Sovrappiù, teorie del
Nel linguaggio comune, sovrappiù indica "tutto ciò che è in più del normale o del necessario". In questa accezione lo troviamo usato negli scritti su argomenti economici nell'antichità classica e nel Medioevo. Gradualmente, a partire dalla metà del Seicento, il termine assume un significato teorico preciso, riferito al sistema economico nel suo complesso: sovrappiù è quel che resta del prodotto sociale annuo una volta detratto quel che serve a reintegrare le scorte iniziali di mezzi di produzione e di mezzi di sussistenza per i lavoratori impiegati nel processo produttivo. Come il prodotto sociale, anche il sovrappiù è quindi costituito da un insieme di merci. In questa accezione, il concetto di sovrappiù viene a trovarsi al centro delle teorie del valore, della produzione e della distribuzione formulate dagli economisti classici, cioè da quel variegato gruppo di autori che va da William Petty nel Seicento fino a David Ricardo e Karl Marx nell'Ottocento, passando per François Quesnay e Adam Smith nel Settecento.
Successivamente, dopo la 'rivoluzione marginalista' di fine Ottocento, il concetto di sovrappiù viene relegato a un ruolo secondario, studiato (da Alfred Marshall in particolare) nella limitata accezione di 'sovrappiù del consumatore', cioè di utilità guadagnata dall'acquirente nello scambio. Solo di recente, con Piero Sraffa (1960), il concetto classico di sovrappiù è stato riproposto in un ruolo teorico centrale.In quanto segue considereremo la storia delle teorie del sovrappiù, seguendo la traccia che abbiamo appena esposto.
Nel Cinque-Seicento, gli autori che discutono sulle cause della maggiore o minore prosperità dei diversi paesi ricorrono frequentemente a un indice indiretto di ricchezza: la quantità di metalli preziosi in circolazione all'interno di ciascun paese. Nonostante le accuse di 'crisoedonismo' (identificazione della ricchezza con i soli metalli preziosi) rivolte a questi autori, è quantomeno possibile che il riferimento a oro e argento fosse semplicemente dovuto all'assenza di informazioni dirette sulla produzione nazionale. Ad esempio l'italiano Antonio Serra, nonostante il titolo del suo lavoro (Breve trattato delle cause che fanno abbondare d'oro e argento li regni ove non son miniere, 1613), identifica esplicitamente la prosperità con la disponibilità di prodotti agricoli e manufatti.
I tentativi di costruire valutazioni dirette dello stock di ricchezza e del flusso di produzione nazionale iniziano a diffondersi con le ricerche dell'inglese William Petty (1623-1687). Comprensibilmente, nella fase iniziale tali valutazioni non riguardano categorie analiticamente ben definite. Tuttavia, ed è questo quel che qui ci interessa, Petty utilizza nei suoi scritti un concetto di sovrappiù chiaramente definito come prodotto in eccesso rispetto ai mezzi di produzione necessari per ottenerlo, inclusi i mezzi di sussistenza dei lavoratori. Questo concetto è frequentemente riferito a parti autosufficienti del sistema economico, piuttosto che al sistema economico nel suo complesso. Inoltre, il sovrappiù viene identificato con la rendita, senza considerare il profitto come categoria distinta (cosa che diverrà consueta solo verso la fine del Settecento, sulla scia della Ricchezza delle nazioni di Smith), e senza considerare la possibilità che i lavoratori partecipino alla distribuzione del sovrappiù, cioè che i salari siano superiori al minimo di sussistenza. Ad esempio, nel Trattato delle imposte e dei tributi, pubblicato nel 1662, Petty (v., 1899; tr. it., pp. 83-84) dice: "Supponiamo che un uomo possa con le proprie mani coltivare un certo spazio di terreno a grano [...] possa cioè zappare e arare quel tanto che è richiesto per la coltura di quel terreno; ed abbia inoltre il seme con cui seminarlo. Io dico che quando quest'uomo abbia dedotto il suo seme dal prodotto del suo raccolto, ed anche ciò che lui stesso ha mangiato o dato ad altri in cambio dei vestiti e delle altre necessità naturali, il grano che rimane è la vera e naturale rendita della terra per quell'anno [...]".Il sovrappiù può anche essere espresso in termini di numero di persone mantenute da un gruppo di lavoratori che producono lo stretto necessario per sé e per gli altri; accanto alla produzione di servizi e beni di lusso, la disoccupazione appare così come un modo particolare d'impiego (o meglio, di spreco) del sovrappiù.
Per quanto riguarda i fattori che determinano l'ampiezza del sovrappiù, Petty, precorrendo il nucleo centrale dell'analisi di Smith nella Ricchezza delle nazioni, concentra l'attenzione sul numero di lavoratori produttivi e sulla produttività per lavoratore. Fra gli elementi che influiscono su quest'ultima, Petty ricorda quelli naturali, come la facilità di accesso al mare, la disponibilità di porti e di vie naturali di comunicazione, e la stessa fertilità originaria della terra; un rilievo molto maggiore è però attribuito ai fattori tecnologici e organizzativi legati allo sviluppo sociale dei diversi popoli, come i miglioramenti fondiari (bonifiche, irrigazioni, ecc.) e gli investimenti in infrastrutture (strade, canali navigabili); inoltre, Petty sottolinea l'importanza del progresso tecnico incorporato in nuovi strumenti di lavoro, e più in generale della divisione del lavoro.
Un secolo dopo William Petty, e dopo che vari altri autori hanno ripreso in modo più o meno preciso il concetto di sovrappiù, esso viene posto al centro di una costruzione analitica da François Quesnay (1694-1774), medico di Madame de Pompadour alla corte di Luigi XV e capofila dei fisiocrati (o les économistes, come si chiamavano tra di loro). Questo gruppo, compatto e combattivo - tanto da essere considerato una vera e propria setta dai suoi avversari -, ha un obiettivo politico preciso, quello di favorire uno sviluppo economico basato sul progresso dell'agricoltura, da stimolare tramite la libera esportazione dei suoi prodotti.
La politica sostenuta dai fisiocrati è opposta a quella prevalente nel secolo precedente: il 'colbertismo', dal nome di Jean-Baptiste Colbert (1619-1683), potente ministro delle finanze di Luigi XIV dal 1661 alla morte. Questi aveva propugnato un intervento attivo del potere politico centrale nella vita economica, diretto a stimolare soprattutto lo sviluppo delle manifatture, anche tramite un sistema di dazi alle esportazioni di materie prime e alle importazioni di manufatti.
