Terapia genica
Definizione e storia
La rivoluzione tecnologica e scientifica prodotta dall’avvento dell’ingegneria genetica, ossia dall’acquisizione della capacità di modificare in modo mirato le proprietà ereditabili degli organismi viventi, ha indotto la comunità dei biologi e genetisti, a partire dalla fine degli anni Ottanta del 20° sec., a concepire l’idea della terapia genica. Il primo tipo di bersaglio su cui indirizzare quest’arma terapeutica sembrava offerto dalle malattie ereditarie: di esse alcune migliaia erano già conosciute e per molte era già disponibile la descrizione molecolare del gene coinvolto e dell’alterazione alla base del fenotipo patologico. Le malattie genetiche sono relativamente rare, ma il peso delle sofferenze provocate da alcune delle più diffuse, come le distrofie muscolari, la fibrosi cistica, le emofilie, le anemie ereditarie, le anomalie del metabolismo ecc., è tutt’altro che trascurabile, considerando soprattutto che per la maggior parte di esse non è disponibile alcuna terapia veramente soddisfacente. La direzione da prendere appariva chiara e senza controindicazioni etiche o di sicurezza: queste malattie sono dovute a una differenza della sequenza del DNA (DeoxyriboNucleic Acid) di un dato gene rispetto a quella presente nel genoma di un organismo sano. Dal momento che si possono correggere queste sequenze nei microrganismi, perché non fare la stessa cosa sul genoma delle cellule dell’organismo malato?
In questo caso si incontrava, però, una prima difficoltà tecnica che, è bene anticipare, rappresenta ancora oggi uno dei principali ostacoli al successo della terapia genica, forse addirittura il maggiore. Tale difficoltà consiste nell’incapacità di manipolare il genoma degli eucarioti (organismi con un nucleo, contenente i cromosomi, distinto dal citoplasma) multicellulari con la stessa precisione con cui si possono modificare il genoma dei procarioti (microrganismi unicellulari privi di nucleo, in cui il cromosoma non è isolato dal resto del contenuto cellulare) e quello dei microrganismi unicellulari eucariotici (come i lieviti).
Nei batteri (procarioti come Escherichia coli, il comune ospite del nostro intestino) e nei lieviti (come Saccharomyces cerevisiae, cui dobbiamo la fermentazione alcolica e la lievitazione del pane), quando geni estranei (tipicamente, sequenze di DNA lunghe da poche decine a poche migliaia di paia di basi, o bp, base pairs) sono introdotti nella cellula si integrano con una certa frequenza nel genoma nel punto esatto in cui trovano una sequenza di basi in parte analoga. In tal modo si può correggere una sequenza in maniera mirata oppure veicolare un gene nuovo in un punto preciso del genoma. Questo, però, non avviene negli organismi multicellulari, come le piante e gli animali: quando DNA estraneo entra in queste cellule può essere veicolato al nucleo, ma poi, con una certa frequenza, si integra nel genoma in posizioni casuali, senza analogia di sequenza. In una piccolissima frazione delle cellule ingegnerizzate si può avere l’integrazione del gene nella sequenza corrispondente, come avviene nei microrganismi, ma questo succede soltanto nell’1‰ circa delle integrazioni. Le ragioni di questa limitazione sono probabilmente dovute alle maggiori dimensioni del genoma degli organismi multicellulari che lo espongono al pericolo di rotture a doppio filamento dei cromosomi, esiziali se non riparate prontamente. A tale scopo questi organismi hanno sviluppato meccanismi di riparazione delle rotture non richiedenti omologia di sequenza, in quanto l’integrità fisica del cromosoma è essenziale alla sopravvivenza: per la cellula può essere conveniente correre il rischio di una mutazione pur di assicurare la continuità del cromosoma spezzato. Questo apparato di riparazione probabilmente riconosce le terminazioni dei frammenti di DNA introdotti dall’esterno come rotture cromosomiche e le ‘ripara’ efficientemente integrandole nel cromosoma in posizioni casuali, prevenendo l’intervento dei meccanismi di riparazione basati invece sull’omologia di sequenza, cui si deve, come detto, l’1‰ di integrazioni legittime.
Questa limitazione però non ha scoraggiato i ricercatori: la maggior parte delle malattie genetiche ha un’eredità recessiva, per cui è sufficiente un solo allele normale del gene per conferire uno stato di normalità. Essendo sufficiente la presenza di un’unica copia del gene ‘sano’ per assicurare lo stato di salute, se si riesce a introdurre comunque, in qualunque punto del genoma, il gene voluto e a farlo esprimere, la malattia genetica si può considerare ‘guarita’. Pertanto, la comunità scientifica intraprese questi tentativi rispettando due condizioni: innanzitutto, la modifica genetica doveva riguardare solo le cellule somatiche dell’organismo umano, vale a dire le cellule che formano i nostri organi e strutture, ma non le cellule germinali, ossia i gameti (oociti nelle femmine e spermatozoi nei maschi), che potrebbero trasmettere la modifica alla progenie. Questa proibizione (successivamente introdotta in tutte le regolamentazioni, legislative o amministrative, dei vari Paesi) è imposta molto semplicemente dal fatto che, in ogni caso, le manipolazioni del genoma presentano un grande elemento di casualità, ed è indispensabile selezionare le cellule in cui è avvenuta l’integrazione del DNA introdotto. La seconda condizione prevedeva il rispetto delle regolamentazioni già in atto per le sperimentazioni di ingegneria genetica in generale e per la sperimentazione umana in particolare, con un’accurata definizione dei rapporti tra rischi e benefici valutata dai comitati etici presenti nelle istituzioni sanitarie.
