Testamento biologico
La questione giuridica e bioetica
La parola testamento appartiene, oltre che al vocabolario del diritto, alla lingua comune. Il c. c., all'art. 587, ne dà la seguente definizione in cui si riassume un'esperienza millenaria: "Il testamento è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse". Nelle norme successive figura di preferenza l'espressione disposizioni testamentarie, che è conforme al frequente articolarsi dell'atto in una serie di volizioni, suscettibili di distinta considerazione.
Il concetto giuridico di testamento è strettamente legato all'idea dell'autonomia, della libertà della persona: la medesima idea influisce sull'uso atecnico del vocabolo, come nella formula testamento spirituale, che si riferisce a un insieme di apprezzamenti, giudizi, moniti, consigli, nei quali quasi si racchiuda, a mo' di consuntivo e di congedo, tutta l'esperienza e la spirituale identità del soggetto. È ben possibile che questa sorta di racconto della propria vita venga rivestita della forma giuridica testamentaria: in epoche passate ciò corrispose anzi a una diffusa consuetudine.
Con diverso significato il 2° co. dell'art. 587 allude a disposizioni di natura non patrimoniale "che la legge consente siano contenute in un testamento": quando affidate a un atto che del testamento presenti i requisiti di forma, esse dispiegano efficacia giuridica "anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale". Vengono al riguardo presi in considerazione il riconoscimento di un figlio naturale, la destinazione a pubblicazione di opere dell'ingegno o, al contrario, l'espressione della volontà di mantenerle inedite, le indicazioni sulle modalità di sepoltura: determinazioni che, pur comportando in molti casi conseguenze patrimoniali, hanno indole prevalentemente morale e attinenza con la sfera personale e familiare del testatore. Un modo di esprimersi consolidato tra i giuristi designa queste come disposizioni testamentarie 'atipiche': delle tipiche, patrimoniali (istituzione di erede, legato), esse condividono in primo luogo il tratto dell'efficacia differita alla morte dell'autore. Quanto al principio di revocabilità presentato dalla legge italiana come indeclinabile per le disposizioni a causa di morte con carattere patrimoniale, esso vale per il contenuto atipico del testamento con una sola ma importante eccezione: il riconoscimento del figlio naturale produce effetti dal giorno della morte del de cuius anche se l'atto è stato revocato (art. 256 c. c.).
Tutta questa materia appartiene al tradizionale bagaglio del giurista, e più precisamente del civilista: mentre la formula testamento biologico evoca problemi in larga misura nuovi, a pieno titolo facenti parte di quel terreno di dibattito e di incontro tra diverse competenze cui si dà il nome di bioetica. L'accostamento all'antico vocabolo di un aggettivo che richiama la vita umana nella sua pura fisicità (nei Paesi di lingua inglese è in uso l'espressione living will) è soprattutto ispirato dai progressi della medicina contemporanea, e in particolare dalle tecniche di sostegno vitale (si pensi alla cosiddetta ventilazione artificiale) che con tali progressi si sono rese disponibili.
Incide, nella posizione del tema, la diversa configurazione che il rapporto di affidamento alle cure del medico è venuto assumendo, nella comune mentalità, rispetto alle epoche passate, con la sempre maggiormente spiccata valorizzazione del 'consenso informato' nonché dell'autodeterminazione del paziente. La propensione a imporre la cura obiettivamente idonea ad agire in senso positivo appare, con riguardo ai soggetti 'competenti', in generale declino. Va ricordata la riconduzione del tema, nell'esperienza statunitense, all'idea della riservatezza: già nella dissenziente opinione di un giudice americano della fine dell'Ottocento la privacy non si estendeva soltanto a "sensible beliefs, valid thoughts, reasonable emotions, or well founded sensations"; vi si doveva riportare anche la ribellione al conformismo, ribellione che può nascondersi nel ricusare, persino con estremo rischio, il trattamento medico. In Italia si sono dati vari episodi, specialmente di rifiuto ispirato a ragioni religiose: come nel caso dei testimoni di Geova che non accettano di sottoporsi a trasfusioni di sangue. L'art. 5 del c. c., che proibisce gli "atti di disposizione del proprio corpo" comportanti una "diminuzione permanente della integrità fisica" (oltre a quelli "altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume"), è stato frequentemente indicato come un possibile ostacolo all'annessione di effetti giuridici a tale negativa volontà; ma a dispetto di una certa retorica che al tempo dell'emanazione del codice, nel 1942, aleggiava intorno a questa norma - come sanzionante una sorta di responsabilità del cittadino verso la collettività per la sua efficienza di lavoratore, militare, padre di famiglia - è da dubitare che essa abbia attinenza con la materia dei trattamenti terapeutici, nella quale domina il principio di beneficialità; soprattutto, è da ricordare l'art. 32 della Costituzione, norma successiva e sovraordinata nella gerarchia delle fonti, la quale, discorrendo della salute come di un fondamentale diritto della persona, implica il principio della libertà del trattamento terapeutico, che solo in nome della sanità pubblica può essere, per legge, sacrificata. È perciò legittimo, fuori dall'ipotesi che vi sia in questione la salute altrui, il rifiuto della cura; solo se il rifiuto proviene, per l'interessato incapace, da un congiunto o altro terzo investito della sua legale rappresentanza, può persistere l'obbligo dei medici di procedere al trattamento indicato.
