giustizia, teorie della
Teorie che hanno per oggetto l’identificazione delle condizioni necessarie per l’esistenza di una società giusta. Possono essere ricondotte ad alcune grandi correnti di pensiero: l’utilitarismo (➔), la teoria del contratto sociale (➔ contratto sociale, teoria del), il liberalismo ( ➔), la teoria marxista (➔ marxista, teoria), la dottrina sociale della Chiesa ( ➔).
L’utilitarismo, filosofia razionalista e individualista che affonda le sue radici nella filosofia greca (Epicuro) ma trova la sua sistematizzazione a opera di J. Bentham, J.S. Mill e H. Sidgwick, si basa sul principio edonista in ragione del quale è giusta quella società che realizza la ‘maggiore felicità per il maggior numero’, il che si può tradurre nella formula della ‘massimizzazione dell’utilità’ o del ‘benessere sociale’.
Un primo punto critico è quello del contenuto da dare all’utilità. In alcuni casi essa viene interpretata in modo ‘oggettivo’, le viene cioè attribuita natura cardinale, per cui è misurabile e suscettibile di confronto interpersonale. È questa la versione alla base della ‘vecchia’ economia del benessere fondata da A.C. Pigou, che ha fornito le giustificazioni scientifiche per interventi di politica economica quali la struttura progressiva dell’imposta sul reddito. Per l’interpretazione soggettiva, l’utilità è, al contrario, non misurabile e non confrontabile tra soggetti. Questa versione è alla base della ‘nuova’ economia del benessere che ha come padre fondatore V. Pareto e conduce all’idea per cui l’utilità che i soggetti traggono dal consumo dei beni è derivabile solo in via induttiva, osservando le scelte dei soggetti economici (teoria delle preferenze rivelate; ➔ rivelate, preferenze). La non misurabilità e la non confrontabilità delle utilità tra soggetti diversi riduce l’ambito di possibile giustificazione scientifica dell’azione pubblica e la realizzazione del benessere individuale avviene principalmente attraverso soluzioni volontarie; al centro del sistema si trova lo scambio di mercato.
Il secondo aspetto critico concerne il problema del coordinamento delle preferenze individuali e della composizione delle stesse in un ordinamento coerente, problema posto in evidenza per primo da K.J. Arrow e dalla susseguente teoria delle scelte sociali. Con il teorema dell’impossibilità, Arrow dimostra l’inesistenza di regole generali capaci di tradurre le preferenze individuali in un coerente ordine sociale.
La teoria del contratto sociale è riconducibile al pensiero di T. Hobbes, J. Locke, J.-J. Rousseau e I. Kant. Il contrattualismo parte dall’idea che la legittimità delle regole morali e dell’autorità politica, quindi della g., si fondino sull’accordo e che ciò sia in linea con l’assunto di comportamento autointeressato degli individui per i quali è razionale aderire a un contratto da cui traggono benefici. J. Rawls, artefice della rinascita del contrattualismo negli anni 1970, sostiene che un soggetto razionale sceglie una società giusta in quanto equa, cioè una società nella quale i beni primari sociali (come le libertà fondamentali e le possibilità di accesso alle diverse posizioni sociali) siano egualmente distribuiti; in tale società sono comunque possibili differenze di ricchezza, purché in linea con il principio del maximin (➔ ottimizzazione p), cioè con un criterio distributivo per cui le diseguaglianze sono ammesse purché vadano a favore dei più svantaggiati. D. Gauthier assume che gli individui siano pienamente informati e agiscano sotto un vincolo morale per il quale il miglioramento della posizione individuale non può andare a scapito di quella altrui. J. Buchanan ipotizza che i contraenti ritengano giusti gli assetti di mercato, ma all’interno di un sistema rafforzato dalla presenza di una rete di sicurezza di natura assicurativa, che garantisca a tutti un minimo di opportunità e di tutela contro le avversità. Infine, B. Ackerman, uno dei principali esponenti dell’approccio dialogico al contratto sociale, sostiene che il dialogo è l’elemento cruciale di una società liberale. Secondo Ackerman, la società giusta è quella che consente la maggior parte dei possibili differenti stili di vita, purché sulla base di argomentazioni espresse pubblicamente.
Il terzo filone è quello che comprende i liberali classici e i libertari di diversa tendenza, accomunati dall’ascendenza filosofica di Locke non nella sua formulazione di tipo contratto sociale ma nella componente giusnaturalista. Secondo le teorie liberali, l’individuo ha un diritto naturale sulla propria persona e di conseguenza sui frutti della propria attività. Da qui l’idea dello Stato giusto come Stato minimo (o ‘guardiano notturno’), funzionale alla tutela della persona e della proprietà. Tali diritti sono inevitabilmente associati a quello della libera circolazione dei beni attraverso transazioni volontarie. Il principio per cui una risorsa appartiene inizialmente al primo che se ne appropria subisce qualche variazione in diversi autori libertari come R. Nozick o i left libertarians (H. Steiner; P. van Parijs). Per il primo, l’appropriazione originaria non deve peggiorare la condizione di coloro che ne restano esclusi rispetto a quella che hanno nello stato di natura; per i secondi, invece, di orientamento egalitario, l’appropriazione di una risorsa deve avvenire in cambio del pagamento di una tassa che finanzia un reddito minimo di base che ‘risarcisce’ la collettività dalla sottrazione della risorsa all’uso comune.
Per questo filone teorico, rivitalizzato dagli studi di J. Roemer sullo sfruttamento e lo sviluppo, la condizione di sfruttato, cui va posto rimedio tramite la g., è quella migliorabile con una redistribuzione dei mezzi di produzione.
Tale dottrina parte dalla centralità della persona umana, il cui sviluppo avviene tramite l’attività individuale all’interno di formazioni sociali differenti, tra cui lo Stato, e si articola sui principi di sussidiarietà e solidarietà. Il primo principio limita l’azione dei poteri pubblici solo a ciò che gli individui non possono fare da soli, mentre il secondo impone allo Stato la creazione delle condizioni di base per lo sviluppo dei singoli, condizioni riassunte nel concetto di bene comune.