Territorio: una risorsa per lo sviluppo
Negli ultimi anni il territorio è andato acquistando un’importanza crescente nelle politiche dello sviluppo tanto in Italia quanto in Europa, mentre si è riacceso il dibattito interdisciplinare sul suo significato e sulla sua funzione nelle trasformazioni che segnano il nostro tempo. Al crocevia dei nuovi orientamenti della geografia, ma anche dell’economia, delle scienze sociali, dell’architettura e dell’urbanistica, oltre che delle scienze biologiche, antropologiche e politiche, il territorio sembra diventare la chiave di volta indispensabile per decifrare la condizione in cui versano le società locali, messe in crisi, ma al tempo stesso chiamate a esercitare un protagonismo crescente di fronte ai processi di globalizzazione economica, culturale e politica che caratterizzano la contemporaneità. Il sovrapporsi delle diverse prospettive di studio e d’intervento non sembra peraltro in grado di risolversi in una più compiuta e condivisa maniera d’intendere il territorio, nozione in verità tuttora quanto mai sfuggente e polisemica, che si presta a essere utilizzata diversamente nei molteplici registri disciplinari e contesti d’azione.
Si darà conto in seguito delle differenze che sono connaturate alle nuove visioni della geografia, dell’economia, della sociologia e dell’urbanistica, e delle loro possibili implicazioni per l’intervento. Ma fin d’ora si può assumere almeno un dato tendenzialmente in comune: intendere il territorio come risorsa strategica per lo sviluppo, tanto più preziosa in quanto portatrice di specificità, di qualità e di differenze, tutti valori sempre più apprezzati e ricercati dall’economia e dalla cultura della nostra epoca. Questa prospettiva sembra caratterizzare verosimilmente anche gli scenari futuri, in cui c’è da ritenere che acquisteranno sempre più importanza le esperienze di qualità dello spazio, anche di fronte all’estendersi dei processi di smaterializzazione dei flussi. Nell’epoca della conoscenza che sta incalzando, il territorio sembra destinato a riacquistare centralità non solo per la cultura, ma anche per la produzione della ricchezza e l’offerta di vantaggi competitivi sempre più condizionanti nell’economia postindustriale. Almeno questa è la tesi di fondo che attraversa questo testo che, dopo aver ricostruito brevemente le posizioni più significative sul modo di intendere il territorio oggi, esplora alcune direzioni dell’innovazione in atto, con particolare riferimento ai temi della produzione, dell’intrattenimento e dell’abitabilità dello spazio. Con un’avvertenza: di fronte alla complessità implicita nel tema del territorio, gli argomenti e le tesi avanzate nel testo rappresentano un punto di vista parziale, delimitato e comunque ben lontano dalle certezze che oggi meno che mai possono sorreggere la ricerca e le pratiche di intervento per il territorio. L’apparente centralità qui assegnata ai temi dell’economia non deve comunque far scadere l’importanza del territorio come bene comune, che mette in tensione pratiche sociali e logiche dello sviluppo, negando legittimità alle visioni riduttive della crescita largamente diffuse nelle scienze economiche dominanti (Donolo 2007).
Una geografia attiva del territorio
Nel territorio oggi siamo portati a vedere sempre più «un quadro creatore di organizzazione, una struttura attiva e non più un semplice spazio utilizzato per accogliere gli investitori potenziali o per realizzare un’infrastruttura», non più dei «quadri dove le cose passano, ma dove s’inventano» (Guigou 20022, p. 12). Questo significato assai complesso del territorio è fondato sul riconoscimento delle relazioni che s’intrecciano di volta in volta tra la rete degli attori locali e il patrimonio materiale di risorse del luogo accumulato selettivamente nel tempo, portatore di identità specifiche che lo distinguono dagli altri contesti. Per contro, se deprivato dei suoi valori d’interdipendenza tra attori e patrimonio, il territorio tende irrimediabilmente a banalizzarsi e diventa facilmente oggetto di pratiche separate di pianificazione spaziale, di programmazione economica e di regolazione sociale, di per sé incapaci di attivare isolatamente tutte le potenzialità di sviluppo implicite nei contesti locali.
A questa filosofia rispondono i nuovi orientamenti di una geografia attiva che si sta avvicinando sempre più alle scienze della pianificazione, emancipandosi dal tradizionale approccio che assume il territorio come mera proiezione nello spazio dei processi economici e sociali. Lavorando sul principio di circolarità relazionale piuttosto che di discendenza lineare tra i diversi sistemi dell’economia, della società e del territorio, questa nuova geografia tende ora a spostare l’attenzione verso i processi di territorializzazione, nel solco delle idee seminali introdotte trent’anni fa da Claude Raffestin. Questo grande geografo scriveva allora che «il territorio è il risultato di un’azione condotta da un attore sullo spazio. Appropriandosi concretamente o astrattamente (per es., attraverso la rappresentazione) di uno spazio, l’attore territorializza questo spazio, riorganizzando incessantemente le condizioni preesistenti» (Pour une géographie du pouvoir, 1980; trad. it. 1981, p. 149). In continuità con tale assunto, la territorialità viene ora definita come una condizione «costituita dall’insieme delle relazioni che una società intrattiene con l’ambiente fisico e l’ambiente sociale per soddisfare i propri bisogni, con l’aiuto di mediatori, in previsione di ottenere la più grande autonomia possibile» (Raffestin 2007, p. 22). Ed è così, tra il continuo susseguirsi di processi ricorsivi tra territorializzazione, deterritorializzazione e riterritorializzazione selettiva, che la storia produce geografia, svelando le potenzialità implicite nelle dotazioni di territorio e attivandole grazie all’azione volontaria di una rete di attori locali che cercano di appropriarsi dello spazio adattandolo alle proprie esigenze.
Muovendosi su questa stessa scia di pensiero, un altro importante geografo italiano, Giuseppe Dematteis, è giunto più recentemente alla concezione della territorialità come un mediatore simbolico, cognitivo e pratico, che connette la materialità delle risorse immobili disponibili localmente con le strategie degli attori sociali impegnati nei processi di sviluppo locale (Dematteis 2001). All’interno di questa interpretazione, che restituisce centralità alle pratiche sociali, si assume che le risorse locali, o di milieu, siano rappresentate dall’ambiente naturale, dal patrimonio storico-culturale, dal capitale fisso accumulato in infrastrutture e impianti, e infine dai beni relazionali incorporati nel capitale umano, quali il capitale cognitivo locale, il capitale sociale, la capacità istituzionale. E inoltre si assume che l’azione collettiva dei soggetti sia manifestazione di progettualità anche implicite, che comunque fanno diventare il territorio espressione di un’intenzionalità volta al futuro, cosicché esso ogni volta va inteso come l’esito di un progetto sociale anche non necessariamente consapevole.
Tutto ciò porta all’innovativa concezione del modello SLoT (Sistema Locale Territoriale), inteso come «rete locale di soggetti i quali, in funzione degli specifici rapporti che intrattengono tra loro e con le specificità territoriali del milieu locale in cui operano, si comportano, di fatto e in certe circostanze, come un soggetto collettivo» (G. Dematteis, F. Governa, Il territorio nello sviluppo locale, in Territorialità, sviluppo locale, sostenibilità, 2005, p. 29). Cioè un sistema capace di autorganizzarsi e anche di autorappresentarsi in forma endogena, costruendo la propria identità attraverso una varietà di progetti mirati ad accrescere il valore aggiunto territoriale, a sua volta misurato proprio dalla capacità di attivazione delle risorse potenziali specifiche di un determinato territorio.