Nel sostenere le ragioni dell'agricoltura e del libero commercio contro il colbertismo, i fisiocrati utilizzano come argomento principale la tesi secondo cui è solo l'agricoltura a produrre un sovrappiù (produit net).
Il più noto fra i seguaci di Quesnay, Mirabeau (Victor Riqueti, marchese di Mirabeau, 1715-1789), e con lui altri fisiocrati, sembrano ritenere che la capacità dell'agricoltura di generare un sovrappiù sia legata alla fertilità della terra (che da un chicco di grano produce una spiga), e sia quindi un dono di Madre Natura. Questa spiegazione dell'origine del sovrappiù, fra l'altro, può essere utilizzata per giustificare l'appropriazione del sovrappiù stesso da parte della classe dei nobili, che sono di diritto padroni delle terre, oltre che signori dei servi della gleba che vivono su di esse.
Anche Quesnay ritiene che solo l'agricoltura dia un sovrappiù, ma per un'altra ragione. Le sue idee a questo riguardo sono deducibili dall'insieme delle sue opere, ma non sono espresse esplicitamente nel suo schema analitico, il celebre Tableau économique che esamineremo fra poco.
Il punto di partenza dell'argomentazione di Quesnay è che in agricoltura sono compresenti due tecnologie produttive diverse, la grande culture e la petite culture, e che la prima delle due è nettamente superiore alla seconda. Dati i prezzi dei prodotti agricoli e dei manufatti prevalenti nei mercati mondiali, l'adozione diffusa della tecnologia agricola migliore permetterebbe di ottenere un ampio sovrappiù rispetto alla situazione dell'epoca. Questa è infatti caratterizzata dal prevalere della tecnologia agricola più arretrata e da diffuse condizioni di miseria, o comunque di ristagno ai limiti della semplice sussistenza per la grande maggioranza della popolazione.
Più precisamente, la grande culture presenta, rispetto alla petite culture, una maggiore dimensione delle aziende agricole e tecniche a maggiore intensità di capitale; richiede quindi maggiori investimenti, che debbono essere stimolati da una sufficiente redditività. Di qui l'opposizione al colbertismo, che favorisce la redditività delle manifatture, e la proposta di una politica di libera esportazione del grano che dovrebbe sostenerne la domanda e quindi il prezzo. Per motivi analoghi i fisiocrati privilegiano il luxe de subsistance rispetto al luxe de décoration, cioè il consumo di prodotti agricoli ma non di manufatti in eccesso rispetto al semplice livello di sussistenza. Per i fisiocrati, infatti, i prodotti agricoli devono ricevere un bon prix, cioè un prezzo sufficiente non solo a coprire i costi di produzione, ma anche a favorire il finanziamento degli investimenti remunerandoli con un interesse adeguato.
Come si è appena accennato, il collegamento fra questa visione dello sviluppo economico, direttamente riferita alle specifiche condizioni della Francia dell'epoca, e il lavoro più strettamente analitico di Quesnay non è esplicito. Per renderlo tale, occorrerebbe ridefinire il concetto di sovrappiù - che Quesnay riprende dalla tradizione economica già esistente - identificandolo con il reddito addizionale ottenibile grazie ai miglioramenti tecnologici in agricoltura, rispetto a un sistema che si riproduce, anno dopo anno, in condizioni tecnologiche stazionarie.
Questa interpretazione ci può aiutare a capire come mai i profitti degli imprenditori agricoli e di quelli manifatturieri, e gli interessi sui capitali monetari, non figurino nel sovrappiù, che corrisponde alle sole rendite pagate ai nobili, proprietari delle terre, e al clero sotto forma di decime. Anche questa interpretazione, tuttavia, non risolve tutti i problemi: infatti, pure nel sistema stazionario precedente i miglioramenti tecnologici dovrebbe esistere una rendita per permettere l'esistenza (e l'agiatezza) di nobiltà e clero. Molto semplicemente, il concetto di sovrappiù utilizzato da Quesnay appare un ibrido riconducibile a definizioni diverse a seconda del punto di vista adottato nell'analisi. È comunque da sottolineare il fatto che il concetto di sovrappiù, nel suo collegamento con il problema del cambiamento tecnologico, gioca un ruolo centrale nell'analisi di Quesnay proprio per quanto riguarda il tentativo di spiegare le caratteristiche dinamiche del processo economico; vedremo più avanti come il rapporto tra sovrappiù e sviluppo assuma una forma diversa nelle teorie degli economisti classici inglesi, centrata sul rapporto tra profitti e accumulazione.
Nel lavoro più specificamente analitico di Quesnay, il Tableau économique (1758), il sovrappiù è, come in William Petty, la parte del prodotto nazionale che eccede quanto è necessario per reintegrare le scorte iniziali dei mezzi di produzione e dei mezzi di sussistenza delle classi attive della società. Per ipotesi, il sovrappiù ha origine in agricoltura ed è identificato con il reddito (rendite e decime) delle 'classi proprietarie', nobiltà e clero. Viene pertanto definita 'classe produttiva' quella degli agricoltori, che raggruppa insieme lavoratori e fittavoli. Viene invece denominata 'classe sterile' quella degli imprenditori e dei lavoratori del settore manifatturiero; il nome deriva dall'assunto che questo settore non faccia altro che trasferire nei manufatti il valore delle materie prime e dei mezzi di sussistenza dei lavoratori impiegati nel processo produttivo. Il tableau économique, o tavola economica, consiste in una rappresentazione grafica che sintetizza il funzionamento del sistema economico, mostrando le relazioni (cioè la serie di scambi di merci contro denaro) che devono intercorrere tra i vari settori produttivi e le varie classi sociali per permettere la sopravvivenza e lo sviluppo del sistema economico.
Senza entrare nei dettagli, ci limitiamo a sottolineare come Quesnay rappresenti il funzionamento del sistema economico come un flusso circolare in cui produzione e scambi si susseguono, e in cui gli scambi, nel permettere la reintegrazione delle scorte iniziali di mezzi di produzione e di sussistenza presso i vari settori dell'economia, determinano anche la distribuzione del sovrappiù. Questa concezione caratterizza tutta la scuola classica, e la contraddistingue rispetto all'approccio marginalista che prevarrà successivamente, a partire dalla fine dell'Ottocento. In Quesnay la concezione classica si presenta ancora priva di alcune categorie centrali, come quelle di imprenditore-capitalista, di profitto e di saggio del profitto; ma appare in tutta chiarezza il problema di una società fondata sulla divisione del lavoro, in cui ogni settore ha bisogno del prodotto di altri settori per continuare a produrre anno dopo anno, e lo ottiene al termine del processo produttivo cedendo una parte del proprio prodotto. Si ha così un flusso ripetitivo di scambi tra i vari settori, che permette la 'riproduzione' del sistema economico e contemporaneamente determina la distribuzione del reddito tra i vari settori e le diverse classi sociali.
