Giustizia, teorie della
Il diritto e la giustizia, inestricabilmente connessi in un rapporto spesso difficile e controverso, nascono nel contesto dei conflitti o delle competizioni intersoggettive. Sia il diritto che la giustizia mirano ad assicurare l'armonia morale, politica, sociale e/o economica all'interno di una società - distribuendo in modo equo benefici e oneri tra i suoi membri - e a preservare altresì un legittimo equilibrio tra di essi, approntando opportune misure di rettificazione in caso di violazioni.Il riconoscimento della duplice funzione di distribuzione e di rettificazione del diritto e della giustizia risale ad Aristotele, il quale distinse chiaramente tra giustizia distributiva e giustizia correttiva. Secondo il filosofo greco, la giustizia è legata all'eguaglianza e la giustizia distributiva impone che gli eguali siano trattati in modo eguale e gli ineguali in modo ineguale, cosicché la polis dovrà distribuire oneri e benefici in modo proporzionale. La giustizia correttiva, d'altro canto, impone il dovere di compensare coloro cui è stato fatto un torto, reintegrandoli nella posizione in cui si trovavano immediatamente prima di subire il torto.
Per Aristotele la giustizia deve essere applicata attraverso leggi universali, ma proprio per il loro carattere universale non sempre le leggi possono prevedere le particolarità e le eccezioni che si verificano nei casi concreti. Di conseguenza, la rigida applicazione di leggi universali talvolta dà luogo a ingiustizie. Per risolvere questo problema, Aristotele sostiene che la giustizia deve essere integrata dall'equità, dimodoché le norme giuridiche in via di principio universali devono lasciar spazio a determinate eccezioni. Idealmente, il diritto dovrebbe essere in accordo con la giustizia, ma sin dai tempi degli antichi Greci diritto e giustizia sono stati spesso considerati in conflitto tra loro. Tale conflitto è stato rappresentato con particolare efficacia nell'Antigone di Sofocle. Antigone si ribella alla legge della polis in nome di una legge divina superiore, e deve pagare questa sfida con la morte. L'Antigone è una tragedia basata su un inconciliabile conflitto tra la legge umana e una legge superiore, ovvero tra la 'giustizia secondo la legge' e la 'giustizia al di là della (o contro la) legge'. Nella fattispecie, Antigone rifiuta di obbedire alla legge vigente nella sua città, Tebe, in quanto ingiusta, ovvero contraria agli editti degli dei. D'altro canto Creonte, il re di Tebe, che è imparentato con Antigone, non può evitare di punirla senza commettere un'ingiustizia, perché come può un re essere giusto nei confronti dei suoi sudditi se esenta i propri congiunti dall'osservanza dei suoi decreti che dovrebbero essere vincolanti per tutti i cittadini?
Il contrasto tra diritto e giustizia - o tra la giustizia secondo la legge e la giustizia al di là della legge - ricalca la distinzione tra la giustizia formale, secondo cui gli eguali devono essere trattati in modo eguale, e la giustizia sostanziale, che impone di andare al di là della giustizia formale specificando chi è eguale a chi, e sotto quale riguardo coloro che sono ritenuti eguali sono eguali. Di conseguenza, ogni concezione coerente della giustizia sostanziale deve specificare sia il soggetto dell'eguaglianza (tutti gli esseri umani, solo i cittadini, oppure solo il genere maschile) che la sfera di eguaglianza (i diritti fondamentali, i beni materiali, i privilegi).
Le teorie della giustizia vengono elaborate al fine di fornire giustificazioni sistematiche per particolari concezioni della giustizia sostanziale. Tali teorie, inoltre, possono essere pienamente integrate oppure circoscritte, a seconda che forniscano o meno un insieme coerente di criteri per tutte le forme di giustizia. Ad esempio, una teoria della giustizia che fornisca criteri coordinati per determinare questioni attinenti sia alla giustizia distributiva che alla giustizia correttiva (nonché ad altre forme rilevanti di giustizia) deve essere considerata 'pienamente integrata'. Per contro, una teoria che fornisca criteri per un'unica forma di giustizia, o criteri contrastanti per diverse forme di giustizia, deve essere considerata 'circoscritta'. Inoltre, si definirà 'comprensiva' una teoria che abbracci tutti gli ambiti della giustizia - morale, politico, sociale ed economico - laddove una teoria che consideri solo alcuni ambiti verrà classificata come 'limitata'.
Accanto alla giustizia distributiva e a quella correttiva, nell'elenco delle diverse forme di giustizia va inclusa anche la giustizia procedurale, che concerne i mezzi impiegati per arrivare a un risultato giusto conformemente ai criteri di giustizia prescelti. Ad esempio, in un sistema di giustizia penale inteso a proteggere l'innocente e a punire il colpevole, le procedure giudiziarie adottate per stabilire la colpevolezza o l'innocenza rientrano nell'ambito della giustizia procedurale. Se oltre a ciò le procedure in questione risultano eque ed affidabili, la giustizia procedurale è da ritenersi realizzata.
Rawls distingue tre tipi di giustizia procedurale: 1) la 'giustizia procedurale perfetta', in cui il rispetto delle procedure garantisce un risultato equo quale è definito dai criteri della giustizia sostanziale; 2) la 'giustizia procedurale imperfetta', in cui il rispetto delle procedure non garantisce un risultato giusto, ma lo rende più probabile di un risultato ingiusto; e 3) la 'giustizia procedurale pura', in cui i risultati non sono predeterminati, ma l'osservanza delle procedure produce di per sé un risultato equo. Come afferma Rawls, una lotteria effettuata con equità costituisce un esempio di giustizia procedurale pura. Ritorneremo in seguito su questa distinzione di Rawls quando illustreremo la sua teoria della giustizia.
La giustizia retributiva e quella restitutiva completano questa sommaria presentazione delle forme principali di giustizia. Entrambe sono strettamente correlate alla giustiza correttiva, in quanto al pari di questa mirano a ristabilire un equilibrio che è stato turbato da una qualche azione od omissione. Nel caso paradigmatico della giustizia correttiva, tale equilibrio è turbato da una azione o da una omissione del reo da cui egli trae un indebito beneficio a spese della vittima, che di conseguenza patisce un danno ingiusto. La giustizia correttiva mira a ristabilire l'equilibrio privando il reo dei benefici illeciti e compensando nello stesso tempo la vittima per la perdita subita: ciò avviene costringendo il reo a compensare la vittima. Se ad esempio un ladro ha rubato un oggetto, obbligandolo a restituire l'oggetto rubato sia il reo che la vittima del furto sono reintegrati nella posizione in cui si trovavano immediatamente prima del verificarsi dell'atto illecito.
Tuttavia nella maggior parte dei casi in cui si è verificata un'infrazione della legge, l'equilibrio non può essere ristabilito così facilmente come nel caso paradigmatico della giustizia correttiva. Ad esempio, quando la perdita della vittima è sproporzionata al guadagno del reo, o quando quest'ultimo non trae alcun beneficio dal suo atto, oppure ancora quando sia il reo che la vittima sono morti o non possono essere trovati, l'equilibrio non può essere ristabilito mediante una singola transazione tra il reo e la vittima. In tali casi, se si dà la preminenza al diritto della vittima a un risarcimento della perdita causata dal reo, possono insorgere problemi di indennizzo, e la vittima potrebbe reclamare misure di giustizia restitutiva contro il reo o la società nel suo complesso. Se invece si focalizza l'attenzione sul reo, si porranno più probabilmente problemi di giustizia retributiva. Il caso più ovvio è quello della società che mediante il suo diritto penale impone una punizione a coloro che sono stati riconosciuti colpevoli di omicidio. Tale forma di giustizia retributiva ovviamente non costituisce un beneficio per la vittima, ma se è proporzionata al danno, coerentemente con le concezioni di alcuni filosofi come Kant e Hegel, può cancellare simbolicamente la trasgressione effettuata dal reo comminando a quest'ultimo la pena di morte.I due compiti principali di una teoria della giustizia sono: 1) stabilire criteri adeguati di proporzionalità, e 2) definire il rapporto tra diritto e giustizia. Essenziale per il primo di questi compiti è la determinazione di chi deve essere considerato eguale a chi, ovvero, in altre parole, la delimitazione della classe che costituisce il soggetto dell'eguaglianza. Le teorie della giustizia, inoltre, si distinguono a seconda che considerino o meno tutti gli esseri umani come (perlomeno prima facie) eguali. Le teorie del primo tipo aderiscono al 'postulato dell'eguaglianza', il quale, a prescindere dal fatto che tutti gli esseri umani siano realmente considerati eguali, impone come imperativo normativo di trattarli come intrinsecamente eguali. Per contro, le teorie che rifiutano il postulato in questione partono dall'assunto che gli esseri umani appartengono a classi diverse e dunque sono intrinsecamente diseguali.
Le teorie della giustizia formulate da Platone e da Aristotele rientrano palesemente tra quelle che non aderiscono al postulato dell'eguaglianza. La teoria aristotelica della giustizia distributiva afferma che i benefici debbono essere distribuiti in base al merito o al demerito, e divide gli esseri umani in differenti classi a seconda che siano di bassi o di alti natali, liberi o schiavi. In questa prospettiva aristocratica, gli esseri umani sono considerati intrinsecamente diseguali, e dunque la proporzionalità imposta dalla giustizia tende a rafforzare la gerarchia e la diseguaglianza.Il postulato dell'eguaglianza può essere fatto risalire alla dottrina cristiana, secondo la quale tutti gli esseri umani sono figli di Dio e dunque, in quanto fratelli, eguali. Tale dottrina venne secolarizzata nel XVII e nel XVIII secolo, come attesta il principio formulato da Locke e sancito dalla Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti: "Tutti gli uomini sono stati creati eguali". Il postulato dell'eguaglianza divenne con ciò il fondamento delle teorie moderne della giustizia, che sono egualitarie nel senso ampio in quanto nella classe che costituisce il soggetto dell'eguaglianza includono tutta l'umanità. Di conseguenza, le teorie moderne della giustizia basate sul postulato dell'eguaglianza si differenziano fondamentalmente per quanto riguarda la definizione della sfera dell'eguaglianza. A un estremo vi sono le teorie che limitano tale ambito ai diritti formali, all'altro estremo quelle che lo estendono a tutti i prodotti dell'interazione sociale.
