Abstract
Viene esaminata la natura giuridica del territorio in diritto internazionale, già tema classico della scienza giuridica, recentemente scomparso dall’orizzonte di studio degli internazionalisti dopo che la globalizzazione sembrava aver decretato la fine del territorio (Badie), un tempo ossessione dello Stato (Scelle). Si vedranno i riflessi concreti delle varie nozioni di territorio alla luce della più recente prassi del diritto internazionale. Si analizzeranno quindi i cosiddetti modi di acquisto del territorio per verificare lo stato della dinamica tra titolo ed effettività in un periodo – quello attuale – nel quale si sono affermati come principi di ius cogens il divieto dell’uso della forza e il principio di autodeterminazione dei popoli. Si svolgeranno, infine, brevi considerazioni sulla determinazione dei confini alla luce della prassi giurisprudenziale in materia di soluzione delle controversie territoriali.
Lo Stato è tuttora il soggetto primario del diritto internazionale. Accanto allo Stato si contano oggi altri soggetti, distinti in enti territoriali e enti non territoriali. La data di nascita del diritto internazionale come ancor oggi lo intendiamo si fa tradizionalmente risalire alla pace di Westfalia, che ha dato vita a una comunità orizzontale di soggetti superiorem non recognoscentes, gli Stati contemporanei, dotati di un territorio sul quale esercitano la propria potestà di governo. A questo si possono infatti ridurre i quattro tradizionali requisiti contenuti nella Convenzione sui diritti e doveri degli Stati, adottata dalla settima conferenza internazionale americana a Montevideo, il 26 dicembre 1933. Nonostante si tratti di un accordo regionale, l’art. 1 di tale Convenzione viene ribadito in tutte le occasioni in cui si discute della soggettività internazionale di uno Stato. Le quattro condizioni che lo Stato deve soddisfare per essere considerato soggetto di diritto internazionale sono: popolazione permanente, territorio determinato, governo e capacità di entrare in relazione con gli altri Stati. Da qui deriva la classica tripartizione degli elementi dello Stato in territorio, popolazione e potere di governo (esercitato in modo effettivo verso l’interno e verso l’esterno), la drei-Elementen Lehre, concezione che metteremo alla prova della prassi nel paragrafo che analizza le diverse ricostruzioni del rapporto tra Stato e territorio.
Tali ricostruzioni esercitano ancora un impatto sulla nozione di territorio dello Stato in senso stretto e in senso lato. Tradizionalmente, infatti, si facevano rientrare nel territorio in senso stretto la terraferma, comprensiva del sottosuolo e dello spazio sovrastante, aereo e atmosferico (ab inferis usque ad sidera), le acque interne e il mare territoriale. In realtà, sia per lo spazio atmosferico, sia per il mare occorre specificare il discorso. Per il primo, sembra opportuno circoscrivere il territorio entro i limiti di utilizzabilità dello spazio stesso (Citarella, L., Territorio: IV) diritto internazionale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1994, 4). Per quanto riguarda il mare territoriale, nonostante la maggioranza della dottrina sia concorde nell’equipararlo al territorio dello Stato (Biscaretti di Ruffìa, P., Territorio dello Stato, in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 341), sono stati avanzati dubbi sulla rispondenza di tale teoria con la prassi. La prassi internazionale, almeno fino alla metà del XIX secolo, non contiene dati dai quali sia ricavabile la convinzione degli Stati che le acque adiacenti alla costa appartengano al sovrano al pari della terraferma (Conforti, B., Mare territoriale, in Enc. dir., XXV, Milano, 1975, 651 ss.). Se, quindi, ai sensi del diritto internazionale generale, la nozione di mare territoriale si afferma alla fine del XIX secolo e riceve una tutela non spaziale ma funzionale, sul piano convenzionale la situazione è diversa. L’art. 2 della Convenzione di Ginevra del 29 aprile 1958 sul mare territoriale e la zona contigua, così come l’art. 2 della Convenzione di Montego Bay del 10 dicembre 1982 sul diritto del mare affermano in termini identici l’equiparazione del mare territoriale al territorio dello Stato. Nel mare territoriale gli interessi dello Stato costiero vengono protetti spazialmente e non funzionalmente; difatti sono molto poche le limitazioni del potere di governo dello Stato costiero in tale zona di mare. È evidente che quanto appena affermato dipende dalla ricostruzione del rapporto fra Stato e territorio che si fa propria.
