Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La debolezza del potere esecutivo che caratterizza sia la fase di Termidoro che il Direttorio non consente di raggiungere la stabilità delle istituzioni, esponendo la rivoluzione a continue oscillazioni tra la reazione monarchica e la ripresa del giacobinismo. Trascinata dalle vittorie italiane, non tarda così a imporsi quella soluzione militare della rivoluzione che trova in Bonaparte il suo singolare e controverso interprete.
Termidoro
La caduta di Robespierre (28 luglio 1794) segna la fine dell’emergenza rivoluzionaria. Inoltre, il ridimensionamento dei poteri in cui si era concentrato il governo del Terrore – riguardante il Comitato di salute pubblica e quello di sicurezza generale – conferma come tra i protagonisti della rivoluzione non sia più avvertita la necessità di una direzione politica centralizzata e personalizzata. Questo è ancor più vero nell’ambito della vita economica, dove cresce l’insofferenza per il dirigismo statale delle attività produttive imposto dalle esigenze della guerra e delle rivolte interne. Per la gran parte dei termidoriani, però, mettere fine al Terrore non significa rinnegare la rivoluzione, ma rafforzare in un quadro di normalità le conquiste ottenute. Tuttavia questa complessa operazione richiederebbe un’Assemblea e un esecutivo determinati almeno quanto il precedente governo rivoluzionario. Infatti molti fattori di instabilità – la guerra, le rivolte, il carovita e il conflitto religioso – seppur attenuati, non possono dirsi scomparsi e a essi si aggiungono desideri di rivincita da parte di quanti nella crisi di Termidoro immaginano di poter cogliere l’occasione per liquidare la rivoluzione.
I primi attacchi partono dai partigiani della monarchia, dagli appaltatori ostili alla regolamentazione statale dell’economia e dai mercanti colpiti dalla legge sul maximum . In una Parigi che sembra ritrovare di colpo gusti e mode del passato, la “gioventù dorata” non lascia trascorrere giorno senza manifestare violentemente contro i giacobini, mentre soprattutto nelle province del Mezzogiorno bande armate danno vita ai primi episodi di Terrore bianco: persecuzioni e uccisioni di antichi rivoluzionari. La Convenzione oscilla, divisa tra chi crede che la rivoluzione è fatta ed è opera di tutti, e chi non esclude un ritorno alla monarchia temperata dai princípi costituzionali del 1789. Alle prime misure che ridimensionano la municipalità di Parigi, reintegrano i girondini e aboliscono la Costituzione civile del clero, ripristinando la libertà di culto, altre se ne accompagnano, come la traslazione delle spoglie di Jean-Jacques Rousseau e di Jean-Paul Marat al Pantheon, che, almeno sul piano simbolico, confermano i vincoli con la tradizione rivoluzionaria.
Germinale e Vendemmiaio
L’abolizione delle leggi economiche eccezionali emanate sotto il Terrore (legge del Maximum) e il ripristino della libertà di commercio con l’estero (dicembre 1794) fissano il punto di rottura con la politica sociale del governo giacobino. Nello stesso tempo la messa in stato d’accusa di alcuni protagonisti di Termidoro lascia intuire come la reazione al terrorismo giacobino si stia trasformando in una ridiscussione dell’intero processo rivoluzionario. Il crollo dell’assegnato in seguito all’abolizione del maximum causa conseguenze gravissime soprattutto nella capitale, dove si fanno irregolari i rifornimenti alimentari e i prezzi raddoppiano tra gennaio e aprile del 1795. Così, il 12 Germinale (1° aprile) e il 1° Pratile (20 maggio) la popolazione di Parigi si solleva al grido di “pane e la Costituzione del 1793”, unendo alle richieste economiche l’istanza politica della Costituzione democratica mai attuata. Alla repressione militare della rivolta, facilitata dalla scarsa organizzazione e dall’assenza di autentici leader popolari, segue quindi una nuova Costituzione capace di interpretare le esigenze proprie del moderatismo rivoluzionario.
