Abstract
Il contributo esamina la forma ed il contenuto del testo unico come atto avente funzione tipica nell’ordinamento italiano. Connette la figura alla distinzione fra l’atto ed il testo normativo e, dunque, alla distinzione fra fonti di produzione e fonti di cognizione del diritto, fra le quali, secondo una ricostruzione, andrebbe compreso il testo unico. Considera il conseguente profilo problematico di un atto secondario recante norme primarie. Esamina la diversa ricostruzione che qualifica il testo unico come fonte di produzione e le implicazioni che ne derivano. Rende conto dell’utilizzo della nozione nella legislazione recente. Analizza il testo unico dal punto di vista della funzione tipica di consolidamento normativo, individuando alcuni limiti intrinseci dell’atto come strumento di conoscenza della disciplina vigente nella materia considerata dal redattore.
Nel linguaggio convenzionale dei giuristi italiani, storicamente recepito dal legislatore, è detto “testo unico” l’atto normativo preordinato alla riproduzione (Malo, M., Manutenzione delle fonti mediante testi unici, Torino, 2004, 11) di una disciplina già dettata da diversi atti normativi. Il testo unico si ripromette appunto di sostituire alla molteplicità dei testi normativi precedenti un testo solo. Donde il nomen iuris dell’atto (utilizzato da sempre nell’ordinamento italiano non solo dai pratici, ma anche dai teorici, dai giudici e dallo stesso legislatore: cfr., il numero 12, lett. m) dell’allegato alla circolare 20 aprile 2001 del Presidente del Consiglio dei Ministri recante «Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi»).
Per sua natura la figura è dunque legata al fenomeno che viene chiamato, nella letteratura italiana, del “consolidamento” o della “consolidazione” normativa, con cui l’ordinamento tende a bilanciare gli effetti del carattere inesauribile delle fonti del diritto. Essendo il titolare del potere normativo libero di modificare, correggere, integrare le proprie precedenti regolazioni, è fenomeno naturale che la disciplina finisca col tempo per essere contenuta in tanti testi quanti sono gli atti adottati per regolare la materia considerata. Fenomeno che viene fronteggiato attraverso un movimento opposto verso l’unificazione, donde discende una vera e propria «legge delle consolidazione, esprimente la uniforme tendenza delle norme a consolidarsi e a sistemarsi in corpi organici» (Viora, M., Consolidazioni e codificazioni, Bologna s.d., ma 1930, 11). Nello Stato unitario italiano, questa tendenza ha preso la forma del “testo unico”, con il quale si intende appunto ottenere che l’insieme delle disposizioni dettate via via nel tempo – e contenute quindi in testi diversi – venga riportata all’interno di un testo solo.
Secondo la terminologia tradizionale, il consolidamento attuato attraverso testi unici si differenzia dal fenomeno della codificazione con la quale pure condivide il fine di comporre organicamente una disciplina materiale determinata. Nel caso dei codici, al processo di unificazione della disciplina vigente si accompagna storicamente anche un’opera ulteriore di riassetto e di innovazione normativa. Il redattore del “testo unico”, invece, si trova in via di principio ad essere vincolato dalla mera riproduzione delle leggi vigenti (per tutti, cfr. Pagano, R., Introduzione alla legistica, Milano, 2001, 71).
In questo senso il testo unico è figlio della divisione dei poteri, e della conseguente imputazione dell’attività legislativa al Parlamento. In quanto titolari del potere di fare le leggi, toccherebbe alle Camere il compito di mettere mano alla periodica opera di unificazione delle disposizioni legislative via via introdotte nel tempo. Tuttavia, mentre la legislazione è attività politica, frutto di una scelta libera e costituisce atto di volontà, l’opera di consolidamento delle discipline esistenti si presenta come attività tipicamente tecnica, frutto di decisioni vincolate, e costituisce essenzialmente atto di conoscenza (nei rarissimi casi di testi unici di provenienza parlamentare, la relativa approvazione risulta avvenuta sotto la forma dell’allegato: cfr. al riguardo Esposito, C., Testi unici, in Nuovo digesto italiano, XII, Torino, 1940, 183, nt). Non stupisce, dunque, che, anche nell’ordinamento liberale italiano, autore primo del consolidamento normativo sia stato e resti il Governo. E poiché il Governo è privo di qualsivoglia potere autonomo di modifica dei testi approvati dal Parlamento, ne è dovuta scaturire la concezione del testo unico come atto normativo tipico, quantomeno dal punto di vista funzionale, in quanto preordinato ad una riproduzione del diritto legislativo vigente non accompagnata da significative innovazioni della disciplina riprodotta.