Questa complessa accezione del termine proposta da Dematteis e dalla sua scuola torinese differisce molto dalle categorie descrittive adoperate nella geografia e nelle scienze della pianificazione, quali, per es., comprensori, ambiti funzionali omogenei, distretti industriali, sistemi urbani. La sua utilità ai fini delle politiche dello sviluppo proviene dal fatto che non ci si limita a individuare un sistema territoriale esistente e che già funziona come attore collettivo, ma ci si rivolge piuttosto a «un insieme di indizi e di precondizioni che, con l’intervento di opportuni stimoli, azioni di govern-ance e accompagnamento, rendono possibile o altamente probabile la costruzione di un sistema territoriale capace di contribuire autonomamente a obiettivi di sviluppo» (Dematteis, Governa, in Territorialità, sviluppo locale, sostenibilità, 2005, p. 30). In questo senso, il modello SLoT offre la possibilità di esplorare le forme dello sviluppo generate da una territorialità attiva che intende mettere in valore le risorse potenziali specifiche dei singoli contesti locali, in una prospettiva che intreccia sempre più la responsabilità della geografia con quelle delle politiche di pianificazione e di programmazione dello sviluppo.
In definitiva, come osserva in un interessante saggio Gabriele Pasqui (2005), nella visione che viene proposta da Dematteis «il territorio è inteso come Giano bifronte: insieme artefatto culturale e sedimento naturale; esito di pratiche strategiche e condizione di possibilità per l’azione. La territorialità non è un dato inerte, ma una risorsa attivabile entro processi e pratiche sociali e istituzionali, a partire da progetti e scenari: non è un ambito localistico, tendenzialmente chiuso, ma il fuoco di processi insieme locali e globali, di breve e di lungo periodo» (p. 35).
Il ritorno all’economia-territorio
Anche l’economia viene sollecitata a produrre nuovi quadri cognitivi e visioni di territorio non più caratterizzati dalla mera strumentalità rispetto alle logiche della produzione e del consumo o, ancor peggio, dalla marginalità o dall’indifferenza. Prendendo atto della sostanziale irriducibilità del territorio a essere considerato un semplice contesto neutro ai fini della creazione del valore economico e rinunciando al tempo stesso alla sua interpretazione banale di puro contenitore di risorse immobili, i nuovi orientamenti si stanno interrogando sulle sue potenzialità come risorsa strategica per lo sviluppo, in grado di integrare in modo flessibile l’insieme delle condizioni locali per la produzione e di offrire così ambienti altamente competitivi per le imprese e al tempo stesso di elevata coesione per le comunità insediate.
Si è ben consapevoli che nell’economia contemporanea fattori quali la qualità, la flessibilità e l’innovazione contano ormai più dei costi, e che i capitali internazionali vengono attratti soprattutto da fixed assets incorporati negli spazi di maggiori potenzialità. In questa situazione il territorio è destinato a rientrare pesantemente in gioco, ripopolando con i propri valori di specificità e di differenze lo spazio astratto della produzione e del consumo, finora appiattito dalle razionalità di funzionamento dell’industria fordista o da quelle più recenti dell’economia della conoscenza, dove le tecnologie digitali consentono di accedere a bacini di mercato sempre più globali, sfruttando enormi economie di scala per la distribuzione del patrimonio di conoscenze e innovazioni.
Del resto, come osserva Enzo Rullani, «il territorio non è sparito per caso: al suo posto l’economia dell’Ottocento ha messo il mercato e quella del Novecento il potere dell’organizzazione fordista. Se stiamo riscoprendo oggi il territorio, è perché mercato e organizzazione non bastano più per governare la complessità con cui abbiamo a che fare» (in La città infinita, 2004, p. 92). Al riguardo si può osservare che l’esasperata ricerca di competitività che condiziona l’economia contemporanea tende a svalutare l’importanza dei fattori di costo e di stock delle risorse produttive, mentre attribuisce centralità crescente alle capacità organizzative e alla qualità delle istituzioni, che nel loro insieme favoriscono in misura maggiore l’insorgere dei processi d’innovazione, spesso esito di effetti d’interazione non routinaria tra i molteplici attori dello sviluppo in gioco. Riemerge allora con forza il bisogno di territorio, che s’insinua tra capitale e lavoro come nuovo fattore decisivo della produzione. È questo infatti il tramite che per propria natura consente di offrire la più grande varietà di risorse relazionali, facilitando i processi di apprendimento cumulativo, la sperimentazione di nuove configurazioni organizzative e la circolazione dei nuovi prodotti che è alla base dei sistemi d’innovazione (Veltz 2002). Ed è ancora il territorio che, propiziando il mutuo scambio di esperienze, consente di realizzare forme inedite di cooperazione tra i diversi segmenti dei sistemi di produzione e consumo, fungendo da incubatore per quelle nuove ecologie relazionali, al tempo stesso interne ed esterne, che rappresentano la chiave del successo nell’economia globale.
Risultano rilevanti le conseguenze di questo ritorno alle economie-territorio. Non solo perché il territorio «entra ormai nel gioco economico come matrice d’organizzazione e di interazioni sociali, e non più come stock o assemblaggio di risorse tecniche», come aveva intuito Pierre Veltz nel 1996 (Mondialisation, villes et territoires, p. 10). Ma anche perché in questo territorio sempre più attraversato da molteplici flussi di scambio a diverse velocità, l’intreccio tra processi globali e locali tende a disarticolare le relazioni di prossimità, frantumando di conseguenza lo spazio in un arcipelago di polarità transcalari situate in diversi circuiti e tenute insieme da reti materiali e immateriali che consentono l’interazione e il controllo a distanza.
Da questo punto di vista, nell’epoca contemporanea si assiste ovunque all’indebolimento progressivo della prossimità spaziale e della distanza come principi ordinatori degli assetti economici e spaziali. Il territorio-area cede infatti il passo a nuove forme di territori-rete, che hanno l’effetto di smaterializzare lo spazio mentre ne ripropongono un ruolo determinante come ancoraggio materiale dei flussi a tutto campo. I territori-rete rappresentano invero una sfida all’immaginazione. Non sono più infatti riconducibili alla ben nota immagine lecorbuseriana dei territori irrigati fisicamente e funzionalmente dalle infrastrutture di comunicazione, potente metafora della volontà urbanistica di connettere organicamente le diverse aree d’insediamento in un disegno totalizzante dello spazio della modernità. Piuttosto, come sostiene Veltz (1996, p. 65), tendono ora a configurarsi come «veri territori in rete, dove ogni polo si definisce come punto di incrocio e commutazione di reti multiple, nodo di densità all’interno di un gigantesco intreccio di flussi che è la sola realtà concreta».
Verso un territorio transcalare e multistrato
Il tendenziale primato dei flussi sui luoghi non deve tuttavia indurre a sottovalutare l’importanza delle nuove forme di spazialità nella società e nell’economia contemporanee. Ci si rende conto di quanto l’incalzare delle nuove trame di relazioni portate dai flussi sia capace di alterare i nostri modi di esperire lo spazio e il tempo, e di configurare una nuova scena che oltrepassi le abituali percezioni di appartenenza e di radicamento al locale. E tuttavia il territorio non sembra affatto restare inerte, registrando passivamente le nuove forme di relazioni sociali. Al contrario, non poche ricerche sul campo rivelano che esso tende a reagire attivamente alle sollecitazioni impresse dalla contemporaneità, riorganizzando in maniera profonda i propri assetti fisici e funzionali, e anche il proprio senso complessivo nell’incontro-scontro tra spazialità sedimentate e nodi di atterraggio dei flussi di beni e conoscenze, materializzato in luoghi ingombri di provenienze dal passato quanto di frammenti proiettati verso il futuro.
