Teorie della politica
Nonostante le prospettive teoriche che si occupano di politica in Italia diventino, nella seconda metà del Novecento, sempre più specializzate a livello accademico (filosofia politica, scienza politica, storia delle dottrine politiche, sociologia ecc.), il panorama culturale italiano risulta a lungo determinato dalla contrapposizione tra blocco sovietico e blocco americano, con il discrimine tra comunisti e anticomunisti a fare spesso da macrocesura rispetto a posizioni teoriche in realtà molto più articolate. Tale contrapposizione assume però tratti distintivi tipici della storia italiana, visto che l’effettivo contrasto politico e culturale tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Ottanta è quello tra cattolicesimo e marxismo, intorno a cui si stratificano altre posizioni filosofico-politiche, meno rilevanti sul piano del dibattito pubblico ma importanti dal punto di vista teorico. L’originalità del panorama italiano non consiste infatti solo nella sua particolare reinterpretazione della contrapposizione internazionale tra Est e Ovest, ma anche nella significativa presenza di tradizioni politiche che, sebbene non accedano a una diffusione di massa, dimostrano vitalità e influenza, soprattutto a livello di elaborazione teorica e di presenza nel mondo accademico: liberalismo, repubblicanesimo, socialismo, federalismo, teorie della democrazia. Infine non può essere dimenticata la presenza di una cultura politica di destra che, senza alcuna apertura al panorama del conservatorismo europeo, a lungo si limita al culto del mito mussoliniano e a un desiderio nostalgico di ritorno al fascismo.
Nell’ambito delle tradizioni politiche che hanno dominato la cultura italiana del secondo dopoguerra è possibile effettuare una distinzione di carattere ‘sociologico’ tra le teorie che hanno ispirato movimenti con un largo seguito popolare (in primo luogo cattolicesimo politico e marxismo, ma per certi aspetti anche la destra di ispirazione fascista), le teorie che invece non hanno avuto tale esito, rimanendo spesso confinate all’interno del mondo accademico e delle élites (soprattutto liberalismo e repubblicanesimo) e le teorie che, pur godendo di diffusione mediatica e di favori ideologici (in particolare il socialismo riformista e il pensiero democratico ma, per certi aspetti, anche il federalismo, almeno a partire dagli anni Novanta), non hanno però realmente inciso sulla scena pubblica e nella costruzione di un’egemonia culturale, restando spesso vuote etichette. Naturalmente a questa distinzione ‘sociologica’ non corrisponde un giudizio di valore sulla qualità dell’articolazione di tali teorie; al contrario, i contributi teorici più rilevanti vengono prodotti proprio all’interno di quelle tradizioni politiche minoritarie nella società – con particolare riguardo al pensiero democratico, i cui contributi sono di rilievo internazionale soprattutto grazie alle opere di Norberto Bobbio (1909-2004) e Giovanni Sartori (n. 1924) – ma radicate in un mondo accademico che è in stretto rapporto con la cultura europea.
Tra le teorie che hanno ispirato movimenti con un largo seguito popolare è senza dubbio presente il marxismo, che ha ampiamente caratterizzato il panorama filosofico e politico italiano del secondo Novecento. Sulla scia dell’insegnamento di Antonio Gramsci, numerosi sono stati gli intellettuali che hanno contribuito a elaborare una versione ‘nazionale’ del pensiero marxista. Tra i principali caratteri del marxismo italiano vi è infatti il profondo intreccio – con esiti diversi e talvolta contrastanti – tra filosofia e impegno civile, tra teoria e prassi, tra etica e politica: contro l’ortodossia del materialismo dialettico di ispirazione sovietica, nel marxismo italiano risulta centrale la concezione secondo cui la filosofia deve trasformarsi in uno strumento teorico di comprensione dei conflitti sociali e, viceversa, i conflitti sociali tra borghesia e proletariato devono essere inquadrati in una concezione che non può essere fondata esclusivamente sui rapporti di forza all’interno della struttura economica o sulle dinamiche rivoluzionarie. Il nesso tra teoria e prassi è dunque centrale nella riflessione dei più importanti marxisti italiani – in particolare Galvano Della Volpe (1895-1968), Cesare Luporini (1909-1993) e Nicola Badaloni (1924-2005) – in cui confluiscono categorie comuni al marxismo europeo con questioni caratteristiche del movimento operaio italiano e con la particolare tradizione civile della filosofia italiana.
Caratteristica comune di questi autori è il recupero della categoria del politico non come mera sovrastruttura dell’economico, ma come luogo centrale dell’azione sociale. Questa caratteristica risulta però essere anche il loro limite soprattutto perché, mentre abbandonano il paradigma economicistico, non approdano a una compiuta elaborazione di una teoria politica marxista in grado di superare il retaggio dell’ortodossia, che vede nella dimensione ideologica della politica un carattere coessenziale all’analisi strutturale dei modi di produzione.
Emblematico, a questo proposito, il caso di Della Volpe. Attraverso una rivalutazione dell’empirismo, con il volume Per la teoria di un umanismo positivo (1949) Della Volpe approda a una concezione allo stesso tempo umanistica e scientifica del marxismo, lontana da ogni concezione rigidamente economicistica e critica nei confronti dell’eredità storicistica della dialettica hegeliana; ma si oppone a ogni ipotesi volta a integrare liberalismo e socialismo poiché il marxismo costituisce un’alternativa radicale rispetto a ogni ideale di emancipazione fondato su premesse individualistiche. Allo stesso modo Luporini, in Dialettica e materialismo (1974), rifiuta ogni concezione deterministica e finalistica dello sviluppo storico perché la storia non procede meccanicisticamente: il marxismo non è una dottrina dogmatica e il movimento operaio deve procedere a elaborare sintesi politiche sempre provvisorie, utili sul piano della concreta azione politica. Tuttavia, anche in questo caso, l’elaborazione di una compiuta teoria politica – che preveda, per es., una riflessione sulla democrazia o sui contributi del repubblicanesimo – rimane fuori dal panorama di pensiero.
Il marxismo italiano è attivo teoricamente ancora negli anni Sessanta e Settanta: intellettuali come Raniero Panzieri (1921-1964), Mario Tronti (n. 1931) e Alberto Asor Rosa (n. 1933) fondano riviste come «Quaderni rossi» e «Classe operaia» promuovendo vere e proprie ‘eresie’ del marxismo attraverso la rilettura di autori estranei alla tradizione comunista, come Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein (una rilettura successivamente favorita anche dagli studi di Gianni Vattimo, n. 1936), o addirittura contrari a essa, come Ernst Jünger e Carl Schmitt, giungendo inoltre a teorizzare un’«autonomia del politico» che risulta del tutto eterodossa rispetto alla tradizionale impostazione marxista dei rapporti tra struttura e sovrastruttura. Nel mutare dei temi e delle prospettive, ciò che avvicina Tronti e Asor Rosa è la teorizzazione di un impegno politico della cultura e di una sua organizzazione ‘militante’ a favore del movimento operaio che, in forme diverse legate alle trasformazioni della soggettività politica nell’età della globalizzazione, sarà successivamente ripresa anche da Antonio Negri (n. 1933) con la rielaborazione della categoria di «moltitudine»: poiché non esiste conoscenza senza azione, o teoria senza prassi, la cultura diventa il luogo dell’egemonia e la politica il luogo in cui è possibile pensare le trasformazioni dell’economico e del sociale. Ma, al di là delle singole posizioni degli intellettuali marxisti, dalla tradizione del marxismo italiano del secondo dopoguerra emerge chiaramente una poliedricità di posizioni eterodosse che continua fino agli anni Ottanta quando, a causa della crisi irreversibile del comunismo, scompare dal discorso pubblico ogni argomento legato al movimento operaio e all’anticapitalismo. Ed è allora che molti intellettuali vicini al marxismo – tra cui Salvatore Veca (n. 1943) e Paolo Flores d’Arcais (n. 1944) – si spostano, in forme diverse e talvolta contrapposte, su posizioni liberal, in alcuni casi direttamente ispirate ai movimenti democratici e progressisti statunitensi (con riferimento, per es., ai filosofi John Rawls e Michael Walzer), nelle quali l’accettazione della prospettiva liberaldemocratica è di fatto compiuta.