Dal punto di vista teorico, il caso di un atto governativo preordinato alla mera riproduzione di leggi vigenti ha aperto una serie di questioni diverse, tutte strettamente connesse, però, al dualismo esistente fra “atto” e “testo” normativo. L’atto normativo, infatti, è di per se stesso istantaneo, esaurendosi con la manifestazione della volontà che dichiara. Al contempo, però, esso lascia dietro di sé un testo, e cioè una documentazione, che vale come strumento permanente di conoscenza della volontà manifestata dall’atto. Ne consegue, secondo una classificazione teorica risalente, che ogni atto normativo è atto di produzione sia di una volontà legislativa determinata, sia di un testo finalizzato alla conoscenza di essa.
Il fenomeno del testo unico è stato in primo luogo spiegato in forza della relativa distinzione (Zanobini, G., Corso di diritto amministrativo, I, Milano, 1950, 52). Quando il Governo provvede a dichiarare con proprio atto volontà legislative vigenti, ciò fa non per introdurre nuovamente nell’ordinamento le relative volizioni normative, ma soltanto per dotarle di un nuovo testo di conoscenza, nel quale esse vengono a trovarsi unificate e sistematicamente coordinate. Il testo unico, di conseguenza, non innova le precedenti volontà legislative ma soltanto i molteplici testi della loro conoscenza, sostituiti dall’unico testo emanato dal Governo. Da qui è sembrata derivare la legittimità del ricorso, per l’emanazione del testo unico, ad un atto privo della forza di legge, e quindi, in quanto tale, di per sé non idoneo a sostituire le leggi emanate dal Parlamento. E difatti, per quanto una tale sostituzione possa apparire, a prima vista, innegabile, si tratterebbe di un effetto solo apparente, a meglio vedere essendo solo i testi di conoscenza, e non già le relative volizioni normative, a costituire oggetto della sostituzione.
Da questa ricostruzione sono conseguiti i caratteri tipici del testo unico, quale atto governativo avente rango secondario ma caratterizzato dal fatto di “recare”, così dire, al suo interno norme primarie. Norme primarie che il testo unico non può, per definizione, produrre, e la cui vigenza, dunque, quale volontà legislativa operante nell’ordinamento, deve continuare a farsi risalire agli atti normativi anteriori, che non risultano affatto abrogati dal testo unico, da cui deriva unicamente l’abrogazione dei testi di conoscenza della relativa volontà (per l’idoneità dell’atto secondario ad abrogare testi di conoscenza di atti primari può vedersi, se si vuole, Bertolini, F., Testo unico, novella normativa e attività di cognizione del diritto oggettivo, in Rivista AIC-Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2016, 2, 15 ss.).
Infine, è corollario necessitato della ricostruzione, il fatto di doversi attribuire al testo unico approvato con atto secondario « un’efficacia di “interpretazione amministrativa”: tale, cioè, da imporsi autoritativamente, ma provvisoriamente, sino a che non ne sia riconosciuta dal giudice l’erroneità od arbitrarietà alla stregua di quanto realmente significavano le norme in essi trasfuse» (Crisafulli, V., Lezioni di diritto costituzionale, II, 1, Padova, 1993, 10; Cammeo, F., Corso di diritto amministrativo, ristampa, Padova, 1960, 93).
La ricostruzione ha finito per essere sostanzialmente accolta dalla Corte costituzionale specie attraverso la distinzione fra censure di legittimità imputate al testo unico in quanto “atto”, che la Corte dichiara inammissibili per il difetto nel testo unico della forza di legge, e censure di legittimità imputate al testo unico in quanto, per così dire, “contenuto normativo”, che la Corte, invece, accetta di valutare nel merito, considerandole, a quanto sembra giustamente, rivolte a contestare norme prodotte da leggi anteriori, nei cui confronti il testo unico opera puramente come strumento di conoscenza (cfr., fra le altre, C. cost., 17.4.1957, n. 54; 23.6.1964, n. 57; 26.3.1969, n. 46; 4.4.1990, n. 166; per ulteriori indicazioni, nonché per un riepilogo del relativo dibattito, Malo, M., Manutenzione delle fonti, cit., 29 ss.).