L’analisi delle diverse ricostruzioni dottrinali sul concetto di sovranità territoriale deve prendere le mosse dalla seguente considerazione. Per comprendere il rapporto fra Stato e territorio è opportuno utilizzare l’ottica della storicizzazione, l’unica che permetta di capire appieno perché in un dato contesto storico sia stata attribuita maggiore o minore rilevanza alle due attività che rientrano nel concetto di sovranità: l’attività dello Stato diretta a sfruttare le utilità del territorio in quanto bene (dominium) e il potere coercitivo esercitato sugli individui che si trovano sul territorio stesso (imperium). Le teorie sul territorio-oggetto pongono l’accento sulla prima attività, focalizzando la loro attenzione sul territorio dello Stato, considerato alla stregua di un bene. Tali teorie risentono della tradizione patrimonialista dello Stato, di derivazione romanista, e configurano la sovranità come un diritto reale assoluto, cui corrisponderebbe l’obbligo generale di tutti gli altri Stati di astenersi da ingerenze nel territorio di uno Stato. Viene viceversa sminuita l’importanza dell’esercizio della potestà di governo sugli individui, cioè l’imperium. Quest’ultimo sarebbe protetto solo indirettamente dalla norma sul rispetto dell’organizzazione degli Stati stranieri. Due sono i limiti di tale teoria. Da un lato, che rileva maggiormente per i giuspubblicisti, essa non riesce a spiegare come sullo stesso territorio possano insistere contemporaneamente titoli “proprietari” dello Stato e degli individui. A tale critica può rispondersi che i titoli rilevano per ordinamenti diversi, rispettivamente internazionale e interno. Dall’altro lato, per il fatto di privilegiare il criterio spaziale rispetto a quello personale, la teoria in questione non permette di ricostruire in maniera unitaria l’esercizio del potere di governo esercitato dagli Stati al di là dei limiti del territorio o su territorio altrui.
Secondo tale teoria il territorio non sarebbe altro che uno degli elementi costitutivi dello Stato, come appare nella definizione, oramai tralatizia, contenuta nella Convenzione di Montevideo. Come la prima teoria richiamata risente delle costruzioni dello Stato patrimoniale, questa risente delle costruzioni pubblicistiche, che fanno leva sull’essere piuttosto che sull’avere. Tale teoria non regge tuttavia (come del resto l’intera teoria degli elementi costitutivi, la drei-Elementen Lehre) alla prova della prassi internazionalistica, non riuscendo a spiegare l’immanenza dello Stato nonostante le mutazioni territoriali. Allo stesso tempo, la teoria del territorio-soggetto non è in grado di spiegare le ipotesi di esercizio della sovranità scisse dalla titolarità del diritto né di dare una concezione unitaria del potere esercitato sui territori coloniali.
A differenza delle altre teorie richiamate, che muovono dalla premessa della separazione fra ordinamento interno e internazionale, la teoria della competenza, elaborata dalla scuola di Vienna della dottrina pura del diritto, parte dal presupposto monistico della derivazione degli ordinamenti interni dall’ordinamento internazionale. Secondo tale teoria, il diritto internazionale fisserebbe le sfere di validità spaziale, temporale, personale e materiale degli ordinamenti interni. Il territorio dello Stato rappresenterebbe quindi soltanto il criterio di delimitazione spaziale di quell’ordinamento.