Nel 1980 un ricercatore statunitense realizzò un primo tentativo di cura di un’anemia ereditaria sulle cellule somatiche di due bambini, senza seguire le regolamentazioni in uso e senza ottenere risultati positivi: un episodio isolato, molto deprecato e sanzionato dalla comunità scientifica. A partire dal 1988, nei laboratori statunitensi dei National institutes of health (NIH) iniziarono le prime sperimentazioni debitamente valutate e autorizzate rivolte a combattere le malattie ereditarie e, a seguire, decine di altri laboratori nel mondo affrontarono questa problematica: in totale, tra il 1989 e il 2006 si sono realizzate poco più di mille sperimentazioni cliniche (tab. 1), che hanno coinvolto diverse decine di migliaia di pazienti. I risultati complessivi sono ancora poco soddisfacenti, in quanto il numero di pazienti guariti (e per i quali, peraltro, non si ha ancora la prospettiva temporale necessaria per valutare la persistenza della guarigione) si conta sulle dita delle mani, e le difficoltà da superare continuano ad apparire imponenti. Uno sguardo allo sviluppo storico delle attività mostra che la loro moltiplicazione e diffusione ha portato, innanzitutto, alla presa di coscienza di molte difficoltà tecniche che evidenziano fenomeni biologico-molecolari prima ignorati o non tenuti nel dovuto conto. L’atteggiamento dei ricercatori, e della società più in generale, è passato dall’entusiasmo iniziale a un certo scoraggiamento quando sono comparse le difficoltà sopra accennate, aumentato poi dalle critiche seguite a una sperimentazione che pare abbia causato la morte di un paziente nel 1999; successivamente, una serie di successi ottenuti in bambini che presentavano una grave forma di deficienza immunitaria ha rinnovato l’entusiasmo, di nuovo frenato dall’insorgenza, in seguito al trattamento, di forme di leucemia in alcuni dei bambini curati. Più recentemente, altri successi hanno fatto riemergere la convinzione che, nonostante le difficoltà da superare siano ancora molte e ardue, l’approfondimento delle conoscenze, il miglioramento delle metodologie e la persistente mancanza di soddisfacenti terapie alternative per le patologie in studio giustificano il perdurare dello sforzo dei numerosi gruppi operanti nel campo in tutto il mondo.
Negli ultimi anni ci si è resi conto che l’iniziale focalizzazione sulle malattie ereditarie (che, con tutta la loro gravità, riguardano solo il 2% circa della popolazione mondiale) non era giustificata, in quanto le modifiche mirate del genoma possono essere indirizzate anche a patologie oncologiche, cardiocircolatorie o degenerative, come le malattie non ereditarie del sistema nervoso centrale. Inoltre ci si è resi conto (anche grazie ai progressi della biologia molecolare degli ultimi due decenni) che, oltre al DNA, per la cura delle varie forme patologiche appena citate possono essere usate, in linea di principio, anche certe specie di RNA (RiboNucleic Acid) o loro analoghi chimici che interferiscono con la struttura e/o le funzioni del DNA. Pertanto, una definizione più attuale e generale della terapia genica prende in considerazione l’uso di tutti gli acidi nucleici (DNA, RNA o analoghi) introdotti nelle cellule somatiche con funzioni di regolazione dell’attività cellulare o di modulazione del sistema immunitario.
Principali metodologie in uso
Il più tipico agente utilizzato nella sperimentazione per scopi di terapia genica è dato dal DNA stesso, anche se molte metodiche attuali sono basate su diverse forme di RNA o su suoi derivati chimici. La forma di sperimentazione più classica prevede l’introduzione nella cellula di un tratto di DNA. Il DNA è una molecola polimerica lineare che codifica nella sequenza dei suoi monomeri (le quattro basi A, G, C e T) l’informazione per produrre una molecola simile più corta, l’RNA (le cui quattro basi corrispondenti sono A, G, C e U), che a sua volta codifica l’informazione per produrre un’altra molecola polimerica lineare, una proteina, formata da una sequenza di monomeri, detti amminoacidi, che hanno venti strutture diverse. Il tratto di DNA che porta l’informazione per produrre una proteina viene comunemente definito come gene per quella proteina, ma, per lo più, il DNA utilizzato per la terapia genica non corrisponde esattamente al gene che si trova sul normale cromosoma, in quanto la sequenza di DNA che codifica per una data proteina, nella maggior parte dei geni degli organismi eucariotici multicellulari, è presente in forma discontinua, intervallata da tratti di DNA estranei alla proteina prodotta da quel gene. Per passare dal gene alla proteina si deve prima copiare in modo complementare la sequenza di DNA (secondo le regole della struttura definita originariamente da James D. Watson e Francis H.C. Crick, ossia A, G, C e T del DNA sono copiati, rispettivamente, in U, C, G e A) lungo tutta la lunghezza del gene, poi l’mRNA (messenger RNA) così sintetizzato viene tagliuzzato e rincollato, rispettando l’ordine delle basi ma accorciando la sequenza, dando l’RNA messaggero maturo; questo, a sua volta, viene ‘tradotto’ da un complesso apparato molecolare nella sequenza di amminoacidi della proteina. Pertanto, appare più conveniente, nella maggior parte dei casi, usare tratti di DNA che sono copia (anche se a doppio filamento) dell’mRNA maturo: questo DNA (definito cDNA, dove c sta per ‘complementare’ o ‘copia’), una volta integrato nel genoma, potrà essere trascritto nell’mRNA già maturo, che quindi sarà tradotto nella proteina desiderata.
Il DNA viene sempre utilizzato nella sua forma a doppia elica e, per potere codificare il prodotto genico d’interesse, deve essere lungo alcune migliaia di bp. Il primo problema da affrontare per i ricercatori è quello di far penetrare il DNA all’interno della cellula, in quanto la membrana cellulare non è permeabile a una molecola così grande e dotata di una notevole quantità di cariche elettriche negative dovute ai residui fosfatici (non si dimentichi che il DNA è, appunto, un acido). La penetrazione può essere forzata con metodi chimici, quali la lipofezione, che utilizza i lipidi cationici e i liposomi. Come metodi fisici si utilizzano l’elettroporazione (ossia una serie di impulsi elettrici) o la balistica (ovvero particelle di tungsteno rivestite di DNA sparate nelle cellule).