La tesi fisiocratica dell'origine agricola del sovrappiù viene criticata da Adam Smith (1723-1790), che considera produttivi anche manifatture e artigianato.Anche per questo, Smith è considerato da molti il fondatore dell'economia politica, nonostante l'esistenza già nel secolo precedente di riflessioni teoriche sui problemi economici. Inoltre il cammino intellettuale di Smith è innanzitutto quello di un 'filosofo sociale', tra i protagonisti - assieme al suo maestro Francis Hutcheson (1694-1746) e al suo amico David Hume (1711-1776) - della felice stagione dell'illuminismo scozzese. Al centro della sua riflessione è il progresso, civile e sociale in senso lato prima ancora che economico, delle società umane. Il suo celebre magnum opus economico, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), segue un trattato di filosofia morale, la Teoria dei sentimenti morali (1759), che non può essere ignorato in una ricostruzione del suo pensiero.
Il contributo principale di Smith allo sviluppo della scienza economica consiste nella proposta di un sistema di concetti sufficientemente organico da permettere l'individuazione di precise relazioni analitiche e adeguato all'interpretazione del nascente capitalismo industriale. La tipologia fisiocratica delle classi sociali (produttiva, sterile, proprietaria) viene sostituita dalla moderna tripartizione della società nelle classi dei lavoratori, dei capitalisti e dei proprietari terrieri, e del prodotto netto nelle tre corrispondenti categorie di reddito: salari, profitti e rendite. Se consideriamo il salario come fissato al livello della semplice sussistenza (un fatto che per Smith dipende dal divario nei rapporti di forza tra capitalisti e lavoratori), il sovrappiù corrisponde alla somma di profitti e rendite.
La ricchezza delle nazioni è identificata nella teoria economica di Smith con il reddito pro capite. Questo dipende da due fattori: la produttività dei lavoratori occupati nella produzione di merci, o lavoratori produttivi, e la quota dei lavoratori produttivi sul totale della popolazione. La divisione del lavoro ha un ruolo centrale nello schema smithiano proprio in quanto determina la produttività del lavoro. A sua volta, lo stadio raggiunto dal processo di crescente divisione del lavoro dipende dall'ampiezza dei mercati, che è influenzata da fattori quali il reddito dei cittadini, le politiche più o meno liberiste adottate dalle autorità pubbliche, il miglioramento nei trasporti.
La quota dei lavoratori produttivi sul totale della popolazione dipende, secondo Smith, soprattutto dal processo di accumulazione del capitale, cioè dalla disponibilità di nuovi mezzi di produzione per dar lavoro a nuovi lavoratori produttivi. Il sovrappiù, che è la fonte dell'accumulazione, viene così ad assumere un ruolo centrale nella costruzione teorica di Smith e della scuola classica in generale. All'interno del sovrappiù, la distinzione tra profitti e rendite assume rilievo dato il diverso comportamento, rispetto all'accumulazione, di capitalisti e proprietari terrieri.Un altro importante contributo di Smith riguarda proprio i profitti, e più precisamente il saggio del profitto, al quale viene attribuito un ruolo centrale nei meccanismi di funzionamento di un'economia di mercato, con il nesso che Smith stabilisce tra 'concorrenza dei capitali' (cioè libertà dei capitalisti di spostare i loro fondi da un settore all'altro dell'economia alla ricerca del massimo rendimento) e tendenza all'eguaglianza del saggio del profitto nei diversi settori economici. (Smith condivide con l'economista francese Anne-Robert-Jacques Turgot, 17271781, il merito dell'affermazione di questa concezione del profitto, che costituisce un netto passo in avanti rispetto all'idea assai diffusa - allora e prima di allora come in seguito - del profitto come 'salario speciale' che retribuisce il lavoro organizzativo compiuto dall'imprenditore). Tuttavia troviamo qui anche i limiti, più strettamente analitici, della costruzione teorica smithiana: il filosofo scozzese, infatti, non riuscì a fornire una teoria solida della determinazione del saggio del profitto basata sul concetto di sovrappiù. È a questo compito, come ora vedremo, che sono diretti gli sforzi del suo più importante successore, Ricardo.
La struttura analitica della scuola classica assume una forma definita con David Ricardo (1772-1823), il meno erudito tra gli economisti classici ma anche quello dotato dell'intelligenza analitica più acuta. È nei suoi scritti che la teoria del sovrappiù assume la forma tradizionalmente attribuita alla scuola classica in generale.
Ricardo sostanzialmente riprende da Smith la propria 'visione' del sistema economico. Come Smith, egli considera una società basata sulla divisione del lavoro, suddivisa in due grandi settori, agricoltura e manifatture, e in tre classi sociali - lavoratori, capitalisti e proprietari terrieri - alle quali corrispondono tre forme di reddito: salari, profitti e rendite. Secondo Ricardo, che si richiama al 'principio della popolazione' di Thomas R. Malthus (1766-1834), i salari corrispondono grosso modo ai consumi di sussistenza dei lavoratori impiegati nel processo produttivo, e costituiscono perciò parte delle spese necessarie di produzione. Rendite e profitti corrispondono quindi al sovrappiù, definito con chiarezza come quella parte del prodotto sociale complessivo che resta disponibile una volta ricostituite le scorte iniziali di mezzi di produzione e di mezzi di sussistenza per i lavoratori impiegati. Mentre i proprietari terrieri destinano a consumi di lusso le loro rendite, i capitalisti sono spinti dalla concorrenza a investire praticamente per intero i loro profitti. Pertanto lo sviluppo economico viene dall'accumulazione, basata sui profitti, ad opera dei capitalisti.