Al fine di emancipare la costruzione del diritto di sovranità territoriale da ogni residuo della concezione patrimonialista dello Stato, un’altra corrente dottrinale enfatizza l’attività coercitiva esercitata sugli individui nell’ambito del territorio, affermando che questa solo sia l’attività tutelata direttamente dal diritto internazionale. Per Quadri, tra i più vigorosi sostenitori di tale teoria, il diritto internazionale «assicura esclusivamente l’indisturbato esercizio del potere statuale come potere di governo della società stanziata sul territorio» (Quadri, R., Diritto internazionale pubblico, V ed., Palermo, 1968, 633), mentre gli altri Stati devono astenersi dall’agire coercitivamente. Tale teoria spiega con particolare efficacia il potere dello Stato esercitato sulle varie zone marine, aeree e cosmiche. L’aggettivo “funzionale” chiarisce la circostanza che l’esercizio del potere di governo è tutelato in funzione di specifici interessi materiali dello Stato (o degli Stati) in relazione alle varie zone territoriali. Nel territorio dello Stato la potestà funzionale resta invece assorbita nella generica potestà di governo.
Come spesso accade, ciascuna delle teorie riportate contiene una parte di verità, mettendo in luce certi aspetti del rapporto giuridico fra Stato e territorio. Vi sono quindi tutta una serie di ricostruzioni di natura eclettica che combinano le varie teorie, cercando di conciliare il diritto reale dello Stato sul territorio e la manifestazione della potestà di governo sulle persone. Da un lato, quindi, lo Stato è titolare di un diritto reale sul territorio. Dall’altro lato, il territorio è considerato come l’ambito spaziale nel quale si esercita la potestà sugli individui. Secondo la ricostruzione prevalente, il territorio dello Stato può essere concepito al contempo come spazio e come bene e la sovranità territoriale presenta due aspetti, dominium e imperium. Questi due aspetti si prestano a spiegare in modo particolare le situazioni in cui la titolarità del potere di dominio si scinde dall’esercizio di esso, cioè i tanti casi, alcuni noti all’esperienza storica, altri ancora attuali, in cui due distinti soggetti possono essere definiti sovrani: il titolare del diritto di dominio e chi esercita il potere di governo nell’ambito territoriale in questione.
Se, normalmente, il potere di governo si esercita entro i limiti del territorio dello Stato, esistono anche circostanze in cui tale potestà si estende al di là del limite territoriale.
Esclusa tale ipotesi, che esula da ogni considerazione sulla natura del territorio, occorre ricordare altre situazioni, tipiche nella prassi più risalente, consistenti nel cedere in affitto e in amministrazione porzioni di territorio a un altro Stato o gruppo di Stati. Per un esempio ancora attuale della prima fattispecie, si pensi alla base di Guantanamo, che si trova nel territorio di Cuba ma ove l’esercizio del potere di governo è esercitato dagli Stati Uniti d’America, che hanno provveduto a localizzare nella base militare una prigione per sospetti terroristi.
Mentre per i sostenitori della teoria funzionale ci si troverebbe di fronte a una “cessione mascherata”, le teorie miste sono in grado di spiegare la scissione tra nudum ius e exercitium iuris. L’unica condizione è che il titolare del diritto di godimento non compia atti tali da impedire al titolare del diritto di dominio di consolidare nelle proprie mani anche l’esercizio del diritto.
Non interessa in questa sede catalogare le situazioni territoriali particolari in funzione dell’interesse sotteso, interesse dell’amministrante (occupazione, protettorato) o dell’amministrato (mandati, amministrazioni fiduciarie, colonie), o, infine, nell’interesse della comunità internazionale. E neanche interessa classificarle a seconda che la situazione territoriale sia legittima o illegittima, cioè sorta in conformità o contrasto con il diritto internazionale. Dopo un rapido cenno ad alcune amministrazioni note all’esperienza storica, si provvederà invece a dare conto dei più recenti casi in cui le Nazioni Unite si sono impegnate direttamente nell’amministrazione di un territorio.
