Terenzio
Poeta comico latino, nato a Cartagine nei primi anni del 2° sec. a.C. (nel 184 secondo le fonti antiche). Publio Terenzio Afro (Publius Terentius Afer) sarebbe giunto a Roma come schiavo del senatore Terenzio Lucano, che lo avrebbe poi affrancato. Qui certamente si legò di amicizia a Scipione Emiliano, a Lelio e ad altri esponenti del circolo degli Scipioni (e in generale della nobilitas), che furono suoi protettori e che le illazioni degli ambienti ostili volevano fossero i veri autori delle sue commedie. Sempre secondo le fonti antiche, sarebbe morto nel 159 a.C. nel corso di un viaggio in Grecia intrapreso per ragioni culturali.
T. è autore di sei commedie giunteci integralmente, tutte ispirate a modelli della ‘commedia nuova’ attica (soprattutto Menandro): secondo l’ordine di rappresentazione tramandato dai grammatici antichi (dal 166 al 160 a.C.), Andria («La fanciulla di Andro»), Hecyra («La suocera»), Heautontimorumenos («Il punitore di sé stesso»), Eunuchus («L’eunuco»), Phormio («Formione»), Adelphoe («I fratelli»).
Delle due commedie più importanti – come si vedrà – per la formazione letteraria di M. (derivate entrambe da modelli menandrei), si fornisce di seguito una breve sintesi della trama. L’Andria è la storia di Glicerio, fanciulla di Andro abbandonata da bambina e allevata da una cortigiana, di cui si innamora Panfilo, che è però già fidanzato con Filumena, figlia di Cremete: dopo molte vicissitudini, si scopre infine che anche Glicerio è figlia di Cremete e può dunque sposare Panfilo al posto di Filumena. Nell’Eunuchus si racconta del duplice innamoramento dell’etera Taide, concubina del soldato Trasone, per Fedria e del fratello di quest’ultimo, Cherea, per Panfila, che era cresciuta insieme a Taide, ma era poi stata venduta come schiava ed è da poco tornata con lei: Cherea si traveste da eunuco per farsi dare in custodia Panfila, viene smascherato, ma può infine sposare la fanciulla amata dopo la scoperta che quest’ultima è in realtà cittadina ateniese.
L’ampia fortuna di T. in età umanistica e rinascimentale è testimoniata dalle molte decine di edizioni pubblicate già negli ultimi decenni del Quattrocento, così come dalle numerose rappresentazioni di commedie terenziane a Roma, Firenze, Ferrara, Mantova in occasione di feste, matrimoni, recite scolastiche o altre circostanze (celebre è in particolare quella fiorentina per il carnevale del 1476, la prima documentabile). M. non nomina mai T. nelle opere maggiori, sebbene sporadiche citazioni terenziane siano presenti nelle lettere: si vedano in particolare M. a Francesco Vettori, 10 dicembre 1513 (Lettere, pp. 294-97): «appresso al desiderio arei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso» (p. 297), da confrontare con Eunuchus 1085: satis diu hoc iam saxum volvo vel vorso (ma cfr. anche Lucrezio III 995-1002: Raimondi 1972, 1998, pp. 37-43); e M. a Francesco Vettori, 4 febbraio 1514 (Lettere, pp. 308-11): «Qui mi sarebbe lecito esclamare come quel terenziano: “O coelum, o terram, o maria Neptuni”» (p. 310), tratto da Adelphoe 790 (con terra per terram). L’importanza di T. nella formazione letteraria di M. (per la quale si vedano in generale, tra gli altri, L. Russo, Machiavelli, 1945, 1957, pp. 132-39; e, più di recente, U. Dotti, Machiavelli rivoluzionario. Vita e opere, 2003, pp. 331-32) è testimoniata tuttavia, da una parte, dalla trascrizione dell’Eunuchus (risalente forse agli anni Novanta del Quattrocento) presente nel codice Rossiano della Biblioteca Apostolica Vaticana al seguito di una copia del De rerum natura di Lucrezio (→): la cosa
non fa che confermare come il Machiavelli, che – per quanto se ne sa – nella biblioteca paterna non dovette trovare che letture prevalentemente storico-giuridicomorali, certi testi, per averli presso di sé, dovette copiarseli per conto suo. A meno che non si preferisca formulare l’ipotesi che la copiatura – diligente e senza correzioni – sia da collegarsi all’alunnato presso Marcello Virgilio di Adriano Berti, il quale poté dare al discepolo l’istruttivo “pensum” di eseguire la copia dei due classici latini (Bertelli, Gaeta 1961, p. 554).