Nella prassi dell’ordinamento italiano, la collaborazione fra Parlamento e Governo nell’opera di consolidamento normativo ha dato luogo a figure diverse.
Pur svolgendo essenzialmente la medesima funzione, preordinata all’unificazione di discipline già contenute in testi diversi, il Governo ha adottato il testo unico talvolta di propria iniziativa; talvolta, invece, a seguito di leggi di autorizzazione; talvolta, infine, a seguito di vere e proprie leggi di delegazione da parte delle Camere. Ne è scaturita, dal punto della forma dell’atto, la distinzione in testi unici “spontanei”, “autorizzati”, “delegati”.
Si è però osservato che la tripartizione nasconde, in effetti, una bipartizione. Poiché nel primo caso (testi unici spontanei) l’atto del Governo non può che avere natura secondaria, e poiché nel terzo caso (testi unici delegati) l’atto del governo viene ad assumere forza di legge, ecco che i testi unici governativi finiscono per distinguersi essenzialmente a seconda che l’atto con cui sono emanati abbia o meno forza e valore di legge. Per quanto attiene ai casi di mera autorizzazione da parte delle Camere, infatti, non può che ricadersi nella prima o nella seconda categoria in dipendenza dell’idoneità o meno della legge di autorizzazione ad essere intesa come delegazione legislativa vera e propria (sul punto cfr. Capotosti, P. A., Problemi relativi alla definizione dei rapporti tra testi unici di leggi e disposizioni normative preesistenti, in Giur. Cost., 1969, 1476 ss.). La distinzione è considerata cruciale, perché solo nel caso dell’adozione con atto secondario, il testo unico finirebbe per porre il problema di un atto non legislativo (approvato dal Governo con atto amministrativo) “contenente” però, come si è detto, disposizioni primarie (quelle derivanti dalle leggi succedutesi, nel tempo, nella disciplina della materia).
A questa bipartizione l’analisi ha dunque potuto collegare l’ulteriore distinzione dei testi unici governativi in meramente “compilativi”, ovvero “innovativi”, sulla base della considerazione che mentre i testi unici adottati spontaneamente dal Governo (ovvero sulla base di una mera autorizzazione da parte delle Camere) sono esclusivamente abilitati a riprodurre puntualmente la disciplina vigente nella materia, di contro i testi unici adottati sulla base di una vera e propria delegazione legislativa sono anche «legittimati ad apportare, in sede di coordinamento, “innovazioni” o “integrazioni” o “modifiche” alla disciplina anteriore» (così, fra gli altri, Cheli, E., Testo unico, in Noviss. Dig. it., XIX, Torino, 1973, 308: per la difficoltà in concreto di distinguere fra innovazioni consentite e non consentite al testo unico delegato cfr. Perfetti, S., Coordinamento formale e coerenza logica nei testi unici di disposizioni legislative e regolamentari, in Giur. It., 2006, 1807 ss.).
La distinzione ha finito per assumere rilievo dirimente quando nella letteratura italiana è divenuta prevalente la ricostruzione che ogni testo unico, per definizione, quale ne sia la forma, «determina … per sua natura l’adozione di diritto nuovo» (Cheli, E., Testo unico, cit., 308; Angiolini, V., Testo unico, in Enc dir., XLIV, Milano 1992, 526), e ciò sul presupposto dell’inconcepibilità logica di un’attività puramente compilativa della disciplina vigente. Secondo questa diversa prospettiva, infatti vigenza delle disposizioni, pertinenza alla materia considerata, nuova sistematica, adeguamento del linguaggio legislativo sono tutte valutazioni che comportano per definizione una “interpretazione” e, quindi, una “selezione” della disciplina riprodotta nel testo unico. Dalla relativa concezione – che tende ad esaurire integralmente l’atto normativo nel relativo testo che esso produce – deriva che la distinzione fra “fonti di produzione” e “fonti di cognizione” viene, nel relativo contesto, a perdere valore, poiché la conclusione è, per definizione, che qualsivoglia opera di unificazione di leggi previgenti non può che comportare una sorta di nuova produzione delle relative volizioni normative. E poiché tale opera, per le norme legislative, è consentita soltanto ad atti provvisti della forza di legge, la conseguenza è che la disciplina del testo unico finisce per essere portata alla conoscenza degli interpreti del tutto indebitamente, se l’atto governativo possiede soltanto efficacia formale di carattere amministrativo (cfr. la ricostruzione del relativo dibattito in Esposito, C., Testi unici, cit., 183 nt., nonché in Malo, M., Manutenzione delle fonti, cit., 21 ss.).
