Terrorismo
Le difficoltà di definizione
Il 21° sec. si è aperto con gli attentati dell’11 settembre 2001 e la guerra contro il terrorismo, lanciata dall’allora presidente americano George W. Bush, e i conseguenti attacchi militari in Afghānistān e ῾Irāq, a loro volta tacciati da alcuni come azioni di terrorismo. In questo momento storico, come in altri in passato, la violenza politica è stata accompagnata da conflitti sulla definizione stessa del terrorismo, prima ancora che sulle sue cause e sui potenziali rimedi. Rispetto alle precedenti ondate di violenza, i significati dati al termine terrorismo si sono comunque trasformati. Il concetto di terrorismo è stato infatti utilizzato, in diversi periodi storici, per definire fenomeni molto eterogenei, modificandosi nel tempo e adattandosi ad alcune caratteristiche delle diverse ondate di violenza che si sono storicamente susseguite: dal regicidio del 19° sec. ai piccoli gruppi armati che agivano in clandestinità nei regimi democratici negli anni Settanta del secolo scorso, fino alla violenza interetnica o interreligiosa nel corso dei recenti conflitti.
Storicamente specifica è la definizione stessa di violenza politica, di cui il terrorismo sarebbe una forma estrema. Per violenza si intende normalmente un uso di forza fisica orientata ad arrecare danni a beni o persone, e la violenza è considerata politica quando la forza fisica è orientata contro un avversario politico. Un certo grado di forza fisica è, comunque, presente in molte forme di azione collettiva (per es., gli scioperi), che hanno certamente l’obiettivo di produrre ‘danni’ senza che vengano per questo considerate violente. Non solo il giudizio sulla legittimità e l’efficacia dell’uso della violenza in conflitti politici è stato dibattuto, ma anche la definizione di violenza politica è fortemente contestata, sia nel dibattito politico sia in quello accademico.
Nel tentativo di definire cosa sia il terrorismo, sono stati utilizzati diversi elementi da diversi autori e in diversi periodi storici. Alcune definizioni, a partire dall’etimologia del termine, presentano come terroristica quella violenza politica che si pone l’obiettivo – o ha l’effetto – di ‘terrorizzare’. Questa concettualizzazione comporta però, in primo luogo, la difficoltà di misurare gli stati psicologici di alcuni individui o gruppi. Sottolineando l’effetto emotivo atteso, inoltre, essa sottovaluta che l’obiettivo principale di molte azioni dei gruppi terroristici è quello di raccogliere consenso, piuttosto che di terrorizzare. Ciò sembra ancora più rilevante nel 21° sec., quando il termine terrorista tende a essere utilizzato per definire partiti politici di dimensioni rilevanti e talvolta democraticamente eletti in Parlamento o anche partiti con re-sponsabilità di governo.
Soprattutto guardando alla radicalizzazione di forme di protesta politica negli anni Settanta del secolo scorso, è stato riconosciuto che le azioni terroristiche mirano soprattutto ad avere un impatto attraverso la comunicazione, piuttosto che in termini di distruzione immediata. Da questo punto di vista è stato osservato che i gruppi terroristici non puntano di solito a raggiungere il massimo di distruzione possibile, ma le loro strategie tengono conto di norme e valori presenti nelle organizzazioni clandestine stesse, così come nelle aree sociali e politiche dove esse cercano di reclutare nuovi adepti (Engene 2004).
Inoltre, ai fini di distinguere tra le diverse forme di violenza, si è proposto di guardare alle caratteristiche degli attori che vi fanno ricorso. In particolare, la ricerca sul terrorismo nelle moderne democrazie negli anni Settanta ha concentrato l’attenzione sui gruppi di dimensioni ridotte e clandestini. Se la dimensione del gruppo serve a differenziare il terrorismo da rivoluzioni o movimenti di guerriglia che coinvolgono parti cospicue della popolazione, la scelta della clandestinità ha conseguenze rilevanti sul funzionamento di un determinato gruppo (della Porta 1995). Il terrorismo è stato così definito come l’attività di quelle organizzazioni clandestine di dimensioni ridotte che, attraverso un uso continuato e quasi esclusivo di forme d’azione violenta, mirano a raggiungere scopi di tipo prevalentemente politico.
Anche questa definizione appare comunque poco utile quando, come avviene sempre più spesso all’inizio del 21° sec., il concetto di terrorismo viene utilizzato al di fuori dei regimi democratici, soprattutto in situazioni di sovranità incerta. In particolare, nelle guerre contemporanee – caratterizzate da un’estrema vittimizzazione della popolazione civile – il concetto di terrorismo è stato collegato a quello di crimini contro l’umanità. Riprendendo le definizioni utilizzate nel diritto internazionale, il terrorismo tende a essere considerato come l’uso di violenza contro la popolazione civile da parte di gruppi di guerriglieri bene equipaggiati e addestrati alla guerra. Il terrorismo è così considerato come l’equivalente di un crimine di guerra in un periodo di pace (Horgan 2005).