Ricardo procede nella sua analisi 'per blocchi', isolando come blocco di base il problema della distribuzione del sovrappiù tra rendite e profitti, mentre le sue dimensioni - determinate da livelli di produzione e tecnologia - sono assunte come date. In una seconda fase logica viene considerato il problema dell'accumulazione e quindi dello sviluppo, utilizzando come principale variabile esplicativa la quota dei profitti. Quanto al livello di produzione, Ricardo sembra accettare la 'legge di Say', secondo cui "l'offerta crea la propria domanda": cioè i livelli di produzione sono limitati dalla capacità produttiva disponibile, e non da carenze della domanda complessiva, di modo che le difficoltà di smercio che possono verificarsi per alcuni prodotti sono compensate nell'aggregato da eccessi di domanda per altri prodotti. Di conseguenza il livello di produzione viene identificato, in ogni dato momento, con quello reso possibile dallo stadio raggiunto dall'accumulazione del capitale. (Osserviamo per inciso che nell'ambito dell'impostazione classica quest'ultimo assunto - livelli di produzione dati, e collegati in prima istanza allo stadio raggiunto dall'accumulazione di capitale - può essere accolto anche senza ricorrere alla 'legge di Say', ma più semplicemente basandosi sul principio della separazione 'per blocchi' dell'analisi; in questo caso si può anche ammettere che il grado di utilizzo della capacità produttiva disponibile sia sempre il massimo possibile, e che l'accumulazione sia frenata da carenze nella domanda aggregata che si traducono in un basso utilizzo della capacità produttiva disponibile: ma tutto questo, nonostante le intuizioni di Malthus, diviene più chiaro solo oltre un secolo dopo Ricardo, con i contributi teorici di John Maynard Keynes e Michal Kalecki).
Per spiegare la distribuzione del sovrappiù tra rendite e profitti, Ricardo ricorre alla teoria della rendita differenziale: una teoria proposta da Malthus e (probabilmente) Edward West (1782-1828) nel corso di un breve ma intenso dibattito sui dazi doganali sul grano nel 1815, ma che Ricardo è pronto a comprendere e utilizzare.
Secondo tale teoria, la rendita sulle terre più fertili corrisponde alla differenza tra i costi di produzione relativi alla meno fertile tra le terre in coltivazione, e i costi relativi a quelle più fertili. Il profitto risulta così definito come grandezza residuale, cioè come quella parte del sovrappiù che non viene assorbita dalla rendita.
Data la dimensione del sovrappiù, i profitti diminuiscono quando aumentano le rendite sulla terra. Se si prescinde dal cambiamento tecnologico, ciò accade a causa dello stesso sviluppo economico: la crescita dell'economia si accompagna a una crescita della popolazione, che genera un aumento dei consumi alimentari. Ciò costringe a espandere la coltivazione. Supponiamo che le terre coltivate per prime siano le più fertili (un assunto criticato come contrario ai fatti da studiosi americani come Henry Charles Carey, 1793-1879: critiche giustificate per le colonie di nuovo insediamento, ma che non colgono il punto del ragionamento analitico di Ricardo). Le nuove terre che man mano vengono messe in coltivazione per aumentare il prodotto risultano sempre meno fertili, e quindi caratterizzate da costi per unità di prodotto man mano maggiori. I profitti ottenuti sulla 'terra marginale', cioè la peggiore fra le terre coltivate, per il cui utilizzo non si pagano rendite, diminuiscono perché, come si è detto, aumentano i costi per unità di prodotto. Sulle terre già coltivate aumentano le rendite, e quindi anche su esse diminuiscono i profitti dei fittavoli. La diminuzione dei profitti si trasmette dall'agricoltura all'industria, tramite l'aumento del prezzo dei prodotti agricoli e quindi dei salari. La riduzione dei profitti, infine, rallenta l'accumulazione.
La conclusione di politica economica è ovvia. L'importazione di cereali dall'estero può far fronte all'aumento di domanda di generi alimentari derivante dalla crescita della popolazione, evitando che essa si traduca nella necessità di coltivare terre meno fertili, e quindi in un aumento delle rendite, con conseguente diminuzione dei profitti e del ritmo di accumulazione. Conviene perciò eliminare gli ostacoli a tali importazioni, quali i dazi doganali.Ricardo esprime così sul piano analitico il contrasto d'interessi tra i proprietari terrieri, all'epoca politicamente dominanti, e la nascente borghesia industriale: un contrasto d'interessi che ha nello scontro sui dazi sull'importazione di cereali uno degli episodi centrali.
Torniamo alla costruzione analitica di Ricardo. Abbiamo visto che il profitto appare come una grandezza residuale: quel che resta una volta detratto dal prodotto quanto è stato necessario per ottenerlo, cioè i mezzi di produzione e i mezzi di sussistenza per i lavoratori impiegati, e una volta detratte le rendite.Tuttavia, più che l'ammontare aggregato di profitti, è il saggio di profitto ad essere al centro dell'edificio analitico di Ricardo, in quanto indicatore del ritmo potenziale di crescita dell'economia. Esso infatti è pari, per definizione, al rapporto tra profitti e capitale anticipato; ma, nell'ipotesi che i profitti vengano interamente destinati a investimenti, tale rapporto diviene pari a quello tra investimenti e capitale anticipato, cioè al tasso di accumulazione. Inoltre, se prescindiamo dal progresso tecnico e se, seguendo la 'legge di Say', supponiamo che la capacità produttiva disponibile sia interamente utilizzata (o, in modo meno restrittivo, che il suo grado di utilizzo sia costante nel tempo), troviamo che il saggio del profitto è pari al tasso di crescita del prodotto nazionale.
Più precisamente, se indichiamo con Y il reddito, con P i profitti, con I gli investimenti, con K il capitale investito, con r il saggio del profitto e con g il saggio di accumulazione (che corrisponde al saggio di crescita dell'economia se il rapporto capitale-reddito è costante), abbiamo per definizione r=P/K e g=I/K. Se supponiamo che gli investimenti corrispondano ai profitti, cioè che P=I, abbiamo che r=g. Ricardo non illustra esplicitamente queste relazioni, ma esse esprimono la sostanza del suo pensiero. La determinazione del saggio del profitto costituisce dunque un aspetto centrale della costruzione analitica di Ricardo, e più in generale dell'intera tradizione classica. In questo campo, seguendo l'interpretazione fornita da Sraffa nell'introduzione alla sua edizione dei Works and correspondence di Ricardo, possiamo distinguere due tappe successive nello sviluppo del pensiero di Ricardo. La prima tappa è quella del Saggio sul basso prezzo del grano del 1815; la seconda tappa ha inizio con le critiche di Malthus al 'modello grano' di Ricardo, e si conclude con i Principî dell'economia politica e della tassazione del 1817 (per quanto Ricardo continui a riflettere sui diversi aspetti del problema fino agli ultimi giorni della sua vita). Vediamo di cosa si tratta.