Di quest'ultima conclusione, che presuppone l'irrilevanza della volontà espressa personalmente dall'incapace, ci si appaga quando in questione siano le cure di minori in tenera età. Risvolti più problematici presenta il caso del rifiuto di cure che proviene dall'interdetto per infermità mentale: caso nel quale si avverte il rischio che una misura essenzialmente pensata per l'inidoneità a gestire gli interessi patrimoniali funga da scorciatoia rispetto a un difficile e finanche angoscioso apprezzamento in concreto della competence. Suscita poi disagio - ed è questa la questione più avvertita dal cittadino e dall'uomo comune - l'eventualità dell'incoscienza conseguente alla stessa affezione o incidente da cui deriva l'esigenza delle cure, se il paziente abbia fatto constare in precedenza, in maniera chiara e consapevole, la propria opposizione. Qui la linea di tendenza del nostro e degli ordinamenti affini - a ricondurre nel regno dell'autonomia individuale, in misura più larga che in passato, la materia dei diritti inerenti alla persona, e in particolare lo svolgimento del rapporto terapeutico - sembra entrare in collisione con principi e soluzioni consegnati dalla tradizione. È precisamente in questo punto che si situa, nell'ambito della tematica propriamente più ampia delle cosiddette direttive anticipate, la questione bioetica e giuridica del t. b., sulla quale non manca di proiettare la sua ombra l'atteggiamento di vergogna, di ipocrisia e di rimozione, che circonda la fine della vita nelle nostre società.
Cause di giustificazione e soggetti legittimati alla decisione
Le tecniche di rianimazione e di sostegno delle funzioni vitali sviluppatesi nel corso del 20° sec. impongono la drammatica questione se sia lecito, e quando, con un positivo gesto di sospensione di procedure in corso, dagli esiti realizzantisi a breve o a più lunga scadenza, metter fine al protrarsi di una vita 'artificiale', di un'esistenza biologica ma non più 'biografica' e in questo senso - ci si può indurre a dire - non più umana.
Questo tema si è da principio presentato al giurista sotto il profilo dell'esenzione da ogni responsabilità degli operatori sanitari. La più rassicurante delle cause di giustificazione è stata trovata nella diagnosi precoce di morte, che presuppone la definizione di quest'ultima nei nuovi termini di irreversibile cessazione di tutte le funzioni cerebrali (si veda art. 1 della l. 29 dic. 1993 nr. 578, Norme per l'accertamento e la certificazione di morte), o delle funzioni del tronco: per il suo obiettivo operare solidalmente alle esigenze della chirurgia dei trapianti questa strada - intrapresa da molti legislatori nazionali - da taluni osservatori è riguardata con sospetto, quando non con aperta avversione.
Da più parti, per converso, si propone che il minimum necessario al riconoscimento di una perdurante vita umana sia individuato nella funzionalità delle regioni superiori del cervello (concezioni "corticali" della morte): si comprende che questa via - la quale implica l'estensione del giudizio di morte a soggetti capaci di autonoma respirazione - susciti più gravi incertezze di ordine scientifico e morale, maggiori resistenze da parte dell'opinione pubblica e, allo stato, nessun seguito presso i legislatori positivi.
Resta dunque sul campo il problema del mantenimento di una vita puramente vegetativa, con le sue connessioni, sottili oppure scoperte, all'eutanasia e anche al suicidio, alla gestione delle risorse scarse e all''amministrazione' programmata della morte. L'esperienza di conflitti e discussioni su chi abbia titolo a decidere, e così a escludere ogni responsabilità dell'esecutore, porta in luce la coesistenza di interessi diversi, che sono riconducibili al gruppo familiare, alla classe medica, all'amministrazione della giustizia. L'intreccio delle motivazioni nasconde nelle pieghe di ciascuna vicenda fattori collettivi - si pensi soltanto alle convinzioni religiose diffuse in un ambiente o in un'epoca, alle necessità scientifiche che possono rendere preziosa una protratta osservazione del fenomeno, come ai costi economici di una esistenza prolungata senza concrete prospettive di recupero - e spinte individuali difficili a cogliersi e a descriversi, dalla pietà alla speranza impossibile, all'ambizione o alla superbia della scienza.