Nella letteratura recente è stato inoltre ripetutamente osservato che il termine terrorismo può essere utile se riferito alle caratteristiche di una certa forma d’azione, ma rimane invece impreciso se scelto per definire individui o gruppi che normalmente usano diverse forme d’azione, tra cui anche alcune terroristiche. Si rischia in questo caso di costruire concetti di scarso valore euristico per le scienze sociali, che tendono a definire fenomeni «che esibiscono un certo livello di coerenza causale» (Tilly 2004, p. 8).
Gli approcci teorici
Nelle scienze sociali, differenti forme di terrorismo sono state analizzate all’interno di due tradizioni di studio che raramente sono entrate in contatto l’una con l’altra: gli studi sul terrorismo (terrorism studies negli Stati Uniti, Extremismusforschung in Germania), e gli studi sui movimenti sociali. Il primo filone si è sviluppato inizialmente sul tema del terrorismo internazionale, estendendo in seguito la sua attenzione a varie forme di violenza politica. Concentrandosi sulle forme di violenza più estreme, gli studiosi del terrorismo tendono a isolare l’oggetto del loro interesse dalle forme ‘normali’ di partecipazione politica.
Considerati per lungo tempo un campo di ricerca marginale e residuale, gli studi sui movimenti sociali sono cresciuti considerevolmente negli ultimi decenni. In particolare, negli anni Settanta sono stati criticati proprio quegli assunti di fondo che erano stati assorbiti dai terrorism studies: la definizione dei movimenti sociali come reazioni inconsce a tensioni temporanee; la discontinuità tra gli attori politici ‘normali’, convenzionali e legittimi, e quelli ‘anormali’, non convenzionali e illegittimi; la presenza di frustrazioni individuali come molla verso la partecipazione alle azioni di protesta (della Porta, Diani 20062). Negli approcci recenti, invece, la protesta viene considerata come il risultato di conflitti strutturali che si attivano quando alcune risorse organizzative, culturali e politiche sono presenti nella società. Radicalizzazione o moderazione sono influenzate, in particolare, dalla risposta che i movimenti sociali incontrano nel loro ambiente, dalla disponibilità di alleati e dalla reazione delle autorità. Attento a sottolineare le somiglianze tra le diverse forme di partecipazione politica, questo filone di studi sociali ha prestato però scarsa attenzione alla violenza. Mentre, quindi, gli studiosi del terrorismo hanno tendenzialmente esteso il loro campo di interesse dal terrorismo internazionale al radicalismo ‘interno’, gli studiosi dei movimenti sociali, viceversa, a parte qualche rara eccezione (per es., Tilly 2003), hanno rimosso il tema della violenza.
L’attenzione alla violenza politica nelle scienze sociali è rimasta così episodica. Da un lato, molta della letteratura specializzata è stata considerata come più orientata all’elaborazione di politiche antiterrorismo che alla comprensione delle determinanti sociali e politiche del fenomeno. Così, «molti che hanno scritto di terrorismo sono stati direttamente o indirettamente coinvolti nel business del controterrorismo, e la loro visione è stata ristretta e distorta dalla ricerca di risposte efficaci al terrorismo, spesso definito in maniera imprecisa» (Goodwin 2004, p. 260). Dall’altro lato, gli studi delle diverse forme di violenza politica hanno seguito diversi approcci, con teorie su patologie individuali e crisi sociali usate prevalentemente nell’analisi della violenza di destra, teorie sui movimenti sociali talvolta applicate al terrorismo di sinistra e analisi da parte di specialisti di particolari aree geografiche rivolte prevalentemente a forme di terrorismo religioso o etnico.
Lo studio dei processi di radicalizzazione ha avuto comunque un nuovo impulso negli anni recenti, in particolare in seguito agli attentati del 2001. Infatti, sebbene alcune forme di terrorismo (in particolare il terrorismo ideologico di sinistra) dagli anni Sessanta a oggi sono declinate e alcuni conflitti etnici acuti (per es., in Irlanda del Nord) hanno trovato soluzioni pacifiche, ciò non vuol dire che la violenza politica sia diminuita. Anzi, come ha sottolineato Charles Tilly, sin dal 1945 «il mondo nella sua interezza si è, in modo deciso e preoccupante, allontanato dalla distinzione tra esercito e popolazione civile, guerra e pace, guerra internazionale e guerra civile, utilizzazione letale e non letale della forza. E si è mosso verso una lotta armata all’interno degli Stati esistenti e verso assassini, deprivazioni e espulsioni di intere popolazione da parte di Stati» (2003, p. 58).
Come si discuterà in questo saggio, vecchie e nuove ondate di violenza politica possono essere meglio comprese guardando alle dinamiche di radicalizzazione a livello macro (ambientale), meso (organizzativo) e micro (individuale). Nonostante le profonde differenze con il tipo di attori (laici, pacifici e ‘postmoderni’) di cui si è tradizionalmente occupata la sociologia dei movimenti sociali, la ricerca recente sul terrorismo religioso fondamentalista ha fatto frequentemente ricorso ai concetti e alle ipotesi sviluppate proprio in quelle tradizioni di lavoro (Wiktorowicz 2005; Gunning 2007; della Porta 2008).