Dall’altra parte, soprattutto, dalla versione dell’Andria (→), una prima stesura della quale (BNCF, Banco rari, 29), datata tradizionalmente al 1517-18 – sebbene sia stata recentemente proposta una retrodatazione agli anni giovanili (Stoppelli, in Il teatro di Machiavelli, 2005; ma il commento di Guido Juvenalis, certamente tenuto presente da M. [cfr. infra], fu pubblicato in Italia non prima del 1494: Fumagalli, in Il teatro di Machiavelli, 2005, p. 126) –, è seguita da una seconda (Firenze, Biblioteca nazionale centrale, Banco rari, 240), copia corretta e ampiamente modificata della prima, datata al 1520 (Martelli 1968, p. 203) – sebbene venga ora proposta una datazione di cinque/sette anni più tarda (Stoppelli, in Il teatro di Machiavelli, 2005, p. 164) –, e che godette peraltro di una certa fortuna nei decenni immediatamente successivi, come sembrano dimostrare alcune traduzioni posteriori della stessa commedia terenziana (Richardson 1973, pp. 333-38). Il giudizio della critica sulla traduzione machiavelliana – ritenuta in passato un’esercitazione stilistica, mentre oggi si pensa piuttosto a una forma di committenza o comunque a una messa in scena, in vista della quale sarebbe stata approntata la prima stesura (Martelli 1968, pp. 203-06) – ne ha messo in luce, tra i pregi, la resa vivace del latino nel registro del fiorentino parlato (che, come è stato osservato, anticipa la parlata di Nicia nella Mandragola): Quid hic volt? (184) reso con «Che vuole questo zugo?» (I ii), Inrides? (204) con «Tu mi uccelli?» (I ii), Ridiculum caput! (371) con «Uccellaccio!» (II ii); alcune espressioni particolarmente felici: crucior miser (851) reso con «Io sono in su la fune» (V ii); l’efficace ampliamento o aggiustamento di alcune scene. Tra i difetti, le sviste, l’occasionale inversione di una battuta con la sua replica, l’abbreviamento di alcune scene, la mancata aderenza allo stile terenziano:
Come si rifiuta di stravolgere il testo, di fargli intelligente violenza, così Niccolò non è disposto ad assecondare Terenzio nelle sue tipiche componenti espressive: quel gusto, così puntiglioso, del dettaglio, la malizia del sottinteso, l’eleganza delle ellissi verbali, il divertimento, tutto di testa, di certe ambiguità lessicali. Sostanzialmente indifferente alla raffinata attrezzeria retorica del suo autore, Machiavelli finisce per consegnarci una versione meno sottile e sfumata dell’originale (G. Davico Bonino, introduzione a N. Machiavelli, Teatro. Andria, Mandragola, Clizia, a cura di G. Davico Bonino, 1979, p. X).
E si veda, più di recente, anche il giudizio espresso da Francesco Bausi nel suo Machiavelli (2005):
Machiavelli non è un traduttore fedele né particolarmente accurato, e potremmo dire che la versione dell’Andria conferma i limiti della preparazione classica e della conoscenza della lingua latina che emergono a chiare lettere in tutta la produzione del Segretario. [...] sviste, imprecisioni ed errori di vario genere abbondano; ed è estremamente indicativo del modo di lavorare di Machiavelli, e al tempo stesso della sua modesta cultura umanistica, il fatto che la versione risulti mettere a frutto in più luoghi un recente commento latino all’Andria (p. 273).