Le metodologie di trasferimento genico maggiormente usate per la terapia genica si basano sull’utilizzo di vettori virali e sfruttano le proprietà fisiologiche dei virus di infettare le cellule bersaglio con alta efficienza, interagendo con recettori cellulari specifici. I ricercatori hanno quindi pensato di produrre particelle virali il cui genoma sia sostituito, in tutto o in parte, dal gene terapeutico, e di infettare con queste le cellule bersaglio per veicolare il gene con alta efficienza. Tra i virus più usati vi sono l’adenovirus, i retrovirus e l’AAV (Adeno-Associated Virus), ciascuno dei quali presenta vantaggi e svantaggi (tab. 2). Naturalmente, per poterli usare in terapia, si deve inizialmente manipolare il genoma virale in modo da eliminarne tutte le proprietà patogene assicurando anche condizioni che non permettano la riformazione di una particella virale infettiva.
Gli adenovirus sono causa di varie infezioni delle prime vie respiratorie; il loro genoma è costituito da una molecola di DNA lineare a doppio filamento di 36.000 bp, la più grande tra quelle dei virus sopra citati e quindi con il vantaggio di poter trasferire geni di dimensioni relativamente ampie. Il virus può infettare un alto numero di tessuti umani, sia quiescenti (come il muscolo o il fegato) sia in attiva proliferazione (come gli epiteli respiratori, il sistema emopoietico e il fegato rigenerante), e introduce con efficienza il suo DNA nel nucleo, dove esprime le proteine in esso codificate senza peraltro inserirsi nel genoma; per questa ragione il suo effetto è solo transeunte. Un altro svantaggio è dato dalla sua tendenza a indurre una risposta infiammatoria nei tessuti infettati, tendenza che è stata in gran parte corretta da recenti manipolazioni del suo genoma.
I retrovirus sono caratterizzati da un genoma a RNA, della lunghezza di circa 10.000 bp. La proprietà che li rende particolarmente attraenti per la terapia genica risiede nella capacità, una volta introdotto il loro genoma nella cellula, di produrre una copia a doppio filamento di DNA dell’RNA in essi contenuto e di farla integrare nel genoma della cellula infettata in posizioni, in prima approssimazione, casuali, senza alcuna analogia di sequenza. Sia l’infezione sia l’integrazione avvengono con un’alta frequenza, per cui questi sistemi sono molto più efficienti di quelli basati sull’uso diretto di frammenti di DNA. I retrovirus usati appartengono a due gruppi: gli oncoretrovirus, che causano tumori negli animali da laboratorio e nell’uomo, e i lentivirus, il più noto e utilizzato dei quali è l’HIV (Human Immunodeficiency Virus) che causa l’AIDS. Gli oncoretrovirus possono infettare solo cellule in attiva proliferazione, mentre i lentivirus infettano anche cellule quiescenti, e sono quindi più adatti per sperimentazioni mirate a tessuti, come nel caso del muscolo o del sistema nervoso. Tutti i retrovirus presentano comunque il rischio derivato dal loro inserimento casuale nel genoma, con una spiccata preferenza per le porzioni caratterizzate dalla presenza di cromatina (DNA del cromosoma associato a specifiche proteine) con struttura ‘aperta’, ossia contenente geni, e attiva nella loro trascrizione ed espressione. Ciò comporta il pericolo di inattivare un gene utile o di attivare un gene dannoso, per es. un oncogene.
Tipicamente, il gene terapeutico viene inserito al posto dei geni che permettono la replicazione del genoma e il montaggio della particella virale, all’interno delle sequenze terminali che sono essenziali per la retrotrascrizione (conversione del singolo filamento dell’RNA virale in una doppia elica di DNA) e l’integrazione nel genoma; un tale costrutto è contenuto in un plasmide (piccolo cromosoma circolare capace di replicazione autonoma solo nel batterio) batterico e viene introdotto in una cellula animale che produce le proteine necessarie alla moltiplicazione del genoma virale e al montaggio della particella infettiva. Questa linea cellulare, definita di packaging, permette la formazione con alta efficienza di particelle virali (virioni) mature, capaci di infettare successivamente le cellule bersaglio, di introdurvi il loro genoma, trasformarlo in DNA a doppio filamento e farlo integrare nei cromosomi, ma non di riprodursi, perché mancano delle funzioni necessarie. I vettori retrovirali possono così inserire nel genoma bersaglio sequenze di 7000÷8000 bp; i vettori derivati da lentivirus appaiono preferibili in quanto possono infettare anche cellule quiescenti. Tutti i geni estranei che sono stati introdotti nel genoma mediante i retrovirus vanno però frequentemente incontro a fenomeni di silenziamento della loro trascrizione ed espressione, mediati da modifiche epigenetiche della struttura della cromatina probabilmente evolutesi proprio per neutralizzare inserzioni da retrotrasposizioni di geni estranei.
Nell’ultimo decennio si sono andati affermando i vettori basati sull’AAV, appartenente alla famiglia dei parvovirus; gli AAV sono virus con un piccolo genoma di DNA lineare a singolo filamento (circa 4700 basi) che non causa alcuna patologia umana. I parvovirus possono essere ‘autonomi’ (come l’agente causale della quinta malattia) o ‘dependovirus’, ossia dipendenti per la loro riproduzione dalla presenza di un altro virus (tipicamente l’adenovirus, da cui il loro nome). La presenza del virus adiuvante può essere vicariata dal trattamento blando delle cellule con agenti che danneggiano il loro DNA: tale trattamento probabilmente impegna sui danni così prodotti l’apparato di riparazione delle doppie rotture di DNA citato sopra, e impedisce che questo si leghi al DNA di AAV (diventato rapidamente una molecola a doppio filamento dopo l’ingresso nella cellula), permettendo a quest’ultimo di completare il suo ciclo vitale. L’AAV presenta molte caratteristiche attraenti, nonostante le limitazioni alla lunghezza del DNA estraneo veicolato imposte dal piccolo genoma. Esso, infatti, infetta bene le cellule quiescenti e, normalmente, si integra in un punto preciso del braccio lungo del cromosoma 19; i costrutti in cui la maggior parte del genoma virale è sostituito dal gene terapeutico non si integrano nel cromosoma, ma permangono in forma episomale, cioè autonoma, all’interno della cellula per mesi e anni. Rispetto ai retrovirus, i vettori AAV non presentano rischi di mutagenesi derivata dall’integrazione, non sono collegati ad alcuna patologia, hanno tropismo per tessuti quiescenti di alto interesse per la terapia genica (quelli di muscolo, cuore, cervello, retina), sono presenti in un alto numero di copie per cellula, non inducono risposta immunitaria e i geni inseriti non sono soggetti a processi di silenziamento. Per queste ragioni sono stati utilizzati sempre più diffusamente negli ultimi anni.