La violenza come radicalizzazione di conflitti sociali e politici
La letteratura teorica sulla violenza politica è ricca di analisi sulle condizioni ambientali che possono contribuire al suo emergere e alla sua crescita. Variabili economiche, sociali, politiche o culturali sono state citate come cause di comportamenti violenti. Alcuni contributi si sono soffermati su condizioni di lungo periodo, altri su particolari congiunture storiche. Spiegazioni ‘strutturali’, frequentemente basate su confronti di dati aggregati riferiti a più nazioni, hanno analizzato dimensioni quali il livello di sviluppo di una società, l’ampiezza delle diseguaglianze economiche, la presenza di minoranze etniche o religiose, la cultura politica di un Paese. Spiegazioni più cicliche, spesso basate sullo studio di singoli casi, hanno invece collegato la violenza politica alle fasi di modernizzazione, alle tappe intermedie dello sviluppo economico, a periodi di inefficienza dei poteri coercitivi dello Stato, a rapide trasformazioni nel sistema di valori.
La ricerca sulle disfunzioni che possono produrre il terrorismo si è indirizzata soprattutto sulle caratteristiche del sistema socioeconomico e, ovviamente, delle istituzioni politiche. In analisi empiriche comparate su un largo numero di Paesi ci si è chiesti, in particolare, se e in che misura condizioni di povertà (assoluta o relativa), inserimento all’interno di mercati globali o esclusione da essi, presenza di divisioni etniche, qualità della democrazia incidano sulla diffusione del fenomeno. L’uso dei repertori più innovativi, e spesso più violenti, è stato considerato come una peculiarità dei gruppi sociali emergenti. La violenza politica tenderebbe ad addensarsi quando nuovi sfidanti lottano per entrare nel sistema politico e vecchi membri reagiscono, rifiutando di uscirne (Tilly 2003). Nella riflessione del nuovo secolo, si è attribuita una maggiore propensione alla violenza ai ‘perdenti della globalizzazione’. Se, anche a causa della scarsa affidabilità dei dati relativi alla presenza di azioni terroriste, queste ricerche non sono arrivate a conclusioni condivise, l’attenzione si è concentrata sulle attività di regimi autoritari, accusati di fomentare il terrorismo, ma soprattutto sulla diffusione di alcune specifiche dottrine religiose.
Il sospetto sostegno logistico al terrorismo fondamentalista è stato citato per giustificare le invasioni militari in Afghānistān e ῾Irāq, e minacciare o comminare sanzioni ad altri Stati. Si è riflettuto anche sul sistema finanziario per cercare di bloccare i canali di finanziamento delle organizzazioni terroristiche. In particolare, dopo gli attentati dell’11 settembre, negli Stati Uniti il Patriot act si è proposto, tra le altre cose, di contrastare il finanziamento del terrorismo attraverso un’intensificazione dei controlli bancari e l’individuazione di associazioni di Paesi arabi potenziali sostenitori. L’attenzione verso le fonti economiche del terrorismo si è estesa al riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite (per es., dal traffico della droga e dall’estorsione).
Ancora a proposito del terrorismo fondamentalista islamico, su cui si è concentrata la maggiore attenzione della comunità internazionale, molto discussa è stata la tesi proposta negli anni Novanta dal politologo statunitense Samuel P. Huntington di uno ‘scontro di civiltà’ legato alle peculiari componenti ideologiche proprie della religione islamica, considerata come incompatibile con la democrazia, oltre che storicamente fomentatrice di violenza. L’analisi storica comparata ha, comunque, teso a smentire la tesi di una specifica incompatibilità della religione musulmana con la democrazia e la soluzione pacifica dei conflitti, sottolineando la multivocalità di tutte le religioni monoteiste rispetto allo Stato, oltre che i diversi equilibri tra potere pubblico e potere religioso che le democrazie hanno sviluppato nel tempo (Stepan 2000).
Seppure stimolanti nel loro tentativo di individuare alcune cause dell’emergere della violenza, le ipotesi sulle precondizioni macrostrutturali dei conflitti, o root causes (Root causes of terrorism, 2005), non sembrano comunque riuscire a rendere conto del complesso attivarsi del terrorismo, dei meccanismi di degenerazione di alcuni attori politici verso la violenza, dell’evoluzione delle formazioni in clandestinità. In particolare, il filone di studio sull’islamismo è stato criticato per un pregiudizio ‘orientalista’ che tende a vedere la cultura non occidentale come automaticamente irrazionale o retrograda.
Superando questi limiti, una parte della ricerca più recente ha prodotto studi storico-comparati orientati a guardare all’ambiente come fonte di risorse e vincoli per lo sviluppo del terrorismo, analizzandone l’evoluzione in specifici contesti storici. Si è così osservato che le organizzazioni terroriste emergono e si rafforzano in situazioni di progressiva radicalizzazione dei movimenti sociali di fronte a una risposta intempestiva e inefficace da parte degli attori istituzionali.
