Teoria e storia della storiografia
Nell’Avvertenza (scritta nel maggio del 1916) alla prima edizione italiana di Teoria e storia della storiografia (1917), Croce chiarì che quest’opera, indicata nel frontespizio come quarto volume della Filosofia dello spirito, non formava «una nuova parte sistematica» rispetto ai tre libri precedenti (Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 1902; Logica come scienza del concetto puro, 1909; Filosofia della pratica. Economica ed etica, 1909), ma era piuttosto da considerare «approfondimento e ampliamento alla teoria della storiografia già delineata in alcuni capitoli della seconda parte, ossia della Logica» (Teoria e storia della storiografia, a cura di E. Massimilla, T. Tagliaferri, 2007 p. 7). Il chiarimento era di estrema importanza, sia per evitare facili fraintendimenti sia per collocare l’opera nella giusta posizione all’interno di un sistema di pensiero che ormai, dopo gli studi su Georg Wilhelm Friedrich Hegel, condotti tra il 1906 e il 1907, e dopo la pubblicazione, nel 1909, della Logica e della Filosofia della pratica, appariva definito nelle linee essenziali. Il nuovo libro costituiva, a buon titolo, l’epilogo e il corollario dell’intera filosofia dello spirito, di cui riprendeva e svolgeva alcuni temi essenziali (a cominciare dalla teoria del giudizio individuale), e anche un punto di passaggio verso prospettive ulteriori, quali si compiranno, per citare soltanto i momenti principali, nella tetralogia delle opere storiche – che si concluderà, nel 1932, con la Storia d’Europa dal 1815 al 1915 – e nei due libri La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura (1936) e La storia come pensiero e come azione (1938).
Ma Teoria e storia della storiografia significò soprattutto, nel percorso intellettuale di Croce, la soluzione definitiva ed esplicita di un problema e persino di un equivoco che aveva accompagnato, fin dall’inizio, la sua riflessione speculativa. Nella memoria del 1893, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte («Atti dell’Accademia pontaniana», 23, pp. 1-32), aveva infatti sostenuto la tesi della natura estetica della storiografia, distinguendone l’ambito conoscitivo dalla diversa sfera della scienza: e questa posizione, nonostante la determinazione dei gradi spirituali, aveva resistito nella grande Estetica del 1902 (ma anche nelle successive edizioni di questo libro) e nel saggio Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro («Atti dell’Accademia pontaniana», 1905, 35, pp. 1-140), dove compariva bensì la figura del giudizio individuale, ma come atto sintetico ulteriore rispetto alla dimensione logica, risolta nella definizione del concetto puro. Solo con la Logica del 1909 – in particolare con la “Postilla” autocritica che appose al termine del capitolo “Identità di filosofia e storia” (a cura di C. Farnetti, 1996, pp. 233-35) – e con la Filosofia della pratica – dove mise in luce l’origine pratica del criterio di esistenza – Croce giunse a superare quella spiegazione estetica della storia, riconoscendone ormai la natura logica, fondata sulla teoria del giudizio individuale.
E di questa nuova e più matura visione, Teoria e storia della storiografia costituì lo svolgimento finalmente adeguato, nel quale molti temi (a cominciare dalla critica delle filosofie della storia) che erano stati conseguiti precedentemente, a partire da quello della risoluzione della storia nell’intuizione estetica, vennero ripensati in profondità, rifusi e sostanzialmente corretti. Per questo, il nuovo libro non era più quello che aveva immaginato in una pagina dell’Estetica, quando aveva affermato «il bisogno di costruire una teoria della storiografia, ossia d’intendere la natura e i limiti della storia» (a cura di F. Audisio, 2014, p. 76), o nel Piano di studii che aveva redatto nell’aprile del 1902, quando in un’annotazione aveva accennato, sia pure con un dubitativo «forse», a «un volume sulla Teoria della storiografia (con relativa storia del pensiero sull’argomento)», «da interporre» tra estetica e logica, «quasi appendice e sviluppo del primo» (Memorie della mia vita, scritte tra il 1902 e il 1912 e pubblicate poi in Memorie della mia vita. Appunti che sono stati adoprati e sostituiti dal “Contributo alla critica di me stesso”, a cura dell’Istituto italiano per gli studi storici, 1966, rist. anast. 1992, p. 26); né era più quello del quale, in una lettera del 28 giugno 1902, aveva parlato all’amico Karl Vossler come «secondo volume del mio trattato filosofico», sulla «Teoria della storiografia e la storia delle idee intorno a essa», di cui, scriveva, «posseggo già quasi tutto il materiale, benché sia raccolto piuttosto nel mio cervello e nella mia memoria che sulla carta» (Carteggio Croce-Vossler, 1899-1949, 1951, rist. 1983, p. 21): non era più il libro che nel lontano 1902 aveva congetturato, ma un libro interamente nuovo, poiché si fondava su un concetto – la natura logica della storia – che in quel tempo gli era sconosciuto ed estraneo.