L'elaborazione giudiziaria e legislativa nei vari Paesi (e da ultima la complessa dialettica istituzionale apertasi negli Stati Uniti intorno al caso di T. Schiavo - morta nel 2005 -, che ha avuto ampia eco nelle cronache di tutto il mondo) testimonia la difficoltà di fissare criteri soddisfacenti, costanti e uniformi, di investitura di soggetti legittimati alla decisione. Battuta dai legislatori è piuttosto, sempre più spesso, la via di disciplinare una dichiarazione di volontà, rivestita di una speciale forma e fino all'ultimo istante revocabile, con cui l'interessato dispensi da inutili tecniche che lo tengano in vita e, anzi, autorizzi a interromperle. La tematica dell'esenzione del personale medico da penale oppure civile responsabilità passa in questo senso in secondo piano, sempre più prevalendo su di essa quella dell'autodeterminazione del paziente.
In special modo da quest'ultimo punto di vista si comprende l'estensione alla nostra materia del termine testamento. Il t. b. non può che condividere con il testamento in senso stretto i caratteri dell'unilateralità e della revocabilità; e però se ne distingue nettamente per riguardare la fine della vita come processo, piuttosto che come evento istantaneo, e in definitiva perché destinato a valere e a essere rispettato prima della morte del soggetto. A dispetto di questa differenza, nella letteratura straniera, per es. degli Stati Uniti, non è infrequente l'inserimento del tema nelle trattazioni del diritto successorio: il che è interessante soprattutto perché evoca figure affini al nostro esecutore testamentario, investito della funzione di "curare che siano esattamente eseguite le disposizioni di ultima volontà del defunto" (art. 703, 1° co., c. c.). Sia la pratica sia l'esperienza legislativa mostrano in effetti l'opportunità, se non la necessità, che il living will - incidendo sulla durata di una sopravvivenza "assistita", nella quale non vi è più alcuna possibilità di controllo da parte dell'autore - si affidi alla relazione di fiducia con soggetti in grado di vigilare sulla sua esecuzione. L'appartenenza alla cerchia familiare, il sodalizio nato dall'amicizia o dalla condivisione di ideali interessi, l'instaurazione del rapporto professionale di assistenza con il medico oppure l'infermiere, sono i criteri che più ovviamente si offrono alla scelta dell'interessato, e che semplificano la ricerca e individuazione, da parte delle strutture sanitarie, della persona da consultare.
Come nel caso del testamento classico, anche per il t. b. si avverte un'esigenza di rigoroso formalismo, perché la volontà si offra come un oggetto certo all'interpretazione. A sensibilizzare su questo punto concorse molto un altro celebre caso statunitense, quello di N. Cruzan (morta nel 1990), nel quale la volontà della paziente di non continuare a vivere in stato vegetativo con il supporto di alimentazione e idratazione artificiali venne ricavata in via indiretta e testimoniale. Correlativa alla necessità della forma può, inoltre, apparire quella della pubblicità, per evitare che la risultanza della volontà resti affidata a un rapporto puramente fiduciario. Formalismo e pubblicità, tuttavia, comportano anche il rischio che l'atto venga a risolversi in qualcosa di standardizzato, che soprattutto al momento del ricovero in strutture ospedaliere spersonalizzanti il soggetto potrebbe indursi, meccanicamente, a sottoscrivere.
La situazione italiana
Più che in altri ambienti, nell'esperienza italiana perplessità e opposizioni all'ammissione del t. b. sono ispirate da sentimenti etici e religiosi di sacralità, e indisponibilità, della vita. Sul piano del diritto positivo, tuttavia, il già ricordato art. 32 della Carta fondamentale afferma il principio della libertà della cura: il t. b., che potrebbe sembrare in contrasto con l'idea della tutela della vita quale ragione dell'esistenza stessa del diritto, non manca sotto questo profilo - come si suole dire - di copertura costituzionale.
Una più tecnica ragione di resistenza deriva dalla idea tradizionale, in linea di massima condivisibile, che gli atti di disposizione del corpo, e più in generale dei diritti inerenti alla persona, debbano tenersi per revocabili in ogni momento: una sopravvenuta condizione di incapacità, e soprattutto di incoscienza, impedendo l'esercizio della revoca e dunque la qualificazione come attuale della volontà espressa nella direttiva di sospensione dei trattamenti, osterebbe irrimediabilmente alla sua giuridica rilevanza. Proprio l'esempio del testamento in senso stretto mostra però che non vi è nulla di sorprendente, dal punto di vista tecnico, nel fatto che la volontà abbia a dispiegare i propri effetti anche oltre il tempo della sopraggiunta incapacità; anche su un piano di ideale apprezzamento, che la persona non abbia più la possibilità di revocare un atto non sembra un buon motivo per disconoscerle a posteriori la libertà che compiendo l'atto ha esercitato. È comprensibile dunque, e finanche auspicabile, che il dibattito pubblico si soffermi sulla generale rilevanza di dichiarazioni di rifiuto di cure formulate "ora per allora": ma almeno nell'accezione fondamentale - di decisione di lasciare al corso naturale delle cose, oppure viceversa di affrettare o ritardare, lo svolgersi di una fase terminale, dalla quale non vi siano ragionevoli prospettive di recupero a una vita cosciente e indipendente dalla macchina - il ricorso al t. b. deve ritenersi già consentito dal nostro ordinamento giuridico.