Un altro movimento con largo seguito popolare è costituito dal cattolicesimo politico. Nel mondo cattolico italiano agiscono numerose correnti di pensiero filosofico, talvolta tra loro contrastanti (spiritualismo, neotomismo, personalismo) che hanno anche diretta rilevanza sulle posizioni politiche dei cattolici. Da un lato, infatti, nel secondo dopoguerra si affermano linee conservatrici che perseguono la difesa dei principi cattolici attraverso un inserimento strumentale e moderato dei cattolici nell’ordine politico liberaldemocratico, con lo scopo di tutelare il carattere ‘organicistico’ della comunità dei credenti. Dall’altro lato, emergono invece tendenze democratiche che mirano a verificare la reale attuabilità dei principi etici del cattolicesimo sul terreno dell’azione storica, anche attraverso l’accrescimento dell’autonomia spirituale e politica dei cattolici rispetto alla Chiesa e alla tradizionale ottica confessionale.
Di questa seconda area di pensiero – più attenta al tema del «soggetto» (inteso come «persona») che alle questioni metafisiche – è stato interprete ed esponente Giuseppe Dossetti (1913-1996), attivo nell’esperienza costituzionale e repubblicana, successivamente protagonista della stagione del Concilio Vaticano II. Il suo pensiero politico non è facilmente inquadrabile all’interno delle categorie classiche perché, più che di una teoria dossettiana della politica, è meglio parlare dell’elaborazione di una sua ‘pratica’ per i cattolici impegnati in politica. L’impegno dell’uomo in politica deriva dal suo dovere verso Dio, poiché i credenti devono mostrare la loro capacità di inserirsi nel dramma della storia allo scopo di elaborare una concezione dei diritti dell’uomo che superi la dimensione individualistica e approdi a considerare il singolo sia come parte di una comunità sociale preesistente, sia come soggetto in divenire a cui la comunità politica deve prestare assistenza per una piena realizzazione del suo destino. In quest’opera di mediazione tra la persona e lo Stato ha grande rilievo il partito politico, cui Dossetti attribuisce tre obiettivi: in primo luogo, l’acculturazione politica delle masse mediante l’educazione alla partecipazione democratica; in secondo luogo, una formazione responsabile e socialmente aperta delle classi dirigenti; infine, una capacità di elaborazione progettuale che eviti l’appiattimento della politica ad amministrazione.
Nel contesto dell’Europa del secondo dopoguerra, l’Italia rappresenta un’anomalia perché le tradizioni liberali, repubblicane e socialiste sono scarsamente diffuse sulla scena pubblica. In verità non sono assenti o di basso livello le elaborazioni teoriche che, al contrario, risultano di notevole originalità grazie all’opera di élites intellettuali spesso isolate rispetto alle istituzioni politiche e al contesto culturale.
Bruno Leoni (1913-1967) è lo studioso che ha interpretato la tradizione del liberalismo classico nell’ottica del liberismo economico, giungendo alla formulazione di un «individualismo integrale». A Torino Leoni è allievo del filosofo del diritto Gioele Solari (1872-1952), prima di diventare professore di dottrina dello Stato e di filosofia del diritto all’Università di Pavia dal 1945 al 1967 (ricoprendo l’incarico di preside della facoltà di Scienze politiche dal 1948 al 1960). Nonostante il suo radicamento universitario a Pavia (dove nel 1950 fonda la rivista «Il politico»), Leoni rimane ai margini del pensiero politico italiano, mentre intrattiene stretti legami con il mondo liberale anglosassone, diventando anche presidente della Mont Pelerin Society (l’organizzazione internazionale fondata a Ginevra nel 1947 con lo scopo di promuovere il libero mercato e la società aperta, tra i cui membri si contano Friedrich August von Hayek, Milton Friedman e Karl Raimund Popper). Leoni è tradizionalmente associato alla riformulazione del ruolo dello Stato dal punto di vista della teoria liberale, sia in economia sia nel diritto: egli mira a ridefinire la sfera di protezione delle libertà individuali e a individuare una concezione della società che ponga al centro la proprietà privata e il libero mercato. Nel volume Freedom and the law (1961; trad. it. 1994) critica la logica dell’intervento pubblico mentre esalta la superiore razionalità e legittimità degli ordini che emergono ‘dal basso’ per effetto del concorso delle volontà dei singoli individui, non sulla base di decisioni normative, bensì grazie a un’intrinseca capacità di autogenerarsi. Richiamandosi all’«individualismo metodologico» della Scuola austriaca di Carl Menger e Ludwig von Mises, egli pone al centro della sua riflessione gli individui con i loro diritti di libertà, riassumibili nella salvaguardia della proprietà privata e di intrapresa economica: ogni attività politica volta a condizionare o a regolamentare dall’esterno tali diritti si configura come un restringimento dello spazio della libertà. A costituire una minaccia per la libertà è la pretesa di fondare i diritti e l’allocazione delle risorse sulla sovranità politica, per quanto essa possa essere regolata da forme di legittimazione democratica. Le istituzioni che invece rispettano e consolidano la libertà sono quelle che si formano in maniera spontanea in seguito alla libera attività degli individui i quali, per regolare gli scambi e i conflitti, danno vita a un sistema di norme. Sulla base di un meccanismo di autoregolamentazione che si sedimenta nel corso del tempo, le norme create ‘dal basso’ permettono uno svolgimento ordinato della vita economica e sociale, senza che vi sia un restringimento della libertà dei singoli: a presiedere alla costituzione dello Stato non vi è una logica di pianificazione o di ordine, ma di puro scambio mercantile.
All’interno della tradizione liberale italiana, ma con una maggiore attenzione alle questioni del costituzionalismo e della teoria dello Stato, vi sono stati altri importanti studiosi, in particolare Alessandro Passerin d’Entrèves (1902-1985) e Nicola Matteucci (1926-2006). Allievo di Solari all’Università di Torino, professore di dottrina dello Stato e di filosofia politica nella stessa Università, docente a Oxford e Yale, Passerin d’Entrèves ha studiato – anche in chiave storica, con riferimenti al pensiero politico medievale e all’esperienza risorgimentale italiana – la legittimità del diritto di resistenza come forma di tutela della libertà politica. Nel volume Natural law (1951; trad. it. La dottrina del diritto naturale, 1954) elabora una sistematica difesa della teoria del diritto naturale – inteso come fondamento dei diritti liberali – contro ogni forma di positivismo giuridico: il diritto è strettamente collegato alla morale, e non alla legislazione positiva, in quanto presuppone principi normativi rinvenibili nella ragione umana. Ed è solo a partire dal primato del diritto naturale sul diritto positivo che possono essere analizzate e giustificate le principali interpretazioni della natura dello Stato, che può essere inteso non solo come potere legale e come autorità morale, ma anche come pura forza, soprattutto nei casi in cui il diritto positivo esaurisca l’intero spettro della dimensione giuridica e politica.