Alla fine della prima guerra mondiale i territori coloniali tedeschi e dell’impero ottomano vennero sottoposti al regime dei mandati. L’art. 22 del Patto della Società delle Nazioni fa riferimento a tre tipi di mandato, in funzione del grado di sviluppo civile dei popoli, della situazione geografica dei territori, delle condizioni economiche e di ogni altra circostanza. Il testo dell’articolo mostra in maniera assai chiara il rilievo che assume l’“elemento” popolazione rispetto all’“elemento” territorio. Mentre per i mandati di tipo A e B si fa riferimento rispettivamente a communautés e peuples, per i mandati di tipo C si parla di territoires, quasi che gli abitanti di questi territori non potessero neanche essere menzionati (Quadri, R., La sudditanza nel diritto internazionale, Padova, 1936, 145). L’applicazione pratica del regime dei mandati ha seguito linee diverse dalle previsioni del Patto: la potenza mandataria ha goduto di un potere simile a quello esercitato dal sovrano sul proprio territorio, limitato, oltre che dagli obblighi contenuti in ogni singolo mandato, anche da alcuni obblighi procedurali tra cui l’invio di una relazione annuale dalla quale doveva risultare che il potere di governo era esercitato nell’interesse delle popolazioni sottoposte. Emerge da ciò il vero limite sostanziale: la potenza mandataria non ha diritto di modificare lo status internazionale del territorio.
Al termine della seconda guerra mondiale vennero sottoposti al regime di amministrazione fiduciaria alcuni territori già sottoposti a mandato, i territori tolti ai vinti nonché altri territori volontariamente sottoposti a tale sistema. Rispetto ai mandati appare in maniera più chiara la finalità dell’indipendenza dei popoli soggetti all’amministrazione e i meccanismi di controllo sono più precisi. Anche se la potenza fiduciaria gode della piena potestà legislativa, amministrativa e giurisdizionale (per i testi dei vari accordi si veda il documento delle Nazioni Unite UN. Doc. T/8 del 25 marzo 1947), l’esercizio di tali poteri è limitato dal rispetto delle finalità dell’istituto, indicate all’art. 76 della Carta delle Nazioni Unite, oltre che da obblighi ulteriori contenuti nei vari accordi di tutela. Il territorio non può comunque essere oggetto di appropriazione. Sia nel caso dei mandati che in quello delle amministrazioni fiduciarie viene in rilievo la scissione tra imperium e dominium. Il primo è esercitato dalla potenza mandataria o da quella che esercita l’amministrazione fiduciaria; per quanto riguarda il secondo, fino a che non si giungerà all’indipendenza, manca il titolare.
Un discorso diverso deve essere fatto per i territori non autonomi, nome utilizzato nella Carta delle Nazioni Unite per indicare le colonie (capitolo XI della Carta). In questo caso il controllo internazionale è assai meno incisivo; basti pensare che il rapporto periodico di chi esercita il potere di governo sul territorio serve solo a scopo informativo. L’intero capitolo XI della Carta è stato però travolto dalla prassi della decolonizzazione a seguito della quale tutte le colonie sono diventate Stati indipendenti.
Solo un cenno deve infine essere fatto alle ipotesi di occupazione prolungata, alcune delle quali, come quella di Israele sui territori palestinesi o della Turchia sulla zona nord di Cipro si protraggono ancora oggi. Anche in questi casi l’esercizio della potestà territoriale è svolto dall’occupante, che dovrebbe esercitarlo rispettando alcune regole consuetudinarie e pattizie (parere della Corte internazionale di giustizia 9.7.2004 nel caso del muro, Legal consequences of the construction of a wall in the occupied Palestinian territory, in ICJ Reports, 2004, 136, par. 89 ss.).