Il saggio di profitto è pari al rapporto tra profitti e capitale anticipato; per calcolare tale rapporto, ovviamente, è necessario che profitti e capitale anticipato siano espressi in termini di grandezze omogenee. Nella prima tappa della sua ricerca, Ricardo soddisfa tale condizione interpretando profitti e capitale anticipato come quantità diverse di una stessa merce, il grano. Ricardo suppone che l'economia sia divisa in due settori, agricoltura e manifatture, e che nel primo di essi si produca un solo bene, il grano, che è anche l'unico mezzo di produzione agricolo (sementi), e l'unico mezzo di sussistenza per i lavoratori impiegati nella coltivazione della terra. Abbiamo visto che secondo la teoria ricardiana della rendita, sulla terra marginale (la meno fertile fra le terre in coltivazione) la rendita è nulla, e tutto il sovrappiù va ai profitti. Supponiamo ad esempio che sulla terra marginale si producano 100 quintali di grano, utilizzando 30 quintali come sementi e 50 quintali come sussistenza per i lavoratori; il sovrappiù, che va interamente ai profitti, è pari a 20 quintali di grano (100-30-50=20), e il saggio di profitto (cioè profitti diviso capitale anticipato) è pari al 25% (20/80=0,25). In questo modo è possibile aggirare il problema del valore: cioè la necessità di determinare i prezzi relativi dei beni che entrano nel capitale anticipato e nel sovrappiù per poter calcolare il valore dei profitti e del capitale anticipato, e quindi il saggio del profitto. Naturalmente, poiché in concorrenza il saggio del profitto deve essere uguale nei diversi impieghi del capitale, un saggio di profitto eguale a quello calcolato sulla terra marginale dovrà valere non solo in tutto il settore agricolo, ma anche nelle attività manifatturiere. In questo settore, grano e beni manufatti sono impiegati come mezzi di produzione e di sussistenza per produrre beni manufatti; i prezzi relativi di questi ultimi variano, rispetto al grano, in modo da assicurare l'uniformità del saggio del profitto. In una lettera del 5 agosto 1814, Malthus aveva obiettato a Ricardo che "in nessun caso di produzione [e quindi nemmeno nel settore agricolo] il prodotto è esattamente della stessa natura del capitale anticipato". In altri termini, Ricardo non può aggirare così allegramente il problema del valore, e determinare il saggio del profitto come rapporto tra quantità fisiche di una stessa merce, dal momento che in ogni processo produttivo si utilizzano mezzi di produzione eterogenei tra loro e rispetto al prodotto.
Dopo aver a lungo riflettuto su queste critiche, di cui riconosce la validità, Ricardo propone nei Principî una nuova soluzione: la teoria del valore-lavoro. Ricardo è del tutto consapevole che anche questa nuova soluzione è basata su ipotesi semplificatrici drastiche, come d'altra parte vari suoi amici (in particolare Torrens) sono pronti a ricordargli; ma dal punto di vista dei suoi obiettivi politici - l'attacco alle rendite - Ricardo ritiene che il suo ragionamento regga, e che le difficoltà (le 'complicazioni' che è necessario introdurre per affrontare il problema del valore) siano superabili.
La nuova soluzione consiste nell'adottare la teoria del valore-lavoro per spiegare i prezzi relativi. In base a questa teoria, i rapporti di scambio tra due beni dipendono dal rapporto tra le quantità di lavoro direttamente e indirettamente necessarie alla produzione di ciascuno di essi.Grazie alla teoria del valore-lavoro, Ricardo può misurare sia il prodotto sia i mezzi di produzione e di sussistenza in termini omogenei, come quantità di lavoro contenuto in essi. Più precisamente, il valore del prodotto annuo di un sistema economico è pari alla quantità di lavoro complessivamente prestata nello stesso periodo di tempo (misurata ad esempio in anni-uomo, ed eguale quindi al numero di lavoratori produttivi occupati).
Per differenza tra valore del prodotto e valore dei mezzi di produzione, anche il valore del sovrappiù risulta espresso come una quantità di lavoro. Eliminato il problema della rendita, anche i profitti risultano determinati come una certa quantità di ore di lavoro. Il rapporto tra profitti e capitale anticipato, entrambi espressi come quantità di lavoro, è così ancora una volta espresso come rapporto tra diverse quantità fisiche di una stessa grandezza (tempo di lavoro).
Indichiamo con L il numero di lavoratori occupati (e quindi l'ammontare di lavoro, espresso in anni-uomo, prestato nel corso di un anno). L corrisponde dunque al valore, in termini di lavoro contenuto, del prodotto annuo del sistema economico. Indichiamo ancora con Lw il valore, sempre in termini di lavoro contenuto, dei beni necessari alla sussistenza dei lavoratori occupati, che per assunto corrisponde al salario loro pagato, e con Lc il valore dei mezzi di produzione complessivamente utilizzati nell'anno (nell'ipotesi che si utilizzi solo capitale circolante). Trascuriamo per semplicità le rendite. Supponiamo che tutti i processi produttivi abbiano la durata di un anno e che salari e capitale circolante siano anticipati dai capitalisti all'inizio dell'anno. Il valore del capitale complessivamente anticipato è allora Lw+Lc, mentre quello dei profitti P è pari alla differenza tra prodotto e costi di produzione, cioè P=L-Lw-Lc. Il saggio di profitto r è pari al rapporto tra profitti e capitale anticipato, cioè r=(L-Lw-Lc)/(Lw+Lc).
Con la teoria del valore-lavoro, dunque, Ricardo è nuovamente riuscito ad aggirare il problema del valore, ma ancora una volta a costo di semplificazioni drastiche e irrealistiche. In particolare, quando due merci hanno periodi di produzione diversi (si pensi ad esempio al vino 'giovane' e al vino 'invecchiato'), anche se la quantità di lavoro contenuto in ciascuna merce è la stessa il prezzo dovrà essere diverso, per tenere conto del profitto che si accumula nel tempo a un tasso composto. Inoltre la quota del profitto (e quindi il prezzo, a parità di lavoro contenuto) sarà maggiore quando è maggiore il peso del capitale fisso rispetto al capitale circolante, e quando è maggiore la durata dei beni capitali fissi. La soluzione proposta da Ricardo, pertanto, non può costituire un punto di approdo definitivo: cosa di cui egli stesso è pienamente consapevole, continuando ad affannarsi sul tema del valore fino al suo ultimo scritto, pur senza compiere ulteriori passi in avanti significativi. La struttura di fondo della sua costruzione analitica, basata sul concetto di sovrappiù e centrata sul rapporto tra accumulazione e distribuzione del reddito, resta comunque un punto di riferimento per i dibattiti della sua epoca, e per la nostra comprensione del 'paradigma classico' dell'economia politica.