La distinzione tra giustizia secondo la legge e giustizia al di là della legge formulata nell'Antigone ha definito sino ad oggi i parametri del dibattito relativo al rapporto tra diritto e giustizia, e ha portato a una divisione del campo tra due tipi di teorie. Quelle del primo tipo riconoscono l'esistenza di un divario incolmabile tra diritto e giustizia, mentre quelle del secondo tipo sostengono che il diritto può o deve essere riconciliato con la giustizia o reso conforme ad essa. La contrapposizione tra questi due tipi di teorie ha conosciuto diverse varianti, ma nella sua versione contemporanea ha assunto la forma di una contrapposizione tra esponenti del positivismo giuridico e tutti coloro che possono essere definiti in qualche modo fautori del diritto naturale.
Posto nei termini più radicali, il contrasto tra giuspositivisti e giusnaturalisti può essere sintetizzato come segue. I primi ritengono che il diritto deve essere tenuto distinto dalla giustizia, laddove i secondi affermano che la legge - perlomeno la legge legittima -dipende dalla giustizia e non può funzionare adeguatamente a meno che non sia giusta in un qualche senso rilevante. Di conseguenza i positivisti, al contrario dei sostenitori del diritto naturale, considerano il diritto indipendente dalla morale. Per i giuspositivisti una legge può essere indifferentemente giusta o ingiusta, e la giustizia secondo la legge può aversi anche quando contraddice chiaramente la giustizia al di là della legge. Ad esempio, una legge la quale stabilisca che il salario percepito dalle donne deve essere la metà di quello corrisposto agli uomini per svolgere lo stesso lavoro, se fosse applicata regolarmente, integralmente e coerentemente soddisferebbe i criteri della giustizia secondo la legge. Ovviamente, tale legge violerebbe le concezioni correnti della giustizia sostanziale e della moralità, e quindi non risponderebbe ai requisiti della giustizia al di là della legge. Per i sostenitori del diritto naturale, inoltre, la legge in questione non sarebbe valida in quanto contraria alla ragione umana, o alla volontà divina o ai principî giuridici superiori che ispirano la loro concezione della giustizia al di là della legge.
Storicamente, i giusnaturalisti postulavano l'esistenza di una legge di natura universale accessibile a tutti attraverso la ragione. Questa idea, sviluppata dallo stoicismo greco e ripresa dalla giurisprudenza romana, fu adattata al cristianesimo da Tommaso d'Aquino. Secondo Tommaso, il diritto naturale è il prodotto della volontà razionale di Dio allo scopo di fornire una guida normativa all'universo, ed è accessibile agli esseri umani attraverso la ragione per essere applicata ai casi concreti. Dai tempi di Tommaso all'interno della teoria del diritto naturale si sono sviluppati due orientamenti, uno di tipo religioso, l'altro di tipo laico. All'inizio del XVII secolo Grozio avanzò una giustificazione laica, affermando che il diritto di natura deriva necessariamente dalla razionalità e dalla socievolezza dell'uomo.
La teoria del diritto naturale forniva gli strumenti per colmare il divario tra diritto e giustizia, ma sollevava una serie di problemi spinosi. Ad esempio, come vanno considerate le leggi che non possono essere derivate dalla ragione? Sono leggi ingiuste, o non si tratta di autentiche leggi nonostante le apparenze? Tommaso d'Aquino riteneva che le leggi positive fossero leggi legittime che i cristiani avevano l'obbligo di osservare nella misura in cui non erano contrarie al diritto naturale e alla giustizia. Un altro problema più rilevante, messo in luce nel XVI secolo da Montaigne, deriva dal fatto che i criteri in base ai quali una legge viene considerata giusta e razionale variano a seconda del contesto geografico e culturale.
Due possibili modi per risolvere quest'ultimo problema hanno profondamente influenzato alcune tra le più importanti teorie della giustizia elaborate a partire dal XVII secolo. Il primo di questi due approcci si basa sul richiamo ai diritti naturali, e ha come principale esponente John Locke; il secondo si basa su una concezione deontologica della giustizia - ovvero una concezione che separa il giusto dal buono assegnando alla giustizia la priorità sul bene - e ha in Kant il suo rappresentante più illustre.
Formalmente, Locke si colloca nella tradizione giusnaturalistica, ma di fatto è l'artefice di una nuova concezione basata sui diritti naturali che pur presentando qualche affinità con il giusnaturalismo classico se ne differenzia nettamente. Locke è sia un individualista che un sostenitore del postulato dell'eguaglianza, e afferma che ogni individuo è dotato per natura di alcuni diritti inalienabili - il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà - che tutte le società politiche devono rispettare. Mentre il diritto naturale classico investe la società intera in tutte le sue espressioni collettive, i diritti naturali di Locke erigono una sorta di scudo protettivo per ogni individuo, lasciando spazio al di là dell'ambito delimitato da tali diritti a espressioni collettive e all'applicazione di tutte le leggi possibili, nella misura in cui sono il prodotto della volontà legislativa della maggioranza politica. Nella concezione lockiana, dunque, i diritti naturali dell'individuo sono giusti, e ogni legge che li viola è sia illegittima che ingiusta. Per il resto, le leggi possono differire da un paese all'altro, nella misura in cui sono promulgate democraticamente.
Kant collega il diritto naturale alla giustizia, ma ridefinisce il loro rapporto in modo nettamente contrastante rispetto alla tradizionale teoria giusnaturalistica. Al pari di Locke, Kant è un sostenitore dell'individualismo, e quindi il principale problema che entrambi si trovano ad affrontare è quello di definire principî comuni di giustizia e di armonia sociale per una società composta di individui con interessi diversi e spesso confliggenti. Mentre la soluzione lockiana comporta una divisione degli interessi - quelli tutelati attraverso l'esercizio dei diritti naturali e quelli soggetti alla competizione in una società democratica -, la soluzione kantiana si basa su una separazione tra le sfere della giustizia e della morale da un lato e quella degli interessi dall'altro. Sullo sfondo delle teorie di Locke e di Kant si intravede l'emergere del sistema capitalistico, in cui l'homo œconomicus assume una posizione di primo piano e diventa il centro propulsore in una competizione sempre più globale alimentata dal perseguimento dell'interesse personale. Adam Smith espresse la rassicurante convinzione che dallo scontro degli interessi individuali potessero nascere il benessere e l'armonia sociale in virtù della "mano invisibile" di Dio. Kant, per contro, asseriva che il diritto naturale e la giustizia possono essere fatti valere solo a patto di separare la morale dagli interessi.
Nel mercato, gli individui interagiscono attraverso la competizione e la cooperazione mediante contratti, considerandosi reciprocamente come mezzi per il conseguimento dell'interesse personale. La separazione kantiana tra la sfera morale e la sfera degli interessi implica che la giustizia deve prescindere dagli interessi, considerando ogni persona esclusivamente come fine in se stessa. In quanto si collocano nel regno dei fini, la giustizia, i diritti, i doveri e la legge naturale trascendono il bene e ogni considerazione degli interessi comuni della società. La giustizia e il diritto naturale sono dati a priori e trovano espressione nell'imperativo categorico che impone ad ogni individuo di trattare i suoi simili come eguali e come fini in sé secondo norme che possono essere assunte come universali. Così, laddove il diritto naturale tradizionale comportava una conciliazione tra bene comune e giustizia sulla base di idee del bene e di valori accessibili alla ragione, il diritto naturale di Kant colloca i diritti e i doveri in un regno ideale in cui gli individui sono trattati esclusivamente come fini, e da cui sono stati eliminati tutti gli interessi.
Lo standard kantiano per la giustizia e il diritto naturale è così elevato, che è praticamente impossibile soddisfarlo per qualsiasi insieme di norme giuridiche sostanziali. Lo stesso Kant, pur propugnando il principio di legalità, fa dipendere la legittimità del diritto dalla conformità con criteri formali di universalizzabilità. Abbracciando il postulato dell'eguaglianza e imponendo che tutti i cittadini siano considerati liberi ed eguali, e come fini in se stessi, Kant ritiene legittime quelle leggi che avrebbero potuto essere approvate da tutti i cittadini. Si tratta di un requisito piuttosto debole, che invalida le leggi basate sulla gerarchia naturale o sociale, come quelle promosse dall'ordinamento feudale, ma che legittima tutte le leggi formalmente compatibili con il postulato dell'eguaglianza. Ad ogni modo, la concezione kantiana rappresenta un punto di svolta per il giusnaturalismo, in quanto segna il passaggio da una teoria della giustizia sostanziale ad una teoria della giustizia procedurale.
Un'altra figura cruciale per l'evoluzione del giusnaturalismo nel contesto di una frammentazione degli interessi è quella di Hobbes, che può essere considerato il fondatore del moderno approccio contrattualistico. Sebbene anche Kant e Locke si siano serviti della metafora del contratto sociale, nelle loro teorie essa ha un ruolo piuttosto marginale, e non assume la centralità che ha invece in quella di Hobbes. Partendo dal postulato dell'eguaglianza, Hobbes afferma che le uniche obbligazioni legittime sono quelle autoimposte. Poiché lo stato di natura è caratterizzato dalla guerra di tutti contro tutti, per ottenere pace e sicurezza gli uomini devono accettare di concludere un contratto sociale e quindi di costituire lo Stato civile.