Approvata dalla Convenzione nazionale alla vigilia del suo scioglimento (22 agosto 1795), la nuova Costituzione dell’anno III si fonda sulla sola rappresentanza politica di quel “Paese governato dai proprietari” che nelle parole di Boissy d’Anglas – uno dei redattori della Carta – “è nell’ordine sociale”, mentre “quello in cui governano i non proprietari è nello stato di natura”. L’Assemblea unica, che ricorda le fasi più drammatiche della rivoluzione, è sostituita da un Consiglio dei Cinquecento e da un Consiglio degli Anziani scelti con un complesso sistema di elezioni multiple. Il governo, affidato a un Direttorio di cinque membri nominati dai Consigli e rinnovati per un quinto ogni anno, è posto in condizione subordinata rispetto alle assemblee. Ricordando così il recente passato si vuole evitare ogni rischio di dittatura, ma si indebolisce oltremodo l’esecutivo in una fase in cui si richiederebbe grande energia politica. La repressione del giacobinismo produce, infatti, con una oscillazione tipica in questi anni, un’intensificarsi della reazione monarchica. Mentre il Terrore bianco dilaga nelle province, i realisti che dopo la morte del figlio di Luigi XVI (8 giugno 1795) sono ora al seguito dell’ultrareazionario Luigi XVIII, preparano un colpo di mano decisivo nella capitale. L’occasione è data dal cosiddetto “decreto dei due terzi” con il quale la Convenzione, nel timore di una maggioranza monarchica, stabilisce che i due terzi del nuovo Consiglio siano obbligatoriamente occupati da membri della Convenzione. Scoppiata il 13 Vendemmiaio (5 ottobre 1795) con un tentativo di assalto alla Convenzione, l’insurrezione realista viene repressa dalle truppe fedeli all’Assemblea, al cui comando ha modo di distinguersi un giovane generale corso: Napoleone Bonaparte.
Il Direttorio
Il regime di Direttorio, nel quale si impone la figura di Paul Barras, conserva ed esalta le debolezze ereditate da Termidoro.
Rilassamento morale e affarismo economico, infatti, coinvolgono a pieno la nuova classe dirigente, facendo di questo periodo un’epoca di diffusa corruzione. Il declino del processo rivoluzionario, tra crisi economica, instabilità politica e corruzione, è contrastato da una ripresa di protesta sociale che si esprime nelle pagine del “Tribun du peuple”, giornale diretto da Gracchus Babeuf. Con il Manifesto degli Eguali, che Babeuf redige nel marzo del 1796 in vista di un’imminente insurrezione popolare, siamo di fronte alla più esplicita interpretazione della rivoluzione in chiave sociale, “una guerra dichiarata tra patrizi e plebei, tra poveri e ricchi” che deve trovare il suo sbocco nella collettivizzazione della proprietà privata. La congiura, detta appunto “degli Eguali”, è soffocata ancor prima di nascere e Babeuf è condannato a morte il 26 maggio 1797; mentre l’esercito e i suoi generali vittoriosi – Jourdan, Moreau, Pichegru – cominciano ad apparire quel potere forte in grado di evitare sbandamenti nel consolidamento del processo rivoluzionario, di cui sembra fare difetto la classe politica. In questo senso gioca un ruolo rilevante Lazare Carnot, membro del Direttorio e capace organizzatore delle armate rivoluzionarie, che nei primi mesi del 1796 sollecita una ripresa dell’azione militare contro le due potenze ancora nemiche: l’Austria e la Gran Bretagna. Il piano di Carnot punta sul fronte renano, dove vanno assicurate alla Francia le “frontiere naturali”, ma inaspettatamente è il giovane Bonaparte, comandante dell’armata d’Italia, a riportare i più folgoranti successi. In pochi mesi (marzo-giugno del 1796) occupa Piemonte e Lombardia, controlla di fatto l’Italia centrale e costringe gli Austriaci sulla difensiva. I preliminari di Leoben e poi il trattato di Campoformio (17 ottobre 1797) rappresentano il frutto di queste vittorie che garantiscono alla Francia il Belgio e la Lombardia, dove nasce la Repubblica cisalpina; le vittorie inoltre sono assai utili ad alleviare la crisi economica e finanziaria in cui si trova la Francia anche dopo la fine del sistema degli assegnati.