Più di recente diversi gruppi di ricercatori hanno preso in considerazione i virus erpetici, il cui genoma è una doppia elica lineare di DNA tra 100.000 e 150.000 bp, capace di restare in forma episomale all’interno della cellula per molte generazioni. Numerose preoccupazioni, quali il rischio di interazioni con virus erpetici già presenti nell’organismo umano, limitano ancora l’applicazione di questo sistema.
Con uno dei metodi descritti, il DNA terapeutico deve essere convogliato nelle cellule degli organi più adatti a realizzare l’effetto terapeutico. A questo riguardo, si devono considerare due procedure fondamentali: ex vivo e in vivo (v. figura). Nel primo caso, le cellule dell’organo bersaglio (tipicamente le cellule staminali del sistema ematopoietico, ma anche quelle di organi come il fegato) vengono isolate, coltivate in vitro, trattate con il DNA o virus terapeutico e quindi reintrodotte nell’organismo. Nei sistemi in vivo, si tenta di far giungere il DNA o il virus direttamente nell’organo bersaglio tramite diverse metodiche quali elettroporazione di frammenti di DNA nel muscolo, iniezione di preparati virali nella vena porta per il fegato, cateterizzazione arteriosa fino a lesioni coronariche con iniezioni di virus e così via. Le metodologie in vivo non assicurano normalmente la stessa elevata frequenza di cellule ingegnerizzate che si può ottenere con le metodologie ex vivo, eventualmente anche associate a procedure selettive prima della reintroduzione nell’organismo.
Malattie ereditarie
Si può stimare che soltanto il 10% delle oltre 1300 sperimentazioni cliniche svolte a tutt’oggi è, o è stato, rivolto alle malattie genetiche. Ciò nonostante, è possibile affermare che, grazie alla terapia genica, alcune malattie genetiche sono state guarite e in modo duraturo, anche se la valutazione è limitata dall’ancora breve esperienza retrospettiva.
Tra le malattie ereditarie monogeniche, le SCID (Severe Combined Immune Deficiencies), gravi deficienze immunitarie combinate, sono state le prime a essere affrontate e anche quelle che hanno offerto i primi successi (oltre alle prime complicazioni). Queste immunodeficienze sono caratterizzate da difetti del metabolismo dei linfociti che portano a una mancanza molto pronunciata di risposta immunitaria agli agenti infettivi incompatibile con una vita normale, per cui i bambini possono sopravvivere solo se racchiusi in capsule con aria sterilizzata (sono i cosiddetti bubble boys). Le SCID sono causate da una dozzina di geni diversi e sono subito apparse come forme morbose particolarmente adatte alla terapia genica in quanto, essendo dovute a mutazioni recessive, l’aggiunta di una copia del gene sano potrebbe determinarne la guarigione. Inoltre, esse riguardano il sistema ematopoietico e perciò sono particolarmente adatte alla terapia genica ex vivo: le cellule staminali del midollo osseo in grado di produrre linfociti vengono isolate e in esse viene introdotto il gene terapeutico; successivamente le cellule coltivate in vitro sono reiniettate nel paziente in modo da colonizzare il midollo osseo. La prima forma morbosa così trattata è stata una malattia dovuta a deficit di adenosindeaminasi (ADA), enzima indispensabile alla maturazione dei linfociti: si è così trasferito nei linfociti periferici il cDNA del gene per l’ADA mediante un vettore retrovirale. Le prime sperimentazioni, a partire dal 1990, hanno dimostrato la sostanziale sicurezza del trattamento e una certa quantità di linfociti curati. Tuttavia, non avendo questi un vantaggio selettivo nella crescita rispetto a quelli difettivi, il livello complessivo di enzima, e quindi di risposta immunitaria, non è stato sufficiente ad assicurare un fenotipo normale nei bambini trattati, ai quali l’enzima è stato somministrato periodicamente per endovena. Inoltre, questa sperimentazione ha evidenziato la tendenza delle cellule ottenute tramite ingegneria genetica a ‘silenziare’ con il tempo l’espressione del gene, considerato ‘estraneo’. In seguito, si è giunti a trasferire il cDNA nelle cellule staminali e poi, nel 2000 in Italia, a ‘procurare spazio’ alle cellule staminali curate pretrattando il midollo osseo del paziente con dosi blande di un farmaco (il busulfano) che ne provoca l’ablazione. Grazie a queste modifiche del trattamento, è stato possibile ottenere in due bambini la produzione di un livello soddisfacente di ADA (in circa il 10% dei linfociti), sufficiente a ripristinare la risposta immunitaria. Queste prime guarigioni registrate in Italia, seguite da altre analoghe in Gran Bretagna, indicano probabilmente la necessità di attuare una procedura importante, anche se delicata (ossia l’ablazione parziale dell’organo colpito allo scopo di dare vantaggio alle cellule curate), per la terapia genica.
