Testamento biologico
Detto anche testamento di vita, dichiarazioni o direttive anticipate di trattamento, è un documento scritto, redatto da una persona in condizioni di lucidità mentale, in merito alle terapie che intende ricevere o rifiutare nell’eventualità in cui dovesse trovarsi incapace di intendere e di volere, quindi di esprimere il proprio diritto al consenso o al dissenso informato, ossia nel caso non fosse in grado di acconsentire o rinunciare alle cure disponibili per malattie inguaribili e irreversibili o per condizioni come lo stato vegetativo permanente, gestibili solo attraverso sistemi artificiali.
Il termine testamento attinge al linguaggio giuridico e alla consuetudine di redigere un atto scritto con cui una persona lascia le disposizioni sul proprio patrimonio o su parte di esso per quando non sarà più in vita. La definizione di biologico modifica il contenuto del documento, rimandando alla particolare natura del patrimonio di cui si dispone: la propria esistenza fisica. I temi trattati nel testamento biologico possono comprendere anche la donazione dei propri organi a scopo di ricerca e/o trapianto, indicazioni sulla terapia del dolore, sull’accanimento terapeutico, sull’assistenza religiosa e istruzioni su come disporre del proprio corpo dopo il decesso. La redazione del testamento biologico non è di regola obbligatoria e il suo istituto non compare ancora codificato in tutti i sistemi giuridici.
Dibattito e chiarezza dei termini
Mentre il dibattito pubblico e politico sul testamento biologico procede, in Italia, arricchito e reso drammatico da vicende di cronaca nazionale ed estera ma anche dai continui progressi della scienza in ambito medico (che permettono di prolungare artificialmente alcune funzioni vitali in malati inguaribili), è impossibile non notare la vivacità con cui vengono presentati altri temi distinti ma spesso correlati al testamento biologico o con esso confusi, come l’accanimento terapeutico, l’eutanasia e le cure palliative. È quindi necessario fare chiarezza e tenere separati concetti assai diversi.
Per accanimento terapeutico si intende il perseverare nel tempo di trattamenti e cure che, pur mantenendo il paziente in condizioni stabili e consentendogli di proseguire artificialmente la sua vita biologica, non sono volti al miglioramento delle condizioni di salute e sono di fatto sproporzionati ai risultati attesi, quindi inaccettabili e non dignitosi; da qui il dibattito sulla loro opportunità. Si tratta di terapie, somministrate attraverso farmaci e macchinari (per es., un respiratore meccanico, un catetere inserito chirurgicamente nello stomaco per fornire nutrizione e idratazione, un apparecchio per la dialisi), spesso onerose ma del tutto inefficaci ai fini della guarigione. Così formulata, la definizione di accanimento terapeutico trova tutti unanimemente contrari, pur tenendo in considerazione differenti orientamenti di pensiero e di fede. Ciononostante, a tutt’oggi non si riesce a identificare una formulazione veramente oggettiva, poiché appare difficile stabilire quali terapie vadano intese come accanimento terapeutico in ogni singola situazione clinica. C’è chi, per es., ritiene che la nutrizione e l’idratazione artificiale non vadano considerate vere e proprie terapie, ma semplice sostegno al malato, e che per questo non sia mai ammissibile sospenderne la somministrazione. Altri pensano invece che, trattandosi di pratiche comunque straordinarie che necessitano dell’intervento di un medico, siano in tutto e per tutto paragonabili a una terapia, quindi suscettibili di interruzione se la volontà del paziente lo indica.
Oltre a essere enunciata nell’art. 32 della carta costituzionale, la condanna dell’accanimento terapeutico è sottolineata anche dal nuovo codice deontologico approvato dall’Ordine dei medici italiani nel dicembre 2006, il quale prevede che il medico «anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita» (art. 16).
Un principio assai diverso da quello dell’accanimento terapeutico è quello che sottende alla terapia del dolore che rientra nell’ambito della medicina palliativa. Essa mira a rendere sopportabile la sofferenza legata alle fasi conclusive di una patologia cronica e/o terminale, accompagnando il paziente spesso in regime di assistenza domiciliare. Nella maggior parte dei casi si procede somministrando dosi di sostanze atte a eliminare la sofferenza fisica del paziente (soprattutto oppiacei come la morfina) senza le quali la morte giungerebbe fra dolori insopportabili. La medicina palliativa, di cui la terapia del dolore è parte integrante, può essere definita come il trattamento del paziente affetto da patologie evolutive e irreversibili attraverso il controllo dei suoi sintomi e delle alterazioni psicofisiche, più che della patologia che ne è la causa. I cosiddetti hospices sono centri dedicati alla terapia del dolore e alle cure palliative per pazienti terminali; la loro diffusione sul nostro territorio nazionale appare ancora deficitaria e non omogenea, sebbene il loro apporto sia palesemente cruciale nel trattamento di ammalati cronici che versano in condizioni di sofferenza grave.