Non può sorprendere, perciò, che la genesi dell’opera risultasse particolarmente accidentata, senza dubbio la meno lineare tra quelle di tutte le opere di Croce. Il progetto iniziale risaliva alla richiesta che il filosofo svizzero Fritz Medicus gli aveva rivolto, con una lettera del 12 dicembre 1909, per la composizione di un manuale di «Philosophie der Geschichte» che avrebbe dovuto essere inserito nella collana Grundriss der philosophischen Wissenschaften intrapresa dalla casa editrice J.C.B. Mohr (Paul Siebeck) di Tubinga, alla quale parteciparono autori prestigiosi come Wilhelm Windelband, Karl Joël e Richard Kroner. Croce accolse la proposta, avvertendo l’interlocutore che avrebbe potuto dedicarvisi solo nel 1912, una volta conclusa la monografia su Giambattista Vico e altri lavori di storia letteraria, e riservandosi il diritto di pubblicarne successivamente un’edizione italiana con Laterza (Carteggio Croce-Medicus, a cura di R. Picardi, 2002, pp. 11-12). Dopo che Croce ne ebbe dato notizia a Vossler in una lettera del 25 dicembre 1909, precisando che aveva preferito il volume sulla storia rispetto a un’introduzione all’etica (Carteggio Croce-Vossler, cit., p. 125), il 28 febbraio 1910 si arrivò alla stipula del contratto editoriale.
Iniziato il lavoro di preparazione alla fine del 1911, Croce si rese presto conto che, da parte sua, l’opera promessa era ineseguibile, sia per l’avversione che nutriva per le filosofie della storia (cui il libro doveva essere dedicato in forma espositiva e introduttiva) sia per la resistenza che provava per il genere manualistico. E già il 4 dicembre 1911, in una pagina di diario, tornava risolutamente sui suoi passi:
Ho letto e ripensato intorno alla Filosofia della storia, e sono venuto alla conclusione che mi convenga sciogliermi dall’impegno, incautamente preso, e non sobbarcarmi a un lavoro che appartiene alle solite materializzazioni che i tedeschi odierni usano fare della filosofia (Taccuini di lavoro, 1° vol., 1906-1916, 1987, p. 283).
Ma intanto il lavoro procedeva, e in poco tempo, verso il settembre del 1912, lo schema dell’opera era compiuto: solo che si trattava di un libro diverso da quello promesso e pattuito, non più un manuale sulla filosofia della storia, ma una trattazione della teoria della storiografia e della sua storia, che la casa editrice tedesca accettò di accogliere, senza compenso all’autore, al di fuori della collana Grundriss, con il titolo Zur Theorie und Geschichte der Historiographie.
La composizione dei diversi capitoli si rivelò altrettanto difficile, anche se Croce, fedele alla precisione del suo metodo di lavoro, realizzò sostanzialmente il prospetto iniziale. Il primo saggio – corrispondente ai primi tre capitoli della prima parte, quella teorica – venne scritto tra il 9 settembre e il 14 ottobre 1912; fu poi letto all’Accademia pontaniana di Napoli nella seduta del 3 novembre e pubblicato negli «Atti» della stessa Accademia con il titolo Storia, cronaca e false storie (1912, 42, pp. 1-32). Il quarto capitolo, “Genesi e dissoluzione ideale della ‘Filosofia della storia’”, fu composto tra la fine di ottobre e i primi di novembre e pubblicato, con lo stesso titolo, sull’«Annuario della Biblioteca filosofica» di Palermo, diretto da Gentile (1912, 2, 5, pp. 307-404). I restanti capitoli della prima parte, dal quinto al nono, scritti nel gennaio del 1913, vennero letti all’Accademia pontaniana il 2 febbraio e pubblicati negli «Atti» con il titolo Questioni storiografiche (1913, 43, pp. 1-32). La seconda parte del libro, Intorno alla storia della storiografia, fu scritta, sulla base del vasto materiale raccolto, tra il 1° novembre 1912 e il 27 febbraio 1913, e pubblicata nella «Critica» in otto successivi fascicoli del 1913 (pp. 161-253).
Croce poté inviare il volume all’editore tedesco il 10 maggio 1913, e il libro – nella traduzione di Enrico Pizzo – uscì solo due anni dopo, nel marzo 1915. Ma intanto, dal maggio 1916, Croce cominciò a prepararne l’edizione italiana, che fece apparire per l’editore Laterza nel luglio 1917, apportandovi correzioni rispetto all’edizione tedesca e soprattutto aggiungendovi «tre brevi saggi, collocati come appendice alla prima parte» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 7), che erano stati composti nel 1916: si tratta dei capitoli “Le notizie attestate”, “Analogia e anomalia delle storie speciali” e “Filosofia e metodologia”. L’opera, nella versione italiana, ebbe sei edizioni nel corso della vita dell’autore (nel 1917, nel 1920, nel 1927, nel 1941, nel 1943 e nel 1948): a partire dalla terza edizione, quella del 1927, Croce vi aggiunse una nutrita sezione conclusiva di Marginalia (da appunti e recensioni), che aveva per la gran parte pubblicati (con la sola eccezione di cinque articoli), dal 1919, sulle pagine della «Critica».
La ‘contemporaneità’ della storia
Nella seconda sezione della prima parte della Logica, Croce aveva determinato l’atto logico nella figura del giudizio individuale, quale sintesi a priori di intuizione e concetto, risolvendo in esso non solo la natura del concetto e della definizione, ma anche la percezione e il «predicato di esistenza» (cit., pp. 129-39). Nella seconda parte dell’opera, aveva pertanto riconosciuto «tutti i caratteri della Storia o Storiografia» nella «definizione e identificazione della Storia col giudizio individuale» (p. 205), arrivando, su questa base, ad affermare la piena identità di filosofia e storia: perché, spiegava,
filosofia e storia non sono già due forme, sibbene una forma sola, e non si condizionano a vicenda, ma addirittura s’identificano. […] Né la storia precede la filosofia né la filosofia la storia: l’una e l’altra nascono a un parto (p. 232).