Un’altra forma di SCID affrontata con la terapia genica è quella legata al cromosoma X. Essa viene trasmessa alla progenie come malattia genetica recessiva legata al sesso: infatti ne sono affetti principalmente i maschi che ereditano dalla madre un cromosoma X mutato. Alla fine degli anni Novanta, due sperimentazioni parallele, analoghe a quelle per l’ADA, sono state effettuate riguardo questa forma morbosa su dieci bambini a Parigi e su altrettanti a Londra. In questo caso, però, le cellule ingegnerizzate, che esprimevano la proteina corretta, avevano un vantaggio selettivo nella proliferazione e hanno così potuto colonizzare con successo il midollo senza necessità di previa ablazione. La maggior parte dei bambini trattati in tal modo ha riacquistato una risposta immunitaria normale, entusiasmando tutti i ricercatori del campo, esultanza che però si è improvvisamente spenta quando, in seguito, cinque dei venti bambini trattati hanno sviluppato una forma di leucemia linfatica acuta, dovuta a mutagenesi inserzionale che ha, in tutti i casi, attivato il protoncogene LMO2. È probabile che la leucemia sia dovuta a una forma di cooperazione tra il gene della SCID legata al cromosoma X e il protoncogene, anche se la questione deve essere ancora compresa a fondo nella sua patogenesi. Questi risultati in ogni caso, oltre a diffondere serie preoccupazioni e qualche scetticismo sulla sperimentazione clinica di terapia genica, hanno di nuovo fatto emergere in modo estremamente drammatico i rischi dovuti all’inserzione non indirizzabile dei geni nel genoma umano con le procedure che sono attualmente disponibili.
Un’altra malattia ereditaria monogenica recessiva che causa una diversa forma di deficienza immunitaria è stata oggetto di tentativi di terapia genica che hanno avuto successo. Si tratta della CGD (Chronic Granulomatous Disease), malattia granulomatosa cronica caratterizzata dall’incapacità dei globuli bianchi che fagocitano i batteri di ucciderli mediante la produzione di specie chimiche ossidanti, a causa della mancata funzionalità di un enzima specifico della membrana cellulare. Dopo i primi tentativi, basati sempre sul trattamento ex vivo di cellule staminali ematopoietiche con retrovirus veicolanti il cDNA della proteina corretta, che avevano dato risultati positivi ma con un’insufficiente quantità di cellule curate, si è proceduto nel 2004 in Gran Bretagna a una parziale ablazione midollare precedente al reimpianto delle cellule trattate, come per la deficienza di ADA. Tale trattamento ha portato alla guarigione di due bambini, anche perché le cellule trattate hanno dimostrato un’accresciuta tendenza alla proliferazione, analogamente a quanto osservato per l’ADA-SCID. Questo ha naturalmente sollevato anche il timore che si ripetessero gli inconvenienti osservati in quei casi. Nei casi trattati della CGD l’accresciuta proliferazione sembra causata dal fatto che i geni terapeutici si sono inseriti in siti che attivano geni coinvolti nella proliferazione cellulare, ma non sembrano essere protoncogeni. I bambini curati continuano a essere seguiti con stretta vigilanza, e le sperimentazioni iniziano a essere estese ad altri pazienti.
Significativi e promettenti successi parziali sono stati ottenuti nel corso del 2007 e del 2008 per alcuni casi di cecità ereditaria, la LCA2 (Leber Congenital Amaurosis2), dovuti alla mancata funzionalità di un enzima coinvolto nella produzione del pigmento ottico rodopsina. In questo caso, grazie ai primi risultati positivi ottenuti sui cani, il gene curativo è stato iniettato direttamente nell’occhio. Le sperimentazioni sono state eseguite negli Stati Uniti (con una collaborazione italiana) e in Gran Bretagna e hanno permesso un significativo ripristino parziale della visione in tre persone adulte affette. Il successo ottenuto ha dato una notevole spinta a estendere la sperimentazione anche ai bambini, che dovrebbero essere più suscettibili di sviluppare un miglioramento delle capacità visive, in virtù anche della via relativamente facile di somministrazione in vivo e di indirizzo all’organo colpito, la retina.
Molte altre forme di patologie ereditarie, tra cui alcune delle più gravi e diffuse, sono state e sono oggetto di sperimentazione, anche se non si sono ancora ottenuti risultati soddisfacenti. Tra queste, occorre ricordare che le malattie dovute a difetti di enzimi necessari per lo svolgimento di diverse vie metaboliche sono state fondamentali per consentire ai ricercatori di iniziare a comprendere i rapporti tra eredità biologica e metabolismo: un medico inglese, Sir Archibald E. Garrod, all’inizio del secolo scorso, identificando la cosiddetta alcaptonuria ereditaria come dovuta alla mancanza di un enzima della via degradativa dell’amminoacido fenilalanina, pose il primo tassello per l’affermazione del concetto ‘un gene, un enzima’. Successivamente sono state identificate diverse altre malattie delle vie metaboliche, tra cui spiccano quelle di accumulo lisosomale, nelle quali alcuni polisaccaridi, la cui degradazione è bloccata da un difetto enzimatico, si accumulano nei lisosomi, organelli intracellulari specializzati nel catabolismo, con danneggiamento degli organi interessati come il fegato, il cuore, il rene, il sistema nervoso centrale e così via. All’interno di queste forme morbose, i primi tentativi di terapia genica sono stati rivolti alla malattia di Gaucher (difetto di una glucocerebrosidasi) e a due mucopolisaccaridosi, la sindrome di Hurler (difetto di L-iduronidasi) e la sindrome di Hunter (difetto di iduronato-2-solfatasi). Le sperimentazioni si sono basate sull’approccio ex vivo, trasferendo con vettori retrovirali i cDNA relativi in cellule staminali coltivate in vitro e poi reiniettandole a colonizzare il midollo osseo, senza previa mieloablazione. La risposta qualitativamente positiva non ha però avuto ancora effetto terapeutico reale a causa del piccolo numero di cellule che esprimono l’enzima corretto.
La fibrosi cistica rappresenta una malattia monogenica recessiva molto diffusa tra le popolazioni europee (soprattutto quelle del Nord), caratterizzata dalla produzione di un muco molto viscoso nelle vie aeree che facilita la comparsa di infezioni delle vie respiratorie. La sua frequenza relativamente elevata nelle popolazioni dell’Europa settentrionale (circa un caso su 2000 nati) potrebbe essere spiegata da un certo vantaggio dell’eterozigote in condizioni di diffuso rischio di tubercolosi. La malattia è dovuta a un difetto di una proteina di membrana che ha funzioni di canale per la fuoriuscita degli ioni di cloro dalla cellula, il cui gene relativo è stato identificato e clonato nel 1989, ossia nel periodo in cui si cominciavano a organizzare tentativi di terapia genica. I primi molteplici tentativi di sperimentazione clinica utilizzavano principalmente i vettori basati sull’adenovirus, somministrati direttamente ai pazienti tramite le vie aeree, contando, oltre che sull’alta capacità del genoma ingegnerizzabile, sul tropismo del virus per gli epiteli respiratori. Oltre a non avere avuto successo, in alcuni casi il vettore ha causato una forte reazione infiammatoria. Nemmeno il successivo utilizzo di vettori basati sull’AAV ha avuto successo, sempre per lo scarso tropismo del ceppo virale usato per l’epitelio respiratorio. Negli esperimenti futuri si pensa di ricorrere a un ceppo di AAV con più adatto tropismo, oppure di sfruttare l’uso topico di metodi di trasferimento diretto del DNA terapeutico non dipendenti da virus, quali i liposomi o lipidi cationici.
