Terapia con cellule staminali, i limiti del diritto alla salute
Il caso Stamina: una cura contestata dal mondo della ricerca che ha raccolto in Parlamento consensi bipartisan. Poi la bocciatura del ministro. Un malinteso diritto alla salute dell’individuo non può prevalere sulla libertà della classe medica di rifiutare un trattamento privo dei requisiti minimi di scientificità.
Nella primavera 2013 i trattamenti con cellule staminali per pazienti in condizioni gravissime sono dibattuti con toni molto accesi da famiglie dei malati, medici che offrono i trattamenti, governo che li autorizza con decreto legge, ospedale dove sono effettuati e giudici che ordinano che quei trattamenti siano eseguiti. Nonostante la contrarietà della comunità scientifica italiana e internazionale, il Parlamento approva una legge (L.n.23/5/2013, n. 57) che dà al ministro della Salute il potere di promuovere una sperimentazione su quei trattamenti. A giugno il ministro insedia un Comitato scientifico (DM 18/6/2013), presieduto dal presidente dell’Istituto superiore di sanità e composto dal direttore generale dell’Agenzia italiana del farmaco e dal direttore generale del Centro nazionale trapianti, oltre che da alcuni esperti. Il Comitato acquisisce le proposte di sperimentazione presentate da Stamina Foundation, le valuta anche con l’aiuto di alcuni specialisti esterni e comunica al ministro (secondo le notizie di stampa) che mancano del tutto le basi per poter avviare una sperimentazione corretta scientificamente e sicura per i pazienti. Il 10 ottobre il ministro dice no alla sperimentazione.
Vari piani s’intersecano. Chiedersi se, allo stato delle conoscenze, sia ipotizzabile una terapia con cellule staminali, è una questione di scienza. Se determinati preparati rispondano alle regole internazionali, è una questione di sicurezza di cui un ministero e gli enti regolatori è giusto che si occupino. Se quei preparati, pur conformi alle norme di sicurezza, possano essere proposti da un medico a un paziente è una questione di clinica e deontologia. Se un giudice ha, da un lato, i risultati di un’ispezione dell’ente regolatore (Agenzia italiana del farmaco, AIFA), secondo la quale quel preparato non ha nulla di attivo, nonché il parere del Comitato scientifico, e, dall’altro, le affermazioni dei familiari di un paziente, e ordina, in assenza di evidenze scientifiche, di procedere a quel trattamento, siamo in presenza di una seria questione di diritto.
La situazione è diventata confusa anche perché un ministro, sotto la pressione delle famiglie, ha ottenuto dal suo governo un decreto legge (marzo 2013) che estende a tutti quelli che hanno iniziato un trattamento il diritto a proseguirlo, lasciando fuori quelli che non lo hanno iniziato. La legge del maggio 2013 sembra ricondurre le cose in un ambito di serietà scientifica.
Certo i giudici possono utilizzare il richiamo al diritto alla salute, che l’art. 32 della Costituzione indica come fondamentale diritto dell’individuo, ma a patto che si tratti di cure indispensabili, sulla base di una rigorosa valutazione tecnica (quindi non secondo le ‘impressioni’ del medico curante), e che vi siano evidenze scientifiche o, almeno, serie e documentate ipotesi scientifiche, anche se l’iter sperimentale è incompleto. Se si prescinde da questi presupposti, perché mai si dovrebbero negare ostriche e champagne o vacanze in luoghi ameni a chi asserisce di avere da essi un beneficio alla propria salute fisica e psichica, pure tutelate dall’art. 32 della Costituzione? L’errore è evidente e sta nell’attribuire al diritto alla salute la qualità di far ottenere cose e non l’accesso a relazioni sociali e giuridiche, che sono governate da regole scientifiche e cliniche. La Corte costituzionale ha ribadito più volte, e in vari campi, che la legge non può dire al medico cosa debba fare in concreto, perché la pratica medica è basata sulle conoscenze scientifiche, e quindi gode delle garanzie di libertà che gli articoli 9 e 33 della Costituzione riconoscono alla ricerca scientifica. Dunque, la chiave di volta del tutto è la fondatezza scientifica: essa protegge il medico da pressioni indebite e indica anche il limite entro il quale l’attività medica può rivendicare la sua libertà. In nome di quella libertà i medici possono rifiutarsi di somministrare trattamenti evidentemente infondati. E anche gli ospedali, che sono responsabili dell’uso delle risorse pubbliche, possono opporsi a richieste scientificamente e clinicamente infondate.