Coerentemente con la teoria hobbesiana del contratto sociale, il diritto naturale trova espressione nella massima "pacta sunt servanda", e la giustizia viene equiparata all'osservanza dei contratti. Sebbene Hobbes, a rigore, sia da considerarsi un esponente del giusnaturalismo, la sua particolare visione di ciò che gli individui sarebbero disposti a sacrificare per assicurarsi la sopravvivenza, nonché la sua definizione dei mezzi necessari a garantire la stabilità dei contratti nella società civile, ne fa un precursore del moderno giuspositivismo. Secondo Hobbes, la stabilità dei contratti nella società civile dipende dalla sottomissione all'autorità di un sovrano che avoca a sé ogni potere legislativo. Così i contraenti accettano di sottomettersi ad ogni futuro atto legislativo nella società civile in via di formazione, a patto che non venga violato il loro diritto alla vita. Di conseguenza, sebbene in teoria tutte le leggi promulgate dal sovrano siano convalidate dal contratto sociale, in pratica quasi tutte lo sono in quanto provengono dall'autorità che detiene la legittima potestà legislativa. In altre parole, una volta eliminato dalla teoria hobbesiana il tenue legame con il contratto sociale, rimane il nucleo centrale del positivismo moderno, che vincola la validità del diritto alla sua origine e che separa il diritto valido dalla giustizia.
Un altro importante approccio al problema del rapporto tra diritto e giustizia nell'ambito delle teorie che accettano il postulato dell'eguaglianza è quello che definisce la giustizia in termini di utilità sociale. Hume considera la giustizia necessaria ai fini della coesione sociale, ma afferma che si tratta di una virtù artificiale e non già naturale, che dovrebbe essere valutata in base al criterio dell'utilità sociale. Dal canto suo, la teoria utilitaristica di John Stuart Mill fornisce una spiegazione sistematica del ruolo della giustizia quale strumento per promuovere la maggiore felicità possibile per il maggior numero possibile di persone, partendo dall'assunto che tutti gli individui hanno eguale diritto alla felicità. Mill sostiene che la giustizia distributiva e compensativa dovrebbe essere misurata in base alla quantità netta di felicità che produce. Di conseguenza, le leggi non sono automaticamente giuste, e persino leggi che sono giuste in generale possono essere ingiuste in circostanze particolari. Ad esempio, una legge contro il furto nella maggior parte dei casi massimizza l'utilità, ma non nel caso di un individuo che ruba un tozzo di pane a un milionario per non morire di fame. Data la maggiore utilità comportata dall'evitare di morire di fame rispetto al contributo marginale al benessere del milionario, sarebbe ingiusto secondo il criterio di Mill costringere il ladro a restituire il pane alla persona cui legittimamente appartiene.
A differenza della teoria deontologica di Kant che separa la giustizia dal bene, quella di Mill è di tipo teleologico, in quanto fa dipendere la giustizia dal perseguimento del bene inteso in termini di massimizzazione dell'utilità. L'utilitarismo di Mill dunque sottolinea il divario che sussiste tra diritto e giustizia, e postula che la giustizia sia una funzione delle conseguenze dell'applicazione della legge.
Completamente diverso dalle teorie della giustizia di Hobbes, Locke, Hume, Kant e Mill - che concepiscono la giustizia in termini di distribuzione o di rettificazione tra individui intrinsecamente eguali i quali convivono in uno stesso contesto sociopolitico - è invece l'approccio adottato da Marx. La sua concezione è stata oggetto di controversie, e sebbene egli critichi le tradizionali interpretazioni individualistiche della giustizia, resta dubbio se dai suoi scritti sull'argomento possa essere estrapolata una vera e propria teoria della giustizia. Nondimeno, l'approccio marxiano fornisce una prospettiva alternativa sui problemi più importanti attinenti al rapporto tra diritto e giustizia.
Una delle difficoltà che pongono le considerazioni di Marx sulla giustizia è rappresentata dal fatto che se esse non vengono intese dialetticamente risultano semplicemente contraddittorie. Sebbene Marx si riferisca al capitalismo in termini che sembrano di riprovazione morale, non lo giudica però ingiusto. La giustizia nella prospettiva marxiana si identifica con ciò che è necessario e appropriato ad un determinato modo di produzione. Di conseguenza nel modo di produzione capitalistico l'accumulazione e lo sfruttamento dei lavoratori sono giusti in quanto rientrano nella natura di questo modo di produzione, mentre lo schiavismo o la frode sono ingiusti in quanto non essenziali al capitalismo. La giustizia, quindi, dipende dai vari modi di produzione e dalla classe o dai rapporti sociali che essa ingenera necessariamente. Per Marx, inoltre, il diritto è subordinato ai rapporti economici che alimentano un determinato modo di produzione. Così, sia che si consideri il contrattualismo come un elemento necessario dell'economia capitalistica, oppure come un mero mascheramento ideologico che dissimula rapporti di produzione ineguali tra capitalisti e lavoratori presentandoli come accordi volontari tra eguali, è il modo di produzione e non il diritto a determinare i contenuti della giustizia.
Dalla concezione marxiana della giustizia derivano due conseguenze importanti. In primo luogo, la giustizia è relativa a particolari forme di organizzazione sociale ed economica. In secondo luogo, focalizzare l'attenzione sul rapporto tra diritto e giustizia è fuorviante, in quanto ha solo una finalità ideologica (nel senso marxiano di falsa coscienza), oppure oscura il problema reale, che riguarda le esigenze del modo di produzione dominante, o forse più in generale la persistente necessità di quel particolare modo di produzione.
Nel XX secolo il dibattito tra gli esponenti delle varie teorie della giustizia e tra giusnaturalisti e giuspositivisti ha conosciuto un'evoluzione rispetto alle posizioni appena illustrate. Così la divisione tra teorie deontologiche e teorie teleologiche, nonché le divergenze in merito al rapporto tra diritto e giustizia, hanno trovato nuove espressioni e si sono incanalate in nuove direzioni. Nell'ultimo ventennio del XX secolo, infine, la teoria postmoderna ha aperto nuove prospettive sui problemi relativi al rapporto tra diritto e giustizia (prospettive che verranno esaminate nel capitolo 4).
Le teorie contemporanee si sono sviluppate nel quadro dello scontro storico, politico e ideologico tra le democrazie liberali e i vari regimi autoritari o totalitari, tra il capitalismo da un lato e il socialismo di Stato, il nazismo, il fascismo, il razzismo e il colonialismo dall'altro. Il dibattito teorico, inoltre, è stato profondamente influenzato dai numerosi sconvolgimenti che hanno segnato la storia del XX secolo: le due guerre mondiali, l'Olocausto, la guerra fredda, il crollo dei regimi comunisti nell'ex Unione Sovietica e nei paesi dell'Europa centro-orientale, numerosi genocidi e violenti conflitti etnici, religiosi e razziali in tutto il mondo. Alcuni di questi eventi hanno avuto ripercussioni dirette sulla riflessione teorica. In conseguenza dell'Olocausto, ad esempio, la tutela universale dei diritti umani ha assunto un'importanza di primo piano, e ciò ha portato a una rinascita o a un rafforzamento delle teorie del diritto naturale e dei diritti fondamentali. Inoltre, a seguito del crollo dei regimi comunisti vi sono state numerose richieste di restituzione e di retribuzione, allorché molti hanno cercato di rientrare in possesso delle proprietà confiscate o di far punire i responsabili delle violenze e dei soprusi subiti personalmente o dai propri familiari.
Altri sviluppi, come l'affermarsi del welfare State con il suo apparato amministrativo sempre più pervasivo, hanno avuto anch'essi un impatto notevole, per quanto più graduale, sulla percezione del rapporto tra diritto e giustizia. Così, ad esempio, a seguito della crescente complessità dei moderni rapporti giuridici, l'adesione al principio di legalità in alcuni paesi ha acquistato un importante valore normativo. Di conseguenza, le regole procedurali hanno assunto un ruolo di maggior rilievo nella definizione della giustizia, al punto che secondo alcuni il rispetto delle forme legali costituisce il fondamento della giustizia contemporanea. Secondo altri, invece, è lo Stato amministrativo, con i suoi interventi positivi, a realizzare la giustizia, sebbene in modo più elusivo.
Nelle democrazie liberali che danno la preminenza ai diritti individuali e nei paesi socialisti orientati verso fini collettivi, il dibattito sulla giustizia ha avuto come punto di partenza il postulato dell'eguaglianza. Per contro, le ideologie basate sul concetto di superiorità etnica o razziale, come quella nazista, rifiutano il postulato dell'eguaglianza e quindi non hanno una concezione della giustizia universalistica. Concentrando l'attenzione esclusivamente sulle teorie che aderiscono al postulato dell'eguaglianza, diventa evidente come le principali divergenze al loro interno riguardino la delimitazione del dominio dell'eguaglianza, nonché la coerenza tra principì e prassi. Ad esempio, il principio secondo cui tutti gli individui godono di eguali diritti non sempre è stato applicato con coerenza; le donne e i membri delle minoranze etniche, ad esempio, hanno dovuto aspettare molto tempo prima di essere riconosciuti come eguali a pieno titolo. Così, nonostante il principio dell'eguaglianza universale sancito dalla Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 1776, le donne non hanno avuto il diritto di voto fino al 1920, e la politica dell'apartheid è stata proibita solo nel 1954.
Nelle società liberaldemocratiche in cui prevale un orientamento individualistico, le principali teorie della giustizia si sono divise sull'estensione del dominio dell'eguaglianza. Tre delle quattro teorie dominanti - il libertarismo, l'utilitarismo e l'egualitarismo - possono essere classificate in base all'estensione riconosciuta a tale dominio, che è minima nel caso delle teorie libertarie e massima nel caso delle teorie egualitarie. La quarta teoria dominante, il contrattualismo, differisce dalle altre per il fatto che si basa su una concezione procedurale della giustizia. Il contrattualismo moderno fa dipendere la giustizia dai termini di un ipotetico contratto sociale, cosicché l'estensione del dominio dell'eguaglianza viene decisa da coloro che stipulano l'accordo. Nella teoria di Rawls, che può essere considerata la versione contemporanea del contrattualismo di gran lunga più influente, il dominio dell'eguaglianza è piuttosto ampio, in quanto si colloca a metà strada tra quello dell'utilitarismo e quello dell'egualitarismo.