Le distrofie muscolari di Duchenne e di Becker sono malattie ereditarie monogeniche recessive legate al cromosoma X, e rappresentano le forme più diffuse e principali di una famiglia comprendente un centinaio di diverse alterazioni genetiche che colpiscono i muscoli scheletrici e cardiaci. La proteina alterata nelle due malattie è la distrofina, una lunga molecola di circa 4000 amminoacidi che collega il versante citoplasmatico della membrana delle cellule dei muscoli striati con la matrice extracellulare. I bambini colpiti (uno su 3500 nati) mostrano dopo pochi anni di vita una debolezza muscolare che si aggrava progressivamente fino a risultare incompatibile con la sopravvivenza. L’identificazione del gene della distrofina ha stupito i ricercatori per le dimensioni osservate: il gene è composto di 2,4 milioni di bp, per la cui trascrizione in RNA sono necessarie oltre 16 ore; la porzione codificante è suddivisa in 79 tratti e l’mRNA maturo è lungo 14.000 bp, 11.000 delle quali occupate dalla porzione che codifica per la distrofina. Le forme morbose derivano da una grande varietà di mutazioni, molte delle quali sono delezioni, e sono comunque accompagnate da una forte riduzione della quantità di proteina, che appare meno marcata nella distrofia di Becker, caratterizzata da lesioni molecolari meno debilitanti. Le dimensioni del cDNA e il tipo di organo colpito sollevano notevoli difficoltà per la sperimentazione di approcci di terapia genica, in quanto non sono concepibili trattamenti ex vivo e i muscoli striati rappresentano il più grande organo corporeo e sono formati da cellule fibrose multinucleate che non si dividono, con l’eccezione di un numero limitato di cellule staminali. Queste difficoltà hanno frustrato fino a oggi la sperimentazione in questo ambito. Gli approcci correnti si basano sull’uso di geni codificanti per forme modificate e relativamente ‘miniaturizzate’ della distrofina, sull’uso di vettori virali (specialmente AAV) con tropismo per l’apparato muscolare e sulla somministrazione di questi vettori per via endovenosa, esercitando un’accresciuta pressione emodinamica al fine di facilitare la permeazione del vettore attraverso l’endotelio dei vasi fino alle fibre muscolari. Modelli animali (topo e cane), con i loro primi parziali successi, orientano e incoraggiano i ricercatori verso questo difficile e importante traguardo.
Le emofilie A e B sono anch’esse gravi malattie ereditarie monogeniche recessive causate da alterazioni di geni presenti sul cromosoma X e quindi trasmesse tipicamente da madri portatrici sane alla metà dei figli maschi. Sono caratterizzate da gravi difetti nella coagulazione del sangue, con conseguenti episodi emorragici successivi, a lungo andare incompatibili con la sopravvivenza. Le alterazioni (presenti in un maschio ogni 5000 neonati) consistono nell’assenza o non funzionalità dei fattori di coagulazione (membri di una catena di enzimi e cofattori che, innescati da una lesione tissutale, amplificano a cascata il segnale fino a causare la precipitazione della fibrina a formare il coagulo), precisamente del fattore VIII (emofilia A) e del fattore IX (emofilia B, che ha la frequenza di un quinto rispetto all’emofilia A). La terapia richiede la somministrazione endovenosa periodica del fattore mancante, un trattamento molto costoso. Il fattore VIII è una grande proteina di oltre 2000 amminoacidi, per cui il suo cDNA è di oltre 8000 bp e quindi di non facile veicolazione con i principali vettori, mentre il cDNA del fattore IX è di sole 1400 bp e quindi di più agevole sperimentazione. Anche per l’emofilia sono disponibili utili modelli animali murini e canini. Tentativi di terapia dell’emofilia B con vettori di AAV inoculati nel fegato hanno mostrato inizialmente la comparsa del fattore IX nel sangue circolante, che però si è in seguito ridotta per una risposta immunitaria contro le proteine del vettore. Un tentativo è stato realizzato anche ex vivo per il fattore VIII introducendo direttamente (senza vettori virali) il cDNA in fibroblasti coltivati, poi reintrodotti per via intraperitoneale, con risultati ancora non soddisfacenti a causa del basso livello di produzione ottenuto e per la transitorietà dell’effetto.
Tra i tentativi realizzati per curare malattie genetiche con queste procedure è necessario ricordare quelli riguardanti una malattia del fegato, la deficienza di ornitina transcarbamilasi, un enzima del metabolismo dell’urea la cui scarsità causa crisi periodiche di iperammonemia. Nel 1999 un tentativo di cura, mediante somministrazione del cDNA per l’enzima in un vettore di adenovirus somministrato in vivo attraverso l’arteria epatica, è stato seguito da una violenta crisi infiammatoria del fegato con massiccio danno epatico ed esito letale per il giovane paziente. Questo episodio ha scoraggiato fortemente i ricercatori e, sebbene si sia con ogni probabilità incontrato in questo caso un soggetto rivelatosi imprevedibilmente molto sensibile all’adenovirus, ha sottolineato con maggior forza l’importanza di usare vettori o comunque metodologie di somministrazione di DNA terapeutici che non inducano risposte infiammatorie.