Le tenaci riserve ideologiche e morali hanno tuttavia l'effetto di generare, quando non confusione, incertezza: di qui l'insistente proposta di assicurare i valori della libertà e della dignità del paziente, affermati dalle "raccomandazioni" e dalle "carte" dei diritti e dei doveri del malato, nonché dal codice deontologico dei medici (che al di là dell'eccessiva fiducia spesso riposta in queste norme di categoria è una fonte di diritto di sicura importanza per il nostro tema), affidando la materia a una puntuale disciplina legislativa. In questa prospettiva, molti utili suggerimenti, o quanto meno spunti di riflessione, possono trarsi dalle esperienze straniere. In margine alla loro breve ricognizione sono però da segnalare casi come quello della Germania, una delle nazioni in cui la questione è più avvertita, emblematico della possibilità di affrontare tali problemi anche fuori di una specifica regolamentazione legale, di approfondirne e migliorarne la conoscenza giuridica sperimentando e adattando istituti già noti.
Le esperienze straniere
Benché non manchino riferimenti più remoti, come il fallito progetto della English Society, poi Euthanasia Society, sottoposto alla Camera dei Lords nel 1936, conviene avviare la rapida rassegna da un testo collaudato sul piano dell'esperienza positiva. Nel Natural death act della California, del 1976, si persegue il programma di poter consentire a soggetti adulti e capaci l'esercizio consapevole del diritto di assumere le decisioni relative alle proprie cure, e tra esse le determinazioni circa l'inizio oppure l'interruzione delle procedure di sostegno, in via di principio dettare da fuori e prima dalla condizione terminale, nella rappresentazione dell'eventuale verificarsi di tale condizione. Scritto con buona tecnica e apprezzabile equilibrio, il documento propone, a chi lo consideri come possibile modello per legiferare in altri ambienti, accettabili e utili definizioni tanto della terminal condition ("condizione incurabile" causata da ferita, disturbo o malattia che, senza riguardo all'applicazione delle procedure di sostegno vitale, determinerebbe, in base a un "ragionevole giudizio medico", la morte, e in cui l'applicazione delle procedure di sostegno servirebbe soltanto a "posporre il momento del decesso del paziente") quanto delle life-sustaining procedures ("procedimenti oppure interventi sanitari che utilizzino mezzi meccanici o artificiali" al fine di "sostenere, ripristinare oppure soppiantare una funzione vitale", i quali, applicati a determinati pazienti, servirebbero soltanto a ritardare artificialmente il momento della morte in situazioni in cui, secondo il giudizio del medico curante, questa sia comunque "imminente").
La legge californiana contiene molte disposizioni di stretto interesse civilistico: ha cura di escludere che il rifiuto delle tecniche di protrazione artificiale della vita integri gli estremi del suicidio rispetto al contratto di assicurazione; prevede inoltre l'incapacità di sottoscrivere la direttiva in qualità di testimone per il medico e i suoi assistenti, per chi sia legato al disponente da vincoli di sangue o di matrimonio, per chiunque in base al testamento o alla legge abbia diritto a una quota del suo patrimonio ereditario. Guardata da altro punto di vista, quest'ultima previsione si risolve nel sancire un'incapacità di ricevere per testamento, di natura e giustificazione affini alle forme di incapacità dalla nostra legge stabilite a tutela della libertà del de cuius.
L'esempio della disciplina californiana è stato più tardi seguito, nelle sue linee generali, da quasi tutti gli Stati americani e ha influenzato anche la legislazione federale. In queste sedi l'oggettività delle condizioni terminali tende a passare in second'ordine rispetto all'intento di valorizzare l'autodeterminazione del paziente, e si fa evidente che le "istruzioni" o "direttive anticipate" circa la cura della salute possono trascendere la prospettiva dell'incombente fine della vita quale oggetto di specifica rappresentazione.
Accanto allo strumento del living will ricorre peraltro, nelle leggi statunitensi, il diverso modello dell'health care power of attorney, che si risolve nell'investitura di un soggetto perché assuma le decisioni da prendere quando l'interessato non sarà in grado di esprimere direttive. È la via battuta in particolare dall'Uniform health care decisions act del 1993, che restringe il campo di applicazione delle leggi dei singoli Stati dedicate ai living wills sul modello californiano: l'agent non può essere persona legata alla struttura che esegue il trattamento e deve assumere decisioni conformi alle eventuali istruzioni del principal, o ai 'valori' da questi professati.