La teoria libertaria della giustizia risale a Locke, e ha in Hayek e Nozick i suoi esponenti contemporanei più illustri. Per i fautori di questa teoria, il dominio dell'eguaglianza è limitato all'eguaglianza formale, che può essere ottenuta con la tutela dei diritti individuali fondamentali e inalienabili alla vita, alla proprietà e alla libertà. Nella versione di Nozick la teoria libertaria postula che, una volta assicurata la tutela dei diritti fondamentali, l'operare dei meccanismi del libero mercato garantisce la realizzazione della giustizia distributiva. La concezione di Nozick, dunque, è frutto di una combinazione tra la dottrina lockiana dei diritti e una fiducia nel mercato che ricorda Adam Smith.
Laddove Aristotele limita il dominio della giustizia distributiva a quello delle distribuzioni pubbliche, Nozick amplia tale dominio sino a includervi tutte le distribuzioni che derivano dalle transazioni di mercato. Tutte le altre distribuzioni però, come ad esempio quelle in base al bisogno, a suo avviso sono illegittime. Di conseguenza, Nozick propone un approccio 'storico', imperniato sulla genealogia dei titoli (di proprietà) all'interno della società in un dato momento. Così, il possesso di un bene da parte di un individuo è giusto se la catena storica dei passaggi di proprietà consiste in acquisizioni giuste (ossia basate su un titolo valido di possesso, come il fatto di aver prodotto quel dato bene, o di averlo ricevuto in dono o in eredità) e trasferimenti giusti (ovvero transazioni di mercato). Nozick non considera ingiuste le disparità di ricchezza, e mentre ritiene che i meccanismi di un mercato realmente libero abbiano un'alta probabilità di soddisfare i bisogni fondamentali di ogni individuo, ammette la redistribuzione solo in casi eccezionali.
L'ordinamento giuridico legittimato dalla concezione della giustizia di Nozick è piuttosto limitato, in quanto è circoscritto alla tutela della proprietà, all'esecuzione dei contratti e alla punizione dei crimini. Nozick auspica quindi l'avvento di uno Stato minimo con funzioni di 'guardiano', privo di qualunque potere di imposizione fiscale a fini distributivi e di intervento nella sfera del mercato.
La concezione di Nozick, che ripropone la teoria lockiana dei diritti naturali resa più allettante, ai suoi occhi, da quelle che egli considera le virtù del mercato, sistematizza un orientamento che ebbe una posizione dominante nella giurisprudenza americana degli anni trenta. Questo periodo - noto anche come 'era lockeana' a seguito della decisione del 1905 della Corte Suprema di includere i diritti di proprietà lockiani tra i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione - vide l'invalidazione di molte leggi, come quella sui minimi salariali e sull'orario di lavoro, destinate a tutelare i cittadini dalle conseguenze più pericolose dei meccanismi del mercato, in nome dei diritti individuali alla libertà e alla proprietà. Più di recente, le teorie di Nozick sono state riprese da alcuni giuristi americani contemporanei. Richard Epstein, ad esempio, ha sostenuto che tutte le leggi esistenti contro la discriminazione sul lavoro dovrebbero essere revocate in quanto violano i diritti alla proprietà e alla libertà, e non sono necessarie in base al presupposto che tutti i rapporti di mercato sono guidati da un'esigenza di efficienza.
Le teorie utilitaristiche della giustizia, che come abbiamo osservato in precedenza a proposito di Mill sono di natura teleologica, hanno avuto un ruolo importante nei tentativi novecenteschi di riconciliare diritto e giustizia. Considerando il bene della società o il pubblico interesse come aggregazione di beni individuali, la giustizia utilitaristica valuta la politica pubblica e le leggi alla luce delle loro conseguenze complessive. Di conseguenza una legge che massimizza l'utilità è giusta, mentre una legge che va contro tale massimizzazione è ingiusta. La giustizia utilitaristica ha avuto un impatto pratico sul diritto nella misura in cui alla produzione normativa è stata applicata l'analisi dei costi/benefici. Inoltre, la giustizia utilitaristica sembra adatta a soddisfare le esigenze del welfare State, in cui la regolamentazione burocratica del benessere pubblico può essere guidata e giustificata dal fine della massimizzazione dell'utilità.
Tuttavia il 'conseguenzialismo' della teoria utilitaristica pone un serio problema per quanto attiene al rispetto della legge e della legalità. Come abbiamo già accennato, il furto talvolta può massimizzare l'utilità, e lo stesso può accadere per la rottura di un contratto, e in generale per la violazione di pressoché tutte le leggi. In termini sistematici, il legame tra giustizia secondo la legge e giustizia utilitaristica (al di là della legge) è puramente contingente, con la conseguenza che la decisione se sia giusto o meno restare entro i confini della legalità dipende esclusivamente dalle circostanze.
Si può cercare di superare questa difficoltà operando una distinzione tra utilitarismo dell'atto e utilitarismo della regola. Il primo valuta le conseguenze degli atti o delle transazioni, mentre il secondo valuta le conseguenze delle regole. In base all'utilitarismo della regola, il rispetto di una norma è giustificato anche quando alcune applicazioni individuali non massimizzano l'utilità, a patto che l'applicazione sistematica della norma in questione produca nel complesso un'utilità maggiore rispetto a un approccio caso per caso. Di conseguenza, l'applicazione di un determinato ordinamento giuridico può essere giustificata in base a principî utilitaristici.L'utilitarismo ha profondamente influenzato due importanti scuole giuridiche americane contemporanee: l'economia giuridica, o la scuola di diritto ed economia, e il pragmatismo. Secondo Richard Posner, il principale esponente del primo orientamento, il diritto ha il compito di massimizzare la ricchezza e dovrebbe quindi essere prodotto e interpretato in vista di questo fine. L'economia giuridica non è una teoria utilitaristica, sebbene abbia molto in comune con l'utilitarismo, in quanto la massimizzazione della ricchezza non coincide necessariamente con la massimizzazione dell'utilità. Sebbene in pratica l'economia giuridica spesso legittimi gli ordinamenti giuridici improntati alla giustizia libertaria, in teoria i due approcci restano distinti, in quanto il libertarismo si richiama in ultimo ai diritti e non alle conseguenze.
Per gli esponenti della seconda scuola, quella del pragmatismo giuridico, la società dovrebbe lasciar da parte i dibattiti teorici per concentrare l'attenzione sull'adozione e l'applicazione di leggi efficienti. Il pragmatismo è interessato ai mezzi piuttosto che ai fini, ed è compatibile con l'utilitarismo in quanto il fine ultimo, per quanto non dichiarato espressamente, coincide spesso con la massimizzazione dell'utilità. Tuttavia altri fini, come la preservazione della pace, o il rispetto delle usanze consolidate, sono anch'essi compatibili con il pragmatismo. Al pari dell'utilitarismo, il pragmatismo giuridico adotta un approccio conseguenzialista, ma a differenza di esso non propone una concezione specifica della giustizia.
La teoria egualitaria della giustizia estende al massimo il dominio dell'eguaglianza, che viene intesa in senso sostanziale anziché puramente formale e posta al di sopra dell'utilità, della libertà o della maggiore autonomia. Le teorie egualitarie della giustizia possono differire per quanto riguarda l'identificazione di ciò che dovrebbe essere distribuito in modo eguale - tutto ciò che è passibile di divisione o tutto ciò che è necessario per garantire una vita dignitosa. La giustizia egualitaria, inoltre, non comporta necessariamente una divisione in parti eguali, in quanto talvolta può richiedere distribuzioni ineguali per arrivare a risultati equi. Ad esempio, poiché la giustizia egualitaria impone che tutti i cittadini siano trattati equamente sotto il profilo delle cure sanitarie, gli ammalati dovrebbero ricevere molto più dei sani per potersi trovare nella stessa posizione di questi ultimi.Il rapporto tra diritto e giustizia può essere interpretato in diversi modi all'interno della teoria egualitaria, a seconda di come viene concepita l'eguaglianza sostanziale che deve essere raggiunta in una società giusta. L'egualitarismo può dunque legittimare una regolamentazione estensiva che mira a produrre un'ampia base di benessere, oppure, in linea con le posizioni di Dworkin, può giustificare un sistema giuridico che promuove l'eguaglianza delle risorse e garantisce eguale trattamento a tutti i cittadini senza richiedere un eguale trattamento (ossia lo stesso per ognuno) in tutti i casi. La teoria egualitaria, inoltre, può essere invocata per giustificare le politiche di discriminazione positiva che assicurano un trattamento preferenziale ai membri di alcuni gruppi svantaggiati nella competizione per risorse scarse. La discriminazione positiva viola i canoni dell'eguaglianza formale, e può persino essere incompatibile con l'egualitarismo se è utilizzata per produrre o consolidare risultati ineguali. Tuttavia, nella misura in cui viene impiegata per assicurare l'eguaglianza sostanziale a gruppi esclusi o svantaggiati come le donne o le minoranze etniche, la discriminazione positiva è coerente con la giustizia egualitaria.