E nella Filosofia della pratica, dopo avere illustrato l’idea del progresso e la dialettica tra volizione e desideri, poteva offrire un chiarimento ulteriore alla teoria dell’«istorica», sottolineando che il «criterio di esistenza», già delineato nella percezione logica, trova nella positività della prassi la sua «origine», con la conseguenza che mentre l’arte è «di qua dal possibile e dal reale», la storia rappresenta «sempre le azioni», cioè la realtà attuale del volere (a cura di M. Tarantino, 1996, p. 188).
Questi assunti – enucleati nella parte più profonda del sistema dello spirito – costituivano il presupposto speculativo della prima tesi di Teoria e storia della storiografia, quella relativa alla contemporaneità di ogni storia, e dunque della storia stessa, considerata come «storia viva» e perciò distinta dalla «storia morta»: la contemporaneità, lungi dall’apparire, secondo l’uso comune, come il carattere di una classe di storie (concernente l’epoca più prossima), diventava la nota essenziale di ogni autentica comprensione storiografica. La storia, spiegava Croce, in quanto indagine del passato, muove sempre da «un interesse della vita presente», e quindi «non risponde a un interesse passato, ma presente» (cit., p. 12). Non è la semplice curiosità o un astratto bisogno speculativo, ma è solo l’interesse urgente della vita attuale, della volontà, della prassi, che spinge a ricostruire il senso del passato, conferendo a cose altrimenti silenti la voce intensa che acquistano per noi fonti e documenti. È solo quando il presente «apre innanzi a me il problema» (p. 13) del passato, che la storia può accendere la scintilla del sapere. Questo non significa, però, che la storiografia rimanga asservita al suo principio vitale, che resti subalterna al motivo pratico che la muove, quasi risolvendosi in un atto della volontà: pur iniziando da «un interesse della vita presente» (p. 12), la conoscenza storica lo trascende in una schietta comprensione teoretica, distinguendosene e arrivando a costituire, in un ritmo circolare, la premessa razionale di azioni ulteriori.
Nella tesi della contemporaneità, insomma, tornava in gioco tutto il rapporto che Croce aveva delineato tra la teoria e la prassi, nella loro unità e distinzione: tornava in gioco, nei confronti delle diverse dottrine di Arthur Schopenhauer o di Friedrich Wilhelm Nietzsche, la persuasione che la volontà non è mai cieca potenza, o semplice vitalità, ma è sempre preceduta e innervata dal lume della ragione e seguita, pertanto, da un atto conoscitivo. In Filosofia e storia, uno dei Marginalia aggiunti alla terza edizione (1927) – era già comparso sulla «Critica» (1926, 24, pp. 109-11), come recensione a un saggio di Bernhard Schemeideler (Zur Psychologie des Historikers und zur Lage der Historie in der Gegenwart, «Preussische Jahrbücher», novembre-dicembre 1925, pp. 219-39, 304-27) –, Croce chiarì il senso della sua teoria della storia «come storia contemporanea», insistendo sul fatto che, come le passioni «sono la condizione indispensabile perché sorga la poesia», ma «non sono la poesia», così «gl’interessi pratici non sono la storiografia», ma si limitano a «porgere la materia» affinché sorga la storia come «un atto originale e puro dello spirito teoretico»: la quale, spiegò, «consuma o cancella (come avrebbe detto lo Schiller) la materia nella forma: la consuma, ma per consumarla deve trovarsela innanzi, e in quel consumarla si svolge l’opera sua» (pp. 280-81).
L’idea della contemporaneità richiamava quindi la dottrina logica del giudizio individuale, in quanto, nella sua esistenza reale e autentica, la storiografia appariva come sintesi «di documento e narrazione, di vita e storia» (p. 14); o anche, in termini vichiani, come la conversione del certo e del vero, dove «la filologia, congiungendosi con la filosofia, produce la storia» (p. 23). Appariva, insomma, come sintesi a priori di intuizione e concetto, mossa da un interesse vitale della volizione pratica. Seguendo una precisa analogia con il discorso logico, questa sintesi poteva tuttavia spezzarsi, fino a generare una narrazione senza documenti o una serie di documenti senza narrazione, cioè una storia morta e non viva, astratta e non concreta, risultato di un semplice «atto di volontà», cui Croce attribuiva la qualificazione di «cronaca»:
la mera narrazione non è dunque altro che un complesso di vuote parole o formole, asserito per un atto di volontà. Ora, con questa definizione noi siamo pervenuti né più né meno che ad assegnare la distinzione vera, cercata invano finora, tra la storia e la cronaca (p. 17).