Mentre nelle ipotesi precedenti la gestione del potere di governo su territorio “altrui” era posta nelle mani di uno Stato, nella prassi internazionale non sono mancati tentativi (riusciti e non) di affidare l’amministrazione (o il controllo) di un territorio a una organizzazione internazionale. Lasciando da parte i casi più risalenti, dai lavori preparatori della Carta emerge che – nonostante la mancata menzione del potere di amministrazione di territori nell’elenco delle misure implicanti l’uso della forza – non si fosse voluto escludere tale potere (Doc. 2 G/7 (n) (1) del 4 maggio 1945, in U.N.C.I.O., vol. 3, 365 ss. e Doc. 539 III/3/24 del 24 maggio 1945, ivi, vol. 12, 355). Dopo un primo tentativo, nel quale l’Assemblea generale pose fine al mandato del Sud Africa nel territorio del Sud-Ovest africano (risoluzione dell’Assemblea generale 2145 del 27 ottobre 1966), cercando di avocare a sé l’amministrazione del territorio, che rimase invece saldamente nelle mani della ex potenza mandataria, il Consiglio di sicurezza ha fatto uso di tali poteri istituendo le missioni in Kosovo e a Timor Est.
L’amministrazione provvisoria delle Nazioni Unite in Kosovo (UNMIK) viene istituita dal Consiglio di sicurezza con la risoluzione 1244 del 10 giugno 1999, considerata da taluni (Ronzitti, N., Uso della forza e intervento di umanità, in Ronzitti, N., a cura di, NATO, conflitto in Kosovo e costituzione italiana, Milano, 2000, 19) una sorta di accordo di pace che pone fine all’intervento militare della NATO contro Belgrado, intervento iniziato per far cessare le gravi violazioni del diritto internazionale umanitario perpetrate in Kosovo dall’esercito della Repubblica federale iugoslava. Fine dell’amministrazione provvisoria in Kosovo era la creazione di una struttura di autogoverno in modo che la regione potesse godere di una sostanziale autonomia. Gli esiti della missione erano invece incerti, dal momento che le ripetute affermazioni circa la sovranità iugoslava della regione contenute nella risoluzione istitutiva sembrano riferirsi solo alla fase transitoria. Nudum ius alla Repubblica federale iugoslava, dunque, e exercitium iuris all’UNMIK. Nel rapporto preliminare del Segretario generale (UN Doc. S/1999/672 del 12 giugno 1999) sono fissate le modalità di organizzazione interna della missione, dotata di ogni autorità legislativa, esecutiva e di amministrazione della giustizia. Per esercitare il potere di governo il Rappresentante speciale del Segretario generale, posto a capo della missione civile, ha emanato una serie di regolamenti. Unico limite all’azione del Rappresentante speciale sembra derivare dalla provvisorietà dell’amministrazione da lui presieduta, oltre che dal rispetto del sia pur vago mandato. Il Rappresentante speciale non avrebbe dovuto modificare la situazione in modo “irreversibile”. In questa parola si cela l’equivoco di fondo insito nell’istituzione dell’UNMIK: il passaggio del tempo crea effettività. Quando la nuova assemblea del Kosovo ha adottato, il 23 maggio 2002 una risoluzione sull’integrità territoriale della provincia, il Rappresentante speciale ha svolto il proprio ruolo di garante delle previsioni contenute nella risoluzione 1244 del 1999, ponendo il veto alla risoluzione con cui l’assemblea tentava di invalidare l’accordo di frontiera concluso fra Repubblica federale iugoslava e Macedonia (Milano, E., Unlawful Territorial Situations in International Law, Leiden-Boston, 2006, 259). Lo stesso non è avvenuto quando le autorità kosovare hanno reso la dichiarazione di indipendenza, il 17 febbraio 2008. A seguito della dichiarazione, l’effettivo potere di governo esercitato dalle nuove autorità di governo kosovare, seppure in violazione della sovranità della Serbia (nel frattempo succeduta alla Repubblica federale iugoslava), ha creato di fatto quella situazione irreversibile che rappresentava l’unico limite sostanziale all’operato della missione.