La giustizia egualitaria è stata anche invocata per condannare gli ordinamenti giuridici dominanti nelle società capitalistiche. Rifacendosi all'analisi marxiana discussa in precedenza, e ispirandosi all'ideale comunista "da ognuno secondo le sue capacità e a ognuno secondo i suoi bisogni", alcuni autori marxisti del XX secolo hanno criticato i sistemi giuridici capitalistici come intrinsecamente ingiusti (questa posizione può sembrare in contrasto con la teoria marxiana, ma la si comprenderà meglio se si tiene conto del presupposto da cui parte, ossia la convinzione che pur essendo mature le condizioni per la sostituzione del modo di produzione capitalistico con quello comunista, è comunque necessario, inter alia, un attacco globale contro le istituzioni capitalistiche consolidate). Nelle versioni più radicali e utopiche di questo attacco, il diritto stesso viene condannato come arma che mira a perpetuare l'egemonia borghese, e di conseguenza la sua abolizione è considerata una precondizione per istituire una autentica società egualitaria. In sintesi, l'orientamento marxista ha portato a due critiche distinte del capitalismo: la prima, diretta contro il diritto borghese, lo considera ingiusto in quanto è universale sul piano formale, ma nella sostanza mira a proteggere gli interessi di classe dei capitalisti; la seconda, contro il diritto in generale, è formulata dal punto di vista utopico di una società comunista in cui le relazioni sociali sono improntate alla solidarietà e orientate verso fini collettivi condivisi da tutti. Quest'ultimo orientamento critico, che ha avuto particolare risonanza all'epoca della rivoluzione culturale cinese, è ora in declino. Nondimeno, entrambe le critiche hanno lasciato un'impronta significativa nel mondo occidentale, come dimostrano le concezioni sviluppate negli anni settanta e ottanta negli Stati Uniti dal movimento Critical Legal Studies (CLS), che discuteremo più avanti.
La forza di attrazione della teoria contrattualistica della giustizia deriva dalla sua apparente capacità di trovare un terreno d'intesa comune in società caratterizzate dalla divisione degli interessi. In ragione del postulato dell'eguaglianza, non è possibile giustificare la subordinazione degli interessi di alcuni a quelli di altri. I contrattualisti, tuttavia, ritengono che se tutti gli interessati potessero accordarsi su un insieme di istituzioni e di principî comuni per regolare i loro rapporti intersoggettivi, il risultante sistema di cooperazione concordato sarebbe giusto. Data l'impossibilità di soddisfare gli interessi di tutti, la convivenza sociale richiede certi compromessi, che, nella misura in cui sono pienamente volontari, possono essere considerati equi.Questo approccio si richiama al contrattualismo hobbesiano, ma ne respinge la conclusione secondo cui ciò che è volontario è necessariamente equo. Ad esempio, l'accettazione di un impiego per un salario di mera sussistenza da parte di un individuo che muore di fame può essere perfettamente volontaria, ma non per questo è giusta. Le disparità di ricchezza, potere e capacità implicano che alcuni possono assicurarsi accordi assai più favorevoli rispetto ad altri, e ciò rende assai meno convincente la teoria contrattualistica della giustizia.
John Rawls, che può essere considerato il più importante filosofo politico della seconda metà del XX secolo, cerca di superare quest'ultima difficoltà combinando il meglio della tradizione contrattualista con l'approccio deontologico di Kant che colloca la giustizia al di sopra del bene. A differenza di Hobbes, però, Rawls neutralizza i fattori che potrebbero rendere ingiusto un accordo ponendo i suoi contraenti dietro un 'velo di ignoranza' che ne occulta lo status sociale, la ricchezza, le capacità, l'appartenenza di classe e le convinzioni etiche. D'altro canto, a differenza di Kant, Rawls non recide il legame tra giustizia e interessi, ma si limita a postulare che i contraenti ignorino quali siano i propri interessi, e di conseguenza cerchino di stabilire norme che sarebbero eque a prescindere dai particolari interessi dei singoli individui. Infine, Rawls assume che i contraenti che agiscono dietro il velo di ignoranza siano avversi al rischio, e che di conseguenza diano il loro assenso a principî che li favorirebbero nel caso in cui si trovassero ad occupare i gradini più bassi della scala sociale.
Date queste condizioni, i sottoscrittori del contratto accetterebbero due principî di giustizia: quello dell'eguale libertà e quello della differenza. Il principio dell'eguale libertà, che ha la priorità, stabilisce che a tutti vengano riconosciuti in misura eguali i diritti fondamentali. Il principio della differenza, dal canto suo, stabilisce che posta un'effettiva eguaglianza di opportunità (vale a dire, ognuno può competere su un piano di eguaglianza dopo che siano stati rimossi tutti gli svantaggi riconducibili alla società) le differenze di ricchezza possono essere giustificate solo se contribuiscono a migliorare la condizione delle categorie più svantaggiate.
La teoria di Rawls si è imposta negli Stati Uniti negli anni settanta, e in seguito ha avuto notevole risonanza in numerosi paesi. Per ironia della sorte, quella che può essere considerata la giustificazione filosofica più sistematica del welfare State acquistò popolarità proprio nel momento in cui gli Stati Uniti cominciarono ad abbandonare le politiche di welfare. Riprendendo l'idea di un ipotetico contratto sociale e la tesi kantiana della priorità del giusto sul bene, Rawls definisce un criterio di giustizia puramente procedurale. Egli afferma di conseguenza che la società politica le cui istituzioni fondamentali si conformano ai due principî di giustizia indicati è intrinsecamente giusta, a prescindere dai conflitti di interessi o di convinzioni etiche che la dividono al suo interno. Laddove il proceduralismo e il contrattualismo di Rawls sono stati ampiamente criticati in quanto viziati da una propensione per l'individualismo liberale o da un'avversione nei confronti della solidarietà socialista, le sue teorie hanno incontrato notevole favore tra gli intellettuali americani di centro-sinistra. In particolare, Rawls ha influenzato fortemente numerosi filosofi del diritto americani come Dworkin e Frank Michelman, anche se l'egualitarismo sostanziale che permea i suoi scritti spesso ha oscurato il suo proceduralismo.
Accanto al vivace confronto tra teorie della giustizia alternative, nel XX secolo si è assistito anche a una rinnovata e intensificata contrapposizione tra giuspositivismo e giusnaturalismo. Si è trattato in parte di una contrapposizione epistemologica o ontologica, che si è imperniata sul problema della distinzione tra diritto e morale. In parte, però, è stata anche una contrapposizione ideologica e inficiata da giudizi di valore, incentrata sul problema della normatività autonoma del diritto ossia, in altre parole, sulla legittimità del concetto di giustizia secondo la legge.Il moderno giuspositivismo si è evoluto rispetto alla concezione del diritto come espressione della volontà del sovrano formulata nel XIX secolo da Austin, per arrivare all'approccio assai più sfumato sviluppato negli anni cinquanta da H.L.A. Hart, che fa dipendere il diritto da un adeguato passato istituzionale e dal consenso dei destinatari.
La teoria del positivismo giuridico più sistematica del XX secolo si deve a Hans Kelsen, il quale propone una concezione formalistica del diritto modellata metodologicamente su quella kantiana. Al centro dell'analisi di Kelsen vi è il problema del fondamento della normatività del diritto che, egli afferma, non può essere identificato né con l'etica né con la giustizia, in quanto su questi domini non sussiste alcun accordo. La giustizia inoltre, secondo Kelsen, è legata al conseguimento della "felicità sociale" - una nozione che varia da società a società - e dunque dipende dal sistema culturale. D'altro canto, egli respinge l'idea che il diritto possa essere inteso come semplice comando, o definito partendo semplicemente dal fatto che i destinatari delle norme si sentono costretti all'obbedienza. In quest'ultimo caso, difatti, la forza del diritto non si distinguerebbe da quella di una minaccia da parte di un malfattore armato.
Insistendo su una rigida separazione tra essere e dover essere (sollen), Kelsen sostiene che, in quanto normative, le leggi devono essere valutate in base a un criterio di validità. Leggi valide sarebbero quelle derivate da norme valide, e per evitare un regressus ad infinitum, la catena delle norme valide deve trovare il suo fondamento ultimo in una norma prima (Grundnorm). Tale norma fondamentale non è una norma positiva, ma un'istanza puramente formale che conferisce validità agli ordinamenti normativi. Può essere una costituzione, ma non necessariamente. Nella misura in cui è convalidata da un ordinamento giuridico che deriva dalla norma fondamentale, una legge è valida a prescindere dalla sua desiderabilità morale o politica.Il positivismo di Hart è in linea con quello di Kelsen, ma ha un fondamento più empirico. Per definire l'essenza del diritto, a suo avviso, occorre adottare un punto di vista 'interno' - quello dei partecipanti all'ordinamento giuridico, e non già quello di un osservatore esterno. Hart opera quindi una distinzione tra norme primarie - le norme giuridiche che definiscono ciò che i cittadini possono o non possono fare - e norme secondarie, ossia le regole che fissano i criteri di validità della produzione normativa nonché dell'interpretazione e dell'applicazione delle norme. Inoltre, alla base di un ordinamento giuridico formato da norme primarie e secondarie vi sarebbe una 'norma di riconoscimento', cui viene attribuito un valore autoritativo. Le norme di riconoscimento costituiscono dunque il fondamento di validità delle norme giuridiche, e di conseguenza tale validità per Hart dipende in ultima istanza dai destinatari di un dato ordinamento giuridico. Se ad esempio quale norma di riconoscimento viene fissata la costituzione di un paese, l'ordinamento giuridico che viene derivato dalle norme secondarie definite dalla costituzione dovrebbe ottenere il consenso generale come giuridicamente vincolante. Ciò non esclude, tuttavia, che leggi riconosciute come valide possano essere immorali; per Hart, in sostanza, la validità delle leggi non dipende dalla loro moralità.
La separazione tra diritto e morale postulata da Hart è il presupposto per una chiarificazione concettuale in merito al rapporto tra diritto e giustizia. Poiché spesso non vi è consenso sulla morale, se la validità di una legge dipendesse dalla sua moralità sarebbe in pratica impossibile distinguere tra leggi valide e leggi che non lo sono. Se invece si mantiene il diritto separato dalla morale, si può stabilire la legalità anche se non vi è alcun accordo in merito alla moralità o alla giustizia del diritto. Nel contesto della democrazia costituzionale, dove le leggi valide esprimono la volontà della maggioranza entro i limiti posti dalla costituzione, la legislazione democratica sarebbe legalmente valida anche se risultasse moralmente discutibile.