Professore di storia delle dottrine politiche e di filosofia morale a Bologna, fondatore della rivista «il Mulino» e dell’omonima casa editrice, oltre che dell’Istituto Carlo Cattaneo e delle riviste «Il pensiero politico» e «Filosofia politica», Matteucci ha diretto la pubblicazione del Dizionario di politica (1976) insieme a Bobbio e Gianfranco Pasquino. Nella sua ricerca si è a lungo occupato del costituzionalismo liberale, in chiave sia storica sia teorica, fino a giungere alla formulazione di un modello liberale di filosofia pratica, finalizzata alla ricerca e alla progettazione di libertà concretamente realizzate o realizzabili nella storia, il luogo in cui i principi politici manifestano la loro adeguatezza all’interno dei rapporti di convivenza e di potere. Per Matteucci l’adeguatezza storica dei principi politici non può però essere lasciata all’arbitrio dei rapporti di forza, ma deve essere sperimentata all’interno della cornice antiassolutistica resa possibile dal costituzionalismo, con particolare riguardo alla separazione dei poteri: l’ordine politico deve infatti articolarsi secondo gli schemi costituzionali, che precedono il potere e ne fissano la misura all’interno di una serie di meccanismi atti ad arginarne gli abusi.
I pensatori di orientamento liberale non sono gli unici a lavorare in un clima di sostanziale marginalità. Anche i socialisti riformisti e libertari – come Piero Calamandrei (1889-1956) e Gaetano Salvemini (1873-1957) – e i costituzionalisti repubblicani condividono questa condizione ambigua, allo stesso tempo di presenza e di assenza rispetto alla scena politica italiana, stretti nella tenaglia tra cattolicesimo e marxismo, senza legami con imponenti movimenti di massa.
Numerosi sono i giuristi e i filosofi del diritto che possono essere ricondotti all’ampia e diversificata area culturale di orientamento repubblicano: tra questi, Costantino Mortati (1891-1985), professore di diritto costituzionale nelle Università di Messina, Macerata e Roma, oltre che giudice della Corte costituzionale. Nel suo pensiero si delineano i nuovi problemi posti dal pluralismo dei partiti rispetto all’unità dello Stato e della Costituzione italiana: Mortati elabora infatti un nuovo paradigma dell’ordine giuridico-politico, la costituzione ‘in senso materiale’, che spiega l’unità politica a partire dai reali processi sociali. Poiché nessun ordinamento giuridico può essere puramente orizzontale, esso è il frutto di rapporti di forza che si coagulano – attraverso il sistema dei partiti che hanno il compito di collegare Stato e società – intorno a un nucleo di valori definibili nei termini di un «potere costituente» da cui deriva la legittimità del diritto. È questo il ‘senso materiale’, contenutistico, della Costituzione, la cui legittimità non risiede solo nello svolgere il ruolo di supremo regolatore delle dinamiche politiche all’interno di pratiche istituzionali e formali. Pur essendo a tutela dell’impersonalità della legge e della neutralità dello Stato, la democrazia costituzionale non si riduce dunque a una serie di congegni procedurali perché i suoi principi hanno un contenuto sostanziale aperto alla costruzione di un sistema di norme non formalistico in grado di assicurare il pluralismo, senza ridurre il principio di legittimità alla mera espressione quantitativa della volontà popolare.
L’esperienza costituzionale italiana è però al centro anche di sguardi critici, tra cui quello di Giuseppe Maranini (1902-1969), professore di diritto internazionale all’Università di Firenze. L’oggetto principale della sua critica è la «partitocrazia»: riconosciuti dalla Costituzione ma non regolati dalla legge, i partiti divengono centri di potere autonomi e incontrollati, tanto che il potere viene a risiedere – in una forma ambiguamente democratica – fuori dallo Stato. Interessato alla difesa dell’unità dello Stato, Maranini formula una severa critica alla legge elettorale proporzionale perché, impedendo la formazione di una volontà politica unitaria, accelera la degenerazione partitocratica, che non si può arrestare se con ‘democrazia’ viene intesa unicamente la somma aritmetica delle preferenze espresse con il voto a suffragio universale. La democrazia deve essere identificata con la forma di governo che permette la maggiore vicinanza possibile tra governanti e governati. A questo scopo è necessario non solo che la legge elettorale permetta al popolo di esprimere un governo stabile e rappresentativo, ma anche che esista una profonda compenetrazione tra istituzioni e società civile.
Anche per quanto riguarda il pensiero socialista è difficile individuare una coesione teorica tra i vari autori ed è invece più semplice individuare alcune figure rappresentative quali Lelio Basso (1903-1978) e Guido Calogero (1904-1986). Giurista e uomo politico a lungo vicino al Partito socialista italiano, in cui ricopre anche incarichi direttivi prima di abbandonarli all’inizio degli anni Sessanta per motivi di dissenso politico, Basso studia a fondo la tradizione democratica europea e i marxisti eterodossi (in particolare Rosa Luxemburg e gli austromarxisti) per elaborare una teoria politica socialista eterodossa centrata sulla questione dei diritti, non solo sul terreno del welfare caratteristico degli Stati europei ma anche in un’ottica internazionalistica, soprattutto attraverso la creazione, nei primi anni Settanta, di tribunali contro i crimini di guerra in Vietnam e in America Latina.
Rispetto a Basso, Calogero, attivo prima nel Partito d’azione e successivamente nel Partito radicale e nel Partito socialista, è molto più critico nei confronti del marxismo. Insieme ad Aldo Capitini, nel 1937 Calogero fonda il liberalsocialismo, un movimento politico eterodosso cui aderiscono numerosi pensatori (tra cui Bobbio, Calamandrei, Luporini, Umberto Morra) con indirizzi teorici non convergenti. In Calogero è vivo un atteggiamento giuridico e costituzionale in ottica riformistica che mira alla costruzione di una società in cui sia possibile conciliare giustizia e libertà. Insoddisfatto sia del liberalismo che del marxismo, sostenitore di una concezione laica dello Stato (e dunque avversario del cattolicesimo politico), Calogero auspica la conciliazione tra gli ideali borghesi di libertà pluralistica e gli ideali proletari di giustizia ugualitaria.
Su questa traccia teorica si muove anche il pensiero di Calamandrei – professore di diritto processuale civile a Messina, Modena, Siena e Firenze, fondatore nel 1945 della rivista «il Ponte» – che tuttavia elabora con maggiore nettezza il problema dello sviluppo dei diritti sociali, sulla scia degli insegnamenti del laburismo inglese. Dall’integrazione tra liberalismo e socialismo per Calamandrei sarebbe dovuta scaturire una democrazia in cui il riconoscimento dei diritti sociali avrebbe costituito la garanzia dell’esercizio effettivo dei diritti di libertà e dei diritti politici.
Nonostante il successo dell’opzione repubblicana – o forse proprio a causa di tale successo – nel pensiero politico del secondo dopoguerra in Italia permangono orientamenti di carattere federalista che, senza diventare dominanti, sono tuttavia significativi. Ovviamente non si tratta qui del federalismo cui pensa Altiero Spinelli (1907-1986), che auspica un’integrazione politica – e non funzionalistica o comunitaria – tra gli Stati europei da consolidare attraverso un metodo costituente che miri alla creazione di una federazione europea dotata di una vera Costituzione. Il federalismo di cui qui si tratta ha a che vedere con la rivisitazione della forma dello Stato in una direzione tale da favorire il decentramento politico o amministrativo: è un federalismo che parte dallo Stato nazionale per tornare alle comunità locali, al contrario di quanto era invece accaduto con il federalismo classico.