Già la ricerca sul terrorismo negli anni Ottanta e Novanta aveva sottolineato che molte formazioni armate erano nate nel corso di conflitti sociali acuti. Da movimenti che rivendicavano l’indipendenza rispettivamente dalla Gran Bretagna e dalla Spagna sono state fondate l’IRA (Irish Republican Army) e l’ETA (Euskadi Ta Askatasuna); nel corso di cicli di protesta lunghi e aspri sono nate le Brigate rosse (BR) in Italia e la Rote Armee Fraktion (RAF) nella Repubblica federale tedesca; dalle rivendicazioni di gruppi che si proclamano difensori delle masse diseredate vengono i Montoneros in Argentina e Sendero luminoso in Perù. Di recente, queste spiegazioni sono state estese ad altri Paesi nel Sud del mondo, e in particolare ai movimenti islamisti (Gunning 2007). Ḥamās (Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya, Movimento della resistenza islamica) si è sviluppato nel corso di una lunga evoluzione dei Fratelli musulmani palestinesi, rinforzatisi grazie alle sconfitte dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) in Libano e alla riduzione del sostegno economico degli Stati del Golfo ad al-Fataḥ. Le varie cellule terroriste che hanno operato in Europa, richiamandosi ad al-Qā῾ida sono state viste come parte di un più ampio movimento islamista (Kepel 2000).
Particolarmente rilevanti nello spiegare la radicalizzazione sono le strategie repressive degli Stati. Per quanto riguarda l’evoluzione dei movimenti sociali nei regimi democratici si è sottolineato soprattutto l’effetto delle forme di controllo di polizia della protesta (The policing of transnational protest, 2006). Un aumento di violenza si è avuto specialmente in Paesi caratterizzati da tradizioni di intervento duro della polizia nel controllo delle manifestazioni di protesta, come, per es., in Italia (della Porta, Reiter 2003). La repressione ha preso inoltre forme molto drammatiche nei Paesi Baschi, durante e alla fine del franchismo. In modo simile nell’Irlanda del Nord, la tradizione coloniale della Royal Ulster constabulary si è riflessa in strategie di intervento militare contro il movimento per i diritti civili.
La ricerca sulle forme di radicalizzazione più recenti ha messo in evidenza la brutalità delle risposte istituzionali ai movimenti sociali nei regimi autoritari. Per quanto riguarda la recrudescenza di violenza dopo l’11 settembre, la guerra al terrorismo, letta come guerra all’islam, ha contribuito alla politicizzazione dei temi religiosi. Il radicamento delle organizzazioni fondamentaliste è cresciuto con il senso di ingiustizia per quello che è stato da molti percepito come un attacco all’islam da parte di una potenza internazionale (Hafez 2007). In questo contesto, radicalizzazioni vi sono state nel Sud così come nel Nord del mondo. In Palestina, l’evoluzione di Ḥamās – inclusa la scelta di forme di azione particolarmente cruente, come l’uso di attentatori suicidi – è stata collegata alle reazioni militari di Israele, e alla escalation di reciproche vendette (Gunning 2007). Ancora in ῾Irāq memorie di episodi di repressione violenta sono spesso citate nelle biografie dei terroristi suicidi.
Spesso, inoltre, vi sono state interazioni violente tra movimenti e contromovimenti. Gruppi neofascisti in Italia, unionisti in Irlanda del Nord, paramilitari di destra in America Latina, razzisti organizzati negli Stati Uniti si sono scontrati con gli attivisti dei movimenti di sinistra ed etnonazionalisti, spesso con l’accordo di parte delle forze di polizia e degli stessi governanti dei diversi Paesi. Negli scontri fisici tra movimenti e contromovimenti, così come in quelli tra attivisti dei movimenti e polizia, si è avuta una progressiva organizzazione della violenza. Particolarmente drammatici nella storia del terrorismo recente sono stati gli episodi collegati a conflitti interetnici, non solo in Africa e Asia, ma anche nel Sud-Est europeo e nella ex Unione Sovietica.
Nelle diverse situazioni alcuni eventi possono fungere da fattori precipitanti, togliendo legittimazione, almeno agli occhi dei gruppi più radicali, alle istituzioni democratiche. Nell’evoluzione del terrorismo del 21° sec., i molti episodi di brutale repressione delle proteste in Palestina, le guerre e i bombardamenti, le stragi di civili hanno rappresentato per molti militanti momenti di non ritorno, simbolizzando l’imbarbarimento della lotta politica e giustificando soggettivamente la «presa delle armi» (Gunning 2007).
Il ciclo di vita e le dimensioni delle organizzazioni clandestine dipendono poi dalla radicalità dei conflitti in atto e dalla capacità di mediazione delle istituzioni. Nei regimi democratici, per es., il terrorismo di sinistra non è riuscito a raccogliere, anche nei Paesi in cui è stato più pericoloso, che poche centinaia di adesioni. Viceversa, la lotta armata ha attirato più seguaci laddove la democrazia appariva più debole e incapace di affrontare i problemi sociali esistenti: in Perù Sendero luminoso ha sfruttato lo scontento dei contadini poverissimi delle Ande, occupando intere regioni del Paese; e in Argentina i Montoneros hanno contribuito al crollo del peronismo, cui essi stessi si richiamavano. In Italia, Germania e Giappone, esperienze relativamente recenti con regimi autoritari (prima e durante la Seconda guerra mondiale) hanno portato a un’iniziale stigmatizzazione della protesta di piazza, assimilata ai disordini che precedettero l’avvento di regimi autoritari (Zwerman, Steinhoff, della Porta 2000). In Irlanda del Nord, così come per un lungo periodo in Spagna, la mancanza di canali di accesso politico per le minoranze religiose o etniche ha spinto a una radicalizzazione di movimenti inizialmente pacifici. Anche nel caso delle organizzazioni terroristiche che hanno operato nel nuovo secolo, l’incapacità di sviluppare efficaci mediazioni di conflitti sociali e politici storicamente radicati ha favorito una escalation tanto più drammatica quando si è cercato di risolvere quei conflitti con l’intervento militare o la repressione più brutale nei regimi autoritari.