Un concetto troppo spesso confuso con quanto finora discusso è quello dell’eutanasia (dal greco euthanasía, comp. di eu «bene» e tema di thánatos «morte», quindi «buona morte»). È la pratica che consiste nel procurare volontariamente la morte, in modo indolore e non cruento, a un essere affetto da una malattia inguaribile, allo scopo di porre fine alla sua sofferenza. Si fa spesso distinzione, non senza incorrere in comprensibile confusione, fra eutanasia attiva e passiva. Dal punto di vista strettamente pratico, nella maggior parte dei casi l’eutanasia consiste nell’iniettare nelle vene del paziente un veleno, il cloruro di potassio, che in pochi secondi, arrestando il cuore, conduce il malato alla morte: alcuni definiscono questa modalità di soppressione della vita a scopo compassionevole eutanasia attiva. In questo modo si vuole introdurre la terminologia di eutanasia passiva indicandola come l’omissione di pratiche terapeutiche, come, per es., nel caso dell’atto di staccare il respiratore meccanico oppure in quello della sospensione della dialisi. Tuttavia, la sospensione di terapie non può essere assimilata al concetto di eutanasia, perché sospendere le terapie prendendo atto che non c’è più nulla che si possa fare dal punto di vista clinico significa accettare la fine naturale della vita e non sopprimere una vita.
Trattandosi di un atto volontario, l’eutanasia suscita sempre forti polemiche e contrasti e, nella maggior parte dei Paesi del mondo, è una pratica non accettata e anzi considerata un reato. In base al codice penale italiano, per es., la condotta di chi procura la morte, anche se pietatis causa, si inquadra direttamente nella previsione dell’art. 575 e, al pari di un omicidio, è punibile con la reclusione. Anche nel caso in cui sia possibile dimostrare il consenso del malato, le pene previste si inquadrano nell’ambito dell’art. 579 (omicidio del consenziente) e prevedono ugualmente la reclusione.
Una definizione a parte va invece riservata al suicidio assistito: l’atto mediante il quale un malato si procura la morte grazie all’assistenza di qualcuno che ne condivide la decisione e ne agevola l’esecuzione pratica che risiede però nelle mani del paziente stesso. Tale pratica è attualmente legalizzata nello Stato americano dell’Oregon (1997), nei Paesi Bassi (2001), in Belgio (2002) e in Svizzera (2006).
Per quanto riguarda invece l’eutanasia, i Paesi Bassi sono stati il primo Paese al mondo ad averla riconosciuta come atto legale. La legge è entrata in vigore il 1° aprile 2001, ma già nel 1994 questa pratica era stata depenalizzata: rimaneva un reato sulla carta, tuttavia era possibile non procedere penalmente nei confronti del medico che dimostrava di aver agito su richiesta del paziente. Il testo della legge in vigore prevede che l’eutanasia possa essere concessa a fronte di una richiesta «spontanea, ben ponderata e permanente» da parte di un paziente e solo nel caso di un futuro «senza scampo e intollerabile». Il compito di certificare la situazione e condurre a una conclusione «appropriata» viene assegnato a due medici cui viene affidata la responsabilità di valutare ogni singola richiesta e decidere in merito. Riguardo agli altri Paesi europei, nel maggio 2002, una legge che disciplina l’eutanasia, simile a quella olandese, è entrata in vigore anche in Belgio. In Svezia non viene perseguito penalmente chi pratica l’eutanasia, pur non esistendo una legge che l’autorizzi. Nel Regno Unito, in Francia, in Spagna, in Portogallo, l’eutanasia è considerata un reato, ma sono attualmente all’esame dei diversi parlamenti alcuni progetti di legge che mirano a regolamentare la materia. In Svizzera l’eutanasia è illegale, non così il suicidio assistito, che è ammesso e consentito dalla legge. Le strutture pubbliche svizzere prevedono limiti specifici per intervenire: il ricovero è previsto solo per pazienti che versano in uno stadio avanzato di malattia terminale, mentre resta ovviamente vietato recarsi in ospedale esclusivamente per potersi suicidare. Questi limiti sono assenti, invece, nelle strutture private. Negli Stati Uniti non esiste una legge che consenta l’eutanasia, considerata un reato. Solo l’Oregon ha autorizzato la pratica del suicidio assistito. In questo Stato, infatti, è possibile da parte di un malato, considerato terminale, richiedere al medico la somministrazione di farmaci in quantità e con modalità tali da provocare la morte. Nonostante il tentativo dell’amministrazione di George W. Bush di arrestare questa pratica, la Corte suprema degli Stati Uniti, il 17 gennaio 2006, ha riconosciuto all’Oregon il diritto di legiferare in materia. Un altro Paese che autorizza gli ospedali a praticare l’eutanasia ai malati terminali è la Cina, che ha approvato una legge nel 1998.