Karl Marx (1818-1883) riprende la struttura analitica di Ricardo, in particolare il concetto del sovrappiù e il nesso profitti-accumulazione, ma soprattutto la teoria del valore-lavoro, alla quale attribuisce un ruolo centrale; in ciò si distingue radicalmente da Ricardo, per il quale tale teoria aveva un ruolo strumentale. In Marx, dunque, la teoria del sovrappiù diviene una teoria del pluslavoro-plusvalore, e quindi una teoria dello sfruttamento capitalistico.Per dimostrare la sua tesi Marx introduce la distinzione fra lavoro e forza lavoro. Il primo è l'esercizio effettivo di un'attività produttiva. La forza lavoro, invece, è la persona concreta del lavoratore, che incorpora in sé la potenzialità di esercitare un'attività produttiva.
La distinzione tra lavoro e forza lavoro può essere paragonata a quella tra il calore e una specifica fonte di calore, ad esempio il carbone. Il carbone è la merce che viene venduta e acquistata sul mercato, a un prezzo tale da coprire i suoi costi di produzione. L'acquirente poi utilizzerà il carbone per ottenere calore, ma può anche utilizzarlo per scrivere sui muri, o in qualsiasi altro modo: una volta che l'ha acquistata, la merce è sua e ne può fare quel che gli pare.
Qualcosa di analogo succede nei rapporti tra il lavoratore e il capitalista. La merce che il lavoratore cede è la propria forza lavoro, cioè la propria capacità di lavorare; il capitalista la paga 'al suo valore', cioè in misura sufficiente a coprirne i costi di produzione. Tali costi corrispondono, nel caso della forza lavoro, ai mezzi di sussistenza necessari per mantenere in vita il lavoratore (e la sua famiglia, in modo che il lavoratore possa essere sostituito quando si ritira o muore). Perciò il valore della forza lavoro corrisponde a un salario pari al minimo di sussistenza. Pagando il salario, il capitalista acquista il diritto a utilizzare il lavoratore nel processo produttivo, cioè a farlo lavorare per un certo numero di ore di lavoro giornaliere: tante ore di lavoro quante il capitalista riesce a ottenere, e quindi, date le consuetudini sociali che regolano la lunghezza della giornata lavorativa, di regola un numero di ore di lavoro superiore a quelle che corrispondono al valore della forza lavoro stessa, cioè al numero di ore di lavoro 'contenute' nei mezzi di sussistenza quotidiani del lavoratore. Come l'utilizzo del carbone fornisce calore, così l'utilizzo della forza lavoro fornisce lavoro; e lo fornisce all'acquirente della merce, che è il capitalista.
In un sistema economico in cui si produce un sovrappiù, dunque, la quantità di lavoro quotidianamente fornita dal lavoratore è superiore alla quantità di lavoro necessaria a produrre i suoi mezzi di sussistenza quotidiani. Il tempo di lavoro complessivo prestato nella società può allora essere diviso in due parti. La prima parte, o lavoro necessario, è quella che serve per produrre i mezzi di sussistenza di tutti i lavoratori utilizzati nel sistema. La seconda parte, o pluslavoro, è tutto il resto: il pluslavoro, cioè, è pari alla differenza fra lavoro sociale complessivo e lavoro necessario.
Come si è detto, Marx assume che valga la teoria del valore-lavoro. Il prodotto nazionale annuo ha allora un valore pari al lavoro sociale complessivo L, cioè alla quantità di lavoro prestata nel sistema economico considerato nel corso dell'anno. Con un salario pari al minimo di sussistenza, il salario complessivo di tutti i lavoratori del sistema ha un valore pari al lavoro necessario LN. Il sovrappiù, che ha un valore pari al tempo di lavoro eccedente, o pluslavoro PL(=L-LN), resta a disposizione dei capitalisti sotto forma di profitti P (e dei proprietari terrieri sotto forma di rendita; ma per semplicità lasciamo da parte questo elemento, come pure trascuriamo la presenza del capitale finanziario e degli interessi). Così, anche se i lavoratori ricevono il valore della merce che vendono (la forza lavoro, che ha un valore pari al suo costo di produzione, cioè al lavoro contenuto nei mezzi di sussistenza), e quindi anche se viene rispettato quello che Marx considera il principio della giustizia economica capitalistica, cioè lo 'scambio tra eguali valori', il sovrappiù che va ai capitalisti corrisponde all'esistenza di lavoro non pagato, e quindi a uno sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti.
Marx definisce il saggio di sfruttamento s come rapporto tra 'lavoro non pagato' o pluslavoro e 'lavoro pagato' o valore della forza lavoro; quindi s=PL/LN. Il saggio di sfruttamento è pari al saggio del profitto (dato dal rapporto tra profitti e capitale anticipato) solo quando il capitale anticipato consiste esclusivamente di salari, cioè quando i lavoratori operano senza utilizzare mezzi di produzione (materie prime, strumenti e macchinari); ma quest'ipotesi contraddice la natura stessa del sistema capitalistico, in cui il ruolo del capitalista deriva dal suo controllo sui mezzi di produzione. Perciò in generale il capitale anticipato include anche mezzi di produzione diversi dal lavoro, e il saggio di profitto sarà inferiore al saggio di sfruttamento. Così, suggerisce Marx, il saggio di profitto dà un'idea riduttiva dello sfruttamento cui è sottoposto il lavoratore da parte del capitalista.
Con questa teoria, Marx si contrappone ai vari filoni del socialismo che condannano i profitti come una ingiusta deduzione dal frutto del lavoro: un gruppo eterogeneo, nel quale rientrano sia i socialisti ricardiani (Hodgskin, Bray, Ravenstone), i quali derivano dalla teoria del valore-lavoro la tesi che tutto il valore del prodotto spetterebbe ai lavoratori, sia scrittori anticapitalisti come Proudhon, celebre per il motto "la proprietà è un furto". Per distinguere la sua teoria dello sfruttamento da queste posizioni, Marx sottolinea che il suo è un 'socialismo scientifico', in cui si riconosce che nel capitalismo il criterio equitativo dello 'scambio tra equivalenti' è rispettato, in quanto la merce forza lavoro è pagata al suo valore.
Lo sfruttamento che caratterizza il modo di produzione capitalistico (e, in forma ancor più diretta, i modi di produzione precedenti, come il feudalesimo e lo schiavismo) è, a parere di Marx, superabile con il passaggio a modi di produzione più avanzati, dapprima il socialismo e infine il comunismo. Il socialismo è caratterizzato dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione, e nella visione di Marx costituisce una fase di preparazione al comunismo. Marx considera la transizione dal capitalismo al socialismo una conseguenza inevitabile di alcune 'leggi di movimento del capitalismo', in particolare la crescente bipolarizzazione tra un proletariato sempre più vasto e sempre più povero ('legge dell'immiserimento crescente') e una borghesia sempre più forte e sempre più ristretta numericamente ('legge della concentrazione capitalistica'); questa bipolarizzazione deve alla fine sfociare in una rivoluzione.