Se gli studi degli anni Ottanta e Novanta si erano comunque concentrati prevalentemente sulle interazioni tra movimenti sociali e condizioni politiche e sociali a livello nazionale e in regimi democratici, gli episodi recenti legati al terrorismo islamico hanno spinto l’attenzione verso la dimensione globale dei conflitti e l’interazione tra regimi democratici e regimi autoritari. Così, le mobilitazioni dei gruppi islamici sono state collegate a condizioni di esclusione sociale e repressione politica, sia nelle democrazie del Nord sia in regimi autoritari del Sud del mondo. Come ha osservato Hafez, «i musulmani si ribellano perché incontrano una disgraziata combinazione di esclusione politica e istituzionale, da una parte, e di repressione reattiva e indiscriminata dall’altra. Quando gli Stati non offrono ai movimenti di opposizione islamica opportunità politiche per una partecipazione istituzionale e usano repressione indiscriminata, tenderanno a esserci mobilitazioni islamiste» (2003, p. 200). In Europa o negli Stati Uniti l’implementazione della legislazione antiterrorismo, spesso focalizzata su gruppi e cittadini di religione islamica, ha prodotto un diffuso senso di discriminazione (Schiffauer 2008). Pur seguendo percorsi diversi, gli attivisti dei gruppi militanti islamici appaiono infatti motivati da un senso di umiliazione, che trova le sue cause sia nelle vicende internazionali, sia in esperienze più dirette nei Paesi di immigrazione (Khosrokhavar 2006). In questo senso, gli effetti della repressione e discriminazione a livello nazionale si riflettono in altri Paesi, come è avvenuto, per es., dopo la repressione nasseriana dei gruppi islamici.
Mobilitazione delle risorse e organizzazioni violente
Nel guardare all’escalation dei conflitti come determinata da interazioni tra diversi attori, alcuni studi si sono concentrati sulle organizzazioni terroriste, con peculiare attenzione all’ideologia di questi gruppi. Il terrorismo nelle società democratiche è stato considerato come reazione di piccoli gruppi organizzati, esterni al sistema politico. In passato, l’emergere del terrorismo nelle democrazie occidentali era stato infatti ricondotto all’azione di sette ideologiche, di destra o di sinistra, che miravano al sovvertimento delle istituzioni liberal-democratiche. In alcuni studi, il fondamentalismo islamico è stato visto come l’equivalente di quelle ideologie radicali nel nuovo secolo. In particolare, alcune specifiche dottrine islamiche (come il salafismo, corrente che propone un ritorno alle pratiche tradizionali dell’islam nel periodo patristico) sono state considerate alla base del terrorismo, proponendo una visione (non democratica) di subordinazione dello Stato alle autorità religiose. Molti studi, così detti essenzialisti, sull’islam politico hanno infatti guardato in dettaglio ad alcune specifiche interpretazioni del Corano come intrinsecamente pericolose.
Se queste spiegazioni sono insoddisfacenti per la loro incapacità di rendere conto degli specifici meccanismi che portano dalla credenza ideologica all’azione collettiva (e violenta), più interessante è invece guardare a come processi di radicalizzazione si sviluppino durante la competizione fra organizzazioni, o fazioni di organizzazioni, che appartengono a più ampi movimenti sociali. Se infatti alcune condizioni ambientali – per es., la presenza di forti conflitti sociali, non adeguatamente mediati nel sistema politico – appaiono come precondizioni per l’emergere dei gruppi armati, bisogna comunque ricordare che solo pochissime delle organizzazioni dei movimenti sociali nei Paesi fin qui menzionati hanno scelto la via della clandestinità.
Nell’analisi della protesta si può, infatti, osservare che non soltanto ogni periodo storico vede l’azione contemporanea e necessariamente interagente di diversi movimenti sociali, ma inoltre più organizzazioni fanno riferimento allo stesso movimento, differenziandosi sia nelle ideologie sia nelle pratiche adottate. Le diversità sono spesso enfatizzate nella competizione fra diversi gruppi e, a partire da certe condizioni ambientali, una radicalizzazione dei repertori e dei modelli organizzativi può essere una strategia promettente al fine di reclutare militanti nelle aree più propense alla violenza. Specialmente nelle fasi declinanti dei cicli di protesta, l’accentuazione dell’uso delle tattiche violente e la compartimentazione delle strutture organizzative possono essere promosse da alcune delle fazioni presenti in un’organizzazione. L’emergere di formazioni clandestine è infatti spesso una conseguenza di un processo di polarizzazione e scissione tra fazioni moderate e fazioni radicali, all’interno del più ampio settore dei movimenti sociali come anche all’interno di una stessa organizzazione.