La situazione in Italia
In molti Paesi del mondo, ma non in Italia, la sospensione delle terapie è un atto lecito e regolamentato negli ospedali, nel rispetto del diritto all’autodeterminazione del paziente e per evitare il rischio da parte del personale sanitario o dei familiari di cadere nell’accanimento terapeutico. Nonostante diversi autorevoli esponenti della cultura italiana (fra questi, Indro Montanelli e Umberto Veronesi come anche il Partito radicale e diverse associazioni, fra le quali l’Associazione Luca Coscioni e Libera uscita) si siano ufficialmente pronunciati addirittura a favore della depenalizzazione dell’eutanasia e nonostante l’opinione pubblica mostri un interesse crescente verso le tematiche di fine vita (cfr. i risultati dell’indagine dell’Istituto Eurispes dei primi anni Ottanta con quelli del 2003 e infine con il Rapporto Italia 2007), in Italia prevale un atteggiamento di prudenza e cautela. Il dibattito etico e giuridico sul rischio di assimilare accanimento terapeutico, testamento biologico ed eutanasia resta aperto, spesso assai confuso e contaminato dalla forte influenza dell’etica cattolica.
Una solida base per avviare il dibattito parlamentare nel nostro Paese è offerta dalla Costituzione che sottolinea il diritto alla salute (art. 32) e alla libertà personale (art. 13). Più specificatamente, il diritto al consenso informato viene enunciato in modo che nessuno possa essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Nel Codice di deontologia medica (2006) il quarto comma dell’art. 35 prevede che, in presenza di un documentato rifiuto da parte di una persona capace di intendere e di volere, il medico desista da qualunque atto diagnostico o terapeutico, essendo proibito qualsiasi trattamento medico contro la volontà della persona, salvo che si tratti di minore o di un maggiorenne infermo di mente.
Pur in presenza di così chiare indicazioni già contenute addirittura nella carta costituzionale, in Italia è ancora in attesa di ratifica la Convezione di Oviedo del 1997 sui diritti umani e la biomedicina. Infatti, nonostante sia stata approvata una legge di ratifica (l. 145, 28 mar. 2001), il governo italiano non ha ancora emanato i decreti legislativi necessari per adattare le norme e i principi della Convenzione al proprio ordinamento giuridico. La Convenzione ribadisce che nessun intervento in campo sanitario può essere effettuato se non dopo che la persona a cui esso è diretto vi abbia dato un consenso libero e informato, e che la persona a cui è diretto l’intervento può in ogni momento ritirare liberamente il proprio consenso (art. 5). La Convenzione stabilisce anche (art. 9) che saranno tenuti in considerazione i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non sia in grado di esprimere la propria volontà. Il diritto di autodeterminarsi nel campo delle cure mediche e di compiere in prima persona le scelte riguardanti la propria salute attinge anche alla Carta di Nizza sui diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000) e al recente Trattato di Lisbona (2007, entrato in vigore nel 2009).
L’istituto del testamento biologico, quindi, aspira fondamentalmente a estendere l’assodato principio del consenso informato alle situazioni di fine vita del soggetto. Un primo passo, al quale non hanno fatto seguito concrete misure normative, è stato compiuto in Italia nel 2003, quando il Comitato nazionale di bioetica, l’organismo della Presidenza del Consiglio che esprime pareri su argomenti medici che abbiano risvolti etici, su impulso dell’allora ministro della Salute Girolamo Sirchia, firmò un documento in base al quale si definivano alcune delle condizioni necessarie per la redazione e ricezione del testamento biologico: la sua natura scritta, il fermo rifiuto di qualsiasi pratica eutanasica, ossia l’inammissibilità di istruzioni contenute nel documento che fossero contrarie alle norme della buona pratica clinica e alla deontologia medica, e infine l’obbligo per il medico di registrare sulla cartella clinica qualsiasi azione intrapresa che non corrisponda alle volontà espresse dal paziente.
Le tematiche sulla fine della vita sono diventate argomento d’attualità in Italia soprattutto sull’onda emotiva provocata dalle situazioni drammatiche di alcuni pazienti che hanno fatto molto discutere: quella di Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare progressiva dall’età di 18 anni, completamente paralizzato ma cosciente, confinato a letto e collegato a un respiratore meccanico dal 1998 al 2006, e quello di Eluana Englaro, mantenuta in stato vegetativo permanente dal 1992 al 2009 in seguito a un incidente stradale. Si tratta di condizioni molto diverse ma paradigmatiche di situazioni ugualmente drammatiche per le quali, nel nostro Paese, manca ancora una giurisprudenza adeguata.