La teoria del valore-lavoro costituisce dunque un elemento chiave per la teoria marxiana dello sfruttamento, permettendo di distinguere tra lavoro pagato (il valore della forza lavoro) e lavoro non pagato (o pluslavoro, corrispondente al valore del sovrappiù, di cui si appropriano classi proprietarie sotto forma di profitti e rendite). Tuttavia, come già Ricardo, anche Marx è consapevole del fatto che i valori di scambio determinati in base alla teoria del valore-lavoro non corrispondono ai prezzi ai quali le merci si scambiano in mercati concorrenziali, cioè quando si deve assumere che il saggio di profitto sia uniforme nei vari settori. La teoria del valore-lavoro può essere al più utilizzata come ipotesi di prima approssimazione, salvo mostrare, in un secondo momento, che la sua adozione non ha portato a errori insanabili: cosa che però Marx non riesce a fare.
Infatti Marx tenta di affrontare questo elemento cruciale di debolezza della sua teoria nel terzo libro del Capitale; ma la soluzione da lui proposta - la cosiddetta trasformazione dei valori-lavoro in prezzi di produzione - risulta anch'essa insoddisfacente, con la conseguenza di lasciare senza fondamenta vari elementi cruciali della costruzione teorica marxiana, tra i quali in particolare la teoria dello sfruttamento.
Proprio l'erroneità della teoria del valore-lavoro è tra gli elementi che spiegano l'affermazione, a partire dagli anni settanta dell'Ottocento, di una diversa struttura analitica, quella dell'approccio marginalista basato su una teoria del valore soggettiva. La scuola classica, come abbiamo visto, raffigura il funzionamento del sistema economico come un processo circolare di produzione e consumo, in cui la disponibilità di un sovrappiù permette sia consumi eccedenti quelli di sussistenza, sia l'accumulazione e quindi la crescita economica. L'approccio marginalista, che viene alla ribalta attorno al 1870 con le opere di Jevons, Menger e Walras, interpreta invece il problema economico come un problema di utilizzo ottimale delle scarse risorse disponibili. Il valore delle merci, in quest'approccio, è un indice di scarsità relativa, scaturendo dal confronto fra le preferenze dei consumatori e le disponibilità dei vari beni.
Com'è chiaro, in questa concezione non c'è spazio per quel concetto di sovrappiù che svolge un ruolo centrale nell'approccio classico. In suo luogo abbiamo un concetto radicalmente diverso, quello di sovrappiù del consumatore. Tale concetto ha soltanto un ruolo derivato nella struttura analitica della teoria marginalista del valore e della distribuzione, ma ha una qualche importanza nel nesso tra teoria e politica economica, all'interno della cosiddetta 'economia del benessere'.
All'interno dell'approccio marginalista, il concetto di sovrappiù del consumatore è stato sviluppato in particolare da Alfred Marshall (1842-1924), nel capitolo VI del libro III e nell'Appendice K dei suoi Principles of Economics (1890). Esso indica il guadagno che il consumatore ottiene dagli acquisti che effettua sul mercato. Tale guadagno deriva dalla combinazione di due elementi. In primo luogo abbiamo il postulato, fondamentale per la teoria marginalista del valore, di utilità marginale decrescente: al crescere del consumo di qualsiasi merce, l'utilità marginale, cioè l'utilità dell'ultima dose consumata di quella merce, diminuisce. In secondo luogo abbiamo la teoria del comportamento razionale del consumatore: ciascun consumatore procede nei suoi acquisti di una merce fin quando non giunge a una quantità acquistata in coincidenza della quale il prezzo corrisponde all'utilità marginale della merce stessa.
Se teniamo conto di questi due elementi, possiamo giungere a definire il sovrappiù del consumatore. Il consumatore acquista n unità di una merce, pagandole tutte allo stesso prezzo, e tale prezzo come si è detto corrisponde all'utilità marginale, cioè all'utilità dell'ultima unità. Per il postulato dell'utilità marginale decrescente, l'utilità di ciascuna delle prime n-1 unità è superiore all'utilità (o valutazione) dell'ultima unità acquistata, e quindi al prezzo. Per le prime n-1 dosi acquistate, quindi, il consumatore ottiene un vantaggio che è pari, per ciascuna di queste unità, alla differenza tra la sua valutazione di quell'unità e il prezzo. Il sovrappiù del consumatore non è altro che il vantaggio complessivo ottenuto per l'acquisto delle n unità del bene, e pertanto corrisponde alla somma di tali differenze.
Com'è ovvio, il concetto di sovrappiù del consumatore non ha alcun ruolo nella determinazione dei prezzi e delle quantità di equilibrio. Tuttavia, esso può giocare un ruolo per stabilire se la posizione del consumatore migliora o peggiora nel confronto fra situazioni alternative, caratterizzate ad esempio da diversi livelli di tasse e sussidi sulle varie merci. È facile vedere, ad esempio, che l'imposizione simultanea di una imposta su una merce e di una sovvenzione su una seconda merce migliora il benessere del consumatore se la diminuzione del sovrappiù di quest'ultimo che deriva dalla riduzione del consumo della merce su cui ricade l'imposta è più che compensata dall'aumento del sovrappiù che deriva dall'aumento del consumo della merce favorita dalla sovvenzione. Naturalmente, per estendere al benessere collettivo l'analisi del benessere individuale alla quale abbiamo appena accennato occorrono varie ipotesi aggiuntive, in primo luogo quella della confrontabilità interpersonale. Tuttavia, senza entrare nei dettagli, è intuibile come con l'ausilio di opportune ipotesi il concetto di sovrappiù del consumatore permetta di sviluppare una teoria della politica economica ottimale: la cosiddetta 'economia del benessere' (welfare economics) al cui sviluppo si dedicò il successore di Marshall alla cattedra di Cambridge, Arthur Cecil Pigou (1877-1959).
Il concetto di sovrappiù del consumatore discusso nel paragrafo precedente è stato ricordato soprattutto per mettere in luce le differenze di impostazione tra l'approccio classico e quello marginalista; ma non possiamo parlare in questo caso, o in qualsiasi altro caso all'interno dell'approccio marginalista, di 'teoria del sovrappiù' in senso proprio. In effetti, torniamo a trovarci di fronte a una teoria del sovrappiù solo con la riproposta dell'approccio classico effettuata da Piero Sraffa (1898-1983).