Non è vero che i processi di mutamento in atto portano ad abbandonare territori ormai obsoleti, almeno non più di quanto sia avvenuto nel recente passato con la dismissione delle fabbriche e degli altri luoghi della produzione fordista. Piuttosto le forme nuove e quelle ereditate dalla storia sembrano poter convivere entro nuovi quadri di senso che nascondono, sotto la coltre di un’apparente familiarità della scena insediativa quotidiana, le molteplici e disgiunte appartenenze allo spazio dei flussi e le nuove scale di interdipendenza con i territori a distanza.
Così nuove morfologie insediative accompagnano le profonde mutazioni che hanno investito i luoghi dell’abitare, del produrre, del consumare e le loro relazioni reciproche. Queste non sono più strutturate dalle separatezze funzionali e dai ritmi di spostamento ciclico e routinario su cui si sono modellate le pianificazioni dei trasporti e dell’urbanistica della modernità, ma piuttosto dall’intreccio e dall’ibridazione, come del resto è avvenuto tra produzione, scambio e consumo nell’economia postmoderna. Così la forte crescita entropica della mobilità, soprattutto attraverso l’utilizzo dell’automobile privata, riflette tangibilmente un uso sempre più allargato e intrecciato del territorio, dove i processi di frammentazione e di dispersione nello spazio tendono ad accomunare tanto le pratiche lavorative quanto quelle abitative e quelle legate al tempo libero. Ma tutto questo avviene senza sconvolgere radicalmente gli assetti sedimentati dalla storia; piuttosto con una dilatazione infinita degli spazi urbanizzati, resi porosi dalla fitta presenza di vuoti e spazi aperti che dissolvono le frontiere tradizionali tra orizzonti urbani e orizzonti naturali, dando luogo in definitiva a una sconfinata presenza di spazi residuali intermedi di incerto statuto.
In questi territori urbani senza fine, molto più che nei centri consolidati, si realizza l’esperienza di uno spazio entropico disseminato di presenze aleatorie di oggetti e di eventi instabili, attraversato da flussi pulsanti con ritmi asincroni e metabolizzato attraverso immagini che cercano di pacificare il conflitto latente tra caoticità delle nuove forme e stabilità delle configurazioni derivate dal passato. In questi luoghi, più che altrove, si sperimenta effettivamente la nuova condizione della contemporaneità che rimescola quadri di senso, esperienze di vita e assetti spaziali accostandoli nel segno dell’ambivalenza e dell’indeterminatezza, avendo dissolto i loro tradizionali legami di reciprocità insieme ai valori incorporati nelle durate stratificate del territorio.
Del resto, come si è già osservato, il mutamento dello spazio sta diventando sempre più una dimensione fondamentale del processo di trasformazione che investe la società contemporanea. Una nuova territorialità emerge soprattutto nei Paesi più avanzati, mentre prende corpo una diversa struttura sociale – la network society – che genera legami innovativi di appartenenza immateriale e che al tempo stesso permette di sperimentare un’inusitata condizione di libertà individuale (Bauman 2000; Castells 2003).
Net e self sono i mondi che stanno rimodellando le nostre vite e i nostri spazi, combinandosi tra loro secondo una varietà di modi che riflettono il mutevole incontro e scontro tra le logiche delle reti globali e quelle dell’autodeterminazione del locale. Net, le nuove tecnologie di comunicazione interindividuali e interculturali, e self, l’affermazione di microindividualità autocentrate, si accompagnano al dissolvimento delle categorie canoniche di cittadinanza, di interesse comune e di appartenenza al luogo. Oggi, di fronte alla dispersione dei soggetti e dei processi insediativi, ma anche di fronte al manifestarsi di inedite geocomunità che cercano di adattarsi dinamicamente alla «varietà di aspetti che abitano lo stesso territorio, ne rendono mobili i confini interni ed esterni, ne enfatizzano i dati caratteristici e, insieme, mutevolezza e instabilità» (Bonomi, in La città infinita, 2004, p. 18), diventa sempre più arduo individuare legami e valori sociali stabilmente condivisi; precisare ciò che intendiamo propriamente per legittimo interesse collettivo nell’intreccio irrisolto tra sfera locale e sovralocale; ciò che è possibile attribuire allo Stato nazionale e alle istituzioni locali, e ciò che invece rinvia agli organismi e alle reti sovranazionali; come misurarsi con il tema delle differenze e riorganizzare di conseguenza la welfare society nell’era dell’individualismo istituzionalizzato che impone di trovare nuovi equilibri tra responsabilità collettive e personali; e perfino come ripensare gli spazi pubblici e le necessarie immagini di identificazione comune nei nuovi territori urbani sempre più pervasi dal multiculturalismo e dall’individualismo di massa, che sviliscono e svuotano di qualsiasi significato le esperienze ricevute in eredità dal passato anche più recente.
Insieme alle morfologie dello spazio, tendono così a cambiare i riferimenti di fondo che hanno ispirato fino a oggi le politiche territoriali e di programmazione dello sviluppo. Anziché mirare alla redistribuzione delle risorse disponibili con l’obiettivo di garantire l’omogeneità delle condizioni, riducendo i divari tra aree forti e aree svantaggiate, le nuove politiche sono volte soprattutto a esaltare le potenzialità specifiche e la capacitazione dei territori locali, promuovendo la formazione di risorse aggiuntive grazie anche al protagonismo delle reti partenariali in cui interagiscono attori pubblici e privati ai diversi livelli. In questo modo, al paradigma finora considerato vincente dello sviluppo locale, coltivato soprattutto nell’ambito della geografia economica e della sociologia, appare ora preferibile sostituire quello di sviluppo territoriale, che meglio si presta a dare conto delle necessarie convergenze tra logiche associate alle reti aperte e logiche radicate nello spazio locale, con le necessarie mediazioni tra visioni portate da attori interni ed esterni al territorio (Palermo 2004).
Tramite questa rinnovata centralità della visione territoriale possono incrociarsi fattivamente concezioni d’intervento abitualmente opposte, tra localismo e centralismo. Né sviluppo locale autocentrato e affidato all’autonomia dei suoi attori, né affermazione sul locale del potere delle reti sovralocali (come nel caso delle infrastrutture che non devono piegare il territorio al proprio servizio, ma che neanche possono essere poste al servizio unicamente dei territori interessati). Piuttosto, ogni volta una combinazione ibrida tra spazi e flussi, tra dotazione di risorse materiali e immateriali, tra dinamiche di rete tra attori locali e sovralocali, secondo una geometria del potere flessibile che tende a governare le interdipendenze tra soggetti istituzionali multilivello, attori globali, società locali, tutte applicate allo stesso territorio. In questa nuova prospettiva, il territorio si emancipa dal riferimento esclusivo al sistema di azione locale e al suo modo di decidere autonomamente l’utilizzazione delle dotazioni posizionali, come vorrebbero le più accreditate teorie economiche dello sviluppo locale. Si configura invece come esito dell’incrocio dinamico tra processi determinati dall’incontro-scontro tra flussi disgiunti di relazioni con l’esterno (cioè flussi di capitali, beni, tecnologie, popolazioni, immagini, conoscenze, idee) e processi radicati nelle stratificazioni del luogo. Dunque, né piena autonomia, né dipendenza dal centro. Ma piuttosto un insieme stratificato di configurazioni instabili ed evolutive dello spazio tra le ricorrenti fasi di territorializzazione, deterritorializzazione e riterritorializzazione, come anticipato dal profetico insegnamento di Raffestin, la cui analisi conserva ancora oggi intatta la sua attualità.