Un gesto della volontà, appunto, come gli pseudoconcetti o finzioni concettuali che, nella sfera logica, imitavano e rompevano l’unità della sintesi, generando le figure astratte delle scienze empiriche o dei generi letterari. Solo che, nel campo della storiografia, la cronaca arrivava a toccare figure illustri del sapere, come «archivisti e archeologi», «biblioteche, archivi, musei», «filologi puri e semplici», definiti «veri animaletti innocui e benefici» (p. 28), «con l’ingenua loro credenza di tener sotto chiave la storia, e di disserrare a loro libito le “fonti” da cui l’assetata umanità potrà attingerla» (p. 23). Che erano, come si vede, parole forti e forse ingenerose, destinate a sollevare proteste e perpetue incomprensioni; ma che, al di là del tono eccessivo, non intendevano affatto negare l’importanza della cronaca e della filologia, concepite come un necessario e utile deposito di «storia morta», destinato a rivivere e a farsi presente «via via che lo svolgimento della vita così richiede» (p. 22); e che soprattutto miravano a ribadire che, in questa concezione, «lo spirito stesso è storia» (p. 22), cioè sintesi di verità e certezza, reale solo nell’unità dei suoi momenti distinti.
La distinzione di cronaca e storia, di storia morta e storia viva, permetteva infine di passare dalla considerazione delle forme comunque «fisiologiche» della storiografia (come la filologia) all’esame della «patologia, alle forme che non sono forme ma difformazioni, non vere ma erronee, non razionali ma irrazionali» (p. 24): al «ciclo delle forme erronee di storia» (p. 35), consistenti, in generale, nella ricaduta del discorso storico nella sfera anteriore della poesia e dell’arte, o nella caduta impropria in quella, successiva, della pratica utilità. «Forme erronee» che, nel capitolo secondo della prima parte, “Le pseudostorie”, venivano elencate ed esaminate a una a una, dalla «storia filologica», che intende «costruire una storia con cose esterne» e «mute» (p. 24), alla «storia poetica», ordinata dal «sentimento» invece che dal pensiero (p. 30), fino alla «storia oratoria o rettorica», che sostituisce un fine pratico, o di tendenza, al fine conoscitivo (pp. 36-37).
Errori, dunque, e «difformazioni», in quanto scambio e confusione tra forme distinte della realtà, ma tuttavia, considerati in se stessi, errori salutari e persino indispensabili, come sempre è l’errore in quanto «momento negativo e dialettico dello spirito», che è necessario alla «concretezza del momento positivo», pur restando per sé privo di autonomia e di esistenza empirica (p. 41): come può sperimentare ciascuno nell’effettivo esercizio della pratica storiografica, che sempre vede sorgere simpatie e antipatie (come nella storia poetica), interessi (come nella storia oratoria) e memorie (come nella storia filologica), e sempre li supera e li innalza nella schietta comprensione teoretica, «distinguendosi dalle non-storie e vincendo i momenti dialettici che nascono da queste» (p. 42). Errori, dunque, che sono una legittima parte della verità, inclusi e oltrepassati nella sua positiva struttura conoscitiva, ma che si trasformano in vere e proprie «pseudostorie» quando sono accompagnati dalla «pretesa» (p. 25) di sostituirsi alla storia autentica, negandola e violandone lo statuto specifico: «l’errore – concludeva Croce – non è in ciò che si fa, ma in ciò che si pretende fare: non già nel creare poesie, ma nell’asserire storie che siano poesie, storie poetiche, contradizione in termini» (p. 34).
In una breve nota scritta il 4 marzo 1927, intitolata Le storie nazionalistiche e aggiunta tra i Marginalia della terza edizione, la questione della «storia poetica» e «oratoria» trovò uno svolgimento di rilievo a proposito delle «leggende» e dei «miti», come quello del «germanesimo» (p. 240) inventato in epoca romantica, o come quello, allora tristemente attuale, della discendenza della grandezza italiana dall’impero romano, che avevano accompagnato e continuavano ad accompagnare le storie patriottiche e nazionali. Ragionando su questi esempi, e generalizzandone il significato, Croce arrivava a concepire la storia stessa come perenne «critica» del «mito», perché i due termini, spiegava, stanno tra loro «in intimo contrasto» e danno luogo «a un’antinomia» (p. 289): se il mito, aggiungeva, è «cosa necessaria all’azione», è altrettanto da dire che «all’azione è necessaria la verità», cioè l’opera critica della storia, «la quale non abbatte se non sostituendo, e sostituisce la severa verità della storia alla semiverità del mito e della leggenda» (p. 290). Intesa nella sua figura logica, nel rapporto intrinseco con la verità, la storiografia assumeva perciò la funzione di critica del mito e della leggenda, trovando questi, nella forma della memoria comune e dell’agire utilitario, come sostrato e oggetto del proprio lavoro.
Un concetto che riceveva uno sviluppo teorico in un altro dei Marginalia, quello dedicato alla definizione della «storia etico-politica» (pp. 287-89), formula che era stata già introdotta, nel 1925, in un capitolo degli Elementi di politica (poi in Etica e politica, 1931, 19813, pp. 225-34); ora, confutando i diversi tentativi di privilegiare l’economia, la politica o la religione, Croce richiamava alla superiore esigenza del momento morale, inteso concretamente e non astrattamente, come facoltà di penetrare il fondo spirituale della civiltà in «un grande esame di coscienza che l’umanità a volta a volta esegue di se stessa nel suo operare e progredire» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 289). Quella funzione critica, insomma, che veniva assegnata alla storia di fronte al momento utilitario del mito, rivelava qui il volto etico e morale, come capacità di oltrepassare, in un orizzonte universale, la ristretta particolarità dei punti di vista.
