testamento
Nell’Antico Oriente il t. è sconosciuto: ereditano ex lege i figli del defunto. L’istituto era forse noto in Magna Grecia già prima del 6° sec. a.C., e in Attica preesisteva a Solone, al quale la tradizione attribuisce la paternità di alcune sue limitazioni. Nel diritto romano il t. è, in origine, atto col quale il pater familias, nominando erede il più degno tra i suoi filii, a lui trasmette la potestà sulla famiglia. In epoca storica diventa un negozio unilaterale e revocabile, con cui taluno designa a succedergli mortis causa nel patrimonio una o più persone. Vi sono vari tipi di t. che tuttavia riportano sempre tre elementi: la capacità del testatore, dell’erede, dei testimoni; la heredis institutio: il t. romano non può esistere, se non sia nominato un erede, e non può pertanto esaurirsi in una serie di legati; la forma, cioè l’uso di formule solenni, senza le quali non v’è heredis institutio. Contenuto del t. sono quindi la nomina di eredi (necessariamente) e (eventualmente) di legatari, tutori, fedecommissari e la manumissione di schiavi. Il primo Medioevo non ignora la parola testamentum, ma conosce in realtà un istituto ben diverso dal tipo romano: il t. è adoperato essenzialmente per ordinare lasciti pii, ispirati dalla religione cristiana; manca pertanto l’istituzione d’erede e si hanno solo legati. L’idea romana del t. risorge nel Basso Medioevo col ritorno alla luce dei testi giustinianei, non senza, però, che rimangano tracce delle norme anteriori: così si accetta nella pratica, con qualche sforzo, il requisito della revocabilità, e la libertà testamentaria è limitata dalla distinzione tra beni aviti e beni acquisiti. Si afferma il t. nuncupativo, per cui il disponente dichiara la propria volontà dinanzi al notaio e a sette testimoni, e il notaio redige quindi uno scritto (ad probationem). È questo il t. pubblico per eccellenza anche se resiste la possibilità del t. olografo, scritto direttamente dal testatore stesso.