Welby, negli ultimi mesi della sua vita, aveva chiesto di potersi avvalere del diritto di rinunciare ai trattamenti a cui era sottoposto, che per lui erano accanimento terapeutico sproporzionato ai risultati attesi e inaccettabile. Aveva consapevolmente auspicato la fine naturale della propria vita, rivolgendo appelli drammatici alle istituzioni e alla magistratura, con grande partecipazione da parte dei media e dell’opinione pubblica. La sua richiesta non fu accolta ed egli decise di farsi aiutare da un medico a sospendere le terapie e porre fine alla sua sofferenza. La peculiarità della situazione di Welby è da ricondursi al fatto che egli poteva autonomamente esprimere le proprie volontà e, quindi, esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione in merito alle cure che voleva interrompere, si faccia attenzione, non propriamente rifiutare.
Diversa è stata la situazione di Englaro, incapace di esprimere il proprio volere dal giorno dell’incidente stradale di cui rimase vittima nel 1992. Nonostante i ripetuti sforzi della famiglia, memore delle precise indicazioni verbali della ragazza, per fare rimuovere il tubo dell’alimentazione e sospendere tutte le altre terapie, non giustificabili data l’impossibilità di guarigione o miglioramento, la magistratura si è espressa in maniera negativa in diverse occasioni, fino alla sentenza del luglio 2008 della Corte d’appello civile di Milano che ha autorizzato l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione. L’iter giuridico si è ulteriormente protratto fino al 13 novembre 2008, quando la Corte suprema di Cassazione ha respinto il ricorso della procura di Milano contro l’interruzione di alimentazione e idratazione artificiale, accogliendo così la volontà del padre di Eluana. Il 3 febbraio 2009, la donna è stata trasferita presso una struttura disponibile ad attuare la sentenza. Il 6 febbraio 2009 l’équipe medica ha annunciato l’avvio della progressiva riduzione dell’alimentazione. Quello stesso giorno, il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge per impedire la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione dei pazienti, ma il presidente della Repubblica ha rifiutato di firmare l’atto, ritenuto incostituzionale. Il Consiglio dei ministri, riunito in sessione straordinaria, ha quindi approvato un disegno di legge con gli stessi contenuti del decreto. La morte di Eluana è avvenuta il 9 febbraio 2009. Due giorni dopo, l’esame autoptico ha confermato che la causa del decesso è stata un arresto cardiaco derivante da disidratazione, compatibile quindi con il protocollo previsto.
Dalla discussione pubblica ha ripreso vigore l’idea di dotare i cittadini di strumenti legislativi di decisione che rispettino il paziente anche quando non è più in grado di manifestare il proprio pensiero e allo stesso tempo tutelino il medico nell’esercizio della sua professione. In assenza di una legge che garantisca non solo il paziente, ma anche il medico, infatti, quest’ultimo, come già ricordato, se sospende le terapie a una persona in coma per una malattia terminale che non ha più speranza né di guarigione, né di miglioramento, né di recupero dell’integrità intellettiva, può essere accusato di omicidio volontario.
Recenti sondaggi e ricerche che hanno coinvolto medici e cittadini dimostrano che gli italiani auspicano un intervento legislativo in questo campo. Per la prima ricerca nazionale sull’opinione dei medici – presentata il 23 novembre 2006 al Senato della Repubblica durante il convegno La politica e il dolore – è stato intervistato un campione composto da 266 professionisti, soprattutto oncologi e anestesisti-rianimatori, operanti in 19 ospedali italiani, distribuiti omogeneamente nel Paese. È emersa una conoscenza sommaria da parte della classe medica italiana sul tema delle dichiarazioni anticipate di volontà, accompagnata tuttavia da un complessivo interesse ad affrontare questi temi. Il 60% dei medici ritiene che la volontà del paziente debba essere tenuta in considerazione e la metà si dice favorevole al testamento biologico. Per quel che riguarda invece le opinioni dei cittadini italiani, i dati raccolti dall’istituto di ricerca Eurispes nel succitato Rapporto Italia 2007 rivelano che tre italiani su quattro sono favorevoli a una legge sul testamento biologico, l’84% ha le idee chiare su che cosa si intenda con questo termine e di conseguenza esprime il desiderio di poter lasciare disposizioni in merito ai trattamenti sanitari a cui accetta di essere sottoposto se un giorno si trovasse nell’impossibilità di comunicare e di fornire il proprio consenso alle cure. Infine, lo studio sulle scelte relative alla fine della vita in terapia intensiva compiuto dal Gruppo italiano per la valutazione degli interventi in terapia intensiva (GiViTI) afferente all’Istituto Mario Negri di Milano ci fornisce un’informazione preziosa per l’esatta comprensione del problema e delle sue dimensioni fra i tecnici (i medici anestesisti/rianimatori) e i diretti interessati (i pazienti ricoverati nei reparti di terapia intensiva). Per la severità e complessità della malattia, ma anche per l’analgesia che garantisce loro la necessaria incoscienza per sopportare dapprima i trattamenti e poi l’eventuale transizione dalla vita alla morte, i malati non sono per lo più in grado di esprimere una volontà (l’81% non è in grado di esprimere un consenso all’ingresso in terapia intensiva e l’88% non è in grado di esprimere un consenso al piano di cure previsto nelle stesse unità per ogni specifico caso clinico). È per questo che si avverte oggi una domanda profonda di chiarezza come elemento essenziale di un più generale bisogno di decisioni condivise.