Il dominio progressivamente acquisito dalla ricostruzione del testo unico come fonte di produzione ha reso, nella prassi, recessivo il testo unico emanato con atto secondario. Allo stesso tempo ha però reso inspiegabile, sullo stesso piano dell’ordinamento “effettivo”, la verità del fatto che testi unici emanati dal Governo indipendentemente da una delegazione legislativa continuano a partecipare pacificamente dell’ordinamento giuridico, essendo utilizzati come tali dall’amministrazione, dai giudici, dagli interpreti, e dallo stesso legislatore.
La stessa ricostruzione, inoltre, ha finito per creare un ostacolo teorico all’emanazione di testi unici recanti la disciplina della materia come costituita da disposizioni tanto legislative quanto regolamentari. E difatti, il presupposto che ogni testo unico provvede non solo a rendere conoscibili ma anche a produrre come tali le volizioni normative in esso recate conduce dritto alla conclusione che un decreto legislativo non possa contenere al suo interno disposizioni regolamentari se non, al tempo stesso, “legificandole” (ed invece per la previsione di un decreto legislativo delegato «ad inserire … con adeguata evidenziazione, le norme sia legislative sia regolamentari vigenti», cfr. l’art. 64 della l. 31.12.2012, n. 247, che varrebbe quale conferma della capacità del testo unico, pur se emanato con decreto legislativo, ad operare sull’esclusivo piano delle fonti di conoscenza).
Volendo dunque, ai fini di uno stabile processo di semplificazione normativa, ottenere corpi normativi recanti la complessiva disciplina della materia, tanto legislativa quanto regolamentare, il legislatore si è dovuto risolvere alla previsione del testo unico cosiddetto “misto”, perché derivante dal concorso di tre atti distinti fra loro. Nel prevedere, per ciascuna materia considerata, «testi unici … comprendenti, in un unico contesto e con le opportune evidenziazioni, le disposizioni legislative e regolamentari» (così la previsione, poi abrogata, dell’art. 7, co. 2, l. 8.3.1999, n. 50), il legislatore ha finito con il richiedere al Governo, in sostanza, di emanare un decreto legislativo ed un regolamento ciascuno comprendenti, rispettivamente, l’insieme delle norme legislative e di quelle regolamentari disciplinanti la materia; ed infine di redigere ed emanare un terzo atto normativo avente la funzione di unificare al suo interno tali norme di legge e di regolamento, come componenti di un’unica disciplina risultante dalla combinazione di norme primarie e secondarie, e, come tali, evidenziate (in pratica indicando la disposizione relativa con la lettera “L” o la lettera “R”: questo il modello offerto dalla normativa francese in materia di consolidazione normativa, su cui cfr. la ricostruzione di Mattarella, B., La codificazione del diritto: riflessioni sull’esperienza francese contemporanea, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1993, 1035).
Il Governo ha applicato la previsione nel senso della emanazione contestuale di tre atti recanti la stessa data ma una diversa numerazione progressiva, redigendo il decreto legislativo (indicato come testo B), ed il regolamento (indicato come testo C) in modo tale che i due atti si integrassero sin dall’inizio a vicenda, ciascuno con una serie di articoli in bianco speculari a quelli riempiti invece dall’altro; e redigendo, infine, il terzo atto (avente forma secondaria ed indicato come decreto A), in modo da fargli contenere la disciplina della materia come risultante dal meccanico “incastro” dei due decreti precedenti (terzo atto, comunque, anch’esso, come si è detto, numerato, e quindi considerato dal Governo «come un vero e proprio atto normativo»: così Lupo, N., Dalla legge al regolamento, Bologna, 2003, 205). A quanto sembra, un tale procedimento di “incastro” parrebbe pensato appositamente per superare l’obiezione di fondo secondo la quale anche un’attività puramente ricognitiva della disciplina vigente non può che tradursi in manipolazione della relativa volontà legislativa, con la conseguenza dell’inammissibilità di una tale ricognizione ove eseguita con atto di grado inferiore alla disciplina oggetto del riordino.