L’Italia che verrà
Il profondo mutamento delle forme del territorio, insieme all’evoluzione dei molteplici saperi disciplinari in gioco, stanno portando ovunque non solo alla formulazione di nuovi quadri interpretativi, ma anche all’impostazione di nuove politiche che sappiano misurarsi consapevolmente con gli scenari in atto e prevedibili. Oggi in Europa numerosi Paesi sono alle prese con questi problemi, mentre si moltiplicano gli studi prospettici sul futuro del territorio su cui appoggiare le previsioni d’intervento ai diversi livelli di governo.
Di particolare rilevanza sotto questo profilo è la recente esperienza di costruzione degli Orientamenti strategici comunitari. Programmazione 2007-13, in cui il territorio, diversamente da quanto prospettato dal settennio precedente, ha assunto un ruolo importante nell’orientare l’agenda degli investimenti prioritari per lo sviluppo dell’Europa.
In Italia, sotto la guida del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, è stata avviata per l’occasione una ricerca di ampio respiro, con un approccio culturale ispirato alla fertile stagione dei primi programmi di sviluppo degli anni Sessanta del 20° sec., quando uno Stato riformista si misurò seriamente con l’obiettivo di modernizzare gli assetti economici, sociali e territoriali del Paese nell’epoca del ‘miracolo economico’. Allora le lungimiranti previsioni basate sulle proiezioni territoriali del Progetto ’80 (un progetto di riflessione e di programmazione promosso nel 1968 dal Ministero del Bilancio e della Programmazione economica) provarono per la prima volta ad anticipare l’organizzazione dello spazio nazionale, alla vigilia delle radicali trasformazioni che sarebbero in seguito effettivamente avvenute a partire da quegli anni, con un’esplosione urbana di dimensioni inusitate. Coerentemente con le teorie della modernità propugnate dall’urbanistica e dalla stessa economia, si pensò allora di poter guidare attivamente il mutamento orientandolo verso la formazione di efficienti sistemi metropolitani, collegati tra loro da nuovi corridoi di infrastrutture autostradali e ferroviarie, oltre che da capillari reti per l’energia. Riconoscendo il valore delle diversità nell’Italia delle ‘cento città’ e della possibile evoluzione di queste ultime verso le aree metropolitane, con il Progetto ’80 ci si proponeva di garantire almeno i servizi indispensabili, nella prospettiva dell’universalizzazione dei diritti alla città e della tutela dei beni comuni. In definitiva, con un respiro programmatico di cui purtroppo si sarebbe in seguito perso traccia, lo Stato si dava in quegli anni una visione di sorprendente modernità rivolta al futuro, attenta ai lasciti della storia quanto alle qualità del nostro patrimonio ambientale, con l’obiettivo di orientare razionalmente gli investimenti pubblici sul territorio.
Non si trattava unicamente di un disegno sulla carta. Potenti aziende pubbliche come IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), Italstat (Società italiana per le infrastrutture e l’assetto del territorio), Ferrovie dello Stato, ENEL (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica) ed ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) ne sarebbero dovute diventare il braccio operativo, facendosi carico della produzione delle reti infrastrutturali anche attraverso inediti meccanismi finanziari. Nello stesso momento nelle città, opportunamente assecondati da piani regolatori e da amministrazioni capaci, sarebbero dovuti emergere capitali finanziari e nuove forze imprenditoriali in grado di praticare dimensioni d’intervento su grande scala, come del resto stava già accadendo nelle altre città europee.
Come si sa, questo programma illuminato è completamente fallito. A partire dagli anni Settanta, le urbanizzazioni senza progetto si sono dilatate all’infinito, invadendo legalmente o abusivamente coste, pianure e valli nel segno di quella proliferante città diffusa che – in Italia come altrove – rappresenta la negazione della metropoli voluta dalla modernità. Le grandi reti per la mobilità sono invece rimaste strozzate da una cultura politica e ambientale avversa, con infiniti veti e conflitti che ancora oggi rimangono irrisolti. Solo le reti energetiche sono state effettivamente completate, ma con il grave handicap di un’insufficiente politica nazionale in materia di approvvigionamento delle fonti sostenibili. Non è in questa sede il caso di approfondire le ragioni del fallimento, troppo spesso condizionate da sommari giudizi sul libro dei sogni con cui si è deciso di liquidare quella gloriosa stagione della programmazione. Piuttosto, appare sicuramente utile il confronto tra il pionieristico Progetto ’80 e la nuova visione del futuro del territorio italiano contenuta in Italia Europa. Il territorio come infrastruttura di contesto. Contributi alla programmazione 2007-2013, elaborato nel 2007 dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e dal DICOTER (sigla della Direzione generale per lo sviluppo del territorio, in passato Direzione del Coordinamento Territoriale), sotto la direzione di Gaetano Fontana, come articolazione del Quadro strategico nazionale (QSN) finalizzato agli obiettivi di sviluppo competitivo, coeso e sostenibile definiti dall’Unione Europea.
In questo secondo progetto, in effetti, cambia radicalmente il modo di pensare e di rappresentare il territorio italiano. Non più un insieme di aree urbane irrigate sistematicamente dai corridoi infrastrutturali, secondo la potente metafora dell’urbanistica moderna peraltro ancora alla base dell’attuale programma per le reti TEN-T (Trans European Network-Transports), e corridoi transeuropei definiti in sede comunitaria. Piuttosto, un insieme di territori-rete che connettono selettivamente alle diverse scale molteplici strati di territorio, generando piattaforme strategiche transcalari e territori-snodo che danno forma all’atterraggio dei flussi globali, intrecciandosi variamente con i territori sedimentati localmente. E, inoltre, fasci infrastrutturali di connessione materiale e immateriale, con l’aggancio agli spazi sovranazionali europei, mediterranei e internazionali.
Negli studi interdisciplinari del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, realizzati con l’apporto di autorevoli esperti della SIU (Società Italiana degli Urbanisti), del CLES (Centro di ricerche e studi sui problemi del Lavoro, dell’Economia e dello Sviluppo), del CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali) e di Ecosfera - Studi di fattibilità per l’economia e la riqualificazione dell’ambiente, il territorio italiano del futuro viene infatti interpretato come uno spazio multistrato e multidimensionale, attraversato da molteplici flussi di connessione alle reti lunghe dello scambio, proprio come un «territorio millefoglie intrecciato da linee di flusso interne ed esterne, che evolve dinamicamente nella mutevole interazione tra i diversi strati e flussi» (Clementi, in Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti 2007b, p. 12). Gli strati si articolano a partire dai territori identitari, rappresentati dai contesti insediativi locali sedimentati nel tempo e oggi in fase di profonda trasformazione; poi i territori della competitività, ricostruiti con un approccio fortemente innovativo che coniuga fino al livello locale le strategie d’impresa con le dotazioni di risorse territoriali; poi ancora i territori-snodo, intesi come commutatori privilegiati di flusso, predisposti a fungere da «ambienti innovatori suscettibili di riverberare all’intorno gli impulsi di cambiamento delle strutture produttive e sociali esistenti» (Clementi 2007b, p. 19); e infine i grandi territori comunitari, ovvero i sistemi macroregionali riconoscibili come specificazioni dello spazio geopolitico europeo e mediterraneo. Uno dei risultati di maggior rilievo di queste interpretazioni innovative del territorio italiano è la costruzione di una visione guida finalizzata al QSN 2007-2013, articolata in corridoi e piattaforme territoriali strategiche, a loro volta di livello transnazionale, nazionale, interregionale; una visione che è stata assunta come riferimento per la concertazione Stato-Regioni e poi effettivamente utilizzata nei successivi atti di programmazione dello sviluppo a carattere statale e regionale.