In Italia manca ancora una legge che disciplini esplicitamente la materia, ma sono numerose le proposte di legge avanzate negli ultimi anni. Le principali differenze fra le proposte di legge riguardano tre nodi critici: l’introduzione della figura del fiduciario, che dovrebbe essere scelto perché ha condiviso con continuità momenti, pensieri e idee con la persona che gli ha affidato le proprie indicazioni e, quindi, si suppone sia in grado di interpretare se, in quella determinata circostanza, avrebbe voluto essere sottoposto a ulteriori terapie oppure ne avrebbe chiesto la sospensione. Il secondo punto di criticità riguarda l’eventuale discrepanza tra l’interpretazione del testamento biologico da parte della famiglia, o del fiduciario, e il medico. Le possibili soluzioni, in caso di conflitto, includono il ricorso al comitato etico dell’ospedale, o alla ASL di competenza, oppure alla magistratura o al medico stesso. Il terzo aspetto, il più controverso, riguarda la decisione di interrompere, assieme a tutte le altre terapie, anche l’idratazione e la nutrizione artificiale in un paziente che non è più in grado di svolgere autonomamente queste funzioni. Il dibattito si articola sul diverso modo di considerare tali supporti, tra chi li classifica come sostentamento necessario e mai eliminabile, e chi invece li assimila ad altri interventi terapeutici, quindi li ritiene soggetti a sospensione in presenza di una indicazione espressa e in mancanza di una ragionevole speranza di miglioramento per il paziente. Il 26 marzo 2009 il Senato della Repubblica ha approvato a maggioranza un disegno di legge formulato dal Popolo della libertà (Pdl), relatore senatore Raffaele Calabrò, in base al quale alimentazione e idratazione sono considerate sempre e soltanto forme di sostegno vitale e, in quanto tali, non possono formare oggetto di una dichiarazione anticipata di trattamento. Nessun medico potrà sospendere tali cure, nemmeno se il paziente ne avrà fatta espressa richiesta nel proprio testamento biologico. Di fatto, con il ddl Calabrò il parere dei cittadini sulle scelte di fine vita diventa non pienamente vincolante e sembra contravvenire i principi costituzionali e non rispecchiare l’opinione espressa da larga parte degli italiani.
La situazione all’estero
L’esperienza degli Stati Uniti, che hanno da tempo una giurisprudenza che norma questo tipo di situazioni e che per primi hanno riconosciuto la legittimità del testamento biologico, può costituire un esempio ispiratore, avendo preso avvio da casi assai simili alla drammatica vicenda di Englaro. Oggi in questo Paese, anche in assenza di un documento esplicito come il testamento biologico, interrompere le terapie quando non esiste una ragionevole speranza di riportare il paziente a una condizione di vita accettabile e a recuperare le proprie facoltà intellettive è prassi diffusa negli ospedali e una possibilità prevista da regole precise, rispettate dagli operatori sanitari. Nella maggior parte dei casi la decisione viene presa di comune accordo tra i medici, i familiari del paziente e, nei casi di conflitto, il comitato etico dell’ospedale o una entità terza. Il riconoscimento giuridico del diritto a rifiutare il sostegno vitale negli Stati Uniti risale alla metà degli anni Settanta. Nel 1975 Karen Ann Quinlan venne a trovarsi in uno stato vegetativo permanente, ricoverata in un ospedale del New Jersey. La decisione dei familiari di staccare il respiratore che la teneva meccanicamente in vita fu osteggiata dai medici, timorosi delle ripercussioni legali dell’interruzione della terapia di mantenimento in vita della paziente e del suo conseguente decesso. La disputa legale che ne scaturì si concluse con il pronunciamento della Corte suprema del New Jersey, che stabilì che il paziente o il suo rappresentante legale possono rifiutare il sostegno vitale anche se ciò conduce alla morte del paziente stesso. Tale decisione portò anche all’introduzione del concetto di comitato etico, un’entità che fino ad allora aveva funzioni più tecniche e ristrette ma che da quel momento iniziò a essere un organo da convocare nei casi di conflitto, con lo scopo di mediare possibili controversie. L’attenzione mediatica attorno al caso Quinlan diede nuovo impulso negli Stati Uniti al movimento per il diritto alla sospensione delle cure e al concetto di testamento biologico, ma fu necessario attendere quindici anni per una codificazione più stabile della giurisprudenza a livello federale. Nel 1990 il caso di Nancy Cruzan, una donna ricoverata in stato vegetativo permanente e alimentata con una sonda gastrica, creò un clamore ancora maggiore. Il padre, suo tutore legale, chiese che venisse interrotta l’alimentazione artificiale somministrata alla figlia, per permetterle di spegnersi naturalmente.