Nel secondo dopoguerra vi fu una rinascita del giusnaturalismo o, più precisamente, della teoria dei diritti naturali. L'indignazione suscitata dall'Olocausto e dai crimini nazisti, l'enfasi posta dai processi di Norimberga sui crimini contro l'umanità, la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 e varie convenzioni internazionali per la tutela dei diritti fondamentali hanno contribuito a conferire una nuova centralità ai diritti umani, e ciò ha portato a ridefinire la validità del diritto in termini di criteri extragiuridici. Tali criteri, inoltre, consentono sia di definire positivamente il diritto sia di porre limiti negativi che invalidano determinate leggi. Così, ad esempio, la libertà di coscienza può essere considerata un diritto morale fondamentale cui va conferita forza normativa anche se nessuna legge promulgata lo impone. In questo caso, la morale richiederebbe una definizione positiva del diritto, e ritenere giuridicamente responsabili coloro che violano la libertà di coscienza di un altro essere umano sarebbe legittimo anche in assenza di una legge positiva. D'altro canto, una legge dell'ordinamento giuridico esistente che preveda la condanna al carcere per i seguaci di confessioni religiose diverse da quella ufficiale non sarebbe valida, e dovrebbe essere trattata come se non esistesse.
Sebbene questo movimento per i diritti naturali eserciti ancora una notevole influenza nella comunità giuridica internazionale, esso ha perso parte della sua spinta iniziale per due diversi motivi. In primo luogo - e ciò testimonia il suo grande successo - i suoi principî fondamentali sono stati in larga misura codificati nel diritto nazionale e internazionale, e di conseguenza i nuovi diritti fondamentali sono stati incorporati nel diritto positivo. In secondo luogo, se si prescinde dalle proibizioni relative al genocidio e alle torture e si concentra l'attenzione sui diritti liberali più tradizionali, è stato osservato che il movimento per i diritti universali si riduce in sostanza al tentativo di imposizione di valori occidentali a scapito di culture e tradizioni extraoccidentali. Agli occhi dei critici, pertanto, i diritti umani possono essere spacciati per universali, ma di fatto sono relativi ad una data cultura.
Nel secondo dopoguerra si è assistito anche a una rinascita della teoria giusnaturalistica vera e propria, che negli anni cinquanta ha trovato la sua sistematizzazione forse più coerente negli scritti di Lon Fuller. Secondo questo autore, la validità del diritto dipende da alcuni requisiti minimi che gli conferiscono un'indispensabile 'moralità interiore'. Per essere valida, una legge deve fondarsi su un ordinamento giuridico che soddisfi i seguenti criteri: 1) opera in base a norme anziché in base a decisioni ad hoc; 2) le norme in questione sono rese pubbliche in modo che ogni individuo sappia cosa aspettarsi; 3) il ricorso a norme retroattive è limitato in modo significativo al fine di non inficiare i due criteri precedenti; 4) produce norme comprensibili che: a) non sono in contraddizione, b) non richiedono comportamenti che esulano dalle capacità dell'uomo comune, e c) non cambiano con frequenza tale da frustrare i tentativi degli individui di agire in conformità ad esse; 5) non è inficiato da incongruenze tra le norme emanate e la loro applicazione concreta. Secondo Fuller, quindi, gli ordinamenti giuridici che includono leggi come quelle naziste di Norimberga o qualunque altra legge che basi lo status sulle differenze razziali non soddisfano i suddetti criteri.
Il dibattito tra giuspositivismo e giusnaturalismo, e più in generale sul rapporto tra diritto e giustizia è stato impostato in nuovi termini negli ultimi decenni del XX secolo. I principali contributi in questo senso si devono all'opera sistematica di due studiosi tedeschi, Niklas Luhmann e Jürgen Habermas, i quali hanno aperto nuove prospettive in cui si intrecciano diritto, teoria sociale e filosofia.
Luhmann ha sviluppato una teoria giuridica che ha molto in comune con il positivismo, in quanto anch'egli afferma che le norme giuridiche sono autonome, e che la loro validità non dipende da altre norme. Luhmann concepisce il diritto come un sistema autopoietico, ossia un sistema autoreferenziale e autonomo che resta normativamente chiuso. Rifacendosi al concetto di autopoiesi elaborato nell'ambito della biologia, Luhmann definisce il diritto come un sistema di comunicazione basato sul codice binario legale/illegale e in grado di elaborare inputs esterni nei termini del proprio modello normativo autonomo restando immune da qualsiasi influenza normativa esterna. Il sistema giuridico è dunque in grado di elaborare elementi provenienti dai sistemi della morale, della politica e dell'economia selezionandoli nei termini del proprio codice legale/illegale e in tal modo restando indipendente da essi.
La chiusura normativa del sistema giuridico è analoga a quella del sistema economico che opera attraverso il processo della monetizzazione. Nella prospettiva autopoietica, anche l'economia è un sistema autonomo normativamente chiuso, che si basa sul processo di monetizzazione. Nella misura in cui entrano in rapporti economici, tutte le cose devono acquistare un valore monetario. Desideri, interessi, aspirazioni, ecc. possono influenzare i rapporti economici solo se assumono un valore di scambio attraverso la monetizzazione. Allo stesso modo nell'ambito giuridico tutto viene tradotto nei termini della dicotomia legale/illegale.
Per Luhmann la funzione del sistema giuridico è quella di stabilizzare le aspettative, che in un mondo complesso sono caratterizzate dall'incertezza. Ad esempio, può risultare impossibile sapere se un anonimo commerciante fornirà a tempo debito la merce acquistata. Se il commerciante in questione è giuridicamente obbligato a effettuare la consegna, tuttavia, l'acquirente è giustificato nella sua aspettativa che la merce venga consegnata, o perché il commerciante mantiene le promesse o perché la legge garantisce un rimedio in caso di inadempienza.
La teoria luhmanniana dei sistemi autopoietici può essere considerata una forma superiore di giuspositivismo in quanto fonda il diritto su un sistema chiuso e autonomo, piuttosto che sulla storia o sul consenso. Incentrando l'attenzione sulla funzione di stabilizzazione delle aspettative e sulla natura autoriproduttiva dei vari sistemi autorefenziali, Luhmann evita l'apparente soggettività o arbitrarietà associata al diritto meramente positivo.
La sua teoria, tuttavia, presta il fianco a serie critiche. Secondo alcuni il codice legale/illegale non è sufficiente a spiegare la complessità dei moderni ordinamenti giuridici. In alcuni paesi, ad esempio, l'adulterio è motivo di divorzio senza essere illegale. Altri critici hanno osservato che la stabilizzazione delle aspettative può spiegare gli sviluppi contemporanei del diritto privato, ma non è in grado di fare altrettanto per quanto riguarda il diritto pubblico e in particolare il diritto costituzionale, in cui la tutela delle libertà fondamentali spesso ha la preminenza sulla stabilità o la prevedibilità del diritto. Perlomeno nell'ambito del diritto pubblico, quindi, la concezione del diritto come sistema normativamente chiuso proposta da Luhmann risulta inadeguata.
La teoria del diritto sviluppata da Habermas si rifà sia al contrattualismo che alle tradizioni kantiane. Al pari di Kant, Habermas postula la superiorità della giustizia sul bene, ma a differenza di quest'ultimo adotta un approccio dialogico anziché monologico. Al pari di Rawls, inoltre, Habermas non separa il dominio dei diritti da quello degli interessi, e tuttavia rifiuta il 'velo di ignoranza' affermando che nella determinazione di ciò che è giusto occorre considerare tutti gli interessi. La validità delle norme, infine, per Habermas non dipende da un consenso sancito da un contratto ma dal processo del raggiungimento del consenso.
La teoria del diritto di Habermas si colloca nell'ambito dell'analisi sistematica della validità normativa dal punto di vista dell'etica del discorso. Partendo dal rifiuto della teoria di Luhmann in quanto inadeguata ad affrontare il problema dei diritti fondamentali, Habermas cerca di basare la validità giuridica su una riconciliazione tra democrazia e diritti. La democrazia, che pure è compatibile con il giuspositivismo contemporaneo, non è sufficiente a garantire i diritti, in particolare quelli delle minoranze. Le teorie giusnaturalistiche, d'altro canto, possono avere una carenza di legittimità nella misura in cui manca il consenso sull'individuazione dei diritti da tutelare. Secondo Habermas, queste manchevolezze possono essere ovviate istituendo un intimo legame tra democrazia e diritto attraverso l'etica del discorso. La validità normativa dipenderebbe dal raggiungimento di un consenso tra gli interessati, a condizione che questi siano disposti ad un dialogo leale e aperto che soddisfi le seguenti condizioni: che tutti abbiano eguali opportunità di partecipare, accantonino gli interessi strategici in vista di un consenso, e siano disposti a lasciarsi convincere dalla forza dell'argomento migliore. Dopo un'equa considerazione di tutte le posizioni, gli interessi e le rivendicazioni, il complesso di norme che ottengono il consenso - ossia, che sono accettate da tutti gli interessati per le stesse ragioni - devono essere considerate sia democratiche sia giuste. Inoltre, tali caratteristiche dipendono dalla stessa ragione, ossia dal fatto di derivare da un consenso raggiunto seguendo le regole dialogiche pertinenti.
Coerentemente con questo processo dialogico, Habermas sviluppa un 'paradigma procedurale' del diritto che soddisfa il criterio della giustizia puramente procedurale. Nella misura in cui rispettano le regole del processo dialogico, le leggi che ottengono il consenso di tutti gli interessati - sia i produttori che i destinatari delle norme - devono essere considerate giuste. Nella concezione di Habermas, il paradigma procedurale sostituisce e trascende i due paradigmi precedenti, quello 'liberale-borghese', che mette l'accento sui diritti formali a spese del welfare, e quello del 'welfare', che promuove il benessere ma mina l'autonomia.
Nella concezione di Habermas non sussistono conflitti tra diritto e morale. L'unica differenza tra i due ambiti riguarda la loro estensione. La morale dipende da un consenso collettivo esteso ad ogni epoca, laddove il diritto richiede il consenso tra tutti i membri di una particolare società hic et nunc. Di conseguenza, tutte le norme giuridicamente valide sono morali, ma non tutte le norme morali trovano espressione nel diritto.