Le immagini dell’Italia che verrà appaiono concettualmente distanti dalla rassicurante rappresentazione di sistemi metropolitani organizzati dal principio di prossimità spaziale e tenuti insieme dal telaio della rete autostradale e ferroviaria. Rinviano piuttosto alle nuove geografie selettive della centralità, dettate dall’incontro-scontro dello spazio dei flussi globali con i territori-area, in accordo con i nuovi modi di intendere il territorio precedentemente affrontati. Soprattutto sono immagini finalizzate all’azione, che mettono in conto i rischi di tendenziosità delle conoscenze conseguenti alle necessità di misurarsi attivamente con i processi in atto, con l’obiettivo di orientarli piuttosto che subirli passivamente. Del resto gli studi elaborati nell’ambito del QSN 2007-2013 non costituiscono in nessun modo il prodotto dei metodi di previsione adoperati nelle scienze quantitative, ma rappresentano piuttosto «l’esito di un’anticipazione intenzionale di rappresentazioni di possibili assetti del territorio in conseguenza dell’attuazione delle strategie prefigurabili […], prodotto di un’esplorazione ancora aperta, che cerca di anticipare le possibili configurazioni future del territorio in condizioni di relativa incertezza previsionale, offrendole come riferimento su cui impostare il confronto decisionale con gli altri soggetti coinvolti nelle politiche di assetto del territorio nazionale, in questo caso in particolare le Regioni e gli altri ministeri coinvolti nella costruzione del QSN 2007-2013» (Clementi, in Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti 2007b, p. 23).
Territori della produzione
Si è già avuto modo di accennare al ritorno alle economie-territorio, che tende a far scadere l’importanza dei fattori di costo e di qualità delle singole risorse nel loro semplice assemblaggio ai fini della competitività dei sistemi produttivi. E a quanto invece la produttività sia da considerarsi oggi un valore relazionale, in cui giocano un ruolo chiave i processi di organizzazione, di comunicazione e di cooperazione tra le imprese, e gli altri attori istituzionali e sociali. Inoltre abbiamo richiamato il primato dei flussi, i quali sono diventati decisivi per l’accesso ai diversi circuiti transnazionali, dalla produzione vera e propria allo scambio e alla commercializzazione dei beni prodotti (Sassen 2006). Alla luce di queste considerazioni, nel territorio contemporaneo diventa inaccettabile trattare gli spazi della produzione separatamente dai loro contesti di appartenenza, isolando le esternalità dalla trama di relazioni più complessive di integrazione con le risorse offerte dall’ambiente naturale o costruite artificialmente dalla società locale. Sistemi produttivi e contesti territoriali appaiono ora strettamente interdipendenti, all’interno della nuova realtà dei territori-rete in cui «ogni polo, città o regione, rappresenta un nodo di incrocio e commutazione di flussi multipli, e si rapporta al sistema globale non come una entità ben definita, in un gioco di incasellamenti gerarchizzati, ma come un punto di condensazione in una immensa e indecifrabile trama di relazioni», come aveva anticipato Veltz nel citato libro del 1996 (p. 65).
Il riferimento ai territori-rete aiuta anche a dare conto delle tendenze evolutive di quei processi, come il decentramento e poi la delocalizzazione transnazionale delle imprese, che tante preoccupazioni hanno suscitato in Italia come negli altri Paesi europei. A qualche anno di distanza, le paure si stanno ridimensionando. Abbiamo constatato che la delocalizzazione di lavorazioni o di intere filiere produttive non necessariamente porta alla crisi dei distretti produttivi di origine, soprattutto se nel frattempo emergono nuove imprese-rete in grado di praticare efficaci strategie transterritoriali, superando la logica autoreferenziale delle filiere locali specializzate. La gestione dinamica di flussi produttivi multilocalizzati consente infatti di sfruttare le soluzioni di volta in volta ritenute più convenienti rispetto a mercati globali sempre più volatili, che chiedono approcci versatili, altamente flessibili e rapidi nell’adattamento alla domanda. Il distretto è chiamato in questo modo a misurarsi competitivamente con la riorganizzazione su scala internazionale del sistema di produzione, in una concorrenza tra territori dove diventa decisiva la capacità di produrre innovazione organizzativa e di processo, attingendo soprattutto al capitale cognitivo locale, alle tecnologie digitali e alla ricerca applicata.
Le conseguenze sulla forma fisica del territorio sono rilevanti. I distretti industriali tradizionali per reggere alla nuova scala delle relazioni con l’esterno sono costretti a riconvertire profondamente i propri assetti produttivi e le stesse modalità di funzionamento. Cambiano anche le forme dello spazio. Sempre meno fabbriche con il loro corredo di spazi per l’artigianato di servizio. Sempre più spazi ibridi di terziario avanzato e laboratori di sperimentazione delle nuove tecnologie applicate ai processi produttivi, meglio se assistiti dalla collaborazione organica con le strutture deputate alla ricerca. Inoltre, e soprattutto, sempre maggiori spazi da destinare alle comunicazioni e alle infrastrutture per la logistica, vera chiave di volta della nuova organizzazione a sistema dei processi produttivi multilocalizzati.
Dai distretti alle piattaforme
Quanto si è appena osservato aiuta a riflettere su alcuni rilevanti mutamenti in corso da cui emergeranno con tutta probabilità i nuovi assetti dei territori della produzione. In modo particolare consente di cogliere alcuni scenari che incombono sui distretti ‘all’italiana’, intesi come aree di specializzazione produttiva centrati sulla collaborazione orizzontale tra territori e piccole-medie imprese, che, com’è noto, hanno rappresentato un’efficace alternativa rispetto ai modelli di sviluppo della grande impresa, tendenzialmente verticali e polarizzati spazialmente. Si sa che i distretti non sono solo degli spazi geografici. Sono comunità, formate da chi le anima con il proprio lavoro e con i propri valori, condividendo esperienze e saperi, e offrendo cooperazione, solidarietà e coesione sociale come risorse strategiche per l’efficacia produttiva. Ebbene, i distretti conosciuti fino a oggi sono costretti a cambiare profondamente sotto l’incalzare delle nuove condizioni dell’economia globalizzata. Questo accade nel momento in cui queste originali forme produttive sembrano all’apice del loro successo, come proiezione spaziale di un ‘quarto capitalismo’ (dopo quello originario, poi quello pubblico dell’IRI, poi ancora quello dei distretti tradizionali), che è in grado di rimodellare velocemente gli assetti economico-produttivi in funzione delle preferenze dei consumatori prima ancora che per effetto delle innovazioni tecnologiche. Secondo i dati di Mediobanca, nel 2007 in Italia le 4400 medie imprese presenti in questo tipo di economia offrivano impiego a circa 1.200.000 addetti, con un contributo al valore aggiunto industriale nazionale dell’ordine del 33%, contro il 15% delle grandi imprese, che a loro volta impiegavano circa 250.000 addetti. Nel corso degli ultimi vent’anni, i territori interessati dai distretti del quarto capitalismo si sono estesi praticamente a tutta l’Italia centro-settentrionale, con punte più elevate sull’asse Milano-Venezia, mentre il Mezzogiorno continua a essere tagliato completamente fuori. La ristrutturazione in corso sembra dunque mantenere i principali caratteri spaziali originari, sviluppandoli ulteriormente verso l’organizzazione di enormi mercati-laboratori che s’intrecciano confusamente con gli spazi del terziario avanzato e con le strutture residenziali della città diffusa. Ma intanto cambiano ancora le condizioni. Il ‘capitalismo di territorio’, espressione delle piccole e medie imprese sempre più internazionalizzate, è costretto a misurarsi con il potere crescente dei flussi, il ‘capitalismo delle reti’ per dirla con le parole di Andrea Bonomi (Nuove sfide per territori e reti, «Il Sole 24 Ore», 19 nov. 2007, p. 18), per non essere tagliato fuori dai grandi circuiti globali. I distretti industriali più dinamici tendono allora a evolversi verso grandi piattaforme produttive, che combinano in modo selettivo gli spazi della produzione locale con i poli di ancoraggio alle grandi reti, dai nodi dell’accessibilità e della logistica agli spazi fieristici ed espositivi e soprattutto alle università e ai centri di ricerca avanzati. Comincia così a delinearsi quell’immagine dell’Italia che verrà, discussa in precedenza, fatta appunto di piattaforme insediativo-produttive, territori-snodo, fasci di reti multiscalari.