Ma in questa fase è soprattutto sul piano politico che Bonaparte rappresenta un elemento di forza per il Direttorio. Nel marzo del 1797 i monarchici ottengono un chiaro successo elettorale e, contando sull’appoggio dei direttori Carnot e Barthélemy, approvano misure che sono un palese segno di ritorno al passato, revocando le norme sulla ineleggibilità degli emigrati e sulla deportazione dei preti refrattari. È Barras a organizzare il colpo di Stato di Fruttidoro (4 settembre 1797), che blocca la ripresa realista, dichiarando decaduti i deputati monarchici e mettendo sotto accusa i due direttori. Ma è Bonaparte che, mandando il suo fedele generale Augerau ad appoggiare militarmente il progetto di Barras, ne garantisce il successo. Con Fruttidoro, insomma, la repubblica nata dalla rivoluzione si salva dalla reazione monarchica, ma a prezzo di un nuovo e lacerante strappo della legalità e della pericolosa compromissione con un ambizioso ed energico generale.
Da Fruttidoro a Brumaio
L’entusiasmo con il quale Parigi accoglie Bonaparte di ritorno dall’Italia rende visibile l’implicita diarchia di poteri che grava sul Direttorio e l’avvicinarsi di quel governo militare che i protagonisti della rivoluzione, ricordando il precedente inglese di Oliver Cromwell, avevano sempre temuto. Il colpo di Stato di Fruttidoro, d’altronde, non restituisce energia al Direttorio, né il recupero di alcuni motivi della tradizione repubblicana come la lotta anticlericale o il miglioramento della situazione economica, favorendo invece la popolarità di un regime che la maggioranza dell’opinione pubblica avverte sempre più diffusamente come incapace e corrotto.
La spedizione d’Egitto, voluta dal Direttorio per piegare la resistenza dell’Inghilterra con un’iniziativa volta al controllo delle vie coloniali, è forse vista come l’occasione per allontanare da Parigi il pericoloso Bonaparte, che invece coglie questo progetto come un’opportunità per accrescere il proprio prestigio. All’impresa egiziana, “destinata a illuminare il mondo e a procurare un tesoro alle scienze”, partecipano anche scienziati illustri, tra cui l’archeologo Jean-François Champollion al quale si devono ritrovamenti importantissimi per la conoscenza della civiltà egizia, come la Stele di Rosetta. Le vicende militari, inizialmente favorevoli, sono tuttavia condizionate dalla distruzione della flotta nella battaglia di Abukir (1798) a opera dell’ammiraglio inglese Horatio Nelson, che lascia Bonaparte prigioniero della sua stessa conquista. Il difficile controllo della popolazione musulmana, continuamente in rivolta, il mancato successo della spedizione di Siria e le violente epidemie aggravano la situazione e inducono Bonaparte – allarmato dalle notizie che giungono dalla Francia – ad abbandonare l’impresa, sfuggendo al controllo inglese, per rientrare rapidamente in patria. Infatti, la disastrosa condotta della guerra, all’indomani della nascita di una seconda coalizione antifrancese, ha compromesso i risultati ottenuti nei primi mesi del 1798 con la nascita di “repubbliche sorelle” in Svizzera e in Italia. Alla metà del 1799 la Francia perde tutta l’Italia – anche in virtù dell’apporto dato dalla Russia alla coalizione – e, attraverso la Svizzera, il territorio francese torna a essere minacciato. La crisi del Direttorio, a cui ora si imputa di non aver saputo mantenere quanto Napoleone aveva conquistato, si accelera proprio con il ritorno di Bonaparte, circondato dai leggendari racconti dell’impresa egiziana. Con l’appoggio di truppe fedeli e la complicità di una parte della classe politica – tra i primi Sieyès, diventato qualche mese prima membro del Direttorio – il 18 Brumaio (9 novembre) 1799 Bonaparte scioglie con la forza il Consiglio dei Cinquecento e dichiara decaduta la Costituzione dell’anno III: “il nodo della rivoluzione – scriverà poi lo storico Edgar Quinet – è troncato dalla spada”. È dunque in Bonaparte e nell’esercito, che egli ha esaltato, che adesso si scorge il potere forte capace di “finire la rivoluzione”, o, meglio, di stabilizzarla in quel quadro di libertà formali, eguaglianza giuridica e diritti di proprietà e d’impresa economica da cui in fondo essa era partita.