Direttive anticipate e t. b. si sono diffusi in altre parti del mondo e hanno trovato cittadinanza in varie legislazioni europee, come in Danimarca, Paesi Bassi e ora anche in Belgio (loi relative aux droits du patient del 22 ag. 2002) e in Spagna (l. 41/2002).
Il fenomeno va collocato sullo sfondo di documenti internazionali che, al di là del diverso valore formale, del differente raggio e grado di vincolatività, hanno grande importanza politica e confermano le istanze dell'autodeterminazione del paziente, della sua informazione, della dignità da rispettare in lui fino al momento della morte, attribuendo a questi temi un rilievo coerente con la sempre più pervasiva presenza della scienza medica, e degli strumenti tecnologici di cui essa può avvalersi, nell'esistenza degli uomini del nostro tempo.
È da segnalare, per es., la Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti umani dell'UNESCO (13 ott. 2005), la quale discorre all'art. 3 di "pieno rispetto" della dignità umana, dei diritti umani e delle libertà fondamentali; all'art. 5 di "autonomia e responsabilità individuale", all'art. 6 di consenso all'intervento medico. Nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, detta Carta di Nizza (2000), entrata a far parte della non ancora vigente Costituzione europea, il principio della libertà della cura risulta da una delle primissime norme, accomunato a varie altre generali e alquanto eterogenee affermazioni entro il Capo intitolato alla Dignità. Soprattutto viene in causa l'art. 9 della 'Convenzione per la protezione dei diritti dell'uomo e la dignità dell'essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina', approvata dal Consiglio d'Europa il 16 nov. 1996, nel quale si legge che "i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente il quale, al momento dell'intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione". La Convenzione, conoscita come di Oviedo, è stata ratificata dall'Italia con l. 28 marzo 2001 nr. 145, ma si è ancora in attesa dei decreti attuativi previsti dall'art. 3 di tale legge. Nel suo tono sfumato, frutto evidente di prudenza e compromesso, l'enunciato che interessa conferma l'urgente attualità del tema; esso va coordinato con quello dell'art. 6.1, nel quale si condensa il timore dell'umanità sfigurata dal cosiddetto accanimento terapeutico: un intervento nel campo della salute può essere effettuato su una persona che non abbia la capacità di dare il consenso soltanto per "un suo diretto beneficio". L'ispirazione di queste norme sembra trovare speciale corrispondenza nella legislazione francese, in quanto nel Code de la santé publique, innovato da ultimo con l. 370 del 2005, resta predominante, quanto alle decisioni di cura, l'idea della centralità della competenza del medico: dichiarazioni anticipate di rifiuto dei trattamenti vengono previste dal codice (l. 1111-11) con un valore orientativo, di contro l'impegno terapeutico per il beneficio del paziente incontra un limite obiettivo nel concetto della "irragionevole ostinazione".
Tentativi di specifica regolamentazione sono falliti a più riprese in Gran Bretagna: ma ciò non ha comunque impedito alla giurisprudenza di quel Paese - già applicatasi a mitigare il complesso di sanzioni penali e civili tradizionalmente riconnesse dal common law alla fattispecie del suicidio - di riconoscere effetti ai living wills. Relativamente alla vicenda inglese è soprattutto da ricordare l'insuccesso di progetti legislativi talmente minuziosi, in punto di garanzie di carattere formale, da far temere che ne uscisse compromesso il rapporto di fiducia tra medico e paziente, e trasformata la stanza del morente in un ufficio burocratico frequentato da testimoni e funzionari ministeriali. La questione ha assunto ancora maggiore forza, nell'opinione pubblica, dopo che nel 1993 la Camera dei Lords ha affermato la legittimità dell'interruzione dei trattamenti di sostegno vitale nel best interest di un paziente che non vi avesse previamente consentito, privo di coscienza e senza prospettive di recupero. Il Mental capacity act, destinato a entrare in vigore il 1° apr. 2007, contiene ora una disciplina sia delle dichiarazioni anticipate di rifiuto di cure sia di un lasting power of attorney riguardante le decisioni concernenti la salute.
Quanto alla Germania va segnalato che da alcuni anni - senza peraltro sopprimere la vecchia figura dell'interdizione, che presuppone l'incapacità di autodeterminarsi - vi si è introdotto un istituto in base al quale un soggetto che sarebbe in grado di curare i propri interessi può spogliarsi della loro gestione in tutto o in parte, acquisendo una sorta di curatore nel cui nome è inscritta la lealtà, la fiducia su cui il rapporto tra i due soggetti riposa: ebbene, questa Betreuung può essere adoperata anche per attribuire un potere in ordine alle situazioni e alle decisioni legate alla fase terminale della vita.