Territori innogenetici
Non solamente in Italia, ma in tutta Europa tendono dunque a emergere distretti industriali ad alta competitività, caratterizzati da efficaci network tra imprese e centri di ricerca, in grado di accedere agevolmente ai flussi internazionali. Secondo i dati elaborati dall’European cluster observatory, nel 2007 se ne contavano non più di 2000, di cui solo 155 davvero ben sviluppati. Nel nostro Paese il maggior numero di questi distretti si riscontra in Lombardia, ma solo in Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Marche, Piemonte e Veneto sono presenti per ora veri poli di eccellenza in grado di offrire un contributo significativo allo sviluppo dell’economia.
In questo processo di continuo riposizionamento competitivo su scala comunitaria, tendono ad affermarsi i territori dotati di un migliore capitale umano, sociale, istituzionale ed economico; soprattutto quelli a più elevata capacità d’innovazione, portati ad attivare processi d’interazione continua e biunivoca con le imprese, alimentando uno scambio creativo di informazioni, conoscenze ed esperienze che può far nascere inusuali sentieri tecnologici e organizzativi a favore delle imprese insediate localmente. Questi territori si comportano come spazi innogenetici, veri incubatori di nuovi modelli di sviluppo locale, che sanno realizzare al meglio le potenzialità dell’economia della conoscenza e della società delle reti figlie della nostra epoca. Fanno comprendere che i mutamenti più significativi non sono necessariamente quelli preparati dentro i centri avanzati di ricerca e di formazione specializzata, templi del sapere avulsi dal loro contesto, come purtroppo appaiono spesso le cittadelle della conoscenza e i poli tecnologici. E non si materializzano neanche dentro gli spazi della fabbrica o nei laboratori di sperimentazione delle nuove tecnologie. Avvengono piuttosto all’interno dei territori urbani più aperti alla creatività, i quali funzionano come enormi macchine spaziali integrate per l’ideazione, la sperimentazione e l’apprendimento di esperienze ad alto valore aggiunto, propiziate dal parternariato di imprese, istituzioni, università e società locali illuminate. I distretti industriali, come del resto le città e le aree metropolitane, tendono a trasformarsi in questa prospettiva in veri e propri «sistemi cognitivi che, organizzando la loro evoluzione intorno a un’identità riconoscibile, forniscono ai produttori locali e transnazionali idee e significati vendibili, capaci di generare, direttamente o indirettamente, valore nel circuito globale» (Rullani, in La città infinita, 2004, p. 91). E tutto il territorio a sua volta tende a configurarsi come una gigantesca infrastruttura cognitiva, più che mai il tramite obbligato dei più significativi processi di mutamento della società e dell’economia contemporanee.
Territori dell’abitare
Un ruolo ancora più importante stanno intanto assumendo le città, non solo come ispessimenti cognitivi del territorio, ma anche come unità organizzative centrali per i processi di produzione, scambio e consumo, che tendono a incorporare molteplici funzioni già svolte dalle imprese e da altre istituzioni regolatrici dei mercati, della vita culturale e della politica. Per la verità ci si rende conto che tutto ormai si sta facendo metropoli, mentre i confini che dividono città e territori aperti diventano sempre più labili ed evanescenti. Dappertutto infatti s’intersecano flussi di informazioni e di merci e stili di vita scanditi dalla connessione ai flussi elettronici più ancora che dalla prossimità spaziale. Al tempo stesso l’accesso ai consumi pervade territori sempre più ampi e sempre più eguali tra loro per le tendenze globali all’omogeneizzazione dei mercati e dei comportamenti dei consumatori. Non c’è da sorprendersi se pensatori autorevoli come Manuel Castells giungono ad affermare che «il grande paradosso del 21° sec. è che potremmo tranquillamente vivere in un contesto prevalentemente urbano anche in assenza di città, ovvero senza sistemi spaziali di comunicazione culturale e condivisione, per quanto conflittuale, di significati» (Castells 2003, p. 61). In questa inedita condizione di urbanità ubiquitaria, ciò che nel passato era una località, la città, ora sembra che si stia trasformando soprattutto in un marchio identitario, un logo peculiare dell’immaginario collettivo. La stessa metropoli, fatta di un insieme sempre più eterogeneo e confuso di parti tra loro slegate, appare sempre meno come una località chiaramente identificabile nello spazio. Si configura piuttosto come un campo di relazioni urbane, un insieme di attività che coesistono alle diverse scale, piuttosto che una struttura fisica unitaria riconoscibile nello spazio (Brouwer, Mulder, Martz 2002).
Pur nei limiti di queste considerazioni, autorevoli correnti di pensiero continuano tuttavia a vedere nelle città tradizionali le fonti privilegiate della competitività economica internazionale (Krugman 1996), ovvero gli snodi strategici dell’economia della conoscenza (Leadbeater 1999), che riscoprono la prossimità spaziale come linfa vitale per accrescere la competitività basata sull’innovazione. Spiccano in questa prospettiva le città illuminate come contesti culturali privilegiati, sia per la loro attrattività rispetto alle risorse e ai talenti esterni, sia per la loro propensione a migliorare la capacitazione degli attori dello sviluppo, configurandosi come catalizzatori primari dei flussi globali della cultura e della conoscenza (P. Sacco, Le città illuminate, «Il Sole 24 Ore», 8 marzo 2007).
In generale, comunque, sembra riduttivo assimilare la città a un sistema economico localizzato, da valutare solo in termini di potenziale competitivo. Più fecondi appaiono gli schemi interpretativi proposti da Ash Amin e Nigel Thrift (2002), che preferiscono fare riferimento ai complessi intrecci tra processi produttivi, di mercato e di consumo rispetto alle culture sociali e politiche locali. La città viene allora descritta dai due autori come un «insieme di luoghi inseriti nell’ambito di sistemi economici a distanza» (trad. it. 2005, p. 114), tutti all’interno di «uno spazio globale più ampio di flussi circolatori e di organizzazione economica che solo di rado si scinde in sistemi localizzati» (p. 114). In questa accezione di un urbanesimo a carattere transnazionale, costituito da flussi intersecati alle diverse scale che connettono spazi a distanza, il modo di intendere la città muta sensibilmente. Essa tende così a essere ridefinita come «un’ecologia di circostanze, […] un’arena politica ricca di potenzialità che possono essere mobilitate per competere ed affrontare problemi» (p. 115), ovvero un campo di movimenti conflittuali nel quale l’attenzione si sposta prioritariamente sulle forze vorticose che mettono in relazione tra loro l’insieme degli attori e delle istituzioni locali.