La teoria di Habermas è stata criticata sotto vari profili. Secondo alcuni, le regole dialogiche rendono altamente improbabile il raggiungimento di un autentico consenso, mentre altri sostengono che il suo approccio puramente procedurale non è affatto neutrale, bensì è prevenuto contro determinate posizioni normative, come ad esempio quelle delle femministe. Altri ancora, peraltro, mettono in discussione la possibilità stessa di raggiungere il consenso su particolari problemi morali. Ad esempio, non vi è alcun consenso sulla moralità dell'aborto (e quindi sulla sua legalizzazione), nel quale alcuni vedono un delitto, mentre altri una precondizione dell'eguaglianza delle donne. Poiché il diritto deve prendere posizione sull'aborto, o con l'azione o con l'inazione, è difficile vedere come si possa assicurare l'auspicata armonia tra diritto e morale.
Il pensiero postmoderno nasce come rifiuto degli assunti e dei valori dell'illuminismo. Sia i moderni che i postmoderni riconoscono la diversità degli interessi e delle concezioni etiche all'interno della società, ma traggono conclusioni assai diverse su tali divergenze. I primi ritengono che gli interessi e le convinzioni contrastanti possano essere trattati in modo equo e neutrale nell'ambito di un sistema di riferimento comunemente accettato (anche se possono essere in disaccordo sui particolari). I postmoderni, per contro, respingono l'idea stessa di un sistema di riferimento realmente comune, e ritengono la neutralità impossibile. Se immaginiamo la competizione tra individui con differenti interessi e concezioni morali come un gioco, si può dire che i moderni ritengono che le regole del gioco possano essere eque e neutrali, mentre per i postmoderni ogni giocatore cercherà inevitabilmente di agire secondo regole che favoriscono la propria posizione.
Sul piano filosofico, i moderni affermano che vi sono criteri comuni di giustizia e diritti universali che trascendono gli interessi e le concezioni etiche confliggenti; oppure che esistono modi di favorire il bene - come ad esempio attraverso l'utilitarismo - in grado di conciliare in modo equo ed ottimale interessi e aspirazioni divergenti. I postmoderni respingono entrambe le posizioni, e sembrano convinti che i differenti attori sociali siano confinati nelle trappole e nei limiti dei rispettivi giochi linguistici. Di conseguenza, le concezioni postmoderne del diritto e della giustizia tendono a dar luogo a formulazioni critiche più che a teorie costruttive. Le espressioni più significative di questo orientamento sono il già citato movimento Critical Legal Studies, la teoria critica della razza, la teoria critica femminista e il decostruzionismo.
Il movimento Critical Legal Studies, che come abbiamo già accennato si affermò negli Stati Uniti negli anni settanta e ottanta, ha sferrato un attacco di fondo al diritto e alla giurisprudenza, sottolineando le incoerenze e le contraddizioni delle norme e dei principî giuridici, nonché della funzione giudiziale. Poiché non si tratta di un movimento sistematico o unitario, ma piuttosto di una associazione di studiosi di vari indirizzi teorici uniti solo dalla posizione critica nei confronti delle istituzioni e delle prassi giuridiche esistenti, è impossibile fare delle generalizzazioni partendo dai singoli contributi, e persino determinare con certezza se questo movimento appartenga alla corrente di pensiero moderna o postmoderna.
Il Critical legal studies rappresenta un orientamento eminentemente americano, sebbene abbia avuto un certo seguito in alcuni paesi come il Regno Unito e la Germania, e risente di varie influenze - dal marxismo alla teoria critica della Scuola di Francoforte, dall'esistenzialismo a varie teorie post-strutturaliste. Nelle sue varianti di tendenza marxista sembra essere una corrente più moderna che postmoderna, in quanto parte dall'assunto che le leggi e la giurisprudenza siano subordinate a potenti interessi capitalistici, attraverso la manipolazione di norme giuridiche malleabili e indeterminate e di principî formulati in termini generali e neutrali. Nelle sue versioni di impronta postmoderna, d'altro canto, questo movimento di pensiero sottolinea le ambiguità del linguaggio e l'apertura lasciata in prospettiva tra le norme e le eccezioni che caratterizzano la maggior parte delle dottrine giuridiche, ed è animato dalla convinzione che sotto il mantello dell'imparzialità le decisioni dei giudizi tendono a favorire i potenti con i quali in realtà si identificano. Tra i contributi più significativi di questo orientamento sono da menzionare le critiche dettagliate di particolari ambiti del diritto, come il diritto contrattuale o quello penale. Più in generale, mettendo l'accento sull'indeterminatezza e sulle contraddizioni del linguaggio giuridico, associate alla capacità dei giudici di favorire i propri interessi di classe, la versione marxista del Critical Legal Studies sottolinea le iniquità dell'ordinamento giuridico dominante e definisce illusorio il principio di legalità.
Pur avendo alcuni punti in comune con questa corrente di pensiero, la teoria critica della razza e la teoria critica femminista se ne differenziano sotto alcuni aspetti cruciali, e sono in generale più strettamente legate all'orientamento postmoderno. L'idea di fondo, difatti, è che nella società esista una molteplicità di discorsi diversi, e che quelli delle categorie oppresse si contrappongano a quelli che danno voce alle idee dei gruppi dominanti. Insistendo sulla frammentazione del discorso, tali teorie escludono la possibilità di trovare un sistema di riferimento comune, o di superare lo scontro tra prospettive incompatibili. Se il liberalismo si focalizza sul conflitto tra interessi individuali e il marxismo sul conflitto tra interessi di classe, la teoria critica della razza e la teoria critica femminista pongono in primo piano la molteplicità di narrazioni contrastanti associate a visioni del mondo inconciliabili. Per il liberalismo esiste un'unità al di là degli interessi e per il marxismo la dialettica del materialismo storico prepara la strada alla risoluzione del conflitto di classe. Per la teoria critica della razza e la teoria critica femminista, invece, esistono soltanto visioni incommensurabili tra loro.
Tuttavia queste prospettive incommensurabili non sono normativamente equivalenti, perché il discorso dell'oppressore diffonde l'ingiustizia mentre quello dell'oppresso la combatte. Inoltre, l'ingiustizia perpetrata dal discorso dell'oppressore potrebbe essere superata se il discorso degli oppressi fosse di semplice opposizione. Ma è anche un discorso della differenza e di conseguenza, se dovesse trionfare è assai più probabile che introduca forme di ingiustizia diverse anziché sradicare quelle esistenti.
La teoria critica della razza e la teoria critica femminista differiscono nei dettagli - la prima focalizza l'attenzione sul razzismo e la seconda sul sessismo - ma hanno una struttura e una logica comuni. Sia il razzismo che il sessismo hanno le loro radici in una logica che assimila la differenza all'ineguaglianza. Ciò può portare a sua volta ad un rifiuto del postulato dell'eguaglianza, oppure alla sua accettazione in base alla convinzione che determinati gruppi - nella fattispecie le minoranze etniche e le donne - siano portatori di certe differenze che giustificano un trattamento diseguale. Ad esempio, si può accettare la premessa che tutti gli essere umani siano intrinsecamente eguali, ma giustificare la discriminazione delle donne sul lavoro in base alla credenza che siano psicologicamente o fisicamente meno adatte al lavoro degli uomini.
La prima linea di attacco contro la correlazione tra differenza e diseguaglianza consiste nel contrapporle una correlazione tra eguaglianza e identità. Il principale argomento, in questo caso, è che le minoranze etniche e le donne devono essere trattate allo stesso modo dei membri delle maggioranze etniche e degli uomini in quanto simili per tutti gli aspetti rilevanti. Così, ad esempio, se si parte dal presupposto che le donne siano adatte quanto gli uomini a svolgere determinati impieghi, l'appartenenza di genere non dovrebbe avere alcun ruolo nell'allocazione di tali impieghi. Correlare l'eguaglianza all'identità significa promuovere un ideale di assimilazione compatibile con il liberalismo e con il pensiero moderno.
Tuttavia anche l'ideale dell'assimilazione può essere oppressivo, nella misura in cui impone l'identità come prerequisito dell'eguaglianza e comporta con ciò l'annullamento delle autentiche differenze. Ad esempio, se l'eguaglianza delle donne sul lavoro dipende dalla loro capacità di dimostrare che sono identiche agli uomini sotto tutti gli aspetti rilevanti, esse potrebbero essere costrette a reprimere il loro desiderio di maternità al fine di difendere i vantaggi di cui godono contro eventuali discriminazioni. E ciò creerebbe una nuova ineguaglianza che potrebbe essere superata solo correlando l'eguaglianza alla differenza.
Laddove il femminismo e il movimento per l'eguaglianza delle minoranze etniche possono rivendicare sia l'eguaglianza come identità sia l'eguaglianza come differenza, la teoria critica femminista e la teoria critica della razza propugnano solo quest'ultima. Nemmeno la tesi dell'eguaglianza come differenza è necessariamente postmoderna, in quanto l'idea di un trattamento diseguale per raggiungere risultati di eguaglianza è ben consolidata tra i sostenitori della giustizia egualitaria. Tuttavia assume connotazioni postmoderne allorché la differenza si traduce in un conflitto tra prospettive inconciliabili. È questa la posizione di alcune femministe che si rifanno alla distinzione tra genere maschile e genere femminile postulata da Carol Gilligan. Secondo questa autrice, gli uomini sono inclini all'individualismo, alla competizione e all'astratta aspirazione alla giustizia, laddove le donne tendono a impostare i rapporti sociali in termini di cura del prossimo, altruismo e cooperazione. Di conseguenza, si può concludere che le nozioni stesse di diritto e di giustizia e il problema del loro rapporto siano interessi eminentemente maschili. Secondo alcune versioni del femminismo radicale, quindi, il discorso femminista è contro il diritto e contro tutte le teorie dominanti della giustizia. Tuttavia alcune femministe meno radicali, pur condividendo questa convinzione, non mettono in discussione la giustizia come tale, ma invocano una radicale ridefinizione del diritto e della giustizia e una reinterpretazione altrettanto radicale dei loro rapporti reciproci.
