TERRACOTTA
. Con questa parola italiana si designano fino dall'età del Rinascimento in molte lingue moderne i manufatti e i prodotti artistici ricavati dall'argilla cotta al forno. Il procedimento di modellare la terra, materia ovunque reperibile e di evidenti qualità plastiche, è stato uno dei primi ritrovati dell'industria umana; era infatti a facile portata della mentalità primitiva il riconoscere gl'innumerevoli scopi pratici cui si poteva prestare l'argilla resa malleabile dall'acqua e poi disseccata. I manufatti umidi furono dapprima esposti, per fissarne la forma, all'azione diretta del fuoco, ma ben presto si riconobbe il vantaggio della cottura più lenta e uniforme nel forno. Si evolve naturalmente la tecnica col progredire della civiltà e muta nelle diverse regioni, ma le differenze sono trascurabili (v. ceramica): via via è stata maggiormente depurata l'argilla; ne è stato raffinato l'impasto e perfezionato il metodo di cottura, ma il procedimento è rimasto sostanzialmente sempre il medesimo. Da età remota la terracotta è stata quindi adottata per gli scopi più diversi, dai materiali edilizî (mattoni, ecc.) o di copertura degli edifici (tegole, embrici) al vasellame comune, e anzi gli antichi, specie dell'ambiente classico, se ne sono valsi in molti più casi dei moderni, adottandola per la costruzione e il rivestimento di cisterne e acquedotti, per formare membri architettonici, vasche, bagni, sarcofagi, oggetti d'uso comune (bottoni, pesi, amuleti, tessere per votazioni o per l'ingresso ai teatri, ecc.), utensili da cucina e domestici in genere; per riprodurre infine a scopo votivo e funerario mobili, gioielli e oggetti varî. Qui basterà far cenno soltanto dei numerosi scopi artistici, cui servì la terracotta, prescindendo anche da tutte le forme speciali, come la maiolica, la terracotta smaltata, invetriata, ecc., e dalla ceramica vascolare, che costituisce un ramo specialissimo dell'industria artistica antica, per cui si rinvia alle voci corrispondenti.
Antichità. - L'alta antichità della plastica fittile è ovvia a intuirsi, ed è del resto attestata da una stessa tradizione, che si ritrova presso diversi popoli e che riporta l'origine degli esseri viventi a un dio che plasma nella creta il primo individuo: così presso varie genti orientali (Egizî, Caldei, Ebrei), presso molti popoli selvaggi, e presso i Greci, dove il mito di Pandora modellata da Efesto nella terra umida e quello più tardo di Prometeo, che nell'argilla forma l'uomo e con fraudolenta audacia tenta d'avvalersi del divino privilegio d'infondere la scintilla vitale, adombrano sotto il velo della leggenda la realtà storica dell'arte primitiva. Certo la terra è stata la prima materia, di cui l'uomo ebbe idea di servirsi, quando, svegliandosi in lui il senso d'arte, volle riprodurre le forme degli esseri viventi o delle cose, che colpivano la sua fantasia. Si formava dapprima a mano senz'altro aiuto che la stecca di legno per la rifinitura dei particolari: si adottò più tardi la forma, cioè la matrice negativa, dalla quale, con facile procedimento meccanico si potevano trarre repliche innumerevoli sia di rilievi, sia di piccole figure a tutto tondo, sia delle singole parti (da saldarsi poi insieme) di figure plastiche di maggiori dimensioni. Si ricavava generalmente dallo stampo il solo lato anteriore delle statuette, mentre quello posteriore era levigato a mano; i particolari sono talvolta completati a stecca, più spesso modellati a parte e aggiunti prima della cottura. Le statuette più antiche sono formate nella massa d'argilla e risultano piene, mentre già sullo scorcio dell'arcaismo greco appaiono svuotate e spesso con uno o più larghi fori praticati nel lato posteriore per facilitarne la cottura, ed evitare il fendersi dell'argilla sotto l'azione del calore. Le statue ceramiche di grandi dimensioni sono invece sempre vuote sino dalla più alta antichità: non debbono quindi considerarsi ingrandimenti di quelle più piccole poiché hanno avuto genesi diversa: una teoria, che ha molta verosimiglianza, ne riporta l'origine ai grandi vasi, con cui avrebbero in comune la tecnica e da cui lentamente si sarebbe sviluppata la figura umana attraverso un graduale processo di antropomorfizzazione. Una vivace policromia completava le figure plastiche e i rilievi fittili: i colori erano in generale applicati dopo la cottura su uno strato preparatorio (ingubbiatura o bagno di latte di calce).
Nei periodi preistorici si fece limitato uso della terracotta: il neolitico e la prima età del bronzo, prediligendo la scultura in pietra, sono poveri di prodotti plastici fittili, che sono invece più diffusi nella media età minoica, finché l'invenzione della maiolica ne ridusse di nuovo fortemente la diffusione.
Anche in Egitto la terracotta ebbe scarso impiego, giacché si ricorse ad altri materiali fino da età molto antica, mentre dopo l'invenzione della maiolica questa la sostituì in quasi tutti i casi. Vi si produssero solo figurine molto rozze e primitive, mentre in età tarda si ebbe un'abbondantissima produzione coroplastica di livello elevato, ma che è da riferirsi all'arte classica.
In Mesopotamia la mancanza del legno e di altri materiali ha determinato un largo uso della terracotta per scopi pratici (mobili, sarcofagi, ecc.); tuttavia nel campo artistico i prodotti sono rimasti di livello basso: durante secoli si sono indolentemente ripetuti sempre gli stessi tipi di statuette e alcuni rilievi piatti con figure demoniache.
Per quanto sappiamo della civiltà hittita, le terrecotte vi ebbero scarsa importanza: conosciamo figure plastiche umane e animali analoghe a quelle di eta neolitica della Grecia settentrionale e vasi teriomorfi.
Le non molte terrecotte della Siria, tutte provenienti da tombe, rispecchiano il carattere promiscuo della civiltà cosiddetta fenicia, mostrando la fusione di varie correnti artistiche (prima egizia e assira, poi cipriota e infine prevalentemente ionica dopo il sec. VI a. C.). Peraltro si sarcofagi antropoidi fittili e le numerose maschere in terracotta di grandi dimensioni, e spesso di buona esecuzione, fanno ritenere che tanto i Fenici quanto i Cartaginesi fossero ben esperti della plastica fittile, almeno in età relativamente avanzata.
L'incrocio di molte correnti è riconoscibile anche nelle più antiche terrecotte di Cipro, che rivelano successivi influssi babilonesi, egiziani, cretesi, geometrici, fin quando, nell'età del grande sviluppo dell'arte ionica, si formò un tipico stile locale, al quale possiamo attribuire non solo minuscoli prodotti provenienti da tombe e da deposití votivi, ma anche figure di grandi dimensioni e statue colossali alte fino a quattro metri. Cipro fu, dunque, uno dei centri dove in età arcaica la plastica fittile ebbe maggiore sviluppo.
Nella civiltà egea e micenea non mancano prodotti fittili di destinazione così pratica (sarcofagi, vasche con decorazione pittorica), come religiosa: conosciamo idoletti antichissimi, quasi informi, statuette votive, di carattere tuttavia rozzo, quindi idoletti più fini, talvolta di dimensioni abbastanza considerevoli (alt. 0,64), e infine riproduzioni plastiche di animali di dimensioni anche maggiori; ma questa civiltà, prediligendo la maiolica, ha usato la terracotta in modo molto limitato.
Nel mondo classico invece, dalle origini dell'arte greca fino alla tarda eta romana, la terracotta è stata largamente adoperata così per la grande plastica, come nelle arti minori e nell'architettura. Durante l'età arcaica ebbe la sua massima diffusione e fu adottata per le forme più nobili d'arte, mentre col progredire dei mezzi tecnici l'argilla fu lasciata agli umili coroplasti, salvo in quelle regioni dove la mancanza di buona pietra da scolpire fece perdurare la plastica fittile. L'invenzione di questa è da Plinio il Vecchio (Nat. Hist., XXXV, 151) attribuita a Butade sicionio, mentre un'altra tradizione, anche essa riferita da Plinio (XXXV, 152), la riporta a Teodoro e Reco di Samo, generalmente designati quali inventori della fusione in bronzo, ed è del resto ovvio quanto intimamente la statuaria in bronzo sia connessa col modellare: in queste due versioni letterarie è verosimilmente da riconoscere l'eco della duplice fioritura nella primitiva età greca della scuola ionica e di quella peloponnesiaca. Già dalla fine del sec. VII a. C. le officine artistiche di Corinto e dell'Argolide in generale hanno una posizione preminente, affermata dalla tradizione letteraria e confermata dalle scoperte archeologiche: all'arte di Corinto appartengono le belle terrecotte - di destinazione architettonica, ma che dimostrano tecnica e arte già sviluppatissime - provenienti dai templi di Thermos, di Calidone e di Corfù (v. antefissa). Tuttavia in Grecia il desiderio di perfezione indusse molto presto gli artefici ad abbandonare l'argilla ai più modesti artigiani, e un noto passo d' Isocrate (De Permutat., 2) dimostra l'incolmabile abisso che separava nell'opinione dei Greci la grande statuaria, impersonata in Fidia, dall'industria dei coroplasti.
Al contrario la plastica fittile fiorì grandemente in tutte le regioni d'Italia, e in specie l'Etruria può dirsene la sede per eccellenza. I testi letterarî dicono che quest'arte "fu elaborata in Italia e specialmente in Etruria" (Plin., XXXV, 157) e alcuni tardi autori (Taziano, Clemente Alessandrino, Cassiodoro) ne attribuiscono addirittura l'invenzione agli Etruschi, mentre è più probabile che la verità sia adombrata nel racconto pliniano (XXXV, 152) relativo all'introduzione della plastica in Etruria per opera del tiranno corinzio Demarato, che sarebbe giunto esule dalla patria, conducendo seco alcuni modellatori dai nomi leggendarî (Diopo, Euchiro, Eugrammo). Gran fama raggiunse Vulca di Veio, le cui opere adornarono edifici di Roma, ed erano ancora oggetto di ammirazione nell'età imperiale. Questa grande plastica fittile, che produsse simulacri di divinità per i templi, statue votive di grandi dimensioni, statue frontonali e ritratti funerarî ebbe il suo massimo sviluppo nell'età arcaica, cioè fra il sec. VI e il V, sotto l'influenza ionica, ed ebbe poi una seconda fioritura in età ellenistica. Non possiamo nemmeno menzionare tutte le classi di monumenti etruschi in terracotta, poiché l'arte etrusca si valse esclusivamente dell'argilla e del bronzo per le sue produzioni migliori e con la terracotta adornò in ogni sua parte il tempio (v. acroterio; antefissa; antepagmenta; etruschi; faler11 veteres; frontone; luni, XIV, p. 529 segg.).
La tradizione della grande plastica fittile fu dall'arte etrusca trasmessa alla romana, che ancora sullo scorcio dell'età repubblicana e almeno fino all'inizio dell'età imperiale produsse statue ceramiche di grandi dimensioni: simulacri di culto, ritratti di vivace realismo, figure decorative spesso ispirate a tipi greci ellenistici e statue frontonali, come dimostrano non pochi esemplari rinvenuti a Roma, a Tivoli, a Pompei e conservati nei Musei Capitolini, del Vaticano e di Napoli.
Anche nelle colonie greche dell'Italia meridionale e della Sicilia la plastica fittile fu coltivata largamente, almeno in età arcaica. Se la critica è ancora discorde nel riconoscere o meno due artisti sicelioti nei plasticatori e pittori greci Damofilo e Gorgaso (v.), che al principio del V sec. a. C. furono chiamati a Roma per decorare il tempio di Cerere, molti dati provano tuttavia lo sviluppo della tecnica fittile in Sicilia e in Magna Grecia fino dal sec. VI a. C. Non vi si può ancora dire dimostrata l'esistenza di decorazione frontonale con statue ceramiche, ma essa è presumibile anzitutto per la deficienza di marmi e di altra buona pietra da scolpire, deficienza che determinò cosi largo uso della terracotta nella decorazione del tempio e favori lo sviluppo di questa tecnica, e inoltre per recenti scoperte di frammenti plastici arcaici ancora inediti che paiono darne conferma. Infine le grandiose statue acroteriali fittili di Camarina e di Locri sono chiari e mirabili esempî della perfezione raggiunta già nel sec. VI dalla plastica in queste regioni, e della sua persistenza nel V. Non mancano peraltro statue fittili votive o forse piuttosto simulacri del culto di età arcaica: la più antica è quella di divinità femminile in trono da Grammichele (Catania), trovata insieme con frammenti di altre analoghe, ora nel Museo Nazionale di Siracusa; statue di dimensioni anche maggiori, e cioè grandi al vero, si sono rinvenute in altri luoghi della Sicilia, ma di speciale interesse è la figura femminile vestita di peplo, alta m. 1,20, proveniente da Inessa ed ora nel museo comunale di Catania, che è databile nella prima metà del sec. V. Notevolissima è inoltre la serie di busti fittili di Demetra, di arte raffinata, prodotti ad Agrigento dalla prima metà del sec. V al IV a. C. Esemplari anche più arcaici e non meno pregevoli per arte sono stati scoperti nel santuario di Persefone a Locri Epizefirî. Sappiamo dunque che la plastica fittile fu coltivata nella Magna Grecia e in Sicilia durante l'età arcaica, ma non oltre; solo forse a Taranto continuò anche nei periodi successivi.
A Canosa di Puglia l'arte industriale produsse nel sec. I a. C. statue funerarie, ispirate ai tipi di oranti del V: figure femminili alte da m. 0,60 a 1,10, vestite di severo chitone con lungo rimbocco, talvolta con sopra il manto.
Le piccole terrecotte figurate, statuette o rilievi, e in generale quelle votive, che i fedeli offrivano nei santuarî e che gli scavi dei depositi votivi ci restituiscono in grandissima copia, o quelle che erano deposte nella tomba come corredo funerario accanto al morto e che ritornano alla luce nelle esplorazioni delle necropoli, sono per noi preziosi documenti della vita antica, dell'arte, della religione e del costume, giacché per la loro diffusione, abbondanza e varietà costituiscono una tradizione meno discontinua di quella rappresentata dalle altre classi monumentali. Sono la più ricca fonte per la nostra conoscenza della scultura antica, sebbene debbano considerarsi, salvo eccezioni, soltanto un pallido riflesso della grande arte, sia per le loro dimensioni ridotte sia per il livello artistico relativamente basso al quale appartengono. Sono talvolta l'unica testimonianza di determinati culti, rivelando il tipo del simulacro della divinità venerata in un santuario e permettendo di seguirne l'evoluzione; attestando le forme caratteristiche degli attributi e dei simboli, che si riferivano o si offrivano all'idolo, e riproducendo infine speciali atteggiamenti rituali degli offerenti. In molti casi è possibile identificare i centri di produzione e riconoscere anche le singole fabbriche, datandone i periodi di attività. Durante l'età arcaica, oltre alle menzionate officine argoliche, molto attive furono quelle di Rodi e di Samo, i cui prodotti si diffusero tanto verso l'Oriente asiatico quanto verso l'Occidente, nella Grecia propria e fino in Sicilia e in Magna Grecia: prevalgono infatti ovunque nel sec. VI i tipi di stile ionico, mentre sul continente greco la Beozia ebbe fino dall'età dello stile geometrico fabbriche fiorentissime. Le più note e predilette terrecotte di età ellenistica sono quelle di Tanagra: in prevalenza vaghe figurine femminili o leggiadri gruppi realistici, il cui pregio principale è la mirabile vivacità e la fantasiosa varietà di atteggiamenti. Grande sviluppo ebbero anche le officine dell'Asia Minore, fra le quali la più celebre è Mirina, e dell'Egitto; ma ve ne furono, si può dire, in tutte le regioni del mondo ellenizzato; come nell'età arcaica così anche in quella ellenistica fiorirono le fabbriche italiote, siceliote e italiche; basti ricordare nell'Italia meridionale Locri e Medma per il periodo più antico, Taranto, Paestum, Capua, ecc. per le età successive. Taluni centri come la siciliana Centuripe furono caratterizzati da maniere tipiche, mentre in alcuni casi (ad esempio, Taranto e Siracusa) si sono ritrovate nelle fabbriche antiche le matrici originali. Oltre ai tipi più comuni, che sono, come s'è detto, generalmente realistiche figure di genere o, più di rado, allegoriche (Eroti e simili), non mancano, specie fra i prodotti delle fabbriche alessandrine, i grotteschi e le caricature accanto a esemplari, più spesso creati dalle botteghe asiatiche, riproducenti invece con maggiore o minore fedeltà celebri opere statuarie di grandi maestri dell'età classica, come, ad esempio, il Diadumeno di Policleto. Questa industria artistica continua anche durante l'età romana nei centri che avevano una tradizione già inveterata, ma non ebbe speciale sviluppo e andò anzi gradualmente decadendo: prevalgono le figure caricaturali, e quelle di attori e giocolieri. Anche nelle provincie nordiche romanizzate (Gallia e Germania) furono, oltre che importate, prodotte statuette fittili, ma in misura limitata.
Insieme con le figure plastiche l'industria figulina classica produsse rilievi di vario genere: particolarmente notevoli le tabelle votive (pinakes), cioè i minuscoli quadri destinati ad essere sospesi come ex voto nei santuarî, e decorati con rappresentazioni figurate talvolta solo dipinte, in altri casi impresse a rilievo nell'argilla e poi completate con i colori. In vari santuarî se ne sono rinvenuti numerosi complessi dedicati alle diverse divinità locali (Posidone a Corinto, Atena Ergane ad Atene, ecc.), ma di specialissimo interesse anche per pregi d'arte sono quelli arcaici (prima metà del sec. V) di Locri Epizefirî (v.) Rilievi fittili molto primitivi, affatto piatti, col semplice contorno delle figure ritagliato a traforo provengono dall'isola di Lemno. Un' interessantissima classe di rilievi fittili dell'età del maturo arcaismo (475-440 a. C.) proviene da Milo: sono rilievi traforati con rappresentazioni varie di stile ionico e attico, destinati probabilmente a decorare sarcofagi o mobili lignei. Ad essi sono analoghi alcuni rilievi di età ellenistica provenienti dalla Russia meridionale.
Siano infine ricordate fra le terrecotte dell'arte industriale classica le cosiddette arule con decorazione a rilievo, di cui si sono rinvenuti numerosissimi esemplari così in Grecia come più ancora in Magna Grecia, in Sicilia, a Roma e in Etruria, databili dall'età arcaica (sec. VI) fino a quella romana.
Ma è nella sua applicazione all'architettura antica che la terracotta ebbe massima importanza. In origine il primitivo tempio greco ebbe un esteso rivestimento fittile, non tanto per ragioni estetiche quanto per la necessità di proteggerne il più possibile e nei punti più esposti le membrature lignee dall'azione degli agenti atmosferici. D'altro canto la terracotta per la sua relativa leggerezza, e perché offriva un facile mezzo di ricca e vivace decorazione policroma, era particolarmente adatta a completare tutte le principali strutture, ancor molto semplici, dell'edificio; pertanto fu adottata non solo per la copertura e per i complementi ornamentali del tetto, quali possono considerarsi le antefisse, gli acroterî e la sima, ma anche per il geison sulle facciate e sui lati lunghi, e perfino per le metope, costituite da lastre fittili con decorazione figurata a colori (come ci dimostrano gli esemplari molto arcaici di due successivi templi di Termo in Etolia), e forse anche per fregi continuativi di rivestimento della trabeazione.
Da questa sua iniziale funzione, utilitaria ed estetica insieme, la terracotta passò poi ad avere soltanto scopo decorativo e, se fu presto soppiantata in Grecia dall'adozione del marmo così da scomparire quasi del tutto nella prima metà del sec. V, si mantenne invece in Italia - dove aveva già raggiunto un altissimo grado di evoluzione in età arcaica - perdurando poi specie in Etruria e sviluppandovisi nelle più complesse forme ornamentali. La tecnica dell'applicazione dei colori nelle terrecotte architettoniche, le quali per la loro esposizione continua all'aria aperta dovevano essere sotto ogni rapporto resistenti, è la stessa adoperata nella ceramografia. Le scoperte di P. Orsi, e le sue mirabili edizioni del materiale recuperato in Magna Grecia e in Sicilia, hanno chiaramente dimostrato il carattere e la funzione dell'ornamentazione fittile del tempio arcaico in Occidente, del resto non indipendente dal generale sviluppo della decorazione architettonica greca. Piuttosto è da notare che in queste regioni occidentali l'uso della terracotta ha durato più a lungo anche sui grandiosi templi lapidei, per la mancanza del marmo e la qualità scadente della pietra locale, che mal si prestava ad essere finemente scolpita, e i resti ce ne sono pertanto meglio noti.
Altri studî recenti hanno inoltre dimostrato che già nel tempio greco esistevano talune forme speciali, che si ritenevano etrusche, come il rivestimento della testata del trave maestro sporgente nel campo frontonale sotto l'incrocio dei due spioventi obliqui: questo ritrovato si può anzi attribuire all'arte corinzia del sec. VII a. C., mentre ci è dato identificarlo dai resti e dalle sopravvivenze (grande lastra fittile con mascherone gorgonico a rilievo iscritta nel centro del frontone del tempio C di Selinunte) venuti alla luce in Sicilia e in Magna Grecia (v. antepagmenta; frontone). Del resto la terracotta, se pure ridotta a funzione più modesta, non fu mai abbandonata nella decorazione tanto dei templi, quanto, più tardi, delle case. Per l'Etruria, v. le voci già citate. Le case e le ville romane ebbero ricchi elementi fittili traforati, sia come coronamento esterno sia come decorazione dei bordi del compluvio. A questa serie di terrecotte appartengono i rilievi detti Campana dal nome del loro raccoglitore: rilievi figurati che furono prodotti dalla fine dell'età repubblicana al sec. II d. C.
Bibl.: In generale: P. Jamot in Daremberg e Saglio, Dictionn. des antiq., s. v. Figlinum opus; Heidenreich, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V A, i (1934), col. 808. Per l'Oriente e la preistoria v. bibl. alle singole voci citate nel testo. Per la plastica fittile monumentale i 3 volumetti di W. Deonna, La Statuaire céram. à Chypre, Ginevra 1907; Les statues de terre cuite en Grèce, Parigi 1906; Le statues de terre cuite dans l'antiquité (Sicile, Grand-Grèce, Etrurie et Rome), ivi 1908; per le opere scoperte più di recente e per la plastica fittile etrusca in generale bibl. e riproduzioni in G. Q. Giglioli, L'arte etrusca, Milano-Roma, 1935. Per la coroplastica: F. Winter, Die Typen der figürlichen Terrakotten, Berlino 1903; E. Pottier, Les statuettes de terre cuite, Parigi 1890; id., Diphilos et les modeleurs de terre cuite en Grèce, Parigi 1909; A. Köster, Griech. Terrakotten, Berlino 1926.
Per i rilievi di Milo: P. Jacobsthal, Melische Reliefs, Lipsia 1921; per le tabelle locresi, v. bibl. alla voce locri e inoltre P. Zancani Montuoro, in P. Orsi, vol. a cura dell'Archivio storico p. la Calabria e la Lucania, Roma 1935 (1936), p. 195 segg.
Per le terrecotte architettoniche principalmente i 3 volumi di E. Douglas van Buren, Greek fictile revetments, Londra 1926; Archaic fictile revetments in Sicily and Magna Grecia, Londra 1923; Figurative terracotta revetments in Etruria and Latium in the VI and V cent., Londra 1921 (ivi bibl. anteriore); H. Koch, Dachterrakotten aus Campanien, Berlino 1912; Studien zu d. Camp. Dachterr., in Röm. Mitt., XXX (1915), p. i segg., e Zu den Metopen v. Thermos, in Athen. Mitt., XXXXIX (1914), p. 237 segg. Per il tempio greco occidentale: E. Gàbrici, Per l'architettura dorica in Sicilia, in Mon. Lincei, XXXV (1935); per il tempio etrusco-italico v. bibl. alle voci citate.
Medioevo ed età moderna. - La terracotta nella decorazione architettonica. - La terracotta come materia di decorazione fu usata anche nell'antichità cristiana, sebbene forse non molto frequente: con quadri istoriati in terracotta furono infatti decorate le basiliche africane (Tunisia) dal sec. V al VII: piuttosto rozzi, illustravano soggetti biblici o più semplicemente racchiudevano simboli o motivi ornamentali. In Italia soltanto più tardi si nota una prosecuzione di quell'uso, pur sempre assai rara: da San Salvatore di Brescia, che è del sec. VIII, provengono frammenti di terrecotte stampate con ornamenti vegetali analoghi a quelli che appaiono nella scultura in marmo contemporanea. Non più frequenti gli esempî nell'architettura francese che nel periodo latino e merovingio conobbe un tipo di decorazione economica in mattonelle a rilievi stampati (una serie ne fu trovata ad Angers), mentre nel periodo romanico usò talvolta decorare gli edifici con incrostazioni di terrecotte nelle quali è ragionevole vedere soprattutto un influsso orientale. Nell'Italia settentrionale l'architettura religiosa del periodo romanico adoprò il laterizio come materiale non solo di costruzione ma anche di decorazione: e foggiò i mattoni a costituire membrature e decorazioni di forme particolari (ricollegandosi in questo modo a un uso già bizantino) mentre arricchiva il paramento di terrecotte stampate con motivi ornamentali, geometrici o figurati: esempio tipico di questa consuetudine, sulla fine del sec. XI, la chiesa di S. Maria di Pomposa in cui e il campanile e l'atrio recano fregi di quel genere spesso ritoccati a scalpello e sempre rivelanti chiaramente un influsso bizantino che forse gli stessi artisti documentarono poi anche a Venezia. Questa tradizione decorativa si diffuse in Italia specialmente nel periodo di transizione dall'arte romanica alla gotica alla quale perviene senza soluzione di continuità; e si afferma specialmente nell'Italia settentrionale con sempre maggiore varietà di motivi, che si adattano volta a volta all'importanza dell'edificio e che si trasformano ininterrottamente sia attraverso l'estro degli esecutori sia mediante l'immissione di nuovi elementi figurativi: esempî tipici ne abbiamo nelle chiese di Bologna, e anche in costruzioni civili della Toscana. Anche più che nell'epoca romanica questa decorazione ebbe allora una funzione prevalentemente cromatica e non soltanto basata sul colore del mattone, ma anche sul contrasto delle varie materie che l'architettura laterizia volle imitare da quella lapidea mediante l'alternarsi ai mattoni di superficie dipinte in varî eolori (Certosa di Chiaravalle e chiesa di San Gottardo a Milano) o anche mediante l'inserzione di pietre in mezzo al materiale laterizio (chiesa di S. Francesco a Pavia; ivi, absidi della Certosa) o finalmente mediante la coloritura delle terrecotte impiegate per la decorazione (chiesa di San Francesco a Bologna).
Uguale influsso del materiale costruttivo su quello decorativo si esercita in Germania, specialmente nelle regioni più settentrionali, durante il periodo gotico sino alla fine del sec. XIV: e gli scultori sostituiscono spesso la pietra con la terracotta, soprattutto per certe figurazioni più consuete nelle facciate delle cattedrali (porta d'oro di Marienburg). Minore è invece, oltralpe, l'impiego della terracotta nella decorazione del tardo gotico quattrocentesco, che prosegue la tradizione già romanica dei pavimenti di mattonelle con disegni di vario genere, incavati o a rilievo piatto, soltanto nella Svizzera impiegate anche come elemento di cornici o di finestre (mattonelle tardo-romaniche del convento di S. Urbano a Zofingen); è dello stesso tempo l'uso delle stufe (v. stufa) rivestite di mattonelle di ceramica o di maiolica che rimase sempre limitato ai paesi di lingua tedesca. Il Quattrocento italiano usò sempre più di frequente la terracotta come materiale decorativo, profondendo ornamenti in rilievo sui pilastri, sugli architravi, sui fregi, sulle cornici, sugli archi e intorno alle finestre e alle porte. La regolarità con cui i mattoni sono stampati e l'impiego dello scalpello aumentano l'effetto decorativo: la minuzia degli ornati, i trafori, la perfetta sovrapposizione delle membrature architettoniche sono i caratteri principali di questa decorazione. La quale si diffuse specialmente nella Lombardia e nell'Emilia, acquistando sempre maggiore capacità di sostituire altri materiali architettonici più pregiati: Cremona, Pavia, Milano, Bologna e Ferrara, soprattutto, conservano ancora numerosi esempî di cornici d'arco, finestre, fregi, portali in cui la terracotta così lavorata assume un valore artistico suo proprio, non senza qualche tentativo di ravvivarne l'effetto pittorico mediante l'inserzione anche del cotto maiolicato o di marmi e con la policromia. L'uso delle terrecotte stampate conteneva in germe la decadenza di quest'arte: la produzione diventò sempre più meccanica e meccanico l'impiego indifferente dei pezzi per l'uno o l'altro edificio, finché si sente il bisogno di ridurre al minimo l'uso del materiale stampato per uniformarsi alla tendenza verso un equilibrio maggiore che è propria del Cinquecento.
La Lombardia impiegò assai di frequente la terracotta nelle sue architetture della seconda metà del '400 (Ospedale Maggiore del Filarete a Milano): si raggiunse anche qui notevole sontuosità di decorazione, da cui non si tardò a cadere in una vera sovrabbondanza che portò seco la decadenza: esempî massimi delle possibilità di quest'arte sono i due chiostri della Certosa di Pavia. Particolarmente diffusa fu l'arte della terracotta a Cremona, che fu centro di produzione di molti degli elementi decorativi fittili frequenti anche nel resto della Lombardia: e annovera ancora esempî assai raffinati di tale decorazione, come i fregi dell'antico cortile di Palazzo Stanga, e quelli del Palazzo Fodri: in cui appare una tendenza alla sovrabbondanza della decorazione che è del resto tipica del Rinascimento lombardo e che si manifesta nella profusione di colonnine, candelabri, cariatidi, sculture messe a riempire le cornici architettoniche, con quella larghezza che solo la facile plasticità del materiale consentiva, con la costante possibilità di ripetizione e di moltiplicazione dei motivi. Nell'Emilia le decorazioni in cotto ebbero molta voga: ne è uno dei più ricchi saggi la facciata della "Santa" a Bologna, dello Sperandio. La Toscana usò nella decorazione architettonica meno frequentemente la terracotta (Siena, Palazzo Bonsignori) pur annoverandone anche esempî cinquecenteschi (Firenze, Palazzo Riccardi-Mannelli) in cui il laterizio ha solo l'ufficio di un rivestimento pieno che spicca per il suo colore fra gli elementi architettonici in pietra (come anche a Roma nel Palazzo Farnese). A Firenze s'impiegò quasi esclusivamente la terracotta invetriata, soprattutto per opera dei Della Robbia (v. oltre). Fuori d'Italia il Rinascimento tedesco e settentrionale si riattacca alla tradizione medievale che rifiorì intorno al 1500, culminando poi verso la metà del secolo nella produzione di Lubecca che fornì tutte le regioni limitrofe e si riassume soprattutto nel nome di Statius van Düren: la sua attività si esercita su modelli originali e comprende camini, cornici di finestre e di porte, telamoni, erme, fregi e rilievi figurati, in cui si ritrovano elementi decorativi sia del primo sia del tardo Rinascimento, trattati tutti con grande finezza. Le terrecotte del van Düren sono disseminate in case borghesi e in castelli ducali della Germania settentrionale: massimo esempio il Fürstenhof di Wismar. Col periodo barocco l'uso della terracotta come elemento decorativo continua ancora in quelle regioni dove più forte e antica era la tradizione artistica in tal senso, ad es. Bologna, ma fu spesso soppiantato da quello dello stucco; e non hanno avuto successo duraturo i tentativi di resurrezione che a più riprese si son fatti nel sec. XIX, specialmente in Francia e in Germania.
L'arte musulmana impiegò anch'essa di frequente la decorazione in terracotta, riattaccandosi alle tradizioni dell'antichità, come rivestimento esterno degli edifici, sia di carattere semplicemente geometrico (già prima del sec. X a Baghdād e poi a Cordova) sia anche di carattere pittorico se fatto con mattonelle verniciate che riappaiono in Persia dal sec. XI in poi, con notevoli varietà di tecnica. All'antica tradizione achemenide si riattacca anche l'architettura turca di Maometto I sultano degli Osmani, a Brussa.
Terrecotte nella grande scultura. - Mentre nel gotico settentrionale già appare la terracotta come materia plastica (statue di apostoli della chiesa di S. Iacopo, Norimberga, Museo germanico), sostituendo quasi ordinariamente la pietra nella Germania del Nord, in Italia occorre scendere agl'inizî del Quattrocento per trovare statue o rilievi di terracotta indipendenti da qualsiasi determinata funzione di decorazione architettonica: sono per lo più statue quasi costantemente policromate di Madonne, destinate ad essere racchiuse entro tabernacoli, quasi sempre anonime ma spesso di modellatura squisita, che rivelano la loro dipendenza dai maggiori scultori contemporanei (Iacopo della Quercia, il Ghiberti), variando all'infinito i temi delle composizioni senza annullare mai l'intima grazia spirituale del motivo originale. Ma anche i maggiori, come Donatello, non disdegnarono questa materia per opere definitive: li attrassero forse soprattutto le possibilità che offriva la terracotta specialmente se colorata e che trovano la loro realizzazione in ritratti vigorosissimi di espressione come quello donatelliano comunemente, ma non sicuramente, identificato come Nicolò da Uzzano, o quello di guerriero in cui Antonio del Pollaiolo trasfuse tutta la nervosa energia dell'arte sua; e la terracotta fu anzi preponderante o unica materia plastica per i Della Robbia (v. oltre). Nella seconda metà del secolo XV Firenze rigurgitò anche più che nella prima d'immagini di terracotta che adornavano i tabernacoli esterni o le camere da letto delle abitazioni, cui Antonio del Rossellino, Agostino di Duccio, Benedetto da Maiano fornivano i modelli, popolari per la diffusione, ma quasi sempre fini e accurati nell'esecuzione; mentre Siena vide pure essa i suoi migliori produrre opere di grande intensità espressiva (Pietà di G. Cozzarelli all'Osservanza). Gli artisti del settentrione d'Italia che sull'inizio del secolo avevano nelle terrecotte prima che nella rimanente scultura sentito l'influsso fiorentino (decorazione della cappella Pellegrini in S. Anastasia a Verona e maestri che ne dipendono, altare del duomo di Modena) si valsero poi soprattutto della terracotta per composizioni d'intensa drammaticità che hanno i loro primi precedenti nel Calvario di S. Pietro e nell'Adorazione dei Magi in S. Stefano a Bologna, e culminano nella Pietà di Nicolò dell'Arca in S. Maria della Vita nella stessa città, e nelle numerose Deposizioni di Guido Mazzoni e dei suoi imitatori, che toccano anche il secolo successivo (Ant. Begarelli, A. Lombardi; prima, G. Ferrari al Sacro Monte di Varallo). Assai meno frequente è l'impiego della terracotta nella scultura del '500, che avversò specialmente la scultura policroma, forse per influsso del preponderante classicismo. Notevoli tuttavia i numerosi bozzetti in terracotta di questo periodo, e fra le sculture maggiori i busti di Alessandro Vittoria. Comincia allora ad essere usata per scultura da giardino, specialmente di proporzioni colossali (Appennino del Giambologna nella Villa medicea di Pratolino; Polifemo di A. Novelli suo scolaro negli Orti Oricellari a Firenze), uso questo che continuò specie nel Settentrione anche nel Sei e Settecento, quando la terracotta è assai meno del marmo impiegata per opere di qualche importanza se non là dove, come a Bologna, essa poteva riattaccarsi alla tradizione più antica (Pietà di Giuseppe Mazza a S. Maria Maddalena). In Francia la scultura in terracotta è praticata nel '500 durante il regno di Francesco I, soprattutto a Tours da Nicolas Baschet e nella provincia (Sepolcro di Amboise, Adorazione dei Magi di Saint-Paterne); in Spagna soprattutto da italiani come Nicoloso di Francesco da Pisa che portò a Siviglia la tecnica della plastica in terracotta invetriata, o Pietro Torrigiani che in Andalusia ha modellato statue di terracotta dipinta di un realismo profondo, e che anche in Inghilterra, con altri artisti italiani, aveva lasciato tracce della sua attività in questo senso ispiratrice, specie nella policromia, della scultura spagnola dei secoli XVI e XVII. Ma anche fuori d'Italia la terracotta passò in seconda linea di fronte alle altre materie scultorie, rimanendo piuttosto come mezzo di moltiplicazione delle opere più in voga specialmente nel '700, o servendo soltanto per i modelli delle sculture in marmo, come in Francia nel sec. XVIII. Anche nell'800 le sculture in terracotta sono assai rare: solo modernamente sembra che essa si avvii a riacquistare tutto il suo valore di materia plastica attraverso opere in cui le nuove tendenze cercano di affermarsi vigorosamente (vedi per l'Italia le sculture di Arturo Martini).