Quale che sia la prospettiva interpretativa adottata, non c’è dubbio che l’attrattività dei territori urbani contribuisca in modo rilevante allo sviluppo di quella nuova economia che è protesa alla ricerca della qualità e dell’unicità delle esperienze da consumare, e che trova proprio nei paesaggi e nei contesti urbani di pregio il suo spazio naturale di affermazione. Sotto questo profilo, nell’interpretazione della città gli aspetti da considerare dovranno andare ben oltre quelli strettamente connessi all’innovazione e alla produttività dell’economia, per estendersi alla qualità dell’abitare, all’attrattività e alla piacevolezza complessiva del quadro di vita locale. Acquistano di conseguenza centralità i temi del welfare urbano e dell’organizzazione dei servizi, e in particolare le condizioni di sostenibilità e di sicurezza, che rappresentano vere e proprie sfide alla possibilità di rendere ancora accoglienti le città del 20° sec., messe a dura prova da processi sempre più marcati di inquinamento ambientale e di disarticolazione delle strutture sociali.
A ben guardare, entrambe queste sfide sono da ricondurre alle nuove forme di rischio a cui è esposta la società contemporanea, non a caso definita efficacemente ‘società del rischio’ (Beck 1986). In questo caso sono i rischi di deterioramento eccessivo dell’ambiente, aggravati dai mutamenti climatici in atto e dall’esaurimento progressivo delle fonti energetiche convenzionali. Poi sono i rischi di sfaldamento della coesione sociale, accentuati dal crescente multiculturalismo di una società urbana che stenta ad assimilare le diversità portate dall’immigrazione e dalla coesistenza di molteplici etnie sradicate dal contesto locale. Per fronteggiare meglio i rischi ambientali si va diffondendo ovunque la prospettiva della città sostenibile, ovvero di territori urbani dai metabolismi complessivi a basso consumo di risorse non riproducibili, con particolare riferimento all’energia, ai rifiuti, all’acqua, all’aria e al suolo. La città sostenibile non dev’essere considerata come mera espressione di tecnologie sempre più sofisticate, per es., per la produzione di nuove energie rinnovabili e per il risparmio energetico, o per il riciclo delle acque e dei rifiuti, o per la protezione dalle radiazioni elettromagnetiche o ancora per una mobilità urbana meno inquinante. Come già aveva propugnato l’urbanistica moderna, ancora più efficaci risultano le politiche di controllo della localizzazione delle attività produttive, residenziali e di servizio. La loro prossimità nello spazio può abbattere drasticamente la domanda di spostamento e quindi la generazione delle emissioni inquinanti indotte dal traffico. Sotto questo profilo, il tradizionale modello di città compatta a elevata densità fondiaria appare ancora oggi di gran lunga preferibile al modello dilagante di città diffusa a bassa densità, che, al contrario, disperde le attività nello spazio e affida il proprio funzionamento al sovraccarico dei sistemi di trasporto individuale su gomma.
Anche per i rischi di insicurezza che si concentrano soprattutto nei territori urbani, si stanno predisponendo specifiche strategie di contrasto che investono ormai persino i criteri di progettazione dello spazio oltre che le politiche di gestione dell’ordine pubblico. Per la verità, in Italia i territori urbani non si sono ancora trasformati, come altrove, in un arcipelago di spazi recintati securizzati, isole protette dai confini fortificati, collegate tra loro da corridoi di mobilità sorvegliata che attraversano aree ad alto rischio. E che creano ulteriori processi di ineguaglianza proprio nella distribuzione selettiva e privatistica dei fondamentali diritti di sicurezza consegnati colpevolmente al mercato. Tuttavia la situazione va rapidamente peggiorando, e gli scenari per il futuro appaiono inquietanti. Si colgono evidenti segni di deterioramento nelle aree metropolitane più difficilmente controllabili come Roma, Milano o Napoli, dove immigrati in grave condizione di bisogno tendono a risolvere da soli i problemi di sopravvivenza nella città, in particolare dando luogo a insediamenti precari che cercano di sfuggire alla vista della città ufficiale occupando aree residuali di solito di proprietà pubblica. Ma purtroppo i segni del degrado si cominciano ad avvertire anche nelle città minori, fino a ieri generalmente apprezzate per la vivibilità e la qualità insediativa offerta.
Forse è eccessivamente pessimistica la visione di quanti ritengono che tutte le città si stiano trasformando in una periferia infinita, incapace di mantenere il radicamento e di contrastare la diffusione della violenza. Ma è comunque vero che le trasformazioni vanno verso una progressiva frammentazione dello spazio, con la disarticolazione dei tradizionali valori di urbanità e con lo snaturamento dei luoghi tradizionali della socialità, facendo venir meno quelle condizioni di sicurezza naturale che provengono dalla solidarietà di vicinato o di prossimità. In queste situazioni sembra che la modernità non riesca più a produrre le risorse specifiche per l’integrazione di cui ha più bisogno. Né possono venire in aiuto le risorse della cultura tradizionale, soppiantata dalle impersonali reti di relazioni anche incorporee che caratterizzano la società delle reti contemporanea. Queste favoriscono il ricorso alle nuove tecnologie di sicurezza ICT (Information and Communication Technology), ma rendono al tempo stesso sempre più difficile assicurare una sorveglianza naturale degli spazi abitati. Piuttosto si dimostrano altamente efficaci le politiche volte alla riqualificazione urbana. Com’è stato dimostrato dai programmi dell’Unione Europea Urban I, 1994-1999, e Urban II, 2000-2006, le città sottoposte ad azioni integrate di rigenerazione fisica e sociale aumentano in modo considerevole anche i livelli di sicurezza locale. Anzi, si è scoperto che programmi applicati alle aree di malessere più conosciute hanno l’effetto non solo di rigenerare contesti degradati, ma anche di riattivare sentimenti di fiducia nelle possibilità di riscatto della società locale.
Territori dell’intrattenimento
Che i territori stiano progressivamente trasformandosi nei luoghi dell’infinito intrattenimento attraverso cui tende ad affermarsi l’economia contemporanea può considerarsi una scoperta tutt’altro che recente. L’intera vicenda dei parchi a tema è stata del resto illuminante per far comprendere le logiche che presiedono alla costruzione dei recinti specializzati destinati allo shopping e al tempo libero, modellati dalla simulazione delle esperienze di apprendimento del mondo e delle sue singolarità incarnate dai luoghi della storia e della natura.
Disneyland, non diversamente da tanti altri parchi tematici che sono andati proliferando ovunque, dimostra come sia possibile realizzare esperienze di grande successo grazie alla capacità di intercettare le attese del pubblico con dispositivi accoglienti e funzionali, subdolamente mirati a «intensificare il presente, la trasformazione del mondo attraverso una crescita esponenziale dell’accesso al consumo di beni-merce ridotti al loro grado zero» (M. Sorkin, Variations on a theme park, 1992, p. 216). Così un viaggio a Disneyland può sostituirsi a quello per il Giappone reale, reinterpretato e stilizzato nei suoi significati essenziali attraverso i simboli del samurai e del sushi da apprendere e consumare velocemente, in una cornice rassicurante ed efficiente che oltre tutto è più vicina. La conoscenza del luogo tende a trasformarsi in spettacolo, affidandosi a una narrazione elementare che accompagna l’esperienza dell’attraversamento, insieme reale (dentro il parco) e virtuale (in una dimensione geografica atopica), resa possibile dal ricorso a tecnologie multimediali quanto mai avanzate.