Seconda in ordine di tempo, ma anche meno problematica perché sin dall’inizio era chiaro quale ne sarebbe stato l’esito, l’amministrazione transitoria delle Nazioni Unite per Timor Est (UNTAET) viene istituita dal Consiglio di sicurezza con la risoluzione 1272 del 25 ottobre 1999. Il Consiglio dota la missione di tutti i poteri necessari a indirizzare l’amministrazione del territorio verso l’indipendenza. Il paese è stato incluso nella lista dei territori non autonomi ai sensi del capitolo XI della Carta fino alla data dell’indipendenza, proclamata il 20 maggio 2002. Il processo di decolonizzazione della parte orientale dell’isola si era interrotto a seguito del brusco ritiro del Portogallo, ex potenza coloniale, cui aveva fatto seguito l’invasione e la successiva occupazione dell’Indonesia, che governava la parte occidentale dell’isola. L’occupazione indonesiana non ha permesso la realizzazione dell’autodeterminazione della popolazione timorese. Un paragone tra i poteri delle strutture del governo locale create a Timor Est e quelle del Kosovo mostra come i poteri di autogoverno sono molto più estesi nel caso di Timor. I consigli locali che si susseguono nei due anni della missione godono di poteri sempre più incisivi fino ad essere sostituiti da un corpo consultivo eletto con funzione costituente. Oltre che dal sicuro esito del mandato, l’indipendenza, questa differenza deriva dalla circostanza che nel caso di Timor Est nessuno Stato esistente possedeva il diritto di dominio sul territorio della parte orientale dell’isola.
Anche se la dottrina più risalente era solita organizzare i modi di acquisto del territorio sulla falsariga del diritto privato in modi di acquisto a titolo originario (es. occupazione effettiva con animus possidendi di territorio nullius) e a titolo derivato (es. cessione), la dottrina internazionalista più attenta alla prassi considera tali elencazioni e distinzioni come mere categorie descrittive senza alcun valore normativo. Atti simbolici di appropriazione, donazioni o altre attribuzioni potevano al limite costituire titoli preferenziali (incohate titles), essendo sempre necessario per l’acquisto della sovranità territoriale l’insediamento effettivo sul territorio. Si noti che nella prassi internazionalistica quasi sempre con il termine “titolo” si indica il fatto giuridico da cui dipende la sovranità territoriale di uno Stato su un certo territorio. La stessa giurisprudenza internazionale, nel risolvere le controversie territoriali tra Stati, piuttosto che far uso di titoli, che vengono al massimo menzionati, fa riferimento al criterio del possesso (Gioia, A., Territorio in diritto internazionale, in Dig. pubbl., XV, Torino, 1999, 267 e 275 ss.).
Allo stesso modo la dottrina tradizionale indicava i modi di perdita della sovranità territoriale distinguendoli in derelizione, cessione, prescrizione e conquista. Valga per questo elenco lo stesso rilievo svolto circa i modi di acquisto.
Del resto, il territorio dello Stato può accrescersi e diminuire fino a venir meno per effetto delle vicende dello Stato: secessione o distacco, smembramento, incorporazione e fusione. Anche in questi casi il principio di effettività svolge un ruolo decisivo nell’acquisto e nella perdita della sovranità territoriale. Se, ad esempio, un territorio si distacca da uno Stato per unirsi a un altro a seguito di un accordo di cessione, l’accordo produce effetti obbligatori, verificandosi il passaggio di sovranità solo con l’effettiva sostituzione del potere di governo.