Nel capitolo quarto della parte teorica, Croce illustrò la «genesi» e la «dissoluzione ideale» (p. 54) delle filosofie della storia, portando a chiarezza definitiva un tema – la critica, appunto, della filosofia della storia – che aveva accompagnato fin dall’inizio la sua riflessione speculativa. A partire dalla memoria del 1893, dove aveva distinto la sfera dell’arte da quella della scienza, Croce aveva negato la legittimità delle filosofie della storia sul fondamento della natura estetica e intuitiva della storiografia: così, nell’Estetica del 1902, aveva criticato l’«intellettualismo storico» (cit., p. 75), cioè la pretesa «di estrarre leggi e concetti universali dalla storia» (p. 75); in modo analogo, nel libro Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel del 1907, dedicando un intero capitolo all’«idea di una filosofia della storia» (in Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia, 1913, a cura di A. Savorelli, 2006, p. 93), era giunto a definirla «una contradizione in termini» (p. 94), perché, spiegava, la storia, «come l’arte, ha il suo materiale nell’elemento intuitivo» e perciò «è sempre narrazione, e non mai teoria e sistema» (p. 93). Con i nuovi risultati conseguiti nella Logica, questa critica era destinata a mutare aspetto, fondandosi non più sulla rivendicazione del momento intuitivo, ma sulla tesi, ben più impegnativa, dell’«identità di filosofia e storia» (cit., p. 223): tesi che implicava, in primo luogo, il superamento del «dualismo d’idee e di fatti» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 52), e dunque il duplice rifiuto della «storia universale» (p. 47) e, d’altro lato, della «filosofia universale» (p. 52), del mito del «sistema chiuso» e «definitivo» (p. 52), del «purus philosophus» (p. 136) impegnato nella soluzione del problema unico e fondamentale dell’essere e del pensiero.
Dal principio dell’identità di filosofia e storia, posto alla radice della nuova critica delle filosofie della storia, derivavano tutti i postulati fondamentali della teoria della storiografia, a cominciare dall’idea della «positività della storia» (p. 70) e dal concetto di progresso che Croce vi enucleava: un concetto di progresso che, diversamente dalla mitologia di una successione di epoche secondo una legge e un ordine necessario, veniva a configurarsi come l’atto stesso del divenire, come l’energia intrinseca della vita spirituale, come passaggio non dal male al bene, ma «dal bene al meglio, in cui il male è il bene stesso, visto alla luce del meglio» (p. 72). Il fine della storia si trasformava, così, da fine esterno in «finalità interna» (p. 71), nel senso kantiano dell’espressione, superando il duplice errore del «progressum ad finitum» e del «progressum ad infinitum» (p. 71).
Questa teoria del progresso implicava, come si è visto, l’esclusione di fatti o epoche di «mera decadenza», del fenomeno stesso del regresso e, di conseguenza, di «giudizi negativi» (p. 74): come aveva ampiamente argomentato in un importante articolo del 1909 sui giudizi di valore, le valutazioni negative del passato sono «l’espressione di un sentimento» (Saggio sullo Hegel, cit., p. 394) e non della conoscenza storica, derivando da susseguenti «valutazioni pratiche» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 75) e da bisogni che appartengono all’azione. Considerata in se stessa, la storia si compone esclusivamente di giudizi positivi, che illustrano il trapasso dal bene al meglio, nella perenne positività dei suoi fatti; e allo storico non spetta, perciò, il compito di giudicare gli eventi, ma quello di giustificarli, cioè di spiegarli nella loro interna finalità; e, concludeva Croce con una battuta tagliente,
la storia non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice; e giustiziera non potrebbe farsi se non facendosi ingiusta, ossia confondendo il pensiero con la vita, e assumendo come giudizio del pensiero le attrazioni e le repulsioni del sentimento (p. 75).
Inoltre, il principio dell’identità di filosofia e storia, in quanto vichiana conversione del vero e del certo, permetteva di aggredire l’autentico presupposto delle filosofie della storia, lo «scetticismo» (p. 28) e soprattutto l’«agnosticismo», quella posizione «che non nega assolutamente alla storia la verità, ma le nega la verità piena» (p. 43), secondo la comune sentenza che «della storia solo una parte, una piccolissima parte, ci è nota» (p. 43): la poca conoscenza che abbiamo del passato, del «buio delle origini» (p. 44) e persino del tempo più vicino o presente, quell’«eterno fantasma della “cosa in sé”» (p. 46) che accompagnerebbe ogni nostro atto conoscitivo, diventano così il preludio di una ricerca disperata dell’universale oltre il particolare, del significato distaccato dal fatto.
In realtà, spiegava Croce, del passato conosciamo ciò che suscita il nostro interesse, e il resto, quello che tralasciamo e ignoriamo, merita di essere abbandonato perché estraneo alla nostra vita attuale. E l’universale, che si cerca fuori del fatto, è proprio quel valore che lo costituisce intrinsecamente come fatto, in una sintesi positiva e compiuta. Da questa critica del fondamento agnostico delle filosofie della storia, si può osservare, d’altronde, la complessità del giudizio che Croce formulò sull’opera di Leopold von Ranke: del quale condivideva, senza dubbio, il principio (che trascrisse, approvandone la sostanza) per cui «ciascun’epoca è immediatamente da Dio, e il pregio suo consiste non nell’effetto che esce da essa, ma nella sua esistenza stessa, nella sua propria individualità» (p. 270); ma di cui criticò, qui e altrove, la «ripugnanza» (p. 270) per la filosofia, che inaugurò «l’ardimento di respingere addirittura l’introduzione del pensiero nella storia» (p. 247) del successivo positivismo.