In Italia uno strumento analogo è stato di recente creato con la l. 9 genn. 2004 nr. 6, istitutiva della cosiddetta amministrazione di sostegno. Anche questa si presta a essere usata con riguardo sia a rapporti patrimoniali sia a decisioni di natura personale: già si profilano, in giurisprudenza, aperture all'idea che, qualora l'interessato non sia in condizione di manifestare il proprio consenso alle terapie, l'amministratore possa farsi interprete di orientamenti e desideri da lui espressi in precedenza.
La disciplina italiana in materia
Le prime iniziative parlamentari italiane per una apposita disciplina della materia risalgono già alla metà degli anni Ottanta del 20° secolo. Anche in questo caso, il profilo dell'esercizio consapevole del diritto di assumere le decisioni relative alle proprie cure si trova talvolta relegato in secondo piano rispetto all'obiettivo della dispensa del medico dall'intraprendere o continuare le terapie di sostenimento: una proposta di F. Fiandrotti, nel 1987, prevedeva in sostanza la concessione di oggettiva rilevanza alla irreversibile condizione terminale e all'inevitabilità della morte, con un limite nell'opposizione - di difficile, e perciò assai improbabile, esperibilità - di soggetti legati all'interessato da vincoli di carattere familiare oppure da semplice convivenza, oppure ancora del ministro del culto cui presumibilmente aderisse l'infermo.
La visuale più attenta alla volontà fu altre volte allargata al rifiuto di particolari trattamenti, per es. rischiosi o economicamente onerosi. Nelle proposte e nei progetti più recenti prevale la prospettazione del tema senza esclusivo riferimento alla condizione terminale (così, per es., il disegno di legge nr. 4694 del 20 giugno 2000, Disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari, d'iniziativa dei senatori L. Manconi, F. Carella, R. Pettinato), il che è non solo tecnicamente possibile, ma opportuno. Il tratto veramente caratteristico merita d'esser visto piuttosto in ciò, che rilevino non solo le indicazioni e il consenso espressi dall'interessato - a seguito dell'informazione ricevuta - nell'attualità della situazione che esige il trattamento, ma anche le scelte da lui compiute rispetto a situazioni future di cui non è possibile un'esatta previsione, bensì una rappresentazione in termini di eventualità. La formula delle direttive anticipate, come già si è accennato, è forse la più confacente a questa estensione di visuale: ma del vocabolo testamento va ritenuto il rinvio ai caratteri di solennità e di necessario formalismo dell'atto. Le ragioni del formalismo giuridico possono attenere alla circolazione dei beni e alla sicurezza dei traffici, ma anche alla necessità di richiamare l'attenzione del soggetto sulla gravità della decisione che assume. Quest'ultima è la ragione delle prescrizioni di forma relative non solo al testamento, ma pure a un altro atto che a sua volta interessa i discorsi della bioetica, cioè la donazione: poiché è lo scambio, e non la gratuità, che domina normalmente i rapporti tra gli uomini, la forma imposta dal diritto serve a indurre il soggetto a una particolare ponderazione. Anche nella nostra materia si può dire che la forma debba avvertire della gravità delle conseguenze dell'atto, che investe la salute della persona fino a incidere, eventualmente, sulla durata della vita.
Sembra auspicabile che una legge su t. b. o direttive anticipate non allarghi ulteriormente il suo orizzonte: in particolare, che dal raggio della legge sia escluso, come nell'Act californiano, il tema dell'eutanasia, nel senso dell'uccidere per pietà in condizioni di grave sofferenza e nelle quali però faccia difetto il presupposto dell'imminenza, secondo il naturale decorso degli eventi, della morte. Nel segno di questa opportuna distinzione di problemi si muove la maggior parte dei numerosi disegni di legge attualmente all'esame del Parlamento: da ultimi i disegni di P. Massidda, nr. 433, comunicato alla Presidenza del Senato il 19 maggio 2006; di A.M. Carloni e altri, nr. 542, 31 maggio 2006; di L. Marino e altri, nr. 687, 27 giugno 2006; di P. Binetti ed E. Baio Dossi, nr. 773, 7 luglio 2006.
Non c'è una precisa connessione neppure tra il tema del t. b. e quello della donazione degli organi, tanto più in sistemi, come quello italiano, in cui la disponibilità alla donazione è presunta nel soggetto che mantiene il silenzio; in simili contesti il living will potrebbe contenere una manifestazione di volontà negativa: eventualità che ripropone per suo conto la questione della pubblicità.