La differenza rispetto al caso Quinlan era proprio la natura del sostegno da interrompere; non una macchina, bensì la nutrizione e i fluidi, considerati un diverso tipo di sostegno. In ultima istanza, il caso venne discusso dalla Corte suprema degli Stati Uniti che decise che il diritto di un paziente di rifiutare le cure comprendeva anche il rifiuto della nutrizione. Il pronunciamento, valido in tutto il Paese, introdusse anche la figura del fiduciario, un procuratore legale delegato a prendere decisioni relative alla fine della vita e all’assistenza sanitaria per la persona non più in grado di intendere e di volere. Un anno dopo il Congresso americano introdusse il Patient self determination act, con il quale venne riconosciuto il diritto di ogni individuo di decidere sui trattamenti terapeutici che lo riguardano, incluso il diritto a rifiutare trattamenti medico-chirurgici, formulando a tal fine le direttive anticipate di vita o living will. Da allora, molti cittadini statunitensi che hanno compilato un testamento biologico hanno nominato al tempo stesso un fiduciario che può farsi portavoce delle loro volontà aiutando i sanitari a interpretare il documento firmato dal paziente. A oggi, la percentuale di cittadini americani in possesso di un testamento biologico è di circa il 20%: ciò significa che, anche in presenza di una chiara legislazione in materia, la pratica non è diffusa come potrebbe. D’altro canto, il modulo per il testamento biologico è un documento che, anche se non autonomamente compilato, ogni cittadino americano conosce perché inserito di regola nella cartella clinica, per es. al momento di un ricovero in ospedale, e che, una volta firmato, il cittadino custodisce a casa propria o in banca.
Nella popolazione è ben presente la consapevolezza della sua utilità, come ha messo drammaticamente in evidenza il recente caso di Terry Schindler Schiavo, entrata in coma nel 1990 a causa di un attacco cardiaco le cui conseguenze avevano danneggiato irrimediabilmente il suo encefalo e condotto la donna in uno stato vegetativo permanente. Michael Schiavo, il marito, venne indicato suo tutore legale in applicazione delle leggi della Florida, che conferiscono al coniuge la facoltà di decidere al di sopra degli altri membri della famiglia nel caso in cui il paziente diventi irreversibilmente inabile e non abbia lasciato disposizioni. Dopo tre anni di terapie tradizionali e sperimentali, Michael Schiavo accettò la diagnosi neurologica di stato vegetativo permanente e, richiamandosi ad affermazioni fatte in passato a questo proposito dalla moglie, affermò che la donna non avrebbe accettato di essere tenuta in vita indefinitamente in quelle condizioni. La famiglia Schindler, invece, non accettò la diagnosi, convinta che le condizioni potessero migliorare con ulteriori trattamenti riabilitativi. Nel 2001 la Corte della Florida acconsentì alla sospensione delle terapie (compresa l’interruzione della nutrizione artificiale), richiesta dal marito, ma dopo 48 ore tutte le terapie vennero ripristinate in seguito alla decisione di un giudice federale. Seguì una lunghissima battaglia giudiziaria che coinvolse anche l’opinione pubblica internazionale, con manifestazioni di appoggio ai genitori e di disapprovazione nei confronti del marito. Alla sospensione della nutrizione artificiale si arrivò nel 2005, dopo che Terry era rimasta in stato vegetativo permanente per 15 anni. Questa agonia si sarebbe potuta evitare se Terry avesse redatto un testamento biologico e se avesse nominato un fiduciario che interpretasse il suo volere.