Non solo le femministe radicali e i portavoce delle minoranze razziali oppresse, ma anche altre minoranze come gli omosessuali, i membri di determinati gruppi etnico-culturali e i seguaci di alcune religioni o sette abbracciano un ideale di differenziazione, rigettando come ingiusto lo status quo modellato dalle istituzioni dominanti. Le società formate da vari gruppi divisi lungo linee politiche definite da differenti ideali di giustizia e animati da una ferma adesione all'ideale della differenziazione sono caratterizzate da un persistente multiculturalismo che rende difficile il raggiungimento di un consenso sul diritto e sulla giustizia. Il problema non sembra derivare dal multiculturalismo in quanto tale, ma piuttosto dal multiculturalismo associato all'adesione all'ideale della differenziazione nella sfera pubblica. Ad esempio, una società multiconfessionale che aderisca all'ideale dell'assimilazione nella sfera pubblica adotterà probabilmente criteri di giustizia comuni relegando le differenze religiose nella sfera privata. Per contro, una società multiconfessionale che abbracci l'ideale della differenziazione difficilmente riuscirà a pervenire ad una visione comune per la sfera pubblica. In questa situazione, ciascun gruppo confessionale considererà giusta la propria concezione e ingiusta quella degli altri gruppi. E poiché la concezione prevalente è quella del gruppo dominante, il massimo che si può sperare è una critica del diritto e della giustizia del gruppo dominante in quanto oppressivi, senza che vi sia spazio per una visione positiva di giustizia per tutti. In breve, in questo scenario postmoderno né il diritto né la giustizia potranno mai essere moneta comune.
Il decostruzionismo offre l'approccio postmoderno più sistematico alle tematiche del diritto e della giustizia. Questa corrente di pensiero, che ha le sue radici nell'opera del filosofo francese Jacques Derrida, propone sia una metodologia ermeneutica sia un particolare modello etico ed ontologico per analizzare il problema della giustizia. Il decostruzionismo mette l'accento sull'intertestualità di tutti i testi, inclusi quelli giuridici, con la conseguenza che né gli intenti dell'autore né il riferimento alla realtà esterna possono garantire un grado sufficiente di stabilità semantica. Secondo Derrida tutti i testi rinviano ad altri testi, e hanno la funzione di 'scritture' (anche se in forma orale) nella misura in cui non veicolano direttamente l'intenzione del loro autore, ma sono intelligibili solo in rapporto al loro grado di identificazione o di differenziazione rispetto ad altri testi. In tutti i testi sono presenti aporie, contraddizioni e significati polivalenti, e nessuna interpretazione può essere definitiva in quanto testi passati e futuri possono gettare una luce nuova o diversa su un determinato testo. Di conseguenza, i testi giuridici eludono l'intento dei loro autori e sono suscettibili di molteplici e mutevoli interpretazioni. La metodologia decostruzionista porta a conclusioni che presentano significative affinità con quelle del movimento Critical Legal Studies. La principale differenza tra queste due correnti di pensiero è che per il decostruzionismo l'instabilità è insita nei testi stessi, laddove per la maggior parte degli esponenti del CLS le eventuali ambiguità e indeterminatezze vengono sfruttate da chi detiene il potere.
Mentre le prime opere di Derrida erano dedicate primariamente all'elaborazione della metodologia decostruzionista, nei suoi lavori successivi assumono un ruolo di primo piano le problematiche etiche e giuridiche, che vengono analizzate sulla base del metodo decostruzionista. Rifacendosi all'idea aristotelica secondo cui la giustizia, che si fonda su norme generali, deve essere integrata dall'equità e da una adeguata considerazione delle eccezioni, Derrida afferma che la giustizia deve comprendere l'Io e l'Altro senza sacrificare l'irriducibile singolarità di ogni individuo. Per poter riconciliare eguaglianza e individualità, di conseguenza, la giustizia deve in ogni caso contemplare sia la norma che l'eccezione.
Poiché però non si possono applicare simultaneamente la norma e l'eccezione, la giustizia per Derrida è in ultima istanza impossibile. Ciò ha indotto alcuni critici a concludere che il decostruzionismo porta al nichilismo e al puro relativismo, ma non si tratta di una conclusione inevitabile (tanto è vero che lo stesso Derrida la rifiuta). Piuttosto, l'impossibilità della giustizia richiede l'indefessa ricerca di una maggiore eguaglianza e di una maggiore considerazione della singolarità individuale, anche se il fine ultimo è destinato a rimanere inattingibile. In altre parole, nella prospettiva del decostruzionismo l'impossibilità della giustizia non esclude che alcune ingiustizie siano peggiori di altre, e di conseguenza tale approccio è compatibile con il dovere etico della lotta contro l'ingiustizia.
Né le teorie moderne né quelle postmoderne sono state in grado di risolvere il conflitto tra diritto positivo e diritto naturale. Tuttavia, con il diffondersi del multiculturalismo e con l'affermarsi della globalizzazione (e delle connesse esigenze di istituzioni politiche sovranazionali), le sfide che si trovano ad affrontare il diritto e la giustizia e la natura del conflitto tra giuspositivismo e giusnaturalismo tendono a mutare. Sebbene i diritti fondamentali e la giustizia procedurale siano ben consolidati, minacciano di rivelarsi insufficienti. Habermas ha sviluppato nel modo più coerente l'idea della priorità del diritto sul bene e la concezione della giustizia procedurale pura, senza essere riuscito a colmare il divario tra diritto e morale e a svincolare la giustizia da una qualche concezione etica. D'altro canto, il conflitto tra giuspositivismo e giusnaturalismo non è stato risolto nonostante l'affermarsi del costituzionalismo e l'estesa incorporazione dei diritti naturali in leggi positive emanate e applicate legittimamente.
Il rapporto tra diritto e giustizia, e tra diritto positivo e diritto naturale, ha avuto nondimeno una significativa evoluzione. La giustizia nelle società attuali non deve mediare solo gli interessi individuali, ma anche quelli di diversi gruppi. Ciò solleva una serie di problemi che riguardano non solo il tipo di giustizia più consono a conciliare gli interessi e le concezioni etiche dei diversi gruppi, ma anche il modo in cui la giustizia può svolgere la sua funzione di arbitro sia tra valori collettivi confliggenti, sia tra questi ultimi e i valori individuali. Inoltre, l'inserimento dei diritti umani nel diritto positivo nazionale e internazionale tende a sfumare i confini tra positivismo e giusnaturalismo, o perlomeno ad alterare la portata del conflitto tra le due posizioni.
A fronte della crescente importanza assunta dagli interessi di gruppo e della preoccupazione sempre più sentita per un equo trattamento degli individui all'interno di uno stesso gruppo, le teorie della giustizia dovranno cercare la mediazione sia nel contesto dei rapporti intercomunitari sia in quello dei rapporti intracomunitari. Al livello intercomunitario, la giustizia dovrà tener contro di diverse concezioni etiche senza rinunciare al postulato della priorità del giusto sul bene. Al livello intracomunitario, d'altro canto, la sfida sarà quella di tenere nel debito conto i diritti individuali senza minimizzare o ignorare quelli di gruppo, come tendono invece a fare gli orientamenti liberali.
La giustizia tra i gruppi sociali impone che ciascuno di essi sia trattato prima facie come eguale, un obiettivo che sembra più facile da conseguire se si riconosce ad ogni gruppo la facoltà di governare autonomamente i propri affari interni. Ciò significa che ogni gruppo deve essere tutelato dal predominio di altri gruppi o della società nel suo complesso, e che gli deve essere riconosciuto altresì un notevole grado di autonomia nella regolamentazione dei propri affari intracomunitari. Una questione più spinosa è in che misura un gruppo possa imporre la propria cultura attraverso il diritto ai suoi membri recalcitranti. Nel tentativo di conciliare liberalismo e multiculturalismo, Will Kymlicka afferma che occorre da un lato garantire ai diversi gruppi culturali una 'tutela esterna' contro le intrusioni da parte di altri gruppi, e dall'altro vietare l'imposizione di 'restrizioni interne' per costringere gli individui a conformarsi alla cultura del proprio gruppo. Secondo Kymlicka, pertanto, ogniqualvolta la cultura di un gruppo entra in conflitto con i diritti fondamentali di uno dei suoi membri, la giustizia esige che sia data la preminenza all'individuo. Tuttavia, nel caso in cui la tutela dei diritti individuali minacciasse la sopravvivenza della cultura del gruppo, la giustizia può esigere che venga raggiunto un equilibrio più sottile tra i valori del gruppo e i diritti individuali.
Anche la giustizia intercomunitaria pone grossi problemi. Pur ispirandosi a concezioni etiche contrastanti, i diversi gruppi della società sembrano destinati ad avere vari obiettivi comuni. Il raggiungimento della pace e del benessere, ad esempio, possono tagliare trasversalmente le differenze culturali. Quando però entrano in gioco valori culturali, potrebbe essere difficile trovare un terreno d'intesa. Il pluralismo, la tolleranza e il rispetto reciproco potrebbero avere allora il compito di preparare la strada alla giustizia nelle società multiculturali.
Come abbiamo già accennato, la codificazione dei diritti fondamentali tende ad attutire il contrasto tra giusnaturalismo e positivismo giuridico, ma nello stesso tempo alimenta un nuovo dibattito relativo alla natura universale oppure relativa di tali diritti. Qualora vi fosse un'autentica convergenza su determinati diritti, per cui ad esempio vengono universalmente messi al bando la tortura e il genocidio, la giustizia potrebbe abbracciare i diritti fondamentali lasciando però spazio ad un certo grado di adattamento da una cultura ad un'altra. In ultima istanza, la prospettiva migliore per la giustizia nel prossimo futuro sembra essere quella di una combinazione di pluralismo, tolleranza e rispetto per gli altri nell'osservanza generalizzata e in certa misura flessibile dei diritti fondamentali.
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