terminare [pass. rem. III plur., in rima, terminonno]
Usato come verbo transitivo, ha il valore di " delimitare ", " segnare il confine ", " limitare ", e, per traslato, " definire "; insieme vale " portare a compimento ", " concludere ". Usato come verbo intransitivo (spesso con avverbio o complemento di luogo o di modo), vale " finire ", " giungere a termine ", " aver termine ".
1. Nel senso di " delimitare ", il termine occorre (al participio passato) tre volte in Cv III IX 8, dove si afferma che la forma visibile di un oggetto ‛ discorre ' per lo mezzo, cioè attraverso l'aria, giungendo così alla pupilla e attuandosi nella visione; perché ciò sia possibile, il mezzo dev'essere trasparente, tale cioè da permettere il discorso della forma visibile; l'aria è mezzo trasparente, e in essa la forma non si concretizza in una immagine; nell'occhio, invece, l'acqua del cristallino è ‛ delimitata ' e consente la ‛ riflessione ', e la percezione, dell'immagine: ne l'acqua ch'è ne la pupilla de l'occhio, questo discorso, che fa la forma visibile per lo mezzo, sì si compie, perché quell'acqua è terminata - quasi come specchio, che è vetro terminato con piombo - sì che passar più non può, ma quivi, a modo d'una palla, percossa si ferma; sì che la forma, che nel mezzo transparente non pare, [ne l'acqua] pare lucida e terminata. Come un vetro delimitato e circoscritto su di un lato dal piombo, rimanda l'immagine che non può passare oltre (il vetro non è più trasparente), così nell'acqua della pupilla, circoscritta dalla cornea, l'immagine non ‛ trascorre ', si ferma e, riflessa, è percepita.
Con lo stesso valore, ma usato in assoluto, in IV 2 la mia mente... come corpo diafano riceve quello, non terminando. T. in queste e altre occorrenze è termine tecnico del linguaggio dell'ottica; per l'uso, cfr. Alb. Magno De Anima II III 7 (ediz. C. Stroick, Münster W. 1968, 109b): " duplex est perspicuum; quoddam enim est perspicuum totum, quod non terminat, sed per se transducit visum sicut aër et ignis et aqua et vitrum et crystallus et quaedam alia similia; quoddam autem est perspicuum terminatum, et hoc non in toto, sed in sua superficie est perspicuum, et ideo terminat et non transducit visum. Et secundum quod corpus est perspicuum, ita recipit luminis habitum; quod enim in toto est perspicuum, recipit lumen in superficie et in profundo; quod autem non in toto, sed in superficie tantum est perspicuum, non recipit lumen nisi in superficie, et ibi lumen permixtum opacitati corporis causat colorem ", e Liber de sensu et sensato II 1 (in Opera, IX, ediz. A. Borgnet, Parigi 1891, 40a): " Est... color in extremitate corporis non pervii, quod vocatur determinatum, quia terminat in sui superficie lumen et visum, et non recipit ea in sui profundum... Cum autem haec sit coloris natura in superficie terminati corporis... "; v. DIAFANO.
In Cv III XI 16, il termine indica il " compiersi " dell'atto della vista di Filosofia in una qualche scienza che prende il nome da essa in ragione del fervore e della necessità dell'atto: le scienze ne le quali più ferventemente la Filosofia termina la sua vista, sono chiamate per lo suo nome; sì come… la Metafisica, la quale, perché più necessariamente in quella termina lo suo viso e con più fervore, [Prima] Filosofia è chiamata. Lo stesso valore il verbo ha in Vn V 1, in costruzione intransitiva: la gentile donna... mi mirava spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare, che parea che sopra lei terminasse.
Con riferimento al " compiersi " di un desiderio, il termine è usato (al participio passato) in Cv III XV 4 l'uomo, in quanto ello è uomo, vede terminato ogni desiderio, e così è beato, e 10 (v. SAPIENZA); è in endiadi con ‛ compiuto ' in IV XIII 2 è compiuto e terminato questo desiderio della scienza (v.); cfr. anche Pd XXXI 65 A terminar lo tuo disiro / mosse Beatrice me [Bernardo] del loco mio, a " portare a compimento ", " appagare " il desiderio di D. guidandolo nell'ultima fase del viaggio ultraterreno. Sempre con valore transitivo, nel senso di " concludere ", " por termine ", si hanno le occorrenze di Cv I III 4 [a Firenze] desidero... terminare lo tempo che m'è dato, desidero " morire "; II VIII 7 terminare lo parlare di quella viva Beatrice beata, de la quale più parlare in questo libro non intendo; IX 8 l'anima... così termina le sue parole; IV XXVIII 19 Nel nome di cui [Catone] è bello terminare ciò che de li segni de la nobilitade ragionare si convenia. Per Pd XXVIII 105 (dove terminonno è in rima con ponno e vonno, rima che si ritrova solo in If XXXIII 26-30 sonno / dorano / ponno), v. TERNARO.