Il punto centrale della «dissoluzione» (p. 54) stava dunque nella reciproca dipendenza, e nel mutarsi l’uno nell’altro, di determinismo e filosofia della storia. Da un lato, la concezione deterministica – di cui assumeva come emblema il celebre motto di Hippolyte Taine, «la recherche des causes doit venir après la collection des faites» (Histoire de la littérature anglaise, 1° vol., 1864, 18662, p. XV) – trascendeva il fatto nel regresso all’infinito delle cause prossime, in una catena che doveva necessariamente interrompersi e spezzarsi in un punto, lasciando il conoscere storico nell’incompiutezza; d’altro lato, proprio in tale orizzonte naturalistico, le filosofie della storia vi inserivano l’elemento universale e conclusivo, trascorrendo dalle «cause prossime» alle «cause ultime» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 55), sino alle figure, altrettanto mitiche, del «fine trascendente» (p. 57) e del «significato» attribuito all’intero processo, con la costruzione di una storia «poetica» (p. 58) ispirata dal sentimento:
ed ecco perché la concezione deterministica, dopo avere prodotto la “filosofia della storia” che le fa contrasto, è costretta a contrastare a sua volta la propria figliuola, e ad appellarsi dal regno dei fini a quello delle connessioni causali, dall’immaginazione all’osservazione, dai miti ai fatti (p. 59).
Al fondo delle filosofie della storia – scriveva, in maniera caratteristica – permaneva la falsa persuasione che la storia si costruisca con il «materiale» dei fatti bruti, con il «cemento» delle cause e con la «magia» dei fini (p. 67). Ma soprattutto persisteva, come base comune con l’avversario determinista, il mito dei «fatti bruti e slegati» (p. 61), considerati preesistenti alla comprensione storica, e invece a essa successivi, come l’astratto che ferma e irrigidisce il concreto svolgimento della realtà. Fatti non storici solo immaginati e inesistenti, perché, concludeva, il fatto è sempre concreto e, concretamente pensato, «non ha né causa né fine fuori di sé, ma solamente in se stesso» (p. 64).
Al fondo delle filosofie della storia restava un dualismo non superato, tra fatto e idea, tra particolare e universale, o, ancora, tra individuo empirico e storia. Quel dualismo che, nella seconda sezione dell’opera, dedicata alla storia della storiografia, assumeva il volto della «storia prammatica», tanto antica quanto moderna, che, spiegava Croce,
ritrova le ragioni dei fatti storici nell’uomo, ma nell’uomo in quanto individuo reso astratto, e contrapposto, in quanto tale, non solo all’universo, ma anche agli altri uomini, parimenti resi astratti (p. 80).
Di fronte a questa tendenza, che aveva condizionato il sapere storico di ogni tempo, erano stati Vico, con l’idea di provvidenza, ed Hegel, con l’astuzia della ragione, a far valere un nuovo concetto della storia, riportando l’azione dell’individuo nello svolgimento universale dello spirito. Tuttavia, nella concezione di entrambi restava un «vizio» (p. 86) ancora da correggere, un ulteriore dualismo irrisolto e tenace, concentrato nella supposizione che gli individui, nel loro concreto agire, si illudono di perseguire fini propri mentre realizzano i fini universali della provvidenza o della ragione. Questa pretesa «illusione» (p. 86), affermava Croce, è il segno visibile di un contrasto insoluto, della persistente visione di un individuo disgiunto dalla propria opera, e perciò in se stesso lacerato:
l’esigenza del concetto idealistico è che individuo e Idea facciano uno e non due, ossia coincidano perfettamente e s’identifichino: epperò non è da parlare (fuorché per metafora) di saggezza dell’Idea, e di follia o illusione degli individui (p. 86).
Per vincere quel residuo occorreva – in coerenza con quanto si leggeva nella Filosofia della pratica e nei Frammenti di etica (1922) – non solo unificare il fatto e l’idea, ma anche l’individuo e l’opera, ribadendo che «se fuori della relazione con lo spirito l’individuo è ombra di un sogno, ombra di sogno è anche lo spirito fuori delle sue individuazioni» (p. 90).
Quando Gentile, nell’ottobre del 1912, ricevette da Croce le bozze della citata memoria Storia, cronaca e false storie (che, come detto, costituirà il corpo dei primi capitoli di Teoria e storia della storiografia), ne accolse con soddisfazione le tesi fondamentali – il concetto di «contemporaneità», la critica della «storia universale» e dell’«agnosticismo storico» –, ritenendo di scorgervi i segni di un rinnovato consenso e di un riavvicinamento: «In questa memoria – scrisse in una lettera del 28 ottobre 1912 – ho visto con gioia che torniamo sempre ad avvicinarci» (Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, 4° vol., 1980, p. 199). E dopo avere pubblicato sull’«Annuario» della Biblioteca filosofica, come già ricordato, il saggio Genesi e dissoluzione ideale della “Filosofia della storia”, considerò, in una lettera del 20 febbraio 1913, «pregni di conseguenze filosofiche e di sommo interesse» (p. 225) i primi due capitoli della memoria Questioni storiografiche (il quinto e il sesto capitolo del libro); arrivando a definire, il 13 maggio 1913, l’intera sezione Intorno alla storia della storiografia, anticipata sulla «Critica», «il più bel lavoro di storia, che tu finora abbi scritto» (p. 234), la cui conclusione – aggiungeva – «non contiene parola che non sottoscriverei con piena coscienza» (p. 235).