E in India vincono i malati di cancro
Il 1° aprile 2013 la Corte suprema dell’India rifiuta a Novartis il brevetto per un suo farmaco contro il cancro. Novartis e altre aziende farmaceutiche denunciano che questo scoraggerà l’innovazione in India; al contrario, alcune ONG, che lavorano nel campo della salute, affermano che si tratti di una vittoria per il popolo indiano e per i poveri del mondo. Il farmaco in questione è usato per trattare la leucemia mieloide cronica e altre forme di cancro. Novartis ha presentato una prima domanda di brevetto nel 1992 negli Stati Uniti per il farmaco Gleevec (Glivec in Europa), ottenendolo. Nel 1997 ha presentato e ot- tenuto negli Stati Uniti un secondo brevetto per una formula simile. Nel 1998 ha presentato una domanda di brevetto in India, che inizialmente è stata rifiutata dall’Ufficio dei brevetti indiano per il fatto che la forma ‘beta cristalline’ era solo una nuova forma dell’esistente ‘imatinib’. La Corte suprema ha seguito la linea dell’Ufficio brevetti e ha affermato che imatinib mesylate è una sostanza nota dal brevetto precedente, il primo brevetto americano. La Corte ha basato il suo giudizio sull’articolo 3(d) della nuova legge indiana sui brevetti secondo cui: «la semplice scoperta di una nuova forma di una sostanza nota, che non comporta un rafforzamento dell’efficacia nota di tale sostanza o la semplice scoperta di qualunque nuova proprietà o di un nuovo uso di una sostanza nota o il semplice uso di un processo noto, macchina o apparecchio, a meno che tale processo non risulti in un nuovo prodotto o impieghi almeno un reagente nuovo» non deve essere considerata come invenzione, e perciò non è brevettabile. La decisione della Corte suprema apre la strada alla concorrenza, permettendo così la riduzione dei prezzi. Il prezzo praticato dalla Novartis nel periodo in cui ha beneficiato del diritto di esclusiva è stato equivalente a circa 1680 euro al mese. In India il 40% della popolazione guadagna circa 1 euro al giorno.
La guerra sul ‘metodo Stamina’
Messo a punto da un non specialista, Davide Vannoni insegna infatti psicologia all’Università di Udine, e promosso dall’associazione da lui fondata, la Stamina Foundation Onlus, il cosiddetto metodo Stamina prevede che sul paziente venga effettuato il prelievo da un osso di cellule staminali mesenchimali, normalmente deputate a generare l’osso stesso, la cartilagine e il tessuto adiposo. Dopo una coltura delle cellule di qualche settimana e una loro esposizione a etanolo e acido retinoico, esse vengono iniettate nuovamente nel paziente per via endovenosa. La terapia viene applicata nella cura di svariate malattie aventi origine neurologica, autoimmune oppure genetica.
Subito dopo l’inizio della sperimentazione l’Istituto superiore di sanità boccia il trattamento, mentre è l’Agenzia italiana del farmaco a decretarne il blocco della sperimentazione. Un fatto questo che provoca il ricorso ai giudici del lavoro dei pazienti in trattamento per essere autorizzati a continuare la cura. Sull’onda di una forte pressione mediatica, molto simile a quella che accompagnò il famoso metodo Di Bella per la cura del cancro, l’allora ministro della Salute Renato Balduzzi autorizza con apposito decreto legge la prosecuzione del trattamento per i pazienti in cura. A quel punto anche in Parlamento si determina un vastissimo consenso a favore del metodo Stamina: si arriva così alla conversione del decreto legge in un’apposita legge che dà l’avvio a una limitata – durerà solo 18 mesi – sperimentazione clinica della terapia sotto il controllo dell’Istituto superiore di sanità e dell’Agenzia italiana del farmaco; il tutto accompagnato da un finanziamento di 3 milioni di euro.
Sulla vicenda la rivista scientifica Nature è intervenuta in 2 occasioni attaccando l’operato di Vannoni e del suo team. Dapprima pubblicando un articolo nel quale si dimostra che i dati sui quali si basa la ‘controversa’ terapia sono errati e frutto di un plagio; successivamente con un editoriale nel quale, senza troppi giri di parole, si afferma che «ci sono molte ragioni per le quali la sperimentazione dovrebbe essere fermata» e che dunque «le autorità italiane non dovrebbero andare avanti nel sostenere test clinici costosi di una terapia cellulare non provata e che non ha solide basi scientifiche».
A ottobre si registra però un dietro front da parte del governo. In seguito al parere negativo espresso a settembre dal Comitato scientifico nominato dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, che rileva l'assoluta assenza di presupposti scientifici per giustificare l'avvio della sperimentazione, viene emanato dal ministro un provvedimento di ‘presa d’atto’ che accoglie la tesi degli esperti e blocca definitivamente la sperimentazione stessa.
di Alessandro Albanese