In applicazione di queste previsioni normative il Governo ha emanato diversi testi unici (cfr. i decreti del Presidente della Repubblica 30.12.2003, n. 398; 14.11.2002, n. 313; 30.5.2002, n. 115; 18.1.2002, n. 54; 6.6.2001, n. 380; 8.6.2001, n. 327; 28.12.2000, n. 445). Lo strumento ha però suscitato una serie di questioni almeno pari a quelle che intendeva presumibilmente risolvere (si confrontino le osservazioni di Malo, M., Manutenzione delle fonti, cit., 78 ss., nonché di Lupo, N., Dalla legge al regolamento, cit., 190 ss.). Sta di fatto che nel prosieguo il legislatore ha imboccato, ai fini di un’opera permanente di consolidamento normativo, una strada ancora diversa.
Da un lato ha introdotto la figura del “codice di settore”, da emanarsi con un decreto legislativo apertamente abilitato all’innovazione della disciplina da consolidare (cfr. infatti l’art. 23, co. 3, l. 29.7.2003, n. 229 per l’espressa abrogazione dell’art. 7 della l. 8.3.1999, n. 50).
Dall’altro lato ha introdotto a regime la figura del testo unico autorizzato, da emanarsi con atto secondario, stabilendo che «il Governo provvede, mediante testi unici compilativi, a raccogliere le disposizioni aventi forza di legge regolanti materie e settori omogenei» (così l’art. 17-bis, l. 23.8.1988, n. 400, come introdotto dall’art. 5, l. 18.6.2009, n. 69).
La scelta legislativa di distinguere “codici di settore”, approvati con decreti legislativi, e “testi unici”, approvati con atti secondari del Governo abilitati alla pura compilazione del diritto vigente, è sembrata restituire credito alla ricostruzione del testo unico come fonte di pura conoscenza del diritto vigente.
Sennonché lo stesso legislatore ha, più di recente, utilizzato il nomen iuris del testo unico per una tipologia di atti governativi ancora diversi, e cioè per decreti legislativi di riforma di settori organici di materie (cfr. l’art. 5, 16, co. 2, lett. a), l. 7.8.2015, n. 124, nonché il conseguente d.lgs. 19.8.2016, n. 175, recante il Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica; ma vedi già nel medesimo senso l’art. 1, co. 50, l. 23.8.2004, n. 243). In conclusione, vero filo unificante della categoria del consolidamento normativo sarebbe da ultimo divenuta la posizione di predominio del potere esecutivo, posto che lo stesso Parlamento, nell’attribuire all’esecutivo il compito del consolidamento, non soltanto rinuncia in partenza alla naturale limitazione governativa consistente nel rispetto del contenuto delle leggi vigenti, ma neppure giudica rilevante il fatto che la relativa attribuzione di potere normativo primario finisca per essere mascherata attraverso il ricorso al nomen iuris dell’atto che, nell’ordinamento italiano, segna invece storicamente la ricorrenza di tale limite.
Dal punto di vista del contenuto materiale, il testo unico è finalizzato alla ricostruzione testuale di discipline che si sono stratificate nel tempo, per effetto di reiterati interventi legislativi e dell’opera applicativa dei diversi attori dell’ordinamento giuridico. Il fine è quello di porre in mano ai soggetti interessati un testo tendenzialmente esaustivo ai fini della disciplina della materia, aggiornato dal punto di vista del linguaggio ed ordinato dal punto di vista della sistematica. Da qui derivano i compiti, identificati normativamente come tipici, della «puntuale individuazione del testo vigente delle norme» e del «coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti in modo da garantire la coerenza logica e sistematica della normativa» (art. 17 bis, co. 1, lett. a) e c), l. 23.8.1988, n. 400).
Le operazioni redazionali implicate in un testo unico vengono considerate tutte esplicazione di un’unica attività di coordinamento delle diverse componenti disciplinari riprodotte nel testo in quanto costitutive della regolazione vigