TERRISIO di Atina
TERRISIO di Atina. – Poche sono le informazioni sulla vita di questo importante retore e letterato (dictator), il cui luogo di nascita, come indica il toponimico, va individuato nella cittadina posta circa 15 km a nord dell’abbazia di Montecassino, nel cui patrimonium, all’epoca, rientrava. Nulla si sa dei genitori e della famiglia di provenienza.
Dalle scarne attestazioni che lo riguardano deduciamo che nacque presumibilmente nei primi anni del XIII secolo: al luglio del 1237, infatti, risale la prima testimonianza databile con una certa precisione, dalla quale è possibile trarne un profilo professionale già significativo. Secondo il racconto dei Chronica di Riccardo di San Germano, l’imperatore Federico II chiese agli arcivescovi di Palermo e di Capua e al vescovo di Ravello che venisse aperta un’inchiesta sulla sufficientia e sulla fides di Pandolfo da Santo Stefano, che all’inizio del 1237 i monaci di Montecassino avevano eletto nuovo abate, in sostituzione del defunto Landolfo Sinibaldo; data la delicatezza della faccenda e l’importante ruolo del personaggio l’inchiesta fu affidata alla competenza indiscussa del vir providus Taddeo da Sessa, giudice della Magna Curia imperiale. I risultati dell’inchiesta, svolta attraverso l’acquisizione di informazioni e pareri raccolti nell’abbazia e nei territori circostanti (tra i quali anche Atina, dove l’eletto si era rifugiato in occasione di un precedente contrasto con l’imperatore), una volta messi per iscritto, in luglio furono inviati agli alti prelati che l’avevano commissionata «per magistrum Terrisium de Atino» (Riccardo di San Germano, Chronica, a cura di C.A. Garuti, 1937-1938, pp. 193 s.).
La menzione specifica del personaggio può dipendere senz’altro dal fatto che Riccardo di San Germano proveniva dalla medesima zona e dallo stesso ambiente professionale, e dunque verosimilmente conosceva Terrisio di persona; tuttavia, è senz’altro significativa la circostanza che Taddeo da Sessa gli avesse affidato un incarico tanto delicato, che con ogni evidenza non si limitava solo alla trasmissione degli atti dell’indagine, ma anche alla loro elaborazione retorica. Non è possibile, tuttavia, sapere se Taddeo si fosse servito di Terrisio perché ne aveva sperimentato i servigi in precedenza e dunque faceva già parte del suo entourage, oppure se lo conobbe a Montecassino o Atina e ne apprezzò le capacità solo in quell’occasione.
Terrisio era dotato di altissime competenze letterarie e fu certamente elemento di spicco di quel gruppo assai rinomato di dictatores, che costituì il nerbo della cosiddetta Scuola capuana o, piuttosto, campana o della Terra di Lavoro. Quella scuola, trovando il proprio centro di irradiazione nel monastero di Montecassino (là dove circa un secolo prima era nata l’ars dictaminis), impose un ineludibile modello di tradizione retorico-stilistica: attraverso le summae epistolari di Tommaso di Capua (Tommaso di Eboli) e di Pier della Vigna, nonché i dictamina di Nicola da Rocca o Stefano di San Giorgio, ebbe ampia e lunghissima diffusione in tutta Europa.
Terrisio certamente si formò nel territorio da cui proveniva, dove numerosi erano i dictatores che, con differenti livelli di approfondimento e raffinatezza, offrivano i loro insegnamenti, anche di tipo occasionale. Tuttavia, sembra assai probabile che avesse perfezionato i propri studi, probabilmente giuridici (retorica e diritto, in quei tempi, erano discipline inscindibili), anche a Bologna. A farcelo supporre è una lettera che nel 1240 circa indirizzò agli studenti e ai maestri di grammatica dello Studium di quella città per consolarli della morte di Bene di Firenze (Delle Donne, 2010, doc. 24), importante maestro di retorica e autore del Candelabrum. È possibile, altresì, che in quel tempo Terrisio insegnasse presso lo Studium di Napoli e che, dunque, si rivolgesse ai suoi antichi compagni di studio come rappresentante di un’istituzione universitaria che aveva condiviso con l’altra gli insegnamenti di maestro Bene: non tanto perché si definì sistematicamente magister (termine che indica il riconoscimento di un’elevata competenza professionale, ma non necessariamente lo status di professore), ma perché in altre occasioni si presentò come doctor (termine che indica un più specifico incarico di insegnamento). Infatti, nella salutatio di un’altra epistola, databile all’incirca allo stesso periodo, relativa alla morte del filosofo Arnaldo Catalano (doc. 25), egli, con formula di modestia, si dichiarò minimus tra i doctores di Napoli. Inoltre, in una terza lettera, scherzosa, spiegando che il suo nome era connesso con il terror, invitò i suoi studenti a fargli – come si conveniva ai più egregi doctores – doni materiali e possibilmente commestibili: essendo in periodo di Carnevale, pertanto, chiese pingui capponi, affinché i suoi insegnamenti potessero essere più proficui. Quest’epistola e le due precedenti contengono una parte finale in versi, rivelando anche alta competenza metrica e ritmica, come previsto dalla tradizione del dictamen, che aveva applicazione sia prosaica sia poetica.
Non contengono parti in versi, invece, due epistole che costituiscono un fittizio scambio tra meretrici e professori dello Studio napoletano (Delle Donne, 2010, docc. 29-30): tali lettere, in verità, non portano il nome di Terrisio, ma nell’unico testimone che le trasmette (il codice Fitalia, ms. Palermo, Biblioteca della Società siciliana di storia patria, I.B.25) esse si trovano assieme ad altri componimenti a lui attribuiti. La prima lettera è inviata, con solenne, ma paradossale, salutatio ai prudentes reverendi doctores di Napoli da due meretrici, Alessandrina e Papiana, che si presentano come maestre cattedratiche dei piaceri carnali: esse chiedono che venga riconosciuta come preminente la loro giurisdizione sugli scolari, che i maestri dello Studio, di giorno, privano di ogni risorsa economica; costringendoli ad acquistare libri e a pagare lezioni, impediscono loro di fruire dei proficui insegnamenti che esse, di notte, sono solite impartire. La seconda è la risposta dei professori, che rigettano ogni istanza, accusando, a loro volta, le meretrici di privare gli studenti di ogni bene, lasciandoli nudi con il solo intelletto. Il complesso di tali lettere dimostra, dunque, che Terrisio, partecipando attivamente alla vita dello Studio napoletano (fondato da Federico II nel 1224 era di recente istituzione), fu di esso riconosciuto come uno dei maestri più significativi, tanto che le sue epistole furono inserite in raccolte esemplari di dictamina, cioè di modelli utili all’insegnamento retorico.
Come per altri illustri dictatores del medesimo ambiente, l’insegnamento universitario non fu l’unica attività. È certamente di Terrisio una lettera inviata, con licenza dell’imperatore, al conte Raimondo VII di Tolosa, in cui si racconta della sventata congiura tramata, nel 1246, da Tebaldo Francesco, Pandolfo di Fasanella e altri importanti funzionari del Regno, che furono catturati nel castello di Capaccio (E. Winkelmann, Acta imperii inedita, 1880, doc. 725). In essa, con particolare enfasi, si equipara il tradimento contro Federico II a quello di Giuda contro Cristo, si descrive l’esemplare pena inferta ai congiurati, eseguita dalla stessa Natura, alleata dell’imperatore e a lui sottomessa: sono i quattro elementi, la terra, l’aria, l’acqua e il fuoco, lo strumento della punizione, perché gli empi traditori sono condannati a morte per trascinamento, impiccagione, annegamento o rogo.
La lettera rivela la piena compartecipazione, da parte di Terrisio, all’elaborazione dell’ideologia imperiale, che, soprattutto nell’epoca in cui si fece più forte il contrasto con il Papato, caratterizzò in maniera sempre più netta il sovrano svevo con i tratti dell’‘imperatore della fine dei tempi’, del supremo signore degli elementi e della lex animata in terris, ovvero incarnazione suprema della legge e del diritto. Terrisio, dunque, nei momenti più concitati e delicati dello scontro politico, fu strenuo sostenitore del sovrano svevo, standogli anche fisicamente accanto. Tuttavia, è probabile che in precedenza si fossero verificati dei momenti di tensione.
Sembra che servisse a placare le ire dell’imperatore un componimento ritmico databile tra la primavera del 1239 e l’estate del 1241: di particolare rilievo nella produzione poetica latina dell’età sveva, il suo incipit è «Cesar, Auguste, multum mirabilis» (Delle Donne, 2005, pp. 131-156). Le venti quartine in cui sono suddivisi i suoi ottanta versi presentano una struttura ben equilibrata: la prima è una sorta di prologo; le successive nove costituiscono un’esaltazione di Federico II, fungendo da estesa captatio benevolentiae del sovrano; altre nove denunciano la corruzione presente nella Curia imperiale; l’ultima è di commiato. Al mutamento di argomento, che segna la metà esatta del carme, si accompagna un cambiamento di tono, che diventa improvvisamente scherzoso e satirico. L’ambito entro cui si muove il componimento è quello di un’adesione piena alla ‘propaganda’ federiciana, tesa a giustificare le campagne militari contro i Comuni. Pur denunciando in maniera fortemente satirica la corruzione della Curia imperiale, la responsabilità della cattiva gestione della giustizia è, tuttavia, attribuita non allo stesso imperatore, ma ai suoi disonesti funzionari: la corte appare come un mondo alla rovescia, dove sono premiate le colpevoli menzogne, mentre sono condannati coloro che hanno animo fedele, sono assolti i rei, mentre i giusti vengono puniti, così che il regno è pervaso dalla discordia. Il componimento è attribuito esplicitamente a Terrisio dal menzionato codice Fitalia, ma non è mancato chi, in passato, ignorando questo manoscritto, lo ha assegnato al giudice Quilichino da Spoleto, autore di una Alexandreis o Historia Alexandri Magni, in distici elegiaci, che traeva ispirazione dalla Historia de proeliis dello Pseudo-Callistene: entrambi i testi sono contenuti nel manoscritto V.B.37 della Biblioteca nazionale di Napoli.
Davvero aleatoria è l’attribuzione (basata solo sull’iniziale T. dell’autore, che si legge in un codice; ma altri due portano iniziali diverse: l’uno P., l’altro G.) a Terrisio della Contentio de nobilitate generis et probitate animi (Disputa sulla nobiltà di stirpe e sulla probità d’animo, in Delle Donne, 1999), della quale è chiesta la soluzione a Pier della Vigna e a Taddeo da Sessa: a questa interessante discussione sul concetto della vera nobiltà fa plausibilmente riferimento anche Dante, nel Trattato IV, 3, 6 del Convivio. Incerta l’attribuzione anche di un’altra lettera fittizia, nella quale si dà la parola agli animali, che così esaltano l’imperatore che ha chiuso la stagione della caccia (Wattenbach, 1892, p. 94).
Oltre il 1246, data della menzionata lettera sulla congiura di Capaccio, non si hanno ulteriori notizie sulla sua vita. Non corroborata da nessuna prova è l’identificazione (ipotizzata da Carlo Alberto Garufi, in nota alla sua edizione dei Chronica di Riccardo di San Germano, cit., p. 193) con il «frater Terrisius preceptor domorum Ospitalis sancti Iohannis in Apulia», menzionato nel 1231. Sappiamo, invece, dal necrologio dell’abbazia di Montecassino che ebbe un figlio di nome Nicola: è plausibile che fu lo stesso Terrisio a farne iscrivere il nome al 21 dicembre (di un anno non precisato); l’aggiunta sul rigo (per altra mano) della specificazione «filius magistri Terrisii» (senza ulteriori attributi che lo attestino come morto), oltre a renderci consapevoli del notevole prestigio di cui dovette godere a Montecassino, ci fa intuire che il figlio gli premorì.
Fonti e Bibl.: E. Winkelmann, Acta imperii inedita, I, Innsbruck 1880, pp. 570 s.; Riccardo di San Germano, Chronica, in RIS, VII, 2, a cura di C.A. Garufi, Bologna 1937-1938, pp. 193 s.; I necrologi cassinesi, I, Il necrologio del codice cassinese 47, a cura di M. Inguanez, Roma 1941, p. 50.
W. Wattenbach, Über erfundene Briefe in Handschriften des Mittelalters, besonders Teufelsbriefe, in Sitzungberichte der Kaiserl. Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-Historische Klasse, Berlin 1892, pp. 91-123; G. Paolucci, La giovinezza di Federico II di Svevia e i prodromi della sua lotta col papato, in Atti della R. Accademia di scienze lettere e arti di Palermo, VI (1900), pp. 1-55; F. Torraca, Maestro T. di Atina, in Archivio storico per le provincie napoletane, XXXVI (1911), pp. 231-253; T. Ferri, Appunti su Quilichino e le sue opere, in Studi medievali, n.s., IX (1936), pp. 239-250; G. Mercati, Conjectures upon the text of the Preconia Frederici II, in Speculum, XIII (1938), pp. 237-239; A. De Stefano, La cultura alla corte di Federico II, Bologna 1950, pp. 195 s.; R.M. Kloos, Alexander der Grosse und Kaiser Friedrich II., in Archiv für Kulturgeschichte, L (1968), pp. 181-199; W. Kirsch, Quilichinus oder Terrisius? Zur Authorschaft des Rhythmus “Caesar Auguste, multum mirabilis”, in Philologus, CXVII (1973), pp. 250-263; H.M. Schaller, Zum ‘Preisgedicht’ des Terrisius von Atina auf Kaiser Friedrich II., in Id., Stauferzeit. Ausgewählte Aufsätze, Hannover 1993, pp. 85-101; E. Cuozzo, La nobiltà dell’Italia meridionale e gli Hohenstaufen, Salerno 1995, pp. 200-202; F. Delle Donne, Una disputa sulla nobiltà alla corte di Federico II di Svevia, in Medioevo romanzo, XXIII (1999), pp. 3-20; E. D’Angelo, T. d’Atina, in Federico II. Enciclopedia fridericiana, II, Roma 2005, pp. 822-824; F. Delle Donne, Il potere e la sua legittimazione: letteratura encomiastica in onore di Federico II di Svevia, Arce 2005, pp. 131-156; B. Grévin, Rhétorique du pouvoir médiéval: les «Lettres» de Pierre de la Vigne et la formation du langage politique européen (XIIIe- XVe siècle), Rome 2008, ad ind.; F. Delle Donne, «Per scientiarum haustum et seminarium doctrinarum». Storia dello Studium di Napoli in età sveva, Bari 2010, ad ind.; Id., La porta del sapere. La cultura alla corte di Federico II, Roma 2019, ad indicem.