TESAURO
(Tesauro Beccaria). – Nacque quasi certamente a Pavia fra il 1210 e il 1220, in una nota famiglia di tradizione ghibellina.
Avviato alla carriera ecclesiastica, prima del 1250 fu eletto abate del locale monastero benedettino di S. Lanfranco appartenente all’obbedienza di Vallombrosa. Nel 1252 divenne superiore generale dei vallombrosani.
Ciò non avvenne per l’appartenenza di Tesauro alla parte ghibellina (come una tradizione successiva ha lasciato intendere) e neppure in ostilità alle scelte politiche del Comune di Firenze (che dal 1250, anno della morte di Federico II, era retto da un governo guelfo e popolare). Lo evidenzia sia la consolidata protezione offerta dal Comune gigliato all’abbazia madre dell’Ordine fondato da Giovanni Gualberto sia il fatto che pochi anni prima, in occasione della Candelora guelfa del 1248, i fuoriusciti fiorentini appartenenti a questa fazione avessero cercato la protezione dei monaci nei castelli vallombrosani di Magnale e Ristonchi, sulle colline del Valdarno a monte della città.
Trasferitosi nell’abbazia toscana, Tesauro svolse con diligenza il compito di abate maggiore, consolidando il patrimonio della casa madre soprattutto a danno del vicino cenobio femminile di S. Ilario in Alfiano, il quale da sempre deteneva il possesso del suolo su cui sorgeva Vallombrosa, ma che ormai risultava accerchiato dagli estesi possedimenti fondiari pertinenti alla più nota e cospicua casa regolare.
Egli accettò sempre la supremazia politica della repubblica fiorentina: lo evidenziano gli ordinamenti concessi nel 1253 alla comunità di Magnale (soggetta all’autorità dell’abate di Vallombrosa), che presentano nel prologo un preciso riferimento alla giurisdizione cittadina. Tuttavia, le sue origini familiari, in un periodo politicamente difficile, lo resero sospetto al regime guelfo, che approfittò delle lamentele sollevate dalle monache di S. Ilario per avviare una serie di azioni contro di lui. Per di più Tesauro ricevette il pericoloso appoggio del cardinale Ottaviano Ubaldini, allora protettore dell’Ordine, ma guardato con ostilità dai fiorentini.
La controversia con il monastero di S. Ilario si inasprì durante gli anni successivi. Nel 1255 l’abate celebrò un capitolo generale a Vallombrosa. In quell’occasione ottenne da papa Alessandro IV la conferma del possesso di S. Ilario, un’azione che presupponeva la fine dell’antica dipendenza formale dell’abbazia dal vetusto chiostro femminile. Tale concessione incontrò la ferma opposizione delle monache guidate dalla badessa Dionisia, irritata dal fatto che il suo istituto fosse trattato come un qualsiasi resedio rurale. La scomunica in cui incorsero le religiose (1256) non fece che esasperare il conflitto e provocò l’intervento diretto dei fiorentini in difesa delle monache; intervento che, a sua volta, determinò l’interdetto da parte del pontefice, già in conflitto col governo fiorentino impegnato a contenere i privilegi fiscali e le immunità giudiziarie del clero. Nel 1257 il pronunciamento apostolico venne revocato, ma ciò non allentò le tensioni fra il Comune di Firenze e il generale di Vallombrosa, sempre troppo vicino al cardinale Ottaviano, il quale l’anno dopo riformò le costituzioni dell’Ordine. La situazione precipitò nell’estate del 1258, allorché i fiorentini scoprirono un’alleanza contro di loro che coinvolgeva Siena e Ubaldini.
Stando alle accuse dei fiorentini, questi avrebbero tramato con Manfredi di Svevia per favorire il ritorno dei ghibellini nel maggiore centro toscano. La notizia scatenò una forte repressione contro tutti i sostenitori del porporato e quindi la cacciata dei ghibellini.
In tale contesto Tesauro venne tacciato di tradimento per aver accolto, proprio nei suoi possedimenti e nello stesso monastero di S. Ilario, i fuoriusciti della città.
Gli si attribuì, pertanto, la responsabilità di cospirare col cardinale, il conte Guido Novello e Farinata degli Uberti contro il Comune guelfo. Non tutti in città furono convinti della sua colpevolezza, come dimostrano le testimonianze dei cronisti Ricordano Malispini e, sia pure in tono più possibilista, Giovanni Villani.
Sebbene il governo cittadino non avesse emesso alcuna condanna ufficiale contro di lui, Tesauro (che era in città) fu catturato, trascinato sull’antica piazza di S. Apollinare (odierna piazza S. Firenze) e decapitato, nel settembre del 1258. Questa azione suscitò le proteste dei pavesi, i quali minacciarono i fiorentini di rappresaglia. A essi fu risposto con una lettera attribuita a Brunetto Latini, che confermò le accuse e sottolineò la cattiva condotta morale del prelato, testimoniata dai suoi stessi confratelli. In ogni caso Alessandro IV, sdegnato per l’accaduto, lanciò sulla città, tramite Federico Visconti arcivescovo di Pisa, un interdetto destinato a durare oltre sette anni.
Della lettera inviata dal Comune di Pavia a quello di Firenze e della risposta di Brunetto esistono vari esemplari manoscritti in latino e in volgare, redatti tra la fine del XIII e il tardo XV secolo. Dante, forse influenzato dalle posizioni del maestro, evocando una stagione di lotte che avrebbe condotto la Firenze guelfa alla sconfitta di Montaperti del 1260, avallò l’uccisione di Tesauro e lo pose nell’Antenora in quanto traditore della patria, apostrofandolo come «quel di Beccheria di cui segò Fiorenza la gorgiera» (Inferno, XXXII, 117-119).
Al rientro dei guelfi a Firenze (1266) i fiorentini consentirono che si attuasse il progetto di Tesauro, lasciando che il chiostro di S. Ilario divenisse una grangia di Vallombrosa. Il Comune di Pavia, del quale Tesauro era originario e cittadino, venne risarcito con ben 2000 fiorini d’oro, somma per la quale i fiorentini ancora negli anni Venti del Trecento, stando agli Statuti del Comune, versavano gli interessi di un prestito concesso dall’arte di Calimala.
Tesauro fu sepolto con onore a Vallombrosa. Egli figura nel martirologio benedettino come cardinale martire alla data del 4 settembre (ma la sua dignità cardinalizia è da ritenersi priva di fondamento; fu comunque legato pontificio in Tuscia) e quale santo della Chiesa cattolica il 12 dello stesso mese. Il suo sacrificio compare nelle memorie scritte e nelle espressioni artistiche della congregazione dei secoli successivi. Basti citare il dipinto di Giovanni Domenico Piestrini in S. Prassede a Roma (1717) o quello di Francesco Niccolò Lapi nella chiesa abbaziale di Vallombrosa (1732).
Quest’ultimo insiste sul significato simbolico della sorte riservata al prelato, che viene assimilato alla tradizione martiriale tramite il ricorso a un’ambientazione classica evocante la più antica stagione cristiana (il carnefice è armato come un centurione), senza alcun riferimento al contesto politico duecentesco che aveva conosciuto lo scontro tra Firenze e il superiore vallombrosano.
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