In Europa hanno dato il riconoscimento legale a differenti forme di testamento biologico il Belgio, la Danimarca, la Francia, i Paesi Bassi e la Spagna. Nel resto del mondo, oltre agli Stati Uniti, il Canada e l’Australia. In Francia il dibattito è iniziato nel 2003 e con una legge del 2005, composta da 15 articoli, è stato sancito il principio del rifiuto all’accanimento terapeutico autorizzando il medico a limitare o a interrompere i trattamenti quando lo ritiene necessario, con una procedura collegiale che tiene conto delle dichiarazioni anticipate, del fiduciario e della famiglia. Le dichiarazioni anticipate, che ogni cittadino maggiorenne può sottoscrivere, possono essere modificate o revocate in qualsiasi momento. Nei Paesi Bassi il testamento biologico è legge dello Stato dal 2001 e le dichiarazioni di volontà possono essere firmate a partire dai 16 anni di età. Tra i 12 e i 16 anni si ammette la richiesta a condizione che i genitori siano d’accordo. In Spagna la normativa approvata nel 2003 concerne il diritto all’informazione in ambito medico, al consenso informato e alle dichiarazioni anticipate del paziente. Il soggetto può designare un rappresentante che, in caso di necessità, si assuma la responsabilità di essere l’interlocutore dei medici per portare a compimento le dichiarazioni anticipate. In Germania il testamento biologico non è stato ancora oggetto di una normativa specifica, sebbene trovi impiego nella pratica e conferma nella giurisprudenza. Il Patientenverfügung è l’atto di disposizione del paziente e costituisce una specifica forma di dichiarazione di volontà.
Nel Regno Unito il punto di partenza di questo orientamento è stato il caso Bland, giudicato nel 1993 dalla Corte Suprema. Tony Bland, un quindicenne rimasto vittima della tragedia calcistica avvenuta il 15 aprile 1989 allo Hillsborough Stadium di Sheffield, era da anni tenuto in vita artificialmente dalle macchine quando i genitori si appellarono ai giudici. Il quesito riguardava la legittimità della sospensione dell’alimentazione artificiale e di farmaci antibiotici nel caso di un paziente in stato vegetativo permanente. La Corte decise che, quando un paziente non è in grado di accettare o rifiutare il trattamento e non abbia espresso in precedenza una volontà, i medici sono tenuti a decidere se proseguire o meno le terapie dopo averne discusso con i familiari. La decisione della Corte per il caso Bland ha, quindi, indirettamente riconosciuto la legittimità delle dichiarazioni anticipate di volontà del paziente. In mancanza di un testamento biologico, la sentenza affida la decisione finale ai medici, non ai familiari, con i quali comunque essi devono confrontarsi. Un altro caso che ha suscitato un notevole dibattito nel Regno Unito è stato quello relativo alla cosiddetta Miss B. che, pur essendo perfettamente cosciente, ottenne dall’Alta Corte di Londra, nel 2002, il riconoscimento del diritto a rifiutare le terapie e a far staccare il respiratore meccanico che la teneva in vita.
Il punto di vista religioso
Limitare la discussione alla contrapposizione fra punto di vista laico e punto di vista genericamente religioso sarebbe scorretto. Nella visione laica i principi guida restano l’autonomia del soggetto, la netta distinzione fra diritto e morale (tra reato e peccato), il rifiuto del dogmatismo religioso, l’autodeterminazione dell’uomo nei confronti della propria vita, quindi anche della propria morte. Tutto cambia quando si analizzano queste problematiche dal punto di vista religioso. Inoltre, trattandosi di un tema spesso definito come eticamente sensibile, per il suo diretto coinvolgimento con il concetto di morte e con la definizione stessa di vita umana, il dibattito sul testamento biologico prevede approcci differenti a seconda delle diverse fedi religiose. Raramente la sua trattazione è diretta ed esplicita nella letteratura religiosa, ma deve invece essere ricavata da pronunciamenti e testi che trattano argomenti a esso vicini, come l’accanimento terapeutico, la terapia del dolore e l’eutanasia, sempre utilizzando la cautela sopra discussa, necessaria per evitare il rischio della confusione dei termini spesso utilizzati in maniera non corretta.