In Cv IV IV 3 con ciò sia cosa che l'animo umano in terminata possessione di terra non si queti, ma sempre desideri gloria d'acquistare, il verbo vale " limitare ". Per traslato, vale " definire " in VI 16 la perfezione di questa moralitade per Aristotile terminata fue; e in II XIII 12 la Dialettica... perfettamente è compilata e terminata in quello tanto testo che ne l'Arte vecchia e ne la Nuova si truova. Per intendere come la Dialettica possa essere compiutamente (perfettamente) definita ed esposta nell'Organon di Aristotele (v. PROBABILE), si tenga presente una delle tante definizioni medievali di ‛ ars ' (cfr. Logica ‛ Cum sit nostra ', ediz. L. M. de Rijk, in Logica modernorum II 2, Assen 1967, 417): " Ars est collectio multorum principiorum ad eundem finem tendentium. Vel: ars est quoddam finitum infinitatis compendium, insigne rationis miraculum, imperiosum naturae consilium, quam si in se consideres minimam quantitatem reperies, sed si ad subiecta te applices maximam potestatem invenies ".
In altre occorrenze, il verbo sta per il latino determinare, che designava, nell'uso proprio delle scuole, l'intervento del maestro il quale, a conclusione di una disputa, " definiva " la questione (v.) e rispondeva alle obiezioni proposte nel corso di essa; si tratta della ‛ determinatio magistralis ' che in genere aveva luogo in una seduta posteriore a quella, solenne, della disputa; così in Pd XXIV 48 Sì come il baccialier s'arma e non parla / fin che 'l maestro la question propone, / per approvarla, non per terminarla: chi ‛ termina ' la questione è il maestro; il baccialier s'arma solo per approvarla, cioè si fornisce di ragioni per difendere una tesi argomentando in favore di essa (approbare; v. OPPINIONE); cfr. Benvenuto: " est enim baccillerius vel bachalarius ille qui sustinet quaestionem contra opponentes; ideo bene autor utitur isto vocabulo arma. Armat enim se in mente sua rationibus quibus excutiat et refellat tela adversariorum, idest argumenta opponentium, finché 'l maestro propone la quistione; ille enim appellatur magister qui tenet cathedram, et proponit quaestionem publice coram doctoribus et scholaribus, et non determinat illam in illa disputatione, sed postea alia vice ". Lo stesso valore t. ha in Cv IV XII 20 in capitolo nuovo a la questione è da rispondere, nel quale sia terminata tutta la disputazione che fare s'intende al presente contra le ricchezze; il capitolo seguente si apre infatti con le parole A la questione rispondendo, dico che, che ricorda la formula scolastica " Respondeo dicendum quod " che introduce la ‛ determinatio magistralis '. A questi usi può essere accostato quello di Pd XXX 36 la mia tuba, che deduce / l'ardii sua matera terminando (si noti l'uso di ‛ dedurre ' [v.], " argomentare "), ma è da notare che i commentatori antichi avvertivano qui come prevalente il valore di " concludere ", " avviarsi alla fine ": cfr. Benvenuto: " quia... festinat ad finem suae altae et fortis materiae, qua non est dare altiorem nec fortiorem "; Buti: " terminando, cioè arrecandola a fine ".
2. In costruzione intransitiva, col valore di " finire ", " aver termine ", il verbo occorre (oltre che in Vn V 1 e Cv III IV 2, già citati) in Vn V 2: la donna che pensava di essere ‛ sguardata ' da D. mezzo era stata ne la linea retta che movea da la gentilissima Beatrice e terminava ne li occhi miei, dov'è indicato il complemento di luogo; in If I 14 poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto, / là dove terminava quella valle, e Cv II X 11 qui termina la sentenza litterale di tutto quello che in questa canzone dico, parlando a quelle intelligenze celestiali, il complemento è costituito da un avverbio di luogo. Altre volte, nel Convivio, è costruito con avverbio di modo, con riferimento alla conclusione dell'esposizione della litterale sentenza di una parte di una canzone (III VII 17), o alla conclusione di un trattato (X 10), o di un verso (IV XVIII 6), o della parte di una canzone (III VIII 22), o del proemio al testo di un trattato (IV II 18). In Rime LXVII 56 'l mio sentire... è più presso al terminar de'guai, il verbo sta per il sostantivo, la " fine ", la " conclusione ".
