricordare innanzitutto la corrente postcolonialista, i cui esponenti di maggior spicco sono forse E.W. Said (1935-2003) e G.Ch. Spivak (n. 1942). Tale corrente si è prefissa il difficile compito di elaborare modelli in grado di riscattare la marginalità delle culture subalterne, e al tempo stesso d'inserirsi nella riflessione occidentale. Quindi la corrente femminista, entro la quale la tesi di una profonda differenza tra la scrittura femminile e quella maschile, e della necessità di recuperare una tradizione femminile che la critica (maschile) avrebbe sottostimato, è stata promossa dalla statunitense E. Showalter (n. 1941); laddove in ambito francese, sulla scorta della lezione di J. Kristeva (n. 1941), si è piuttosto posto l'accento sui modi della scrittura al femminile. Grande attenzione, infine, hanno suscitato i teorici del postmoderno: a partire da J. Baudrillard (n. 1929), per il quale, nell'epoca di simulazioni cui l'umanità è approdata, e in cui la sola realtà è quella veicolata dai media, la dimensione dell'arte non può essere che quella del pastiche, ricombinazione di frammenti estratti da un passato perduto. Per J.-F. Lyotard (1924-1998), d'altra parte, il postmoderno si qualifica come l'epoca in cui hanno defi-nitivamente perso credibilità i Grandi racconti che unificavano i diversi campi del sapere e dell'agire. Da una prospettiva marxista, infine, F. Jameson (n. 1934) ha teorizzato la possibilità di una generale acquisizione della società postmoderna nell'ottica del materialismo dialettico, e dell'ammissione (da essa operata) della cultura di massa alla dignità della dimensione estetica.
Bibliografia
D.W. Fokkema, E. Kunne-Ibsch, Theories of literature in the twentieth century, London 1977 (trad. it. Roma-Bari 1981). A. Compagnon, Le démon de la théorie. Littérature et sens commun, Paris 1998 (trad. it. Torino 2000).
F. Muzzioli, Le teorie letterarie contemporanee, Roma 2000.
F. Brioschi, Critica della ragion poetica, Torino 2002.
G. Bottiroli, Che cos'è la teoria della letteratura, Torino 2006.