Un giudizio più sfumato quello di Carlo Varotti (in Il teatro di Machiavelli, 2005, pp. 202-08), per il quale la traduzione, «pur compiuta probabilmente frettolosamente, segnala l’attitudine verso un’acquisizione non passiva del testo latino» (p. 207), con riferimento ai molti passi della traduzione nei quali Edoardo Fumagalli ha mostrato che la versione di M. non segue tanto il testo di T. – peraltro gravemente corrotto nell’esemplare a sua disposizione (Richardson 1973, pp. 319-23) – quanto le annotazioni presenti nel commento di Guido Juvenalis alias Guy Jouenneaux (Fumagalli 1997), che «risultava prezioso con il suo ripresentare, in sostanza, tutto ciò che si trovava in Donato, aggiungendovi l’aiuto utilissimo, e da Machiavelli molto apprezzato, di una continua parafrasi di testi a volte difficili» (Fumagalli, in Il teatro di Machiavelli, 2005, p. 129): per es., «Io non mi pento di quello che io ho fatto» [I i] sembra derivare più dal commento («non me poenitet id fecisse») che direttamente dal testo di T. (haud muto factum [40]); «Allora non riprehendesti tu il tuo figliuolo?» (I i) più da «Non tu ibi, idest tunc, non obiurgasti supple, gnatum» che da non tu ibi gnatum (116); «scusa» (I v) più da «excusationem» che da causam (257); «Io so dove io voglio ire» (II ii) più da «quasi elegerit quo pergat» che da abeo (344; habeo nelle edizioni moderne); «ti rimuterai» (II iii) più da «mutabis» che da minueris (392); «non ho più ardire d’aprire la bocca» (III ii) più da «non audeo os aperire» che da nihil hercle mutire iam audeo (505; muttire nelle edizioni moderne); «la maggiore parte de’ servi» (III iv) più da «vulgus, idest maior pars» che da volgus servorum (583); «rinnuova» (IV ii) più da «renovatur» che da integrascit (688); «Di’ tu il vero?» (V vi) più da «dicis verum» che da narras probe (970); e così via, per un totale di 45 «casi indubitabili di dipendenza» (Fumagalli 1997, p. 207) esaminati ed esposti nel dettaglio da Fumagalli (pp. 207-21), che successivamente ha rilevato inoltre come il frequente impiego da parte di Juvenalis di modi di dire volgari, benché trasposti in latino,
deve avere interessato Machiavelli: certamente, da un lato, l’ha spinto a rendere espressioni terenziane con modi di dire moderni [...]; ma dall’altro ha proba bilmente favorito l’adattamento dei modelli antichi all’ambientazione moderna, che trionfa già nella Mandragola per manifestarsi con caratteri diversi, ma forse anche più interessanti, in un esuberante rifacimento plautino qual è la Clizia (Fumagalli, in Il teatro di Machiavelli, 2005, pp. 131-32).
Quanto alle differenze tra le due stesure, è stato osservato che «l’interesse del Machiavelli in A2 [cioè nella seconda versione] sta nel miglioramento stilistico del testo italiano» (Richardson 1973, p. 324) e non nella ricerca di una maggiore fedeltà al testo latino.
È naturalmente di grande rilievo l’influenza esercitata dai modelli terenziani – così come da quelli plautini – sulla produzione teatrale originale di M., e sulla Mandragola in particolare: a cominciare, come nota Martelli (1968),
dall’impiego di un personaggio sostanzialmente protatico come Palamede, che a lui serve esclusivamente per fare esporre l’argomento della commedia senza dover ricorrere ad un lunghissimo monologo; per arrivare all’artificio tecnico di far rivolgere un personaggio ad un altro che resta dietro le quinte e non compare in scena, come appunto fa messer Nicia (all’inizio dell’atto secondo, scena quinta) rivolgendosi verso Lucrezia, e come accade, ad esempio, nell’Hecyra 623-26; o un po’ a tutto il tessuto connettivo della commedia, a quel continuo ricorrere di battute come Io son morto (lat.: perii, interii, occidi ecc.) o Che sto io che io non lo chiamo? (cfr., ad es., Phor., 285: «Sed cesso adire quam primum senem?», o Heautont., 757: «Cesso hunc adoriri?»); o, infine, al taglio di certi personaggi, come quello di Sostrata, che ripete il ruolo assegnato alle madri in molte commedie classiche (pp. 211-12).
Tipica del teatro latino classico è anche, per es., la scena di colui che ascolta senza essere visto, come frate Timoteo nella Mandragola (V iii):
Io ho udito questo ragionamento, e m’è piaciuto tutto, considerando quanta sciocchezza sia in questo dottore [...]. Ma chi esce di quella casa? E’ mi pare Ligurio, e con lui debbe esser Callimaco. Io non voglio che mi vegghino.