Molte formazioni clandestine si sono infatti sviluppate in seno a organizzazioni di movimento sociale inizialmente non violente: alcuni militanti di Prima linea in Italia venivano da scissioni in Potere operaio e Lotta continua; negli Stati Uniti i Weather underground si svilupparono come una frazione degli Students for a democratic society (SDS) (Zwerman, Steinhoff, della Porta 2000). Il terrorismo separatista in Irlanda e nei Paesi Baschi è cresciuto nel corso di un processo di interazione nell’ambito dei rispettivi movimenti nazionalisti. Lo stesso è stato osservato a proposito dei gruppi del terrorismo islamico. Durante e dopo le proteste della seconda Intifāḍa, alcuni reticoli di attivisti hanno avviato percorsi non violenti, altri invece hanno creduto nella maggiore efficacia e giustezza di forme d’azione sempre più violente. In Ḥamās, che è essa stessa prodotto di scissioni sul tema della violenza fra i Fratelli musulmani, la scelta di alcune tattiche radicali è stata discussa, e spesso criticata, sia all’interno dell’organizzazione sia nel movimento più ampio a cui essa fa riferimento (Gunning 2007). In ῾Irāq, i gruppi più coinvolti nelle azioni del terrorismo suicida sono i gihadisti salafiti e i ba‘tisti, che rappresentano solo alcune delle componenti dell’opposizione all’occupazione americana (Hafez 2007).
Sfruttando alcune condizioni ambientali favorevoli a una radicalizzazione, i gruppi passati alla clandestinità hanno quindi contribuito a riprodurre le risorse, logistiche e simboliche, per un’ulteriore radicalizzazione. Da questo punto di vista, si è osservato un aumento anche simbolico di alcuni conflitti, con lo sviluppo di controculture politiche che giustificavano la violenza. Miti legati all’utilizzazione di violenza politica nel passato più o meno recente sono stati riattivati e collegati a esperienze di repressione recenti. Spesso, una retorica di superiorità razziale è stata richiamata nelle mobilitazioni della destra radicale. La violenza nazionalista è stata talvolta ‘certificata’ da attori collettivi autorevoli, con riferimento a un passato prossimo o remoto. Inoltre, narrative religiose sono state utilizzate nella giustificazione della violenza politica (Juergensmeyer 2000; Hafez 2003).
La violenza non deriva comunque automaticamente dalla presenza di ideologie che propongono fini radicali, ma dall’incontro tra schemi di interpretazione e condizioni politiche (della Porta 1995). Proprio a proposito del terrorismo fondamentalista, è stato infatti argomentato che il concetto di schema di riferimento definisce dimensioni culturali più flessibili che non quello di ideologia (Snow, Byrd 2007). Pur condividendo alcuni principi di fondo con i gruppi gihadisti, il partito panislamista Ḥizb al-Taḥīr, fondato a Gerusalemme nel 1953 e poi diffusosi in decine di Paesi, ha rifiutato la violenza. Il ǧihād è richiamato negli appelli alla mobilitazione armata in alcuni Paesi, ma non in altri (Kepel 2005).
Se la radicalizzazione ideologica avviene nel corso dei conflitti con attori esterni, ma anche nella competizione fra organizzazioni che si rifanno allo stesso movimento sociale, la scelta stessa della violenza e, spesso, della clandestinità, tende poi a ulteriori radicalizzazioni sia nell’ideologia sia nei comportamenti. La ricerca sui gruppi clandestini attivi in diverse regioni del mondo indica infatti che essi tentano in genere di adattare, almeno in una certa misura, strutture organizzative, strategie d’azione ed elaborazioni ideologiche alle condizioni esistenti nell’ambiente in cui intervengono. Le conseguenze implicite, non previste, della scelta della clandestinità limitano, però, le loro capacità di reazione alle trasformazioni ambientali, contribuendo al loro isolamento. In generale, il ciclo di vita delle organizzazioni può essere descritto come un graduale processo di ‘incapsulamento’, du-rante il quale esse perdono a poco a poco interesse al raggiungimento di fini espliciti, concentrandosi invece sull’obiettivo della mera sopravvivenza. Nel corso di questa evoluzione, le forme d’azione divengono sempre più brutali, gli obiettivi più radicali, l’ideologia più criptica. L’organizzazione assume un ruolo sempre più totalizzante, mentre si riducono i contatti con l’ambiente esterno, sia come potenziale riserva per il reclutamento sia come sistema da trasformare. Le formazioni clandestine divengono quindi simili a delle sette, con la conservazione in vita dell’organizzazione come fine ultimo, l’esasperazione della solidarietà interna e la radicalizzazione delle forme d’azione. L’isolamento tende poi ad accentuare i conflitti interni che la logica stessa della lotta armata fa divenire sempre più sanguinosi: le armi, utilizzate all’inizio all’esterno, divengono a poco a poco gli strumenti principali anche per la risoluzione dei conflitti interni, fino all’eliminazione fisica degli avversari.