Terrecotte robbiane. - La terracotta invetriata che primo Luca della Robbia impiegò come materia plastica non differisce sostanzialmente dalla maiolica, avendo anch'essa un rivestimento di smalto policromo ottenuto con la vernice stannifera, per quanto limitato a pochi colori (prima soprattutto l'azzurro e il bianco, poi anche il verde, il giallo e il manganese): Luca non fece quindi che trasferire nella plastica e nella decorazione monumentale una tecnica vascolare già nota. Il primo esempio nell'opera di lui ci è dato dal tabernacolo fatto per l'ospedale di S. Maria Nuova, oggi nella chiesa di Peretola, dove la terracotta invetriata unisce la sua ricca policromia al candore del marmo; le grandi composizioni che seguirono a quello (lunette sulle porte della sagrestia del Duomo fiorentino) sono già esclusivamente in terracotta, e, con le figure bianche spiccanti sul fondo azzurro del cielo, raggiungono un'evidenza di rappresentazione che mancava alle altre sculture, segnando l'inizio di un'attività artistica che, attraverso i successori di Luca, si estese ancora per tre quarti di secolo, e che raggiunse una larghissima diffusione, dovuta certo non solo al fascino del colore, ma anche al costo minore della terracotta in confronto a quello della scultura in pietra, marmo o bronzo. Più che il tutto tondo, il rilievo fu il campo preferito dagli scultori robbiani: in esso vediamo riflessa la personalità dei singoli artisti: Luca più veramente scultore, non solo nelle composizioni ma nel gusto stesso della decorazione da lui creata, a ghirlande di fiori e di frutta che rispecchiano la lussureggiante bellezza della vegetazione toscana; più pittorico il nipote suo Andrea, specialmente nei motivi dei fondi e nel valore sempre maggiore dato al paesaggio, oltre che negli influssi più volte chiaramente evidenti delle composizioni di pittori contemporanei e nella sostituzione delle ghirlande con pilastri a candelabre; Giovanni, che con gli altri fratelli, e con Benedetto e Santi Buglioni collaborò alla bottega di Andrea, attiva ancora pochi anni dopo la morte di questi, attenua sempre più il plasticismo delle sue composizioni, riducendole, nonostante la ricchezza delle figure, a traduzioni scultorie di composizioni pittoriche cui la varietà e l'abbondanza della policromia non riescono a colmare il difetto di senso plastico. Solo nell'attività di Luca troviamo esempî di terrecotte invetriate dipinte come la maiolica su fondo piano (tomba del vescovo Federighi 1456, oggi in S. Trinita a Firenze; mattonelle con rappresentazioni dei mesi per la vòlta di uno studiolo di Piero de' Medici nel palazzo di Firenze, oggi a Londra, Victoria and Albert Museum; medaglione con l'arma dei maestri di pietra e di legname a Orsanmichele); tecnica questa poi limitata alle mattonelle che, insieme con i vasi ornamentali da altare, sono i soli oggetti di tutta la produzione robbiana che non rientrino nella vera scultura. Non meno importante del posto che la terracotta robbiana occupa nella scultura fiorentina è la funzione che ha avuto nell'architettura introducendovi un elemento cromatico che la anima, anche quando non la riveste completamente e anche se il linguaggio architettonico non si diparte da quello brunelleschiano prevalente a Firenze. Non ne risulta tuttavia sminuito il valore plastico delle terrecotte che nelle vòlte, nei pennacchi, nei fregi, collaborarono mirabilmente all'equilibrio spaziale accentuando anche col colore le proporzioni delle strutture (cappelle del cardinale di Portogallo in San Miniato al Monte, e dei Pazzi in Santa Croce, Firenze; medaglioni araldici nelle vòlte degli androni dei palazzi fiorentini, nei pennacchi del portico dell'ospedale degl'Innocenti, Firenze; fregio con festoni fra candelabri alla Madonna delle Carceri in Prato; fregio figurato all'ospedale del Ceppo a Pistoia). Un'applicazione integrale di questa decorazione architettonica in terracotta invetriata fece Girolamo della Robbia nel cosiddetto castello di Madrid a Parigi, oggi distrutto, per Francesco I. (V. tavv. XCI e XCII).
Bibl.: L. Gruner, The terracotta architecture of North Italy, XII-XV centuries, Londra 1867; Gli ornati delle ambrogette senesi in terracotta, Milano 1894; J. Darm, Die Baukunst der Renaissance in Italien, Lipsia 1914; G. Lehnert, Illustrierte Geschichte des Kunstgewerbes, Berlino s. a.; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, VIII, Milano 1924; P. Toesca, Storia dell'arte italiana, I, Torino 1927; C. Enlart, Manuel d'archéologie française, I, Parigi 1927; A. F. Adams, Terracotta of the Italian Renaissance, 200 photographs, Londra 1928; G. Ferrari, La terracotta e i pavimenti in laterizio nell'arte italiana, Milano 1928. Per la terracotta nella grande scultura, vedi inoltre: A. Venturi, Storia dell'arte italiana, IV, VI e X, Milano 1906, 1908, 1935-37. Per le terrecotte robbiane vedi le opere di A. Marquand citate alla voce della robbia.