Infine, per quanto riguarda le malattie ereditarie monogeniche, non deve stupire la perdurante assenza di sperimentazioni per le anemie ereditarie, quali la falcemia e le talassemie, sebbene una sperimentazione per una di esse abbia rappresentato, come descritto sopra, il primo, mal concepito e mal realizzato, tentativo semiclandestino di terapia genica. Queste malattie dipendono tutte da mutazioni che hanno effetto sui componenti dell’emoglobina, una molecola presente in diverse forme nell’uomo, la produzione delle quali varia qualitativamente e quantitativamente in modo preciso e programmato durante lo sviluppo. Questo comporta che, a differenza di forme come le SCID o la CGD, in cui il livello preciso di espressione del gene non è essenziale (in certi casi anche una percentuale del 5-10% rispetto alla norma può essere terapeutica), per le emoglobine la regolazione fine del livello di produzione delle diverse forme è assolutamente essenziale. Le sequenze di DNA preposte a questa regolazione sono molte, localizzate spesso a grande distanza dal gene regolato e non ancora del tutto conosciute, soprattutto nelle loro interazioni reciproche. Ciò ha fino a oggi inibito una sperimentazione seria in questo campo, e sottolinea ulteriormente la gravità della limitazione tecnica nell’indirizzare in modo mirato il DNA terapeutico sul genoma del paziente.
Tumori e altre forme morbose
Come indicato in precedenza, le sperimentazioni cliniche di terapia genica rivolte alle malattie ereditarie, sebbene siano state le prime tentate, oggi rappresentano una frazione relativamente minore delle sperimentazioni, mentre nettamente maggiore è il numero complessivo di quelle dedicate ad altre patologie, in primo luogo a quelle tumorali, seguite immediatamente da quelle cardiovascolari, in quanto si tratta di patologie molto più frequenti delle malattie ereditarie e sono concepibili diversi approcci di terapia basata sull’introduzione di acidi nucleici nelle cellule. Per i tumori, due sono le strategie di base correntemente esplorate: l’inibizione diretta della proliferazione cellulare e la stimolazione della risposta immunitaria del paziente contro il tumore, in quanto i tumori spesso esprimono sulla superficie cellulare antigeni specifici. Nel primo caso, si inietta direttamente nella massa tumorale il gene potenzialmente terapeutico, che può essere la forma non mutata del protoncogene modificato in quel tumore, oppure acidi nucleici come i piccoli RNA a effetto degradativo o inibitorio sulla funzione dell’mRNA dell’oncogene attivato o di geni per proteine essenziali alla proliferazione cellulare. Queste sperimentazioni soffrono però della necessità di trattare con il gene terapeutico tutte le cellule tumorali, per cui non si sono ancora avuti risultati soddisfacenti. Esiti più promettenti sono stati ottenuti con la stimolazione della risposta immunitaria, iniettando direttamente, in metastasi di melanomi o tumori del colon, geni che producono proteine in grado di stimolare questa risposta. Un approccio correlato consiste nell’introduzione ex vivo in linfociti di geni per un recettore di un antigene tumorale di un melanoma, stimolando così l’accresciuta produzione di anticorpi contro il tumore; questo approccio ha portato in due casi alla regressione completa del tumore.
Infine, appaiono promettenti le sperimentazioni rivolte a introdurre nel tumore un gene ‘suicida’. Il gene più usato è quello della timidina chinasi del virus erpetico, che rende le cellule che la esprimono sensibili a un farmaco antivirale di largo uso, il ganciclovir, innocuo per le cellule normali. In questo tipo di sperimentazione è meno importante raggiungere la totalità delle cellule tumorali in quanto le cellule ingegnerizzate, in presenza del farmaco, rilasciano sostanze tossiche che danneggiano anche le cellule circostanti, ampliando in tal modo l’effetto del trattamento terapeutico. Risultati incoraggianti, pur se ancora non definitivi, si sono ottenuti per tumori della prostata e per glioblastomi.
Per quanto riguarda, invece, le malattie cardiovascolari, la maggior parte delle sperimentazioni ha come scopo il ripristino della vascolarizzazione del miocardio danneggiato dall’infarto. Sono conosciuti molti geni che codificano fattori stimolanti l’angiogenesi, come il VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor), fattore di crescita vascolare endoteliale, l’HGF (Hepatocyte Growth Factor), fattore di crescita dell’epatocita, e il PDGF (Platelet-Derived Growth Factor), fattore di crescita derivato dalle piastrine. Alla prevedibile utilità di questi fattori si associa quella dell’HIF (Hypoxia-Inducible Factor), fattore indotto dall’ipossia. I trattamenti con geni per un unico fattore, compreso quello che appare più importante, il VEGF, non hanno dato risultati soddisfacenti, mentre più promettenti, anche se ancora preliminari, appaiono i risultati di rivascolarizzazione ottenuti con terapie combinate contenenti i geni per il VEGF e l’HIF.
Le malattie neurodegenerative, come il morbo di Parkinson e il morbo di Alzheimer, rappresentano patologie che creano crescenti preoccupazioni in relazione all’allungamento dell’attesa di vita nelle popolazioni odierne. La disponibilità di vettori per la terapia genica basati sull’AAV, che mostrano un buon tropismo per il sistema nervoso centrale e una lunga permanenza nei neuroni in cui vengono introdotti, ha incoraggiato diversi tentativi di terapia genica. Per quanto riguarda il morbo di Parkinson, si tenta di introdurre in nuclei specifici del sistema nervoso centrale geni capaci di modificare il metabolismo neuronale, aumentando il livello di acido γ-amminobutirrico o di dopamina, ambedue sostanze con valore terapeutico, oppure di introdurre un gene per un fattore di crescita, la neurturina, allo scopo di contrastare la degenerazione dei neuroni. Alcune sperimentazioni appaiono incoraggianti.
Per il morbo di Alzheimer sono in corso sperimentazioni basate sul gene per l’NGF (Nerve Growth Factor), fattore di crescita nervoso, il primo fattore di crescita cellulare (o citochina) scoperto, ma non si hanno ancora risultati definitivi.
Infine, per quanto riguarda le malattie infettive, si mira a produrre linee linfocitarie resistenti all’infezione del virus, ma una totale e permanente resistenza non è stata ancora chiaramente ottenuta.