Concludendo, l’evoluzione delle organizzazioni clandestine è caratterizzata da processi di ‘incapsulamento’, o implosione, durante i quali le scissioni si moltiplicano, le tattiche più radicali divengono da mezzo fine, l’ideologia si fa sempre più astratta, fino alla sconfitta nella guerra contro uno Stato in genere infinitamente meglio armato. Questo tipo di evoluzione può essere spiegato come conseguenza non prevista della stessa scelta della clandestinità fatta da piccoli gruppi in regimi democratici: ogni decisione successiva ha effetti non voluti che riducono progressivamente il raggio di azioni possibili per il futuro. Entrati in clandestinità spesso per sfuggire a possibili arresti, i gruppi terroristi devono a poco a poco rinunciare alle azioni di propaganda politica, concentrandosi in campagne militari che aumentano il loro isolamento dall’esterno. Se la ricerca sui gruppi clandestini negli anni Settanta e Ottanta ha comunque guardato in special modo a organizzazioni gerarchiche e orizzontali, le forme di terrorismo più recenti – dal Ǧihād all’estrema destra – hanno invece adottato forme organizzative estremamente reticolari.
La costruzione militante della realtà esterna
Molti degli studi che si sono concentrati sulle caratteristiche dei singoli membri di organizzazioni clandestine possono essere ricondotti a un approccio di tipo psicosociologico. Secondo l’ipotesi della privazione relativa, gli attivisti delle organizzazioni radicali provengono da gruppi che si sentono frustrati a causa del divario esistente tra le loro aspettative e la situazione nella realtà. Collegati alle cosiddette teorie della società di massa, numerosi studi partono dall’assunto che gli individui che fanno ricorso a forme di violenza politica sono socialmente sradicati. Più la forma d’azione collettiva è apparsa deviante rispetto alle norme codificate, più l’analisi si è soffermata su presunte psicopatologie individuali. In particolar modo, le teorizzazioni sull’esistenza di una personalità terrorista hanno assunto un ruolo centrale nelle analisi interpretative del terrorismo internazionale, diffondendosi particolarmente negli anni Settanta e Ottanta. I militanti delle organizzazioni clandestine sono stati descritti come persone incapaci di raggiungere l’età adulta, malati mentali terrorizzati dal mondo esterno, falliti che si difendono dalle conseguenze demoralizzanti delle sconfitte subite vivendo il rifiuto come scelta e trasformandolo in volontà di potenza. Sarebbe, così, l’istinto aggressivo non incanalato in uno sfogo ritualizzato che, secondo alcune interpretazioni, produce la criminalità politica.
Una prima critica a questo filone di studi riguarda la loro validità empirica. Ricerche basate su storie di vita e materiale biografico degli attivisti dei gruppi più radicali hanno indicato che la propensione a utilizzare violenza politica non deriva da personalità patologiche. Ovunque nel mondo i militanti dei gruppi armati – inclusi coloro che scelgono forme di azione più brutali (come gli attentati suicidi) – non vengono da strati sociali marginali, né da storie di patologia individuale. Ḥamās, così come i Fratelli musulmani, hanno reclutato molti militanti nelle università e lo stesso è emerso a proposito degli attivisti dei gruppi fondamentalisti in Europa (Gunning 2007; Wiktorowicz 2005). Anche mettendo da parte il tema della loro validità empirica, gli approcci in termini di psicopatologie individuali, privazione relativa o società di massa non affrontano inoltre un problema che dovrebbe essere centrale per le loro stesse teorizzazioni: come possono individui isolati e sradicati tradurre in azione collettiva le loro tensioni individuali?
Le variabili microsociologiche sono comunque rilevanti per la comprensione del terrorismo. Negli studi sui movimenti sociali la ricerca sviluppatasi nella tradizione dell’interazionismo simbolico, più tardi rivisitata nell’approccio culturalista, ha portato a identificare alcune microdinamiche di radicalizzazione, focalizzando l’attenzione soprattutto sul modo in cui gli attivisti percepiscono e costruiscono la loro realtà sociale. In primo luogo, numerose ricerche indicano che la decisione di aderire alle formazioni armate viene presa da individui già inseriti in dense reti di rapporti amicali, sviluppatesi all’interno di piccoli gruppi politicamente attivi. Le caratteristiche di questa militanza sono in genere tali da accrescere enormemente il ruolo della politica nella definizione della propria identità. All’interno di piccoli gruppi di amici-compagni, gli attivisti (spesso giovanissimi) vengono gradualmente iniziati all’utilizzazione della violenza, cosicché l’ingresso nelle organizzazioni della lotta armata spesso non viene neanche percepito come una grossa frattura rispetto alle forme d’impegno precedenti. La solidarietà con il gruppo dei pari spinge a conformarsi a quei comportamenti considerati come normali all’interno di una certa subcultura, per evitare l’emarginazione e mantenere il sostegno di quella che diviene la cerchia affettiva più importante. Nei gruppi terroristi a base etnica, alcuni tradizionali luoghi di incontro – come le società gastronomiche o i gruppi alpini nel caso basco – hanno fornito canali di reclutamento. Allo stesso modo funzionano le organizzazioni indipendentiste sopravvissute a ondate di conflitto precedente – come l’IRA nell’Irlanda del Nord – e i legami familiari spesso presenti al loro interno. Nelle forme di terrorismo ideologico, reticoli di amicizia si costituiscono in piccoli gruppi radicali, attivi all’interno di movimenti sociali prevalentemente pacifici. Come è avvenuto per le BR e Prima linea in Italia o per la RAF e le Revolutionäre Zellen (RZ) nella Repubblica federale tedesca, all’interno di questi reticoli si rafforzano i legami di solidarietà, mentre la vita privata e l’attività politica si intrecciano, fino a coincidere.