E molte sono, nella Mandragola, le reminiscenze precise dell’Andria e delle altre commedie terenziane (Martelli 1968, p. 211; Raimondi 1972, 19982, pp. 45-49); se ne segnalano soltanto alcune a titolo di esempio: «La favola Mandragola si chiama» (Prologo; cfr. Hecyra 1: Hecyra est huic nomen fabulae); «Conoscine uno, e conoscigli tutti!» (IV iv; cfr. Phormio 265: unum quom noris, omnis noris); ulteriori riscontri sono forniti dal confronto della versione dell’Andria (I v: «io ti do a costei marito, amico, tutore, padre») ancora con la Mandragola (V iv: «Però io ti prendo per signore, padrone, guida; tu mio padre, tu mio defensore, e tu voglio che sia ogni mio bene»; G. Sasso, Considerazioni sulla Mandragola, introduzione a N. Machiavelli, La Mandragola, introduzione e note di G. Sasso, nota al testo e appendici di G. Inglese, 1980, pp. 45-49): in sintesi, dunque,
basta osservare in controluce la Mandragola per scoprire che l’apprendistato di Machiavelli drammaturgo sia avvenuto traducendo l’Andria di Terenzio. Sull’Andria Machiavelli ha imparato le regole stesse della commedia (Stoppelli, in Il teatro di Machiavelli, 2005, p. 147).
Recentemente è stata messa in luce altresì l’influenza che può aver esercitato nella composizione della Mandragola la lettura dei commenti alle commedie di T.: esaminando in particolare la prima scena della commedia machiavelliana, modellata sulla prima scena dell’Andria, Fumagalli ha sostenuto (in Il teatro di Machiavelli, 2005) che
la vivacità della scena, lo sforzo di rendere comprensibile l’antefatto senza ottundere gli spettatori con una narrazione piatta e noiosa, sembra essere stata favorita dalle annotazioni ch’egli trovava, dovute a Donato e a Guido Juvenalis, nei margini del suo esemplare (p. 134).
Il riferimento è alla seguente chiosa donatiana (ampliata nel commento del benedettino francese):
Haec scaena pro argumenti narratione proponitur, in qua fundamenta fabulae iaciuntur, ut virtute poetae, sine officio prologi vel θεῶν ἀπὸ μηχανῆς, et periocham comoediae populus teneat et agi res magis quam narrari videantur. Questa scena è presentata al posto dell’esposizione dell’argomento e vi sono gettate le fondamenta del racconto, in modo che grazie all’abilità del poeta, senza necessità di un prologo o di un deus ex machina, il popolo abbia un riassunto della commedia e sembri che le vicende siano rappresentate piuttosto che narrate.
Rilievi analoghi sono riservati anche alle scene nona del quarto atto e quarta del quinto, influenzate dall’Eunuchus (Fumagalli, in Il teatro di Machiavelli, 2005, pp. 140-46); ed è stato anche osservato come il nome di Ligurio derivi dalla chiosa di Juvenalis a Eunuchus 936 (Stoppelli 2003, p. 435). Vale forse la pena di citare infine la traduzione degli Adelphoe redatta da Guido Machiavelli (→), figlio di Niccolò.
Bibliografia: S. Bertelli, F. Gaeta, Noterelle machiavelliane. Un codice di Lucrezio e di Terenzio, «Rivista storica italiana», 1961, 73, pp. 544-55; M. Martelli, La versione machiavelliana dell’Andria, «Rinascimento», II s., 1968, 8, pp. 203-74; G. Ferroni, “Mutazione” e “riscontro” nel teatro di Machiavelli, in Id., “Mutazione” e “riscontro” nel teatro di Machiavelli e altri saggi sulla commedia del Cinquecento, Roma 1972, pp. 17-137; E. Raimondi, Politica e commedia, Bologna 1972, 19982, pp. 37-43; B. Richardson, Evoluzione stilistica e fortuna della traduzione machiavelliana dell’Andria, «Lettere italiane», 1973, 25, pp. 319-38; A. Sorella, Magia, lingua e commedia nel Machiavelli, Firenze 1990; E. Fumagalli, Machiavelli traduttore di Terenzio, «Interpres», 1997, 16, pp. 204-39; P. Stoppelli, I nomi nella Mandragola (tra commedia e storia), «Rivista italiana di onomastica», 2003, 9, pp. 429-45; Il teatro di Machiavelli, Atti del Convegno, Gargnano del Garda 30 sett.-2 ott. 2004, a cura di G. Barbarisi, A.M. Cabrini, Milano 2005 (in partic. E. Fumagalli, Machiavelli e l’esegesi terenziana, pp. 125-46; P. Stoppelli, La datazione dell’Andria, pp. 147-99; C. Varotti, Il teatro di Machiavelli e le parole degli antichi, pp. 201-19).