L’approvazione che Gentile riservò al nuovo libro di Croce non era ingiustificata: il principio della contemporaneità di ogni storia, la quale, «come ogni atto spirituale, è fuori del tempo» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 11) e «che si forma “nel tempo stesso” dell’atto a cui si congiunge, e da cui si distingue mercé una distinzione non cronologica ma ideale» (p. 11), e la sua stessa distinzione dalla «storia passata» (p. 11) e non contemporanea, sembravano richiamare le linee principali dell’attualismo, persino il vocabolario con il quale, a partire dal 1911, Gentile aveva cominciato a elaborare la sua filosofia. Ma Croce, pur dichiarandosi in una lettera del 29 ottobre 1912 «contentissimo» (Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A. Croce, 1981, p. 432) del consenso dell’amico, non solo ribadì, nelle sue lettere, le differenze e i punti critici, allargando ben presto (fin dal novembre del 1912) la discussione al Sommario di pedagogia come scienza filosofica (2 voll., 1913-1914) di Gentile, ma soprattutto inserì via via, nella trama di Teoria e storia della storiografia, riflessioni e passaggi che tornavano a marcare la divergenza più della sintonia. Così, nel capitolo ottavo, affermò che l’identità di filosofia e storia, conseguita fin dalla Logica, non andava esente da «una grave obiezione» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 98), perché, superata la separazione dei due termini, «sembra che non rimanga alla storia, in quanto atto del pensiero, se non la immediata coscienza dell’individuale-universale, in cui tutte le distinzioni si sommergono e si perdono» (p. 98): e questo, concludeva, «è misticismo, ottimo al sentirsi in unità con Dio, ma disadatto al pensare il mondo e all’operare nel mondo» (p. 98). Che dietro l’obiezione che rivolgeva a se stesso si nascondesse il timore di una confusione con le ‘degnità’ dell’attualismo, risultava evidente nelle battute successive, dove richiamava la differenza tra «l’atto del pensiero […] concepito in modo mistico» (p. 99) e il concetto, che apparteneva alla sua filosofia, dell’«unità che è distinzione» (p. 99), per cui «pensare è giudicare, e giudicare è un distinguere unificando, nel quale il distinguere non è meno reale dell’unificare e l’unificare del distinguere» (p. 99).
Una tendenza a puntualizzare e a precisare che si estese dopo la pubblica discussione del 1913, nel mezzo della quale un allievo di Gentile, Adolfo Omodeo, pubblicò sull’«Annuario della Biblioteca filosofica» (3, 1, pp. 1-28) quel saggio Res gestae e historia rerum gestarum che, criticando la memoria crociana dal punto di vista attualistico, contribuì non poco a evidenziare i punti centrali del dissenso: un tema cruciale, su cui Croce insisterà ancora tra il 1926 e il 1927, con una noterella inserita nei Marginalia (Unità e diversità di storia e storiografia), nella quale, polemizzando ormai apertamente con «la scolastica filosofia» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 274) dell’idealismo attuale, tornerà a ribadire che, al di là della «superficiale somiglianza» (p. 273) tra la tesi della contemporaneità della storia e quella dell’identità di res gestae e historia rerum gestarum, l’accento doveva battere piuttosto sulla distinzione dei due termini.
L’identità di filosofia e storia, che Croce aveva posto alla base della sua riflessione, era cosa diversa, d’altronde, da quella identità di filosofia e storia della filosofia che Gentile – fin dalla prefazione a Rosmini e Gioberti (1898) e poi, in forma più sistematica, in Il concetto della storia della filosofia (prolusione letta il 10 gennaio 1907 all’Università di Palermo, poi pubblicata in «Rivista filosofica», 1908, 10, 11, pp. 421-64) – aveva elaborata: una formula, quella gentiliana, che Croce aveva fin dall’inizio criticata e respinta, e che, nella Logica, era arrivato a definire come «la formola dell’errore» (cit., p. 332), colpevole di convertire in concetti puri le rappresentazioni e i concetti empirici. Nei capitoli centrali di Teoria e storia della storiografia, svolgeva perciò (ben oltre quanto si leggeva nella Logica) la sua diversa idea della storia della filosofia, che andava considerata al di là della falsa alternativa tra «storia generale» (cit., p. 100) e «storie speciali» (p. 101), nel nesso concreto che la lega alla vita sociale, politica, letteraria, religiosa ed etica, quindi come «tutta la storia» (p. 102), «non perché annulli in sé le altre, ma perché tutte sono presenti in quella» (p. 102). Un concetto, questo, che approfondiva e ampliava nella chiusa del capitolo “Filosofia e metodologia”, dove auspicava un radicale rinnovamento della storia della filosofia «in conformità del nuovo concetto della filosofia» (p. 138), liberandola dal mito del «problema fondamentale», a cui corrisponde «una storia della filosofia schematica e scheletrica» (p. 139), e avviandola, invece, all’esame di quei «problemi particolari», malamente attribuiti a filosofi ritenuti minori, che «pur dovevano produrre alfine un rivolgimento nel cosiddetto “problema generale”» (p. 139): una storia della filosofia, come scrisse, «più ricca, varia e pieghevole» (p. 139), attenta a tutto ciò che ha contribuito alla crescita dell’intelligenza storica e della realtà.