Prospettive future
A vent’anni dalla nascita, nonostante i piccoli progressi sul piano clinico, la terapia genica ha mobilitato innumerevoli laboratori nello sforzo di risolvere quei problemi di base che ne rendono ancora difficile la pratica diffusa. I progressi fatti in questo senso, la presenza dei primi successi terapeutici, la persistente mancanza di terapie alternative per la maggior parte delle patologie affrontate e la ragionevole speranza di poter affrontare efficacemente con le nuove conoscenze e tecnologie anche malattie grandemente diffuse, come i tumori, le patologie cardiovascolari, quelle neurodegenerative e certe infezioni virali, giustificano la prosecuzione degli sforzi e il mantenimento di un ragionevole ottimismo in merito alla possibilità di mettere a disposizione dell’umanità un insieme di conoscenze e tecnologie di straordinaria potenzialità benefica. Le principali difficoltà che dovranno essere risolte al fine di portare la terapia genica all’obiettivo individuato vent’anni fa sono di seguito brevemente elencate.
La più seria limitazione per gli interventi miranti a ‘curare’ un gene consiste nell’impossibilità di indirizzarlo nel punto preciso del genoma in cui è localizzato il gene che si vuole correggere, qualunque sia il metodo di veicolazione del DNA terapeutico. Vi sono procedure che permettono di selezionare il bassissimo numero di casi in cui l’integrazione avviene in modo ‘legittimo’, per cui si corregge un’alterazione piccola o grande della sequenza, ma l’efficienza è molto bassa. Come indicato, questa limitazione (che non è presente nei sistemi procariotici o dei microrganismi eucariotici) comporta il rischio della mutagenesi inserzionale, ed è stata responsabile dei casi di leucemia insorti in alcuni dei bambini curati dalla SCID legata al cromosoma X. Alla base di questa difficoltà sta la presenza, nelle cellule degli organismi multicellulari, di un apparato molto efficiente per la riparazione delle rotture a doppio filamento il quale non usa i processi di ricombinazione legittima, ossia tra sequenze omologhe. L’attenzione dei ricercatori è rivolta (sia pur ancora con scarso successo) a quei fattori che, eventualmente veicolati prima, parallelamente o insieme al gene terapeutico, inibiscono il processo illegittimo.
Un’altra importante limitazione è data dalla necessità di indirizzare il gene terapeutico selettivamente verso l’organo interessato alla malattia; questo è relativamente agevole negli approcci ex vivo, come per le cellule staminali del sistema ematopoietico o quelle degli epatociti, ma risulta più difficile per gli approcci in vivo. A questo scopo si tenta di costruire vettori virali in cui il rivestimento proteico del virione terapeutico porti proteine che riconoscano i recettori specifici presenti sulla membrana delle cellule di un dato organo. In modo analogo, se si usa direttamente il DNA per la terapia, questo può essere inglobato in particelle (come i liposomi) che contengono sulla superficie molecole (eventualmente anche anticorpi o loro frammenti) in grado di riconoscere quei recettori. Queste tecnologie sono in corso di espansione e di raffinamento, sfruttando, per es., ceppi diversi di AAV con tropismo per differenti organi, in cui l’involucro può anche contenere costrutti di DNA provenienti da un altro ceppo, ma che vengono comunque veicolati nell’organo bersaglio dell’involucro.
Perché l’effetto terapeutico sia adeguato è necessario che una frazione consistente delle cellule dell’organo affetto venga curata, o che comunque una proteina terapeutica sia prodotta in quantità sufficienti allo scopo. Come si è visto, se la cellula ingegnerizzata non ha un vantaggio selettivo nella proliferazione (come invece hanno le cellule curate della SCID legata al cromosoma X e quelle della CGD, ma con i problemi che abbiamo visto in precedenza), si può creare spazio per le nuove cellule mediante ablazione parziale dell’organo, come si è fatto con trattamento farmacologico per il midollo osseo e (ma solo in animali da esperimento) mediante parziale epatectomia per gli epatociti. Il problema appare ancora di ardua risoluzione, soprattutto per i trattamenti in vivo, in quanto non sempre sono sufficienti livelli bassi di produzione della proteina sana, come invece è il caso per la CGD o le emofilie. Esso viene affrontato accrescendo l’affinità dei vettori virali per i recettori specifici, ma una soluzione generalmente soddisfacente non è stata ancora trovata.
Nella maggior parte dei casi non è sufficiente permettere all’organismo di produrre una proteina ‘sana’, occorre anche che questa produzione sia regolata secondo le necessità (come indicato a proposito delle anemie ereditarie). Solo in certi casi si conoscono le sequenze regolatrici, che possono essere introdotte insieme al gene terapeutico, ma i meccanismi regolativi possono essere complessi e impossibili da contenersi in un unico vettore; questa limitazione ovviamente sarebbe risolta se si sapesse indirizzare il gene terapeutico nel sito omologo, come nel caso dell’integrazione ‘legittima’.
Collegata a questa difficoltà (e anch’essa teoricamente risolvibile grazie all’integrazione ‘legittima’) vi è la spiccata tendenza delle cellule a silenziare il gene introdotto in posizioni ectopiche, tramite modifiche epigenetiche, come la metilazione del DNA e l’incorporazione in una struttura di cromatina ‘chiusa’, per cui spesso, dopo qualche tempo, cellule e organismi curati tornano al fenotipo patologico.
Infine, si deve considerare che, se la proteina sana prodotta dall’organismo curato è molto diversa da quella ‘malata’ preesistente, o addirittura del tutto assente in questo, essa viene riconosciuta dal sistema immunitario come estranea, e induce una risposta immunitaria che può neutralizzare del tutto l’effetto terapeutico. Questo problema non appare di agevole risoluzione e, in certi casi, potrà essere necessario considerare l’opportunità di trattamenti immunosoppressivi, o la somministrazione di molecole innocue con buone affinità per gli anticorpi indotti e tali da competere efficacemente con la proteina terapeutica lasciandola libera di svolgere la sua funzione.
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