Chiesa cattolica
Il principale documento di riferimento resta la Dichiarazione sull’eutanasia della Sacra congregazione per la dottrina della fede, datato 5 maggio 1980. In base a questo testo, «un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte allo scopo di eliminare ogni dolore» non è mai legittimabile. La natura dell’atto resta omicida, un intrinsece malum, al quale il medico non deve cedere nemmeno se l’ammalato grave supplica un intervento compassionevole. Anche l’enciclica Evangelium vitae di papa Giovanni Paolo II (25 marzo 1995) afferma il valore e l’inviolabilità della vita umana: «Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell’esistenza di chi soffre, l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante ‘perversione’ di essa: la vera ‘compassione’, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza». Medici o legislatori non si possono arrogare il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire: «Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone». Nei documenti ricordati sopra non si parla, quindi, di testamento biologico, ma altre fonti risultano utili per giungere a un’interpretazione complessiva del pensiero cattolico in questo ambito. Nel Catechismo della Chiesa cattolica (compendio, n. 471) si fa, per es., chiaro accenno alle cure palliative e al concetto di accanimento terapeutico. Appare chiaro che per la Chiesa cattolica evitare l’accanimento terapeutico non equivale a procurare la morte, bensì a sospendere trattamenti sproporzionati che non consentono una ‘ragionevole speranza di esito positivo’. È quindi lecito rinunciare oppure interrompere terapie che procurerebbero soltanto un prolungamento penoso della vita, il protrarsi di un’agonia. In quanto all’uso di analgesici, viene riconosciuto come lecito per lenire la sofferenza dell’ammalato ma non per accelerare la morte, ma sono assimilabili anche quando questo possa rivelarsi un effetto secondario della cura palliativa.
Ebraismo
Manca un’autorità centrale che legiferi su tematiche sensibili. Tuttavia, si riconosce unanimemente che la Bibbia prescrive di non uccidere e impone a chiunque il sacro rispetto della vita umana. Nessuno è padrone della propria vita, né può decidere di quella altrui. Ciò vale anche quando si tratta di un malato terminale o gravemente sofferente che chiede di essere liberato definitivamente dalla propria sofferenza. È moralmente proibito ogni atto che acceleri la morte di un agonizzante, anche quando si tratta di un processo irreversibile e imminente, anche se per i medici non c’è più alcuna speranza di vita e anche se fosse il malato stesso a richiederlo. Il medico non deve nemmeno consigliare al malato i modi per togliersi la vita da solo. Diversamente, il ricorso alla medicina palliativa viene ammesso mentre si lascia alla decisione caso per caso di situazioni interpretabili alla luce dell’accanimento terapeutico. In generale, per il pensiero ebraico ogni situazione va valutata in maniera attenta e individuale poiché di fronte a temi etico-giuridici così complessi come la fine della vita è impossibile generalizzare.
Chiese riformate
Il dibattito è più ampio in quanto le loro posizioni etiche sono frutto più che altro di una sintesi tra le sensibilità delle varie comunità. Nel caso dei Valdesi, per es., il Sinodo del 2000 ha approvato il documento di studio su eutanasia e suicidio assistito, compilato nel 1998. All’interno di una più generale trattazione dei problemi etici posti dalla scienza, il testo riconosce all’uomo il diritto a una morte dignitosa. Su questa base, viene distinta la vita biologica dalla vita biografica che, nel caso dello stato vegetativo permanente, cessa di esistere. Si tratta, quindi, di un pronunciamento non del tutto contrario alla pratica dell’eutanasia al fine di combattere una sofferenza inutile.
Fede musulmana
L’eutanasia, assimilata all’omicidio, è vietata. Per quanto riguarda invece l’accanimento terapeutico, solo una minoranza di giuristi è favorevole all’imposizione delle cure. Il Codice islamico di etica medica infatti stabilisce che, se è scientificamente accertato che le funzioni vitali non possono essere restaurate, è inutile mantenere il paziente in uno stato vegetativo ricorrendo all’uso di macchinari o utilizzando tecniche artificiali. Benché riconosca la legittimità della pena di morte, il Corano non ammette altre eccezioni, dato che la fine della vita è sottoposta a decreto divino.
Buddismo
Secondo questa dottrina, al centro del cui insegnamento è il riconoscimento dell’ineluttabilità della morte e il principio della compassione, non sussiste un obbligo morale a preservare la vita a tutti i costi o a continuarne artificialmente una. Tentare di prolungare la vita oltre il suo corso naturale ricorrendo alla tecnologia significa negare la realtà della vita umana. È perciò giustificabile il rifiuto di trattamenti medici eccessivi e sproporzionati ai possibili risultati, che non possono far altro che protrarre l’agonia e posporre senza senso l’inevitabile fine naturale della vita. La distruzione di una vita altrui è però sempre considerata intrinsecamente immorale. Rispetto all’eutanasia, la condanna morale buddista sta nel fatto che essa enfatizza gli aspetti positivi della morte e quelli negativi della vita. Viene, insomma, ritenuto immorale affermare che la morte sia migliore della vita. Per il buddismo il rispetto della fine naturale della vita ha un ruolo di primaria importanza nel consentire al malato di compiere il passaggio dalla vita alla morte con serenità e tranquillità, senza costrizioni dovute all’ausilio di macchinari e tecnologie straordinarie e futili.
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