La 'rivoluzione sraffiana', che intende riportare la scienza economica sulla strada indicata dall'economia classica, dopo la lunga parentesi marginalista, presenta due aspetti complementari. In primo luogo Sraffa, con la sua edizione critica delle opere di Ricardo, ripropone l'interpretazione della struttura analitica della scuola classica centrata sul concetto di sovrappiù: quell'interpretazione che abbiamo illustrato sopra, nel cap. 5. In secondo luogo Sraffa risolve in Produzione di merci a mezzo di merci (1960) il problema del nesso tra prezzi relativi e distribuzione del reddito, mostrando come sia possibile, sulla base di una data tecnologia e dati livelli di produzione, determinare prezzi relativi e una variabile distributiva (salario o saggio del profitto) data l'altra, mentre la rendita viene determinata da una teoria analoga a quella della rendita differenziale utilizzata da Ricardo.
L'analisi di Sraffa è concentrata sulla soluzione di un problema specifico, per quanto cruciale. Si tratta di un 'blocco analitico' che definisce in modo rigoroso l'ambito in cui viene affrontata la questione del valore, isolandola dal problema dei livelli di produzione e da quello del cambiamento tecnologico. Così, mentre in Smith (e in parte anche in Ricardo) la ricerca di un'unità di misura invariabile del valore riguardava confronti intertemporali in presenza di cambiamenti sia nella tecnologia sia nella distribuzione del reddito, in Sraffa l'analisi della 'merce tipo' è circoscritta al problema dei cambiamenti nella sola distribuzione del reddito, per una tecnologia data. Lo stesso problema del valore viene delimitato, in particolare in confronto alla concezione di Marx, e di fatto viene a corrispondere, come si è detto, all'analisi del nesso tra prezzi relativi e distribuzione del reddito.
Naturalmente, concentrando l'attenzione su un problema specifico, l'analisi di un 'blocco analitico' esclude la trattazione di altri problemi, che possono comunque essere affrontati in altri 'blocchi analitici'. Così, ad esempio, Sraffa non considera nel suo libro il collegamento istituito da Smith e Ricardo tra distribuzione del sovrappiù e accumulazione; ma nulla vieta di considerare separatamente, con un altro 'blocco analitico', il nesso profitti-investimenti. Analogamente, nulla vieta di interpretare i livelli di produzione assunti come dati nell'analisi di Sraffa come il risultato di decisioni imprenditoriali spiegate da una teoria di tipo keynesiano, anziché come corrispondenti allo stadio raggiunto dal processo di accumulazione secondo una teoria basata sull'accettazione della 'legge di Say'. Invece, l'abbandono della teoria del valore-lavoro impone quantomeno una reinterpretazione della teoria marxiana dello sfruttamento, che si riduce all'affermazione secondo la quale nel sistema capitalistico una parte almeno del sovrappiù non va ai lavoratori sotto forma di salari, ma affluisce alle classi proprietarie sotto forma di rendite e profitti. Sia grazie a quest'aspetto della teoria di Sraffa, sia grazie alla critica che ne deriva per le teorie marginaliste della distribuzione (che interpretano il profitto come remunerazione del fattore produttivo capitale, determinata dalla scarsità relativa di tale fattore nell'ambito di un apparato analitico basato sul confronto fra funzioni contrapposte di domanda e offerta), l'analisi della distribuzione del reddito viene depurata da ogni elemento etico o metafisico.
Un altro aspetto dell'analisi di Sraffa, che possiamo considerare un contributo di ammodernamento alla teoria del sovrappiù, è costituito da alcuni cenni incidentali, relativi alla possibilità che i lavoratori partecipino anch'essi alla distribuzione del sovrappiù, e alla difficoltà in queste condizioni di distinguere tra parte di sussistenza e parte di sovrappiù del salario. Risulta allora difficile isolare il sovrappiù detraendo dal prodotto sia i mezzi di produzione sia la sussistenza dei lavoratori. La soluzione proposta da Sraffa ci riporta così verso il concetto smithiano di reddito netto, ottenuto sottraendo dal prodotto i soli mezzi di produzione utilizzati nel processo produttivo. Inoltre, in un sistema capitalistico con un settore finanziario sviluppato e redditi dei lavoratori dipendenti superiori ai livelli minimi di sussistenza, una parte almeno degli investimenti può essere finanziata da questi redditi; l'accenno di Sraffa all'opportunità di considerare come variabile distributiva esogena non il salario reale (sulla base di una qualche versione della legge bronzea dei salari, basata sul principio malthusiano della popolazione o, smithianamente, sulla differenza di potere contrattuale tra capitalisti e lavoratori) ma il saggio del profitto, ricollegato a sua volta al tasso d'interesse monetario, rinvia appunto al ruolo centrale che nelle condizioni ipotizzate viene ad assumere il settore finanziario dell'economia.
L'approccio del sovrappiù assume così, nell'analisi di Sraffa, una struttura che rende possibile un coordinamento flessibile tra 'blocchi analitici' diversi, nell'ambito di un solido quadro concettuale di riferimento, adattato alle condizioni moderne delle economie di mercato. Ciò induce fra l'altro a ritenere possibile un collegamento, tuttora da sviluppare, tra la teoria del sovrappiù e una versione non neoclassica della teoria keynesiana dell'occupazione, dell'interesse e della moneta. (V. anche Capitale; Distribuzione della ricchezza e del reddito; Divisione del lavoro; Profitto; Rendita; Sviluppo economico; Valore, teorie del).
Marshall, A., Principles of economics, London 1890 (tr. it.: Principî di economia, Torino 1972).
Marx, K., Das Kapital: Kritik der politischen Ökonomie, 3 voll., Hamburg 1867-1894 (tr. it.: Il capitale: critica dell'economia politica, 3 voll., Roma 1968).
Petty, W., Economic writings (1899), 2 voll., New York 1963 (tr. it. parziale in: Scritti, Milano 1972).
Quesnay, F., Tableau économique, Paris 1758 (tr. it.: Il 'Tableau économique' e altri scritti di economia, Milano 1973).
Ricardo, D., The works and correspondence of David Ricardo (ed. critica a cura di P. Sraffa e M. Dobb), 11 voll., Cambridge 1951-1955.
Smith, A., The theory of moral sentiments (1759), in The works and correspondence of Adam Smith (ed. critica a cura di D.D. Raphael e A.L. Macfie), Oxford 1976 (tr. it.: Teoria dei sentimenti morali, Roma 1991).
Smith, A., An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776), in The works and correspondence of Adam Smith (ed. critica a cura di R.H. Campbell, A.S. Skinner e W.B. Todd), vol. II, Oxford 1976 (tr. it.: Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano 1973).
Sraffa, P., Production of commodities by means of commodities, Cambridge 1960 (tr. it.: Produzione di merci a mezzo di merci, Torino 1960).