Dalle legislazioni straniere i progetti correnti traggono numerosi accorgimenti: l'efficacia del t. b. può essere differita dal momento dell'emissione, al fine di garantire uno spatium di ulteriore ponderazione; può prevedersi che l'atto abbia efficacia limitata nel tempo, e che per mantenere efficacia debba venir confermato una o più volte, che dopo la prima o reiterate conferme esso consegua - salva sempre la libertà della revoca - definitiva validità. Per quanto riguarda il personale sanitario è possibile pensare di garantire la possibilità della dispensa dall'esecuzione per obiezione di coscienza.
Per l'ipotesi dell'investitura di familiari, di amici o dello stesso medico perché assumano le decisioni da prendere quando l'autore non sarà in grado di esprimere direttive, i termini da mutuare dal nostro tradizionale lessico giuridico sarebbero quelli di mandato, di procura, e ancor meglio quello più elastico di fiducia. Tale investitura ben può essere considerata, anziché uno strumento alternativo a quello del t. b. e delle direttive anticipate, come uno dei possibili loro contenuti. La soluzione del fiduciario appare anzi la più coerente con il sistema: il potere di determinarsi riconosciuto di regola al soggetto di diritto consiste in generale sia nel compiere gli atti e nello svolgere l'attività che lo riguardano sia nella possibilità di delegarne lo svolgimento, con effetti vincolanti, ad altri, per singoli rapporti o per aree di decisioni e di interessi; all'autonomia di ciascuno appartiene perfino di attribuire un potere di sostituzione per la totalità dei propri interessi, con esclusione di alcuni rapporti di natura molto personale che non appartengono, deve ritenersi, alla materia di cui ci si occupa. Il potere di rappresentanza conferito attraverso una procura non si perde per il fatto che l'interessato sia divenuto incapace, anzi il sistema lo considera in tali circostanze a maggior ragione giustificato. Proporre di attribuire alla famiglia, in virtù di una tipica previsione, i poteri del fiduciario significa innanzi tutto contrastare la volontà che abbia eventualmente preferito il terzo; senza contare che la famiglia non è un unitario soggetto collettivo, ma dal diritto positivo è opportunamente considerata per quello che è, una pluralità di persone le quali ben potrebbero esprimere orientamenti e pareri difformi. Se poi si pensa alle convivenze di fatto e a quelle comunità di vita che si realizzano oggi per sovrapposizione o integrazione tra gruppi familiari diversi in seguito alla morte, alla separazione, al divorzio, ancor più chiaramente ci si rende conto della mancanza di organi, in senso tecnico, di formazione di una volontà imputabile alla famiglia come tale.
Infine, attribuire alla famiglia queste decisioni aggraverebbe il rischio dell'interferenza di valutazioni di comodo e interessi personali. La figura del soggetto liberamente investito corrisponde più di ogni altra al principio di autodeterminazione: a somiglianza del caso di chi assista alla stesura delle direttive in qualità di testimone, e a maggior ragione, può semmai sembrare che il fiduciario, come accade in diversi ordinamenti, debba incorrere in un'incapacità patrimoniale che lo tenga estraneo alla successione della persona sulla cui vita può finire per esercitare un potere di decisione.
Quanto infine alla capacità, nei progetti e dibattiti nel nostro Paese si allude spesso, più o meno chiaramente, alla legale capacità di agire, trascurando così la possibilità di consentire la stesura di direttive anticipate a quelli che per prima la giurisprudenza francese ha chiamato grandi minori: soggetti non ancora pervenuti alla maggiore età e tuttavia, sul piano del comune apprezzamento e delle abitudini sociali, già maturi per esercitare un certo grado di indipendenza. L'opportunità di un simile riconoscimento andrebbe - quanto meno - considerata con particolare attenzione rispetto a un atto, come il t. b., strettamente attinente alla sfera della persona.
Per vero, finanche per soggetti appena nati, o mai pervenuti alla capacità di autodeterminarsi, potrebbe porsi un problema di morte naturale. Con riguardo a tale ipotesi specialmente grave sovvengono le nozioni di legale rappresentanza e sostituzione della volontà, le quali tuttavia mettono in evidenza tutta la limitatezza del diritto, la povertà dei suoi strumenti, perché finiscono - qui più che altrove - per perpetuare l'idea di una sorta di possesso del corpo e della vita dei soggetti affidati alla potestà.
Il diritto di morire con dignità
Alla proliferazione di progetti e disegni di legge si accompagna ora anche in Italia l'approntamento di formulari che intendono facilitare l'esercizio del diritto al rifiuto delle cure; e si prefigura la creazione di un registro telematico, da affidare al Consiglio nazionale del notariato, nel quale raccogliere, sul tipo del Living will registry americano, le disposizioni anticipate di trattamento. Non da ultimo va fatta menzione di un parere del Comitato nazionale di bioetica (Dichiarazioni anticipate di trattamento, 18 dic. 2003) che prende in considerazione le direttive anticipate - che sono redatte in forma scritta con l'assistenza e la controfirma di un medico - quali fonte di un vincolo valido per i sanitari curanti sotto specie di onere di indicazione, nella cartella clinica, delle ragioni (per es., disponibilità di nuove terapie, decorso della malattia difforme dalle previsioni del paziente) che portino a disattenderle.