Su questo tipo di prospettiva federalista – spesso nostalgica nei confronti delle realtà politiche preunitarie – si inserisce la riflessione del politologo Gianfranco Miglio (1918-2001). Laureato in giurisprudenza all’Università Cattolica di Milano nel 1939, ottiene la libera docenza nel 1948 e diventa professore di storia delle dottrine politiche e di scienza della politica sempre alla Cattolica, dove riveste anche la carica di preside della facoltà di Scienze politiche dal 1959 al 1988. All’attività didattica e di ricerca, con allievi quali Lorenzo Ornaghi e Pierangelo Schiera, Miglio affianca un incessante lavoro di creazione e direzione di centri di ricerca nell’ambito della storia e della scienza dell’amministrazione. Alla fine degli anni Cinquanta fonda, infatti, a Milano, l’Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica, un ente pubblico partecipato da Comune e Provincia che ha lo scopo di lavorare alle politiche pianificatrici per l’incremento della crescita economica. Negli anni Sessanta crea la Fondazione italiana per la storia amministrativa, un istituto che si occupa della storia dei poteri pubblici europei con l’obiettivo di scrivere una mappa della storia amministrativa e costituzionale europea in grado di prendere in esame – con metodo «analogico-comparativo» – le amministrazioni pubbliche esistite in luoghi e tempi diversi: lo scopo delle ricerche condotte dalla Fondazione consiste nel tracciare una tipologia delle istituzioni politiche dal Medioevo all’età contemporanea, al cui interno vengono indicati i tratti distintivi o, viceversa, gli elementi comuni di ogni forma di potere pubblico.
L’attenzione nei confronti delle esperienze federali e del decentramento amministrativo conduce Miglio, tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, ad avvicinarsi al movimento della Lega Nord, con il quale viene eletto senatore nel 1992 e per cui – in vista di una riforma istituzionale della Repubblica italiana – elabora un modello costituzionale federalista fondato sull’equilibrio tra le competenze delle macroregioni e le prerogative del presidente federale. Non è questa la prima volta che Miglio si occupa di riforme istituzionali e costituzionali: nel 1983, infatti, riunendo un gruppo di esperti di diritto costituzionale e amministrativo (denominato il Gruppo di Milano), elabora un organico progetto di riforma limitato alla seconda parte della Costituzione italiana. Tra le proposte vi è il rafforzamento del governo guidato da un primo ministro dotato di maggiori poteri, l’abolizione del bicameralismo perfetto con l’istituzione di un Senato delle regioni sul modello del Bundesrat tedesco e infine l’elezione diretta del primo ministro da tenersi contemporaneamente a quella per la Camera dei deputati.
Fin dall’inizio della sua ricerca Miglio si occupa – anche grazie allo studio delle opere di storici, giuristi e sociologi tedeschi, soprattutto di Otto von Gierke, Lorenz von Stein, Max Weber, Otto Brunner, Carl Schmitt e Otto Hintze – dei sistemi di relazioni tra le comunità politiche, con particolare riguardo al passaggio dall’universalismo medievale al particolarismo dell’età moderna, allo scopo di rintracciare le «regolarità» della politica intese come possibili «leggi» dell’agire politico e implicate nel nesso tra «trasformazioni» e «ciclo» della politica (Le regolarità della politica, 1988). Attraverso la registrazione di tali invarianze risulta possibile comprendere la «naturale unità» della politica, al di là del succedersi storico degli artificiali complessi di organizzazione del potere. Quest’analisi delle regolarità della politica si fonda su una lunga serie di ricerche storiche sui sistemi federali tra Medioevo ed età moderna: il punto di forza di tali esperienze, per Miglio, risiede nel ruolo che quei poteri pubblici hanno saputo riconoscere alle società nelle loro articolazioni corporative e territoriali. Diversa, invece, l’evoluzione storica dello Stato moderno, che ha creato istituzioni spesso in contrasto con le comunità locali. Ne è un esempio il contraddittorio processo di unificazione dell’Italia che, accanto a un’informale sopravvivenza di consuetudini e norme locali, ha determinato un accentramento amministrativo incapace di governare le differenze.
Queste analisi storiche sulle istituzioni politiche e sulla scienza dell’amministrazione – caratteristiche della sua prima fase di pensiero (Le origini della scienza dell’amministrazione, 1957) – conducono Miglio, a partire dagli anni Settanta, all’elaborazione di una teoria in cui l’idea delle «regolarità» della politica si unisce al binomio federalismo/decisionismo. Miglio rintraccia una netta e persistente contrapposizione tra due diversi fondamenti dell’unità politica: da un lato il sistema dell’obbligazione politica (che domina l’idea di sovranità dello Stato moderno), dall’altro il sistema del «contratto-scambio», che domina nei sistemi federali di organizzazione politica (cfr. Lezioni di politica, 2° vol., 2011, pp. 153-85). Naturalmente Miglio non nega il carattere eccezionale dello Stato moderno, capace di regolare la politica inserendola in un compiuto sistema di norme fondato sulla razionalità del diritto, sull’impersonalità del comando e sul concetto di rappresentanza. Il carattere di eccezionalità dello Stato moderno ne svela però anche la storicità: seguendo la lezione di Schmitt, Miglio vede nella crisi dello jus publicum europaeum la perdita di sovranità del sistema degli Stati e dunque l’esaurimento del ciclo politico legato al tema dell’obbligazione. Diversamente da Schmitt, però, Miglio ritiene che la crisi dello Stato non sia sintomo solo di un tramonto ma, al contrario, anche di una riorganizzazione della politica intorno al criterio del «contratto-scambio»: dopo una fase di transizione di lungo periodo, dominata dall’economia di mercato, il principio federale tornerà a essere il baricentro del rapporto tra società e Stato, tra comunità e istituzioni. La crisi degli Stati moderni condurrà dunque alla costituzione di comunità federali governate non più dal rapporto politico comando/obbedienza bensì da quello mercantile del contratto, articolato intorno alla continua mediazione tra diversi centri di potere (comunità locali, corporazioni, gruppi di interesse, sindacati, associazioni di cittadini ecc.).
Miglio sottolinea che quest’analisi – per quanto legata a futuri processi di riorganizzazione politica – non ha in alcun modo il carattere della ‘profezia’, ma è un’indagine sui processi politici e sociali in corso a livello globale, che vedono la crisi della sovranità statale determinata da fattori ‘dall’alto’ (creazione di organizzazioni internazionali e intergovernative) e ‘dal basso’ (dominio transnazionale degli attori economico-finanziari e creazione di organizzazioni internazionali non governative): l’esercizio del potere decisionale ha perso definitivamente il carattere di Machtspruch, di pronuncia di potenza, e ha preso la forma dell’arbitrato, o del negoziato, cioè quelle forme caratteristiche proprio degli ordinamenti federali, in cui si tratta e si negozia per riconoscere, garantire e gestire le diversità politiche, economiche, culturali senza alcun intento di ricomporle a unità. In una tale società politica pluricentrica le associazioni territoriali e categoriali vedranno riconosciuto giuridicamente il loro peso politico non diversamente da quanto avveniva nel Medioevo con i diritti dei ceti e delle corporazioni. Al declino dell’obbligazione corrisponderà dunque l’emergere del contratto-scambio, cui il federalismo è sempre stato legato, fin dai tempi di Johannes Althusius.