Uso parallelo ha il termine costruito con la particella ‛ si ': con avverbio di modo, in Cv IV XXIV 4 (così si termina la senettute nel settantesimo anno); con avverbio di luogo, in II XV 12 (E qui si termina lo secondo trattato), III XV 19 (E qui si può terminare la vera sentenza de la presente canzone) e Pd VIII 87 (la 've ogne ben si termina e s'inizia, in Dio ha inizio e fine ogni bene), o con complemento di luogo, in Cv III XIV 5 (lo lume è detto ‛ raggio ', in quanto esso è per lo mezzo, dal principio al primo corpo dove si termina).
In Cv II XIII si paragonano le proprietà della Luna e quelle della Grammatica; la Grammatica, infatti, secondo D., è da comparare al cielo della Luna fra l'altro perché, come questa ha rarità di corpo che non ‛ riflette ' i raggi luminosi, ma li lascia trapassare (una [sua proprietà]... si è l'ombra che è in essa, la quale non è altro che raritade del suo corpo, a la quale non possono terminare li raggi del sole e ripercuotersi così come ne l'altre parti, § 9), così in quella, nella Grammatica, per la sua infinitade, li raggi de la ragione... non si terminano, in parte spezialmente de li vocabuli (§ 10); il fatto che D. parli dell'infinitade della Grammatica permette di affermare che la prima delle arti del Trivio sia essa stessa ‛ non finita ', e cioè incapace (non in assoluto, ma abitualmente) di fermare e riflettere i raggi della ragione, come il ‛ mezzo ' - aria, acqua, vetro - è incapace di riflettere i raggi luminosi, e come il ‛ raro ' della luna non trattiene i raggi del sole; ciò resta vero anche tenendo conto della precisazione in parte spezialmente de li vocabuli, che attribuisce questa ‛ proprietà ' (l'essere ‛ non finito ' è un ‛ proprium ') ‛ specialmente ' a quella ‛ sezione ' (in parte: cfr. le altre parti del § 9) della Grammatica (v.) che tratta della ‛ scientia linguae ' e si occupa del vocabolario. Ma per intendere in che cosa consiste questa infinitade della Grammatica, è da por mente alla funzione strumentale (di ‛ mezzo ') di essa nei riguardi delle altre arti o scienze ‛ costruite ' dalla ragione; la ragione, nel trattare di queste, infatti, tende, come a proprio ‛ termine ', all'oggetto delle altre scienze, " passando oltre " l'oggetto della Grammatica, di modo che la Grammatica ‛ termina ' i raggi della ragione solo quando fa sì che quei raggi ‛ terminino ' sul suo oggetto specifico che è la lingua (studiata nelle tre sezioni: vocaboli, declinazioni e costruzioni).
In due occorrenze il verbo, costruito con la particella pronominale, ha valore di " concludere ". Così in III IV: in un contesto in cui si parla dei limiti posti al nostro intelletto dalla natura universale, cioè Iddio (§ 10), che lo ha condizionato all'esistenza della facoltà organica della fantasia che ad esso fornisce la ‛ materia ' perché possa operare (da la quale trae quello ch'el vede, § 9), e della maggiore ampiezza dell'ingegno che pensa rispetto alla capacità di parlare, e del linguaggio fonico rispetto a quello di natura gestuale (§11), D. afferma che non è da biasimare l'uomo, dal momento che non è fattore, se 'l pensiero nostro, non solamente quello che a perfetto intelletto non viene ma eziandio quello che a perfetto intelletto si termina, è vincente del parlare (§ 12); in ogni sua forma, infatti, il pensiero è più comprensivo di quanto il linguaggio non sia capace di esprimere: con riferimento sia al pensiero che non giunge a perfezione perché non assistito adeguatamente dalla fantasia, sia a quello che " si conclude " attuandosi in una compiuta intellezione (perfetto intelletto). Lo stesso valore t. ha in IV XIII 6 quello che non si termina e che è pur uno, cioè il desiderio della ricchezza, che non si attua e non si conclude mai ed è sempre identico a sé stesso.