Spesso riecheggiante da tutti questi fermenti è la formula del diritto di morire, che può apparire irritante ma allude in sostanza all'interesse a morire con dignità e alla relativa pretesa: e infatti, è l'espressione 'morte con dignità' a ricorrere nelle leggi straniere e nei progetti, nei documenti internazionali e nei formulari di testamento biologico. Della parola dignità, che figura in modo vago e impreciso nella Costituzione europea, fa un uso più misurato la nostra Carta repubblicana, che tuttavia la colloca in norme importantissime. Attribuirle un significato univoco non è facile: è da ritenere che un contenuto concreto possa venirle, nell'ordine del diritto, da una ricognizione di fatti, atteggiamenti, trattamenti, che in certi momenti storici hanno avuto il crisma della legalità, e che però la comune coscienza - una coscienza che non si esaurisca nei confini di un Paese o di un'epoca - riconosce come gravemente lesivi della persona, e offensivi. Forse proprio traendo spunto da comportamenti che tutti consideriamo indegni è possibile individuare in positivo quel minimo di dignità che a tutti gli uomini deve essere garantito: e la nozione così ottenuta dovrà giocare un ruolo anche con riguardo al momento finale della vita. Più ancora che in passato nel nostro tempo tecnologico sembra racchiudersi nella morte l'estremo tentativo di attingere il valore della dignità umana: ultimo approdo o fallimento di una ricerca inesausta.
bibliografia
In Italia il titolo più recente è U. Veronesi, M. De Tilla, Nessuno deve scegliere per noi. La proposta del testamento biologico, Milano 2007, con ragguagli sulle esperienze straniere. La Fondazione Umberto Veronesi, insieme al Sole 24 Ore, ha anche promosso la raccolta Testamento biologico: riflessioni di dieci giuristi, pref. di U. Veronesi, Milano 2006 (con testi, tra i civilisti, di G. Alpa, P. Rescigno, M. Sesta).
Per i riferimenti bibliografici più antichi e per maggiori sviluppi in relazione ai limitrofi temi dell'eutanasia, del suicidio, dell'amministrazione delle risorse scarse e della definizione di morte si veda: P. Rescigno, La fine della vita umana, già in Rivista di diritto civile, 1982, i, pp. 634 e segg. e in Il diritto e la vita materiale, Atti del Convegno dell'Accademia nazionale dei Lincei, Roma 1984, pp. 189 e segg., ora in P. Rescigno, Danno da procreazione e altri scritti tra etica e diritto, Milano 2006, pp. 173 e seguenti.
Si vedano inoltre: G. Criscuoli, Sul diritto di morire naturalmente: il Natural death act della California, in Rivista italiana di diritto civile, 1977, i, pp. 84 e segg.; M. Barni, I testamenti biologici: un dibattito aperto, in Rivista italiana di medicina legale, 1994, 4, pp. 835 e segg.; P. Cendon, I malati terminali e i loro diritti, Milano 2003; Dignità del morire, Atti del Convegno Il diritto a una morte dignitosa: terapie contro il dolore, testamento biologico, eutanasia, a cura di L. Manconi, R. Dameno, Milano 2003; D. Neri, Il problema dello stato vegetativo permanente e il recente documento del CNB sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, in Bioetica. Rivista interdisciplinare, 2005, 2, pp. 122 e seguenti.
Da menzionare i documenti del Gruppo di studio bioetica e cure palliative in neurologia, La sospensione delle misure di sostegno vitale nello stato vegetativo permanente, e della Consulta di bioetica, Sulla prognosi nello stato vegetativo permanente, entrambi in Bioetica. Rivista interdisciplinare, 2002, 2, rispettivamente alle pp. 278 e segg. e 319 e seguenti.
Dal dibattito filosofico: H.T. Engelhardt, The foundations of bioethics, New York 1986 (trad. it. Manuale di bioetica, Milano 1999); A. Lecaldano, La fine della vita umana ed il riconoscimento di un diritto a morire, in Bioetica: le scelte morali, a cura di A. Lecaldano, Roma-Bari 1999, pp. 49 e seguenti.
In dottrina: P. Rescigno, I trattamenti sanitari obbligatori tra libertà e dovere (L'obiezione di coscienza dei testimoni di Geova), in P. Rescigno, Persona e comunità, 2° vol., Padova 1988, pp. 298 e segg.; F.D. Busnelli, Bioetica e diritto privato. Frammenti di un dizionario, Torino 2001; D. Carusi, Bioetica in TV: tre casi di rifiuto di cure, in Il Mulino, 2004, 2, pp. 367 e seguenti.