Una tale concezione federale non può tuttavia prescindere dall’individuare un principio di aggregazione, se non di unità. E qui emerge l’altro aspetto del pensiero politico di Miglio, anch’esso in diretta relazione con la lezione schmittiana: il decisionismo. È infatti evidente che l’opzione federalista può superare l’identificazione tra politica, sovranità e Stato, ma non può eliminare la questione del potere. Anche lo stesso disegno di Miglio per la riforma costituzionale italiana mostra che il federalismo non può fare a meno del decisionismo, in quel caso incarnato nella figura del primo ministro, eletto a suffragio universale. Decisivo risulta il problema di fissare i due punti di aggregazione (comunità locale vs autorità federale) per fondare il rapporto dialettico permanente su cui si sviluppa il sistema politico. Non si tratta dunque di attribuire all’uno o all’altro termine una vecchia concezione di sovranità (perché in questo modello istituzionale il potere di decidere le controversie è intermittente ed è sottoposto a una clausola del contratto di ‘fondazione’), ma di comprendere che – nonostante il primato dell’economico sul politico – un’aggregazione di popoli e comunità non può fondarsi solo su una contrattazione di interessi, perché deve esprimere anche un’unità politica dotata di senso e condivisa. Si pone dunque, di nuovo, la questione del nomos, cioè la questione dell’atto costitutivo e ordinativo della comunità, così come si pone la questione dell’identificazione dell’autorità federale quale luogo simbolico dell’unità politica. Per Miglio, dunque, il federalismo non elimina di per sé la questione del potere, né giustifica la creazione di unità politiche mondiali: il problema del nomos esiste anche nell’epoca della politica globale.
Nonostante la plurale articolazione delle teorie politiche caratteristica del secondo dopoguerra in Italia, non vi è dubbio che il pensiero politico dell’epoca – indipendentemente dall’estrazione culturale di riferimento – sia dominato dalla nuova esperienza democratica. I due autori che con più profondità – riconosciuta internazionalmente – hanno contribuito a una riconsiderazione critica della teoria democratica sono Sartori e Bobbio.
Sartori è uno dei principali artefici della nascita della scienza politica come disciplina accademica in Italia nel secondo dopoguerra. Laureato nel 1946 alla facoltà di Scienze politiche Cesare Alfieri di Firenze, Sartori è stato professore di storia della filosofia moderna (1950-61), di sociologia (1961-66) e di scienza politica (1966-76) nella medesima facoltà, per poi insegnare alla Stanford University (1976-79) e alla Columbia University (1979-94), dopo essere stato visiting professor a Harvard e Yale e aver partecipato alla creazione dell’Istituto universitario europeo di Fiesole. Fondatore della «Rivista italiana di scienza politica» (che ha diretto negli anni 1971-2003) e del Centro studi di politica comparata dell’Università di Firenze (dove si sono formati numerosi politologi italiani, da Domenico Fisichella a G. Pasquino, da Giuliano Urbani a Stefano Passigli), i suoi interessi spaziano dalla teoria politica (con particolare riguardo alla teoria della democrazia e ai sistemi di partito) al metodo delle scienze sociali (soprattutto in merito alla logica della classificazione e alla costruzione delle tassonomie), dall’ingegneria costituzionale in chiave comparata ai sistemi elettorali.
Democrazia è un termine complesso: per Sartori – vicino al pensiero liberale – indica tanto un regime politico quanto un insieme di valori e per questo motivo richiede un’analisi che tenga insieme realismo e idealismo. Democrazia, inoltre, è termine troppo vago: esso necessita di qualificazioni decisive che configurano modelli di società radicalmente diversi, tanto che la democrazia deliberativa è diversa dalla democrazia competitiva, così come la democrazia procedurale è diversa dalla democrazia normativa (per tacere di altre necessarie distinzioni teoriche quali democrazia diretta, rappresentativa, liberale, costituzionale, totalitaria).
All’interno di questa vasta molteplicità di significati, in Democrazia e definizioni (1957) Sartori mira a tracciare i lineamenti di una teoria liberale della democrazia competitiva a partire da un’analisi empirica dei fatti e delle condizioni che ne favoriscono o ostacolano il funzionamento, senza tuttavia dimenticare gli ideali democratici – sovranità popolare, uguaglianza e autogoverno – che possono orientare o fare pressione sui processi di governo. L’analisi dei regimi democratici sorti negli ultimi due secoli insegna a distinguere tra «democrazia orizzontale» e «democrazia verticale». La prima modalità richiama l’esperienza della polis greca e allude alla dimensione ugualitaria della politica, attribuendo notevole importanza all’opinione pubblica e ai processi di partecipazione; la seconda modalità sottolinea invece la dimensione gerarchica della politica e mette in evidenza la disuguaglianza nei rapporti di potere (per es., in merito al metodo di selezione della classe dirigente). Ma, mentre i valori democratici classici continuano ancora oggi a costituire un fondamento adeguato per la concezione orizzontale della democrazia, non altrettanto è possibile affermare a proposito della concezione verticale: la costruzione della democrazia su vasta scala – la democrazia rappresentativa degli Stati moderni e contemporanei – non poggia infatti su solide basi teoriche e per questo motivo il quadro attuale delle democrazie contemporanee è sovraccaricato da concetti e valori in reciproca competizione (libertà e uguaglianza, delega e partecipazione ecc.). Da questa confusione emerge la netta contrapposizione tra due grandi scuole di scienza politica in merito all’idea di democrazia, cioè tra i sostenitori della teoria elitistica della democrazia e i teorici della democrazia normativa.
Sartori prende le distanze da entrambe le teorie per delineare una concezione ‘verticale’ della democrazia che tenga conto non solo della dimensione descrittiva, ma anche di quella prescrittiva. Solo in questo modo è possibile giungere a un’analisi della dimensione normativa della democrazia ‘ideale’ senza trascurare il carattere competitivo dell’agire politico nelle democrazie ‘reali’, con particolare riguardo all’esistenza di una molteplicità di gruppi di potere (soprattutto i partiti) che fanno ricorso sistematico a procedure elettorali per selezionare chi ha il comando. Sul piano descrittivo Sartori giunge a definire la democrazia come una procedura che genera una «poliarchia» aperta, la cui competizione sul mercato elettorale conferisce potere al popolo e induce i governanti a essere ricettivi nei confronti delle richieste dei governati. Una tale descrizione realistica della democrazia deve però fare i conti con il discorso normativo, relativo alla giustificazione di concetti quali disuguaglianza e selezione all’interno del paradigma democratico. Ed è allora qui che, per Sartori, discorso descrittivo e discorso prescrittivo si incrociano: poiché la democrazia è un sistema selettivo di minoranze elette in competizione, l’uguaglianza deve essere concepita – in chiave liberale – come uguaglianza di opportunità e di merito, non come un fattore di livellamento orizzontale. In questo modo nella teoria democratica può essere introdotto il problema della ‘qualità’, dei meriti e delle competenze di coloro che sono al governo; soprattutto, può essere introdotto un criterio di valutazione che, senza trascurare la dimensione descrittiva, tiene conto della dimensione normativa e permette così di distinguere una ‘cattiva’ democrazia da una ‘buona’ democrazia attraverso la valorizzazione del giudizio politico e la possibilità di distinguere tra il «dato di fatto» e il «merito». Difendere questa concezione verticale della democrazia fondata sul criterio del merito per Sartori significa combattere una concezione oligarchica della democrazia in cui il principio della volontà popolare diventa esclusivamente lo strumento ideologico per vincere la competizione elettorale all’interno di un contesto sociale dominato dai mezzi di comunicazione.