Era un principio, questo del rinnovamento della storiografia filosofica, che ispirava l’intera seconda sezione dell’opera, dedicata alla storia della storiografia, che Croce considerava (sollevando critiche e discussioni tra i cultori di tale disciplina) non ricostruzione dei progressi compiuti intorno a singoli oggetti storici o di determinate correnti metodologiche, ma esposizione dello «svolgimento del pensiero storiografico» (p. 145), in perfetta unità con la teoria della storia; dunque storia della filosofia, o meglio una storia della filosofia che, come abbiamo osservato, è ormai ampliata a «tutta la storia» (p. 102): se filosofia e storia coincidono, concludeva, «coincidono altresì la storia della filosofia e la storia della storiografia: questa non solo non distinguibile da quella, ma nemmeno a lei semplicemente subordinabile, perché tutt’una con lei» (p. 153).
Che la linea teorica elaborata da Croce fosse diversa da quella di Gentile, divenne del tutto chiaro con la pubblicazione sulla «Critica» (1916, 14, pp. 308-15) dell’articolo Filosofia e metodologia, uno dei tre aggiunti nella edizione italiana del 1917 di Teoria e storia della storiografia. In un primo tempo Gentile si mostrò consenziente: «sono interamente con te – scrisse all’amico il 27 giugno 1916 – sul concetto del capitolo che […] hai inserito nella Critica» (Lettere a Benedetto Croce, cit., 5° vol., 1990, p. 90). Ma il 9 luglio 1917 dichiarava l’intenzione di «rilegger tutto da capo» (p. 143) il libro appena ricevuto: lettura che, come scrisse il 6 ottobre ad Armando Carlini, lo deluse e irritò, al punto di parlare di una «liquidazione crociana della filosofia» e di un «abbandono», da parte di Croce, «della ricerca filosofica» (Archivio della Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici, Fondo Giovanni Gentile, serie 1, sottoserie 1); e che lo spinse a introdurre, nella seconda edizione (1918) della Teoria generale dello spirito come atto puro (1916), una nota di velenosa replica e, come ultimo capitolo (“Idealismo o misticismo?”), un testo che rispondeva, punto per punto, alle osservazioni critiche di Croce. In effetti, nel citato articolo crociano del 1916 si leggeva uno svolgimento ulteriore, e di particolare rilievo, alla stabilita tesi dell’unità di filosofia e storiografia: ora Croce si domandava «a che cosa», nel quadro teorico tracciato, «si riduca la Filosofia» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 128). E alla domanda posta, rispondeva che la filosofia, resa identica alla storia,
non può essere necessariamente altro che il momento metodologico della Storiografia: dilucidazione delle categorie costitutive dei giudizi storici ossia dei concetti direttivi dell’interpetrazione [sic] storica (p. 128).
Tanto la storiografia appariva percorsa e innervata dal vigore categoriale del pensiero, tanto la filosofia doveva, coerentemente all’impianto generale della filosofia dello spirito, risolversi nella chiarificazione delle distinzioni dell’estetica e della logica, dell’economica e dell’etica: ma colte, come volle sottolineare, nella concreta situazione storica, nel senso che, se un problema filosofico rimane sterile per il giudizio storico, esso «in realtà non sussiste» (p. 128).
La nuova definizione della «filosofia come Metodologia» (p. 130), mentre dischiudeva quello storicismo assoluto che impegnerà Croce negli anni seguenti, segnava il congedo conclusivo della «filosofia come Metafisica» (p. 130), alla cui critica consacrò la parte più intensa ed estesa del capitolo. Metafisica significava, nella sua ricostruzione, il mito di «un problema fondamentale della filosofia» (p. 131), del «problema generale» (p. 132), cui andava opposta «l’infinità dei problemi filosofici» (p. 131), che tutti nascono «sotto la sollecitazione della nostra vita vissuta» (p. 131) e nessuno dei quali può dirsi ultimo e fondamentale; significava spregiare «la distinzione per l’unità» (p. 133), illudersi sull’esistenza di una «filosofia definitiva» (p. 134), assegnare un improprio primato alla vita contemplativa e affidare l’esposizione speculativa alla «forma architettonica» (p. 137) di un sistema chiuso invece che alla «discussione, la polemica, la severa esposizione didascalica» (p. 138). Di fronte alla grande guerra europea, e alle domande ansiose del presente, uscire dalla metafisica, spiegò, costituisce un «dovere che spetta ai filosofi» (p. 138). E in questa negazione del problema unico, fondamentale e definitivo, della metafisica, in questa dissoluzione della figura tradizionale del filosofo, del «purus philosophus» (p. 136), che arrivava a fondersi con la eseguita «dissoluzione ideale della “filosofia della storia”» (p. 54), l’intero spirito del libro si raccoglieva in un solo concetto, nel riunificarsi del pensiero con le domande della storia, della vita, della prassi.
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