Anche quando un giudice internazionale risolve una controversia territoriale con una sentenza aggiudicatrice, senza limitarsi ad accertare uno stato di fatto esistente, bensì dettando nuovi confini, eventualmente in contrasto con il principio dell’uti possidetis iuris (v. infra, § 5), sembra a chi scrive sempre necessario che la sentenza venga effettivamente eseguita con l’instaurazione del possesso effettivo del territorio attribuito all’una o all’altra parte. È vero che, per le parti, la fonte di diritti e obblighi contenuti nella sentenza dispositiva riposa nell’accordo con cui queste hanno accettato di conferire la controversia al giudice, ma ciò non riguarderebbe eventuali Stati terzi. Lo stesso vale per ogni accordo di delimitazione dei confini tra due o più Stati. Al contrario di quanto afferma parte della dottrina (Treves, T., Diritto internazionale, problemi fondamentali, Milano, 2005, 101), secondo la quale tali accordi godono di una resistenza particolare o soggiacciono al principio della successione automatica, si ritiene che sia la norma sulla sovranità territoriale, non già l’accordo, a tutelare i confini fissati negli accordi.
Occorre chiedersi se, nel diritto internazionale contemporaneo, l’affermazione del divieto della minaccia e dell’uso della forza armata e del principio di autodeterminazione dei popoli abbia mutato tale stato di cose.
Si contrappongono oggi in dottrina coloro che ritengono che l’esercizio effettivo del potere di governo su un territorio, comunque acquisito, comporti l’acquisto della sovranità territoriale e coloro che ritengono invece che due principi di diritto cogente rappresentino un ostacolo a tale acquisto. Da un lato, dal principio che vieta la minaccia o l’uso della forza armata nelle relazioni internazionali deriverebbe la conseguenza che non si può formare nessun titolo al territorio contro tale divieto. Tale principio trova espressione, fra l’altro, nella Dichiarazione di principi di diritto internazionale sulle relazioni amichevoli fra Stati (risoluzione dell’Assemblea generale 2625 del 24 ottobre 1970). Dall’altro lato, anche il principio di autodeterminazione dei popoli costituirebbe un ostacolo all’acquisto della sovranità su territorio altrui. Per questo motivo, e per limitarci ai due casi esaminati, non si sarebbe consolidato il titolo dell’Indonesia sulla parte orientale dell’isola di Timor o di Israele sui territori occupati. Riteniamo al contrario che il protrarsi nel tempo di una situazione di fatto sia ancora idoneo a sanare un titolo formatosi in violazione di una norma di diritto internazionale, come del resto è avvenuto in Kosovo. In altri termini la certezza del diritto, valore sottostante al principio di effettività, prevale ancora nella comunità di Stati anarchica e orizzontale su presunte pretese di legittimità che dovrebbero promuovere taluni valori considerati fondamentali dalla comunità degli Stati nel suo insieme. Si può al più riconoscere la creazione di una norma consuetudinaria che impone il disconoscimento degli effetti extraterritoriali degli atti di governo emanati su territori occupati con la forza o amministrati in dispregio del principio di autodeterminazione dei popoli (Conforti, B., Diritto internazionale, IX ed., Napoli, 2013, 205 s.).
Nella Convenzione di Montevideo si fa riferimento a un territorio determinato. Esistono però Stati dai confini territoriali incerti come, ad esempio, Israele.
Anche la Corte internazionale di giustizia ha precisato che non vi è alcuna regola di diritto internazionale secondo cui le frontiere terrestri di uno Stato devono essere compiutamente delimitate e definite (sentenza 20.2.1969, nel caso della Piattaforma continentale del Mare del nord, in ICJ Reports, 1969, 3, par. 46).
Anche se non vi è alcun obbligo internazionale in materia, gli Stati vogliono avere confini certi e abbondano nella prassi internazionale le controversie territoriali (e marittime) di delimitazione dei confini tra Stati contigui.