Nel volume Parties and party systems (1976), questa teoria liberale della democrazia viene integrata dall’analisi di due questioni tipiche dei sistemi politici dell’Occidente: il ruolo dei cittadini nei processi di selezione politica e le modalità con cui vengono prese le decisioni politiche. Per quanto riguarda il primo punto – la questione della rappresentanza – Sartori individua due diverse modalità di rapporto tra governanti e governati: la responsabilità e la ricettività. I governi e i parlamenti che operano sulla base del principio di ricettività deliberano in risposta alle domande provenienti dalla società, lasciandosi così guidare passivamente dalle istanze provenienti dal basso (e mettendo in crisi la concezione classica della rappresentanza politica senza vincolo di mandato). Il contrario accade con le classi dirigenti democratiche, le quali operano sulla base del principio di responsabilità che le rende abili a interpretare il momento storico e le trasformazioni sociali, senza tradire la volontà popolare ma senza esserne direttamente dipendenti. Queste due concezioni della rappresentanza sono per Sartori alternative: è impossibile avere una classe dirigente che sia allo stesso tempo ricettiva e responsabile, perché tanto più un governo diventa ricettivo, tanto meno riesce ad agire responsabilmente. Si tratta del dilemma che affligge le democrazie occidentali tra 20° e 21° sec. e che Sartori tratta diffusamente nel volume Democrazia. Cosa è (1993): empiricamente tale fenomeno si riscontra nella perdita di forza e di legittimazione dei governi e dei parlamenti, che di conseguenza si spingono a prediligere norme dispensatrici di favori e privilegi, scegliendo una facile ricettività a scapito di una gravosa responsabilità. Dal punto di vista teorico si tratta di una profonda trasformazione del principio della rappresentanza, perché i governanti si trasformano in soggetti eterodiretti non solo dagli elettori, ma anche e soprattutto dai mezzi di comunicazione: in questo modo le democrazie diventano, secondo Sartori, media-crazie, cioè sistemi politici in cui l’informazione e la disinformazione prendono il posto del popolo e dell’opinione pubblica.
Per quanto riguarda il secondo punto – l’analisi dei processi decisionali nelle democrazie – Sartori analizza sia le sedi in cui le decisioni vengono adottate, sia le tecniche adottate per tali decisioni, ma soprattutto si preoccupa di definire lo spazio della competizione democratica che funge da presupposto del processo decisionale: il sistema dei partiti. Elabora così un’esaustiva tipologia – anche in chiave comparata – dei sistemi di partito, in contesti sia democratici sia totalitari. La categoria di «monopartitismo» viene scomposta in tre tipi: sistema a partito unico (prevalente in Unione Sovietica e nella Germania nazista), sistema a partito egemonico (prevalente nell’Italia fascista) e sistema a partito dominante. Solo quest’ultima tipologia di monopartitismo è compatibile con il sistema democratico, che ovviamente prevede anche numerose tipologie di «multipartitismo» (pluralismo semplice con bipartitismo; pluralismo moderato con multipartitismo limitato; pluralismo polarizzato con multipartitismo estremo; multipartitismo segmentato; atomizzazione) che hanno dirette conseguenze sulla stabilità e sull’instabilità dei regimi democratici. Una tale classificazione dei sistemi di partito viene inoltre integrata da un’ampia analisi dei sistemi elettorali (uninominale, maggioritario, proporzionale, a doppio turno) che sono posti in relazione con il comportamento dei partiti politici e con la direzione (centripeta/centrifuga) della competizione elettorale.
L’analisi politologica di Sartori si fonda sulla sua concezione di ‘politica’, intesa come sfera delle decisioni sovrane, collettivizzate e coercitive. In The theory of democracy revisited (1987) la proprietà centrale per definire le decisioni politiche è il loro essere frutto di un processo di ‘collettivizzazione’: esse valgono erga omnes, ossia estendono i loro effetti nei confronti di un’intera collettività definita da confini territoriali, non tanto perché frutto di una decisione collettiva (cioè assunta da un ampio numero di persone), quanto perché sono vincolanti nei confronti dell’intera collettività, indipendentemente dal numero dei decisori. All’interno della politica democratica appare chiaro a Sartori che la decisione collettivizzata non esclude, anzi include, la possibilità di creare un sistema decisionale che preveda l’esistenza non solo di ampie assemblee rappresentative, ma anche di comitati di piccole dimensioni (10-30 persone) contraddistinti da rapporti ‘faccia a faccia’ e dotati di autorità rappresentativa. Il sistema dei comitati procede infatti secondo un principio conciliativo sanzionato dall’accordo unanime che consente di attenuare e risolvere i conflitti attraverso compensazioni reciproche, mentre le assemblee procedono secondo una divisione tra maggioranza e minoranza che tende a esasperare i contrasti. Nello sviluppo della politica democratica Sartori ritiene dunque centrale il ruolo dei comitati per almeno tre motivi: in primo luogo, la presenza dei comitati risponde a esigenze pluralistiche di decentramento decisionale; in secondo luogo, nelle democrazie di massa sembrano importanti tanto gli effetti delle decisioni quanto la titolarità di chi decide; infine, i comitati possono realizzare concretamente uno dei cardini della teoria democratica, la partecipazione politica, anche nell’epoca delle media-crazie.
Il problema della democrazia è al centro del pensiero di Bobbio la cui tradizione di riferimento è il socialismo rielaborato in chiave liberaldemocratica. Allievo di Solari, attento lettore di Carlo Cattaneo, Piero Gobetti, Gaetano Salvemini e Benedetto Croce, nel 1931 Bobbio si laurea in giurisprudenza all’Università di Torino, dove consegue, nel 1933, anche la laurea in filosofia. Ottenuta nel 1934 la libera docenza in filosofia del diritto, nel 1935 inizia la carriera universitaria che lo porta a insegnare a Camerino, Siena, Padova e, a partire dal 1948, a Torino, dove tiene le cattedre di filosofia del diritto (1948-62), scienza politica (1962-71) e filosofia politica (1972-79), diventando il maestro di allievi quali Michelangelo Bovero, Luigi Bonanate e Uberto Scarpelli. Nel 1984 viene nominato senatore a vita e si iscrive come indipendente al gruppo del Partito socialista; dal 1991 aderisce al gruppo misto e, a partire dal 1996, sempre come indipendente, si iscrive al gruppo del Partito democratico della sinistra.
