universali, teorie indiane degli
Nella letteratura filosofica indiana gli universali (jāti o sāmānya) hanno due principali funzioni, semantica e ontologica. Gli universali, infatti, sono sia postulati come referenti delle parole, sia utilizzati per spiegare la concezione di più cose come appartenenti a una determinata classe. Il significato universale delle parole è in origine usato per garantire l’eternità della lingua e in partic. del Veda, dato che se le parole indicassero individui sarebbero, come questi, periture. La questione del significato della parola, cioè se esso sia individuale o universale, è di grande interesse nella filosofia dei grammatici (➔ Vyākaraṇa). Patañjali cita due antichi autori, Vyāḍi e Vājapyāyana, come autorevoli teorici, rispettivamente, del significato individuale e universale.
Il Nyāya classico considera il significato della parola come comprendente l’universale, la configurazione (ākr̥ti) e l’individuo. La parola vacca, per es., è usata per denotare sia tutte le vacche individuali, sia la forma e qualità caratteristiche di ogni vacca, sia una vacca individuale. Più tardi, la nozione si affinò fino ad arrivare, nel Navya Nyāya, alla teoria del significato primario delle parole come un individuo qualificato dal suo u. (jātiviśiṣṭavyakti). L’universale viene accuratamente distinto dal concetto di upādhi, termine che indica un tratto generale, ma occasionale e non essenziale come l’universale. Essere un cuoco, per es., non è l’essenza di una persona, bensì una caratteristica contingente, ontologicamente non diversa dal portare un ombrello. Vi è, quindi, una distinzione fra termini generali basati su u. e termini generali basati su proprietà nominali e relative, non essenziali.
La distinzione tra universali e upādhi è usato dai buddisti a proprio vantaggio: se è vero che alcuni termini generali non sono basati su veri universali, che cosa impedisce di applicare lo stesso criterio a tutti i termini generali? Nel Pramāṇavāda, in partic. per Dharmakīrti, il fatto che varie cose distinte diano luogo alla stessa idea non significa che abbiano realmente o effettivamente qualcosa in comune. Erbe diverse, per es., possono tutte alleviare la febbre, ma questo non è condizione sufficiente a postulare un universale comune a tali erbe (Pramānavarttika, svārthā 73-4). Accade piuttosto che due oggetti, per es., due vacche, siano accomunate dalla loro differenza da tutte le altre cose che non sono vacche, ed è per questo che vengono pensate come simili e aventi caratteristiche intrinseche in comune, sebbene tali caratteristiche non esistano realmente. L’universale non è quindi un concetto cui corrisponde una realtà esterna, ma solo un costrutto mentale (vikalpa), privo di corrispondenza con la realtà, trattandosi di un concetto dipendente dall’esclusione di ogni altra cosa (anya-apoha, ➔ Dharmakīrti; Pramāṇavāda).
Alla teoria dell’esclusione, Kumārila Bhaṭṭa (Ślokavarttika, apoha 65-6) replica che per dire che un oggetto x differisce da un oggetto y, e quindi per escludere y dalla classe di x è indispensabile possedere in prima istanza un’idea positiva, seppur vaga, di x. Quindi la teoria dell’esclusione presuppone logicamente ciò che si vorrebbe negare, ossia l’esistenza di un universale a priori. Nella storia della Mīmāṃsā il termine per indicare l’universale era in origine ākr̥ti (letteral. «configurazione»), che fu introdotto per spiegare casi come la prescrizione vedica di costruire un altare «a forma di avvoltoio». In simili casi, «avvoltoio» non può indicare né un avvoltoio particolare, né l’universale, che implica caratteristiche di piumaggio, ecc., irrilevanti nella costruzione dell’altare. Può quindi indicare solo la forma dell’avvoltoio. Nel corso dell’evoluzione della Mīmāṃsā, tuttavia, ākr̥ti finisce per essere usato come sinonimo di jāti per indicare l’universale. Nella semantica della Mīmāṃsā l’universale è considerato il significato primario di una parola, mentre il particolare è inteso come il risultato di una significazione secondaria, secondo la scuola dei Bhāṭṭa, oppure di una percezione simultanea di universale e particolare, secondo i Prābhākara. Grazie all’importanza assegnata al significato universale, la teoria dei Bhāṭṭa sembra immune alla critica di un ingenuo realismo referenziale, nonostante una posizione dichiaratamente corrispondentista. La posizione dei Prābhākara, invece, è complicata dalla loro teoria dell’anvitābhidhāna, nella quale si sostiene che le parole siano semanticamente rilevanti solo all’interno di una frase (➔ Prabhākara). Rimane da chiarire, infatti, quanto essi siano consapevoli della conseguenza di un’ontologia di oggetti interconnessi che corrisponda all’interconnessione tra parole e frase.
L’applicazione ontologica degli universali resta problematica per varie ragioni. Innanzitutto, come può qualcosa esistere simultaneamente in molteplici individui senza essere diviso in parti? Come può un universale che si suppone eterno continuare a esistere anche quando tutti gli individui vengono distrutti? In che senso l’universale esiste? L’universale è identico o distinto dagli individui cui inerisce? Da questo punto di vista, l’attitudine nominalista del buddismo offre indubbi vantaggi.