OLIVELLI, Teresio
OLIVELLI, Teresio. – Nacque a Bellagio (Como) il 7 gennaio 1916, secondogenito di Domenico (1883-1954) e di Clelia Invernizzi (1886-1981).
Grande influenza su di lui ebbe il fratello della madre, don Rocco Invernizzi, parroco a Tremezzo, suo punto di riferimento culturale e spirituale di tutta una vita.
Le difficoltà economiche costrinsero gli Olivelli a frequenti spostamenti in territorio lombardo: nel 1921 a Carugo, nel 1923 a Zeme, nel 1926 infine a Mortara. Qui Teresio dal 1927 entrò nell’Azione Cattolica (AC) della parrocchia di S. Lorenzo, retta da don Luigi Dughera, in cui rimase fino al 1938; la conduzione del doposcuola per gli studenti meno abbienti lo portò nel 1932 ad assumere il ruolo di delegato studenti, incarico che ricoprì fino al 1936, contemporaneamente all’impegno nella conferenza di S. Vincenzo de’ Paoli, alla quale si iscrisse nel novembre 1933.
A partire dal 1931 frequentò col fratello Carlettore (1912-1984) il liceo classico di Vigevano. Nel 1934 si presentò all’esame finale con indosso il distintivo di AC, in anni caratterizzati dal contrasto tra l’associazione e il regime. Terminato il liceo, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pavia, che frequentò dal 1934 al 1938, ottenendo a partire dal gennaio 1935 un posto gratuito presso il collegio universitario Ghislieri. Punto di riferimento per i colleghi ghisleriani, rimase nel collegio fino alla laurea, conseguita il 23 novembre 1938. Grazie alla protezione del rettore Pietro Ciapessoni, ottenne una borsa di un altro anno per iniziare la collaborazione con l’Università di Torino, dove seguì il suo relatore, Piero Bodda, come assistente alla cattedra di diritto amministrativo.
Durante gli anni universitari, a partire dal 1934, affiancò all’impegno nell’AC mortarese l’inserimento nella Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI) e nelle attività sportive del Gruppo universitario fascista (GUF). La sua adesione al fascismo fu «di natura più psicologica che ideologica» (Caracciolo, 1947, p. 35): era infatti convinto, in linea col magistero di Pio XI e con l’operato di Agostino Gemelli, che il fascismo potesse essere ‘cristianizzato’, rettificandone gli errori dall’interno. Proprio su questo punto maturò la sua criticità nei confronti della FUCI di Pavia, fedele alla linea impostata dall’ex assistente nazionale Giovanni Battista Montini che aveva invitato i fucini a non compromettersi, concentrandosi soprattutto sulla formazione personale, scelta che per Olivelli suonava come intimismo culturale e soprattutto disimpegno dal sociale.
Coerentemente a tali convinzioni partecipò per due volte ai prelittoriali della cultura, arrivando a vincere quelli nazionali di Trieste del 1939 incentrati sul tema razziale. Vi presentò un concetto di razza controcorrente, che mescolava all’elemento biologico quello culturale e di identità nazionale, e in tale occasione fu notato dal presidente dell’Istituto nazionale di cultura fascista (INCF) Camillo Pellizzi, che lo volle con sé a Roma. Lavorò quindi alla presidenza centrale dell’Istituto dal maggio 1940 fino al 20 febbraio 1941, quando, rifiutando l’esonero, si arruolò militare.Già carezzata l’idea di offrirsi volontario in occasione della guerra di Spagna (allora dissuaso dallo zio e da Ciapessoni), fu risoluto nel voler partecipare al conflitto mondiale, nella convinzione che all’Italia spettasse contenere la prepotenza nazista. Nel marzo 1942 fece spontaneamente domanda per il fronte russo, per solidarietà con i soldati lì destinati. Cominciata la rovinosa ritirata del gennaio 1943, sopravvisse nella sua batteria con pochi altri e si prese cura dei feriti, attardandosi con gravi rischi. Quando rimpatriò il 6 aprile dello stesso anno, il suo distacco dal fascismo, iniziato già con le leggi razziali, era ormai consumato.
Risultato vincitore del concorso per il rettorato del Ghislieri mentre era in Russia, ottenne tre mesi di licenza per insediarsi, a 27 anni. L’8 settembre, rifiutatosi di giurare fedeltà alla Repubblica di Salò, fu deportato in Austria. Riuscì a fuggire alla fine di ottobre percorrendo a piedi il tragitto fino al confine italiano. Stabilitosi clandestinamente a Milano, svolse funzioni di coordinamento e collegamento tra il Comitato di liberazione nazionale locale e le Fiamme verdi di Brescia e Cremona. L’impegno maggiore lo profuse nel compito formativo e di propaganda degli ideali resistenziali cattolici, attraverso conferenze clandestine. In continuità con questo obiettivo realizzò insieme al fucino Carlo Bianchi e al ghisleriano Claudio Sartori la rivista Il Ribelle, comparsa il 5 marzo 1944, alla quale poté collaborare solo per i primi due numeri, redigendo il programma-manifesto e la Preghiera del ribelle per amore, uno dei testi più belli della letteratura partigiana.
Fu arrestato insieme a Bianchi il 27 aprile 1944 in seguito al tradimento di un compagno, finì in isolamento a S. Vittore e fu torturato. L’intervento dell’arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster lo salvò con gli altri dall’immediata fucilazione e il 9 giugno fu trasferito al campo di concentramento di Fossoli (Modena). Prescelto insieme a Bianchi tra i 70 che la mattina del 12 luglio sarebbero stati massacrati per rappresaglia, riuscì a sfuggire, rimanendo nascosto per un mese all’interno del campo. I tedeschi lo scoprirono alla vigilia dello sgombero del campo e lo trasferirono a Bolzano-Gries e poi all’inizio di settembre al campo di lavoro di Flossenburg. Lì, nonostante le severe punizioni, animò una pratica di preghiera quotidiana tra i compagni e, offrendosi come interprete, tentò di difenderli dalle punizioni, distribuendo la scarsa razione di cibo supplementare che riceveva in cambio del suo servizio. In settembre, pur essendo già stato destinato al servizio burocratico, decise volontariamente di seguire gli italiani, Odoardo Focherini tra gli altri, avviati al campo di eliminazione di Hersbruck, dove nuovamente si offrì come interprete nel tentativo di alleviare le condizioni dei compagni; tuttavia, in quel contesto ancora più atroce, ogni gesto altruistico gli costò percosse quotidiane, mentre continuava a distribuire la propria razione di cibo ai più malati.
Il 31 dicembre 1944, già gravemente deperito, frappose il proprio corpo tra un ‘kapò’ e un compagno, ricevendo un violento calcio tra lo stomaco e l’intestino.
Morì dopo una lunga agonia il 17 gennaio 1945, il suo corpo fu cremato.
Medaglia d’oro al valor militare nel 1945, la diocesi di Vigevano ha aperto il 29 marzo 1987 l’inchiesta diocesana ai fini della canonizzazione, conclusasi il 16 settembre 1989. Nel febbraio 2013 la Conferenza episcopale lombarda ha avviato l’iter di beatificazione.
Fonti e Bibl.: A. Caracciolo, O., Brescia 1947; L. Dughera, T. O., Milano 1950; P. Rizzi, L’amore che tutto vince. Vita ed eroismo cristiano di T. O., Città del Vaticano 2004, basato sui materiali dell’archivio della causa di canonizzazione, comprensivo di testimonianze, epistolario e fonti dagli archivi italiani e tedeschi.