Intellettuale di grande rilievo nel dibattito pubblico italiano; studioso poliedrico affascinato dalle esperienze illuministe e riformiste; pensatore attento alle principali dinamiche culturali europee del Novecento – dall’esistenzialismo alla fenomenologia, dal personalismo al positivismo logico, dal giusnaturalismo al positivismo giuridico, dalla filosofia analitica al cattolicesimo sociale –, nelle sue ricerche di filosofia del diritto e di filosofia politica Bobbio incrocia la ricerca storica con quella teorica: temi quali Stato, sovranità, ordinamento, costituzione, legge e diritti vengono studiati sia attraverso l’analisi dei classici, sia nella loro struttura concettuale con metodi vicini a quelli della filosofia analitica. I suoi interessi non si limitano alla ricerca sui classici della filosofia e del diritto o alla riflessione sulle categorie del pensiero politico moderno, ma si estendono anche alla critica del rapporto tra politica e cultura caratteristico del panorama italiano negli anni della guerra fredda (Politica e cultura, 1955): Bobbio rivendica l’autonomia della cultura rispetto alla politica perché la cultura non può né deve essere ridotta integralmente alla sfera del politico. Tale poliedricità di interessi – visibile anche sul piano della sua produzione, sempre al confine tra filosofia, scienze giuridiche e scienze politiche – si incrocia con i mutamenti disciplinari che Bobbio ha elaborato nella sua carriera intellettuale:
Se proprio si volesse riassumerla in una formula, si potrebbe dire che, partito dalla filosofia del diritto, egli è approdato in un secondo tempo alla riflessione sulla politica (P. Rossi, Introduzione a Norberto Bobbio tra diritto e politica, a cura di P. Rossi, 2005, p. V).
Questo passaggio dal diritto alla politica – cui corrisponde un passaggio di sensibilità dal positivismo giuridico al giusnaturalismo – non è ovviamente lineare e anzi prevede un quadro più ampio in cui la filosofia politica dialoga con la teoria generale del diritto e in cui la storia del pensiero politico si incrocia con la scienza politica. La biografia intellettuale di Bobbio si snoda dunque all’interno della polarità tra studio del diritto e studio della politica, con un lavoro che assume, di volta in volta, il carattere scientifico della prospettiva wertfrei (Studi sulla teoria generale del diritto, 1955; Teoria dell’ordinamento giuridico, 1960; Stato, governo, società, 1985) o quello dell’intervento militante che, per quanto fuori dagli schemi di appartenenza della cultura politica italiana, tende a prendere posizione all’interno del dibattito pubblico (Destra e sinistra, 1994). Nonostante tale complessità, è evidente il passaggio tra il Bobbio che, negli anni Cinquanta, si occupa di scienza giuridica seguendo l’esempio di Hans Kelsen, presentandosi come il sostenitore di una concezione del diritto quale diritto positivo e di un approccio analitico che guarda alla struttura logica del diritto, e il Bobbio che, a partire dagli anni Settanta, si occupa di teoria politica, con particolare riguardo ai rapporti tra politica, morale e diritto, al conflitto tra libertà e uguaglianza, allo statuto della democrazia e dei diritti, al ruolo delle ideologie nella società moderna, al rapporto tra guerra e pace nella politica internazionale (Il problema della guerra e le vie della pace, 1979; L’età dei diritti, 1990).
Pur in presenza di numerosi mutamenti di rotta impliciti in un pensiero che mira più a stabilire distinzioni e opposizioni che a costruire sistemi concettuali, la caratteristica fondamentale del lavoro di Bobbio consiste nella ‘classificazione’ dei problemi: si tratta di una procedura che riposa, da un lato, sulla distinzione weberiana tra giudizi di fatto e giudizi di valore e, dall’altro lato, sulla costruzione di una sfera di studi che, senza pretese di esaustività o sistematicità, può essere definita una «teoria generale della politica». Caratteristiche principali di questo indirizzo di ricerca sono il suo fine conoscitivo (e non normativo) e il suo metodo ricostruttivo, attraverso cui le categorie del pensiero politico vengono analizzate, con un procedimento insieme distintivo e comparativo, sia dal punto di vista storico-fattuale che da quello linguistico-analitico, soprattutto allo scopo di individuare in modo sistematico i concetti fondamentali e i temi ricorrenti della politica (Teoria generale della politica, 1999).
La definizione di un simile progetto metodologico presuppone l’elaborazione di una classificazione dei diversi modelli di ricerca presenti nella storia della filosofia politica, con i quali la teoria generale della politica deve necessariamente confrontarsi. Bobbio identifica quattro grandi tradizioni di studi filosofico-politici presenti nella cultura occidentale: la progettazione della migliore forma di Stato e di governo (Platone e Tommaso Moro), la ricerca della giustificazione del potere politico (Thomas Hobbes e Jean-Jacques Rousseau), la determinazione della natura del concetto di politica (Niccolò Machiavelli e Georg Wilhelm Friedrich Hegel), l’analisi dei presupposti e delle condizioni di validità del linguaggio politico (Alfred Jules Ayer e Felix Oppenheim). Alla base di questa ripartizione individua la divisione tra fatti e valori, la cui portata teorica viene dislocata nell’analisi del rapporto di connessione (ma non di deducibilità) tra piano normativo-prescrittivo e piano interpretativo-analitico. In questo senso, la teoria generale della politica, intesa come progetto non normativo di definizione e di chiarificazione dei concetti, si pone il compito di ricomporre la rigida divisione teorica tra piano descrittivo e piano normativo attraverso l’analisi dei significati descrittivi dei giudizi di valore.
Oltre alla costruzione di una complessa metodologia di indagine sulla politica, il contributo più originale di Bobbio alla filosofia politica è condensato nella sua analisi della democrazia. Dall’idea liberalsocialista di una democrazia radicale – fondata sulla diffusione dei centri di partecipazione – ripresa da Capitini, sul finire degli anni Quaranta Bobbio approda alla prospettiva neoilluminista e inizia a elaborare un’integrazione tra Stato di diritto e Stato costituzionale, tra democrazia, socialismo e liberalismo che lo differenzia nettamente tanto dalle posizioni del realismo politico quanto dalle posizioni marxiste. Il punto di arrivo di tale ricerca – soprattutto nel volume Il futuro della democrazia (1984) – è costituito dall’elaborazione di una definizione ‘minima’ e formale di democrazia, intesa come un insieme di regole il cui rispetto è necessario all’interno di un sistema politico ‘decente’, qualunque sia la sua ideologia di riferimento (socialismo o liberalismo). Una tale definizione formale di democrazia non esclude però un’analisi sostanziale delle principali categorie filosofico-politiche moderne, in particolare quella di uguaglianza, attraverso cui Bobbio recupera la questione dei diritti sociali intesi come momento ineliminabile della cittadinanza democratica, non solo a livello di politica interna ma anche a livello di politica internazionale, visto che giunge a includere nella sua teoria della democrazia anche la riflessione sui diritti umani e sul rapporto tra guerra e pace. La definizione formale di democrazia – un regime politico contraddistinto da un insieme di regole che stabiliscono chi è autorizzato a prendere le decisioni collettive, e con quali procedure – non esclude l’esistenza di numerose dicotomie storiche e teoriche tra modelli diversi di democrazia che giustificano l’esistenza di una contrapposizione di fondo tra dimensione descrittiva e dimensione normativa della democrazia: è infatti possibile distinguere tra democrazia degli antichi e dei moderni; tra democrazia diretta e rappresentativa; tra democrazia politica e sociale; tra democrazia formale e sostanziale. Se sul piano formale la democrazia è caratterizzata dagli ‘universali procedurali’ cui possono corrispondere decisioni di contenuto diverso (democrazia come ‘governo del popolo’), sul piano sostanziale è necessario fare riferimento proprio ai contenuti (democrazia come ‘governo per il popolo’), tra cui è centrale la questione dell’uguaglianza non solo giuridica ma anche sociale ed economica.
Un profondo solco tra le diverse immagini della democrazia è ben visibile anche nel divario esistente tra gli ideali democratici e la democrazia reale, tanto che Bobbio individua alcune ‘promesse non mantenute’ della democrazia contemporanea, soprattutto in merito alla crescente rilevanza dei corpi intermedi, alla perdita di rappresentanza politica, alla persistenza delle oligarchie, alla mancata democratizzazione degli spazi sociali, alla crisi della cittadinanza e alla resistenza dei poteri invisibili. Tutto ciò ha condotto a una perdita di fiducia nella democrazia, dovuta anche al dominio delle élites sui mezzi di informazione e alla mancata crescita di partecipazione politica. Inoltre la democrazia realizzata ha aperto un divario rispetto agli ideali democratici anche per altri motivi, in particolare per aver trasformato la struttura dei comportamenti civici e delle istituzioni, visto che ha esteso alla politica la logica di scambio tipica dei rapporti economici. La democrazia realizzata si regge infatti su una fitta rete di rapporti informali in cui predominano due tipologie di ‘mercato’: le trattative tra i partiti per la conquista del governo, da un lato, e lo scambio tra i partiti e gli elettori per la redistribuzione delle risorse pubbliche, dall’altro. Senza dubbio questo insieme di pratiche genera stabilità sociale; tuttavia esso consolida una rete di rapporti che ha bisogno del consenso ‘a tutti i costi’ e che trasforma la democrazia in uno scambio continuo tra produttori e consumatori di potere e di consenso. La democrazia intesa come mercato riduce così la politica a un incessante fluire di prestazioni, negoziazioni e compensazioni in cui la dimensione normativa ha ceduto completamente il passo alla dimensione descrittiva.
Il 1989 è un anno spartiacque a livello globale, da più punti di vista (ridefinizione della politica internazionale, delocalizzazione della produzione, riallocazione del conflitto politico, finanziarizzazione dell’economia, migrazioni). L’Italia non fa eccezione e anche il panorama delle teorie politiche subisce una profonda torsione culturale, soprattutto in seguito al crollo della cosiddetta Prima Repubblica all’inizio degli anni Novanta. Con il mutamento della legge elettorale in direzione maggioritaria e con il crollo dei vecchi partiti di massa e la creazione dei nuovi partiti ‘personali’ mutano le tradizionali coordinate politiche (destra, centro, sinistra), cui fa seguito una decisiva riorganizzazione delle culture politiche. La sinistra abbandona definitivamente il marxismo ma, invece di posizionarsi in un alveo socialdemocratico, si spinge sul terreno della liberaldemocrazia aggiornata intorno al paradigma della «terza via» di Anthony Giddens. La destra si allontana progressivamente dalla mitologia fascista senza tuttavia riuscire ad attestarsi su posizioni assimilabili a quelle del conservatorismo europeo. Il centro perde consistenza elettorale e, incapace di ricostruire un partito cattolico, si divide tra destra, sinistra e i nuovi fenomeni politici (il partito di Silvio Berlusconi e la Lega Nord). Tutto ciò non può non avere conseguenze sul piano delle teorie della politica.
Scompare il marxismo, diventano minoritarie la tradizione socialista e il cattolicesimo sociale, aumenta a dismisura la fortuna del liberalismo e del federalismo, perde ulteriormente rilevanza la teoria repubblicana, l’idea di democrazia diventa un vuoto simulacro di se stessa, presentandosi come un contenitore in attesa di essere riempito dalla volontà popolare che si esprime nelle cabine elettorali. In questo quadro emergono acute analisi filosofiche, giuridiche e sociologiche dello status quaestionis e delle sue cause di lungo periodo (soprattutto nelle opere di Michele Ciliberto, Luigi Ferrajoli, Carlo Galli, Luciano Gallino, Giacomo Marramao, Marco Revelli, Nadia Urbinati), ma non teorie in grado di costruire una nuova concettualità politica, interpretando in modo sistematico la riallocazione del quadro pubblico, il cui spessore tende sempre più a degenerare. Così nel dibattito politico si presentano uomini di propaganda, non intellettuali. Al posto della discussione pubblica si instaurano nuove forme di comunicazione basate sulla passività della fruizione televisiva. I sondaggi diventano il criterio di valutazione dell’offerta politica. La democrazia si riduce a populismo governato da leadership carismatiche. I partiti politici si trasformano in macchine oligarchiche di organizzazione del consenso e di gestione del potere. L’ideologia dei diritti distrugge l’ethos repubblicano. Il conflitto di interessi diventa la norma, non l’eccezione, del rapporto tra politica e affari. Emerge l’incapacità di governare le trasformazioni multiculturali. Il passaggio dalla «politicizzazione di massa» al processo di individualizzazione nella «scelta politica» risponde alla dominante logica del consumo.
Naturalmente l’elenco potrebbe continuare, ma è già evidente che la confusione teorica e concettuale regna sovrana: «atei devoti» difendono le battaglie della Chiesa contro l’aborto e il trattamento di fine vita; repubblicani e liberali si alleano con monopolisti di concessioni pubbliche; socialisti si appropriano di temi liberali; movimenti razzisti catturano voti a sinistra; la destra abbandona il tema della legalità; la parola chiave di tutti i movimenti diventa ‘libertà’, senza distinzioni e senza declinazioni.
Questa deriva della democrazia non si verifica per caso: essa è determinata, da un lato, dalla frantumazione delle identità collettive e, dall’altro, dalle nuove forme di passività che hanno completamente tolto significato a parole quali partecipazione e autogoverno. È il pericolo già segnalato da Charles-Alexis-Henri Clerel de Tocqueville: all’essenza della democrazia non è estraneo l’avvento di una società passiva, statica, socialmente frammentata e incapace di effettivo mutamento, governata in modo paternalistico da un potere che parla non alle classi, ma agli individui isolati, chiusi nei loro interessi privati e contrapposti gli uni agli altri. Ed è qui che emerge l’incapacità di comprendere e di governare politicamente il decisivo passaggio culturale dal paradigma distributivo (centrato sugli interessi, negoziabili) al paradigma del riconoscimento (centrato sulle identità, non negoziabili) che si consuma negli anni Novanta e che avrebbe dovuto costringere a un radicale ripensamento della dicotomia destra/sinistra. Si tratta dell’esplosione delle rivendicazioni di diritti individuali e di diritti collettivi (con questi ultimi che procedono attraverso il riconoscimento di minoranze ‘identitarie’ per genere, cultura, religione, convinzioni etiche) che impediscono di costruire un discorso pubblico condiviso e che, al contrario, accelerano la crisi dei valori repubblicani. La soluzione a questa degenerazione democratica non può essere immediata: essa non passa né da facili scorciatoie di ‘modernizzazione tecnocratica’ né dall’importazione sic et simpliciter di teorie politiche elaborate nel quadro internazionale (si tratti dei raffinati strumenti offerti da Jürgen Habermas e Martha Nussbaum o delle più rozze teorie del neoconservatorismo); la soluzione passa attraverso la costruzione di una cultura e di un linguaggio politico in grado di restituire una reale autonomia ai cittadini attraverso una critica delle nuove ideologie e dei nuovi rapporti di forza, recuperando la centralità della partecipazione e del conflitto all’interno degli spazi democratici. E per questo è necessario che vengano costruite forme di aggregazione e corpi intermedi in grado di rimediare all’isolamento degli individui, riconnettendoli in una serie di legami politici e sociali necessari per uscire dalla servitù e per ristabilire il nesso tra democrazia, uguaglianza e libertà. Di teorie della politica c’è ancora bisogno.
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