Meno chiare appaiono però le cose quando si cerca d’interpretare il mutamento del territorio alla scala dell’insieme, provando a ricombinare in un ordine comprensibile l’apparire dei nuovi luoghi dell’intrattenimento, della conoscenza e del consumo che, insieme al permanere delle scene più tradizionali, caratterizzano molti nostri paesaggi. Ci rendiamo conto che i parchi tematici, singolari incubatori di un’innovazione ormai pervasiva, stanno soppiantando di fatto i luoghi della produzione come chiavi di volta dei nuovi assetti del territorio. Abbiamo al tempo stesso imparato a riconoscere la progressiva inattualità delle distinzioni canoniche tra produzione, consumo e intrattenimento, e con esse la crisi della visione della prima modernità con la sue compulsioni ossessive a favore della specializzazione funzionale dello spazio. Le abituali distinzioni tra il tempo del lavoro e il tempo libero tendono ora a dissolversi. Anzi, con tutta evidenza all’interno di parchi tematici, ma ormai visibilmente anche al loro esterno, si può rilevare che sempre più spesso il lavoro tende ad assumere le forme proprie dello spettacolo, omologando la produzione del tempo libero alle logiche dell’impresa industriale, mirate a estrarre il valore aggiunto dalla filiera complessiva dell’intrattenimento. E così gli addetti ai vari servizi dentro il parco sembrano destinati a diventare gli involontari attori di una scena globale, chiamata ad assicurare la qualità dello spettacolo e la soddisfazione dei consumatori, e al tempo stesso l’igiene, la sicurezza e la gioiosità di un ambiente che vuole apparire familiare a tutti.
E tuttavia continua a rimanere sfuggente il senso complessivo del mutamento in atto nel territorio contemporaneo, sotto l’effetto combinato di molteplici isole introverse fortemente strutturate al proprio interno e delle altre dinamiche che si sviluppano ovunque più liberamente. Ci si domanda se e quanto questi spazi eterotopici siano da considerare i precursori di una trasformazione più generale (Grahame Shane 2005). Se il loro potere di configurazione possa prevalere su quello del patrimonio sedimentato nel dare forma alla scena del presente, soprattutto in quei contesti ricchi di storia che più caratterizzano la qualità del nostro paesaggio. Davvero sembra che questi paesaggi dell’intrattenimento parlino di una nuova territorialità, dove vengono trattati soprattutto i desideri e le emozioni di masse crescenti di consumatori. Nel frattempo si diffonde una nuova economia sempre più pervasiva, la rifkiniana economia dell’esperienza, che alla produzione classica dei beni materiali preferisce il controllo dei processi di costruzione del senso, nell’ambiziosa prospettiva di trasformare in mercato la vita stessa di ciascun individuo (Rifkin 2000). Un’economia cioè che tende a sostituire alla produzione industriale quella culturale e che mette al centro il territorio e il paesaggio ora non più per offrire solo servizi primari, ma piuttosto per capitalizzare l’accesso alle esperienze culturali.
Lo sconfinamento dai luoghi specializzati del piacere e del desiderio sembra in effetti alludere allo stato nascente di una nuova forma del territorio, che sa creare un contesto di vita completamente nuovo, sia riutilizzando in gran parte la sostanza di quello esistente, sia aggiungendo specifici spazi eterotopici come catalizzatori privilegiati del mutamento. C’è da riflettere molto di fronte a questo processo in cui l’infinito intrattenimento sembra oggi insinuarsi dappertutto, nelle pieghe delle città come dei territori aperti, snaturando profondamente il senso dei rapporti sociali e produttivi che hanno modellato nelle lunghe durate i paesaggi esistenti. Quanto accade nei territori di maggior pregio diventati preda del turismo di massa mette seriamente in guardia sui rischi portati dal fuori scala dei grandi parchi tematici dell’intrattenimento che investono ormai interi distretti geografici. Tramite loro, ci si rende conto di quanto sia inquietante lo scenario globale di una sfera culturale assorbita progressivamente in quella economica. C’è bisogno di un progetto che sappia riaffermare il primato del valore culturale del territorio senza rinunciare alle risorse offerte dalla nuova economia dell’esperienza. Un progetto capace tanto di trasmettere emozioni quanto di suscitare rispetto e comprensione per i diritti del nostro tempo, alla ricerca di un sapiente equilibrio tra valori di permanenza e valori del mutamento.
Bibliografia
U. Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Frankfurt am Main 1986 (trad. it. Roma 200o).
P.R. Krugman, Pop internationalism, Cambridge (Mass.)-London 1996 (trad. it. Un’ossessione pericolosa. Il falso mito dell’economia globale, Milano 1997).
Ch. Leadbeater, Living on thin air. The new economy, London 1999 (trad. it. Roma 2000).
Z. Bauman, Liquid modernity, Cambridge 2000 (trad. it. Roma-Bari 2002).
J. Rifkin, The age of access. How the shift from ownership to access is transforming capitalism, London 2000 (trad. it. Milano 2000).
G. Dematteis, Per una geografia della territorialità attiva e dei valori territoriali, in SLoT quaderno 1, a cura di P. Bonora, Bologna 2001, pp. 11-30.
A. Amin, N. Thrift, Cities. Reimagining the urban, Cambridge 2002 (trad. it. Bologna 2005).
J. Brouwer, A. Mulder, L. Martz, Transurbanism, Rotterdam 2002.
J.-L. Guigou, Aménager la France de 2020, Paris 20022.
P. Veltz, Des lieux et des liens. Politiques du territoire à l’heure de la mondialisation, La Tour-d’Aigues 2002.
M. Castells, La città delle reti, Milano 2003.
P.C. Palermo, Trasformazioni e governo del territorio, Milano 2004.
La città infinita, a cura di A. Bonomi, A. Abruzzese, Milano 2004 (in partic. A. Bonomi, La città infinita, pp. 13-34; E. Rullani, La città infinita. Spazio e trama della modernità riflessiva, pp. 65-93).
D. Grahame Shane, Recombinant urbanism, Chichester 2005.
G. Pasqui, Territori. Progettare lo sviluppo, Roma 2005.
Territorialità, sviluppo locale, sostenibilità. Il modello SLoT, a cura di G. Dematteis, F. Governa, Milano 2005.
S. Sassen, Perché le città sono importanti, in Città. Architettura, società, a cura di R. Burdett, Venezia, 10a Mostra internazionale di architettura, Venezia 2006 (catalogo della mostra), pp. 27-51.
C. Donolo, Sostenere lo sviluppo, Milano 2007.
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, DICOTER, Italia Europa. Il territorio come infrastruttura di contesto. Contributi alla programmazione 2007-2013, Roma 2007a.
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, DICOTER, Reti e territori al futuro. Materiali per una visione, Roma 2007b (in partic. A. Clementi, Un avvenire possibile del territorio italiano, pp. 11-34; G. Pasqui, Un modo di intendere gli scenari, pp. 191-94).
C. Raffestin, Il concetto di territorialità, in Territorialità. Necessità di nuove regole e nuovi vissuti territoriali, a cura di M. Bertoncin, A. Pase, Milano 2007, pp. 21-31.