La delimitazione del territorio è un’operazione giuridica che deve basarsi su un titolo (cfr. il lodo arbitrale tra Guinea-Bissau e Guinea 14.2.1985, in RGDIP, 1985, 484 ss., par. 120); sono invece irrilevanti i confini naturali (Distefano, G., Territorio (dir. int.), in Cassese, S., diretto da, Dizionario di diritto pubblico, VI, Milano, 2006, 5912). Le carte geografiche possono avere al più valore probatorio (cfr. la sentenza 22.12.1986 di una Camera della Corte internazionale di giustizia nel caso della controversia di frontiera tra Burkina Faso e Mali, in ICJ Reports, 1986, 554, parr. 53-63). Quanto appena affermato non considera il diverso caso in cui una mappa sia annessa a un accordo e costituisca parte integrante di esso (cfr. il lodo arbitrale 13.4.2002 reso dalla commissione che doveva delimitare la frontiera tra Etiopia e Eritrea, par. 3.18, nonché, da ultimo, la sentenza della Corte internazionale di giustizia 16.4.2013 nella controversia di frontiera tra Burkina Faso e Niger, par. 64).
Nonostante quanto sostenuto sopra sul ruolo dell’effettività nell’acquisto e perdita della sovranità territoriale, occorre riconoscere che la Corte internazionale di giustizia ha spesso affermato che nei casi di controversia territoriale tra Stati limitrofi, in presenza di un titolo giuridico certo, il principio di effettività deve cedere il passo. Solo in assenza di titoli si può far ricorso all’effettività. Tale affermazione si trova per la prima volta nel caso della controversia di confine che vede contrapposti Burkina Faso e Mali (sentenza cit., par. 63) ed è ribadita in decisioni successive: nella controversia territoriale tra Libia e Ciad (sentenza 3.2.1994, in ICJ Reports, 1994, 6, parr. 75-76); nel caso della frontiera terrestre e marittima tra Camerun e Nigeria con l’intervento della Guinea equatoriale (sentenza di merito 10.10.2002, in ICJ Reports, 2002, 303, par. 68) e nel caso della sovranità su Pulau Ligitan e Pulau Sipadan tra Indonesia e Malesia (sentenza 17.12.2002, in ICJ Reports, 2002, 625, par. 126). Si deve del resto notare che spesso sulle zone di confine o su zone scarsamente abitate, come quelle cui si riferiscono le controversie menzionate, l’esercizio del potere di governo si manifesta solo in maniera sporadica.
In assenza di accordo tra le parti sulla delimitazione di confini, la giurisprudenza internazionale tende inoltre ad applicare il principio dell’uti possidetis iuris. Si tratta di un principio le cui origini risalgono al diritto romano e che è stato utilizzato la prima volta nell’ordinamento internazionale quando le colonie spagnole e portoghesi dell’America latina sono diventate indipendenti. Il principio in questione, che si afferma in un primo momento come consuetudine regionale e poi assume portata generale (cfr. la sentenza della Corte internazionale di giustizia nella disputa territoriale tra Burkina Faso e Mali, cit., parr. 20-26), permette di trasformare le suddivisioni amministrative interne di un territorio coloniale in frontiere internazionali. Spesso l’applicazione delle frontiere preesistenti non rappresenta che il punto di partenza per una delimitazione convenzionale (magari demandata a una commissione di demarcazione) o per il deferimento di una controversia territoriale a un giudice. La giurisprudenza mostra inoltre come la frontiera fissata sulle linee delle vecchie suddivisioni interne può essere derogata mediante accordo o attraverso la prassi successiva degli Stati. Deve infine ricordarsi un’applicazione impropria di tale principio al di fuori da situazioni coloniali, nel caso della disgregazione della Iugoslavia.
Art. 1 della Convenzione di Montevideo sui diritti e doveri degli Stati (1933); art. 22 del Patto della Società delle Nazioni (1919); Capitoli XI e XII della Carta delle Nazioni Unite (1945); Risoluzione del Consiglio di sicurezza 1244 del 10 giugno 1999; Risoluzione del Consiglio di sicurezza 1272 del 25 ottobre 1999; Risoluzione dell’Assemblea generale 2625 del 24 ottobre 1970.
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