La ricerca sui casi recenti ha confermato alcune di queste ipotesi, concentrando l’attenzione sul ruolo di precisi luoghi e reticoli religiosi nello sviluppo del terrorismo di gruppi cristiani contro l’aborto negli Stati Uniti oppure del fondamentalismo islamico in Europa (Juergensmeyer 2000). In particolare, la ricerca sociologica sul ǧihād ha sottolineato il ruolo dei reticoli informali di attivisti che facilitano il reclutamento transnazionale di militanti disposti a morire da martiri in ῾Irāq o altrove. In una ricerca approfondita sugli aderenti al gruppo radicale islamico al-Muhāǧirūn in Gran Bretagna, Quentin Wiktorowicz (2005) descrive un processo di apertura cognitiva dei futuri membri legato a crisi identitarie, ma anche all’incontro con l’organizzazione islamica. In una religione caratterizzata da pluralismo interpretativo, come quella islamica, un ruolo importante può essere svolto nel reclutamento da persone dotate di una reputazione di conoscenza dei testi sacri. La ricerca identitaria appare poi tanto più rilevante nei Paesi di immigrazione, dove non solo le leggi si discostano dalle norme diffuse nelle comunità di prima socializzazione, ma anche le discriminazioni legate alla provenienza etnica vengono spesso lette in chiave religiosa. La crescita dell’ostilità diffusa verso l’islam in seguito all’11 settembre contribuisce alla ricerca di una dimensione identitaria esclusiva nell’identità religiosa. Costituendo quella musulmana una comunità eterogenea per lingua, nazionalità ed etnia, l’identificazione comporta poi, soprattutto nei Paesi di immigrazione, una reinvenzione dell’islam (Roy 2004). In particolare nella seconda generazione di migranti, la conversione religiosa si colloca in situazioni di tensione tra valori tradizionali e assimilazione nelle società occidentali.
Inoltre, gli studi sull’evoluzione delle reti globali del terrorismo fondamentalista hanno rilevato il ruolo che i reduci della resistenza (sostenuta dagli Stati Uniti) dei muǧāhidīn in Afghānistān, provenienti da vari Paesi arabi, hanno avuto nella diffusione del terrorismo. Futuri terroristi hanno ricevuto addestramento, armi e motivazioni nel corso dei numerosi conflitti armati in Medio Oriente, Cecenia, ex Iugoslavia, acquisendo una visione militaristica della politica. La recente guerra in Afghānistān ha spinto molti gihadisti salafiti a cercare nuove protezioni in altri Paesi, tra cui Pakistan e Irān, diffondendo, piuttosto che ridurre, competenze militari e motivazioni ideologiche (Hafez 2007, p. 166 e sgg.). In modo simile, la resistenza all’invasione americana in ῾Irāq ha coinvolto una coalizione eterogenea di gruppi nazionalisti, gihadisti salafiti (che combattono per un ritorno al califfato governato dalla šarī῾a, la legge di Dio) e ba῾tisti (il vecchio partito di Saddam Hussein, Ṣaddām Ḥusayn), con un ruolo attivo giocato da ex soldati e ufficiali dell’esercito iracheno oltre che dell’allora servizio segreto (Hafez 2007, p. 37).
Il mantenimento dell’impegno nel gruppo clandestino viene poi favorito dall’innescarsi di una serie di meccanismi di non ritorno. La riduzione dei contatti con l’esterno è compensata da una sempre maggiore identificazione con la comunità della lotta armata, che viene definita come una vera e propria famiglia. L’organizzazione clandestina diviene l’unica fonte di verità, costruendo un’immagine della realtà sempre più lontana da quelle condivise all’esterno. La lealtà verso i compagni uccisi o reclusi fa percepire come tradimento ogni ripensamento. Il forte investimento iniziale e gli alti costi già pagati rendono psicologicamente difficile l’abbandono, spingendo invece a rilanciare il proprio impegno. Per chi è latitante, o rischia di diventarlo presto, i bisogni materiali (denaro, alloggi, documenti falsi) accrescono la dipendenza dall’organizzazione clandestina (della Porta 1995).
Meccanismi cognitivi, affettivi e relazionali hanno accompagnato il reclutamento dei militanti dei gruppi armati. Se la riflessione su queste dimensioni sembra utile per la comprensione del terrorismo attuale, le nuove ondate di violenza politica richiedono attenzione nei confronti delle specificità dei processi di mobilitazione e smobilitazione sia in regimi autoritari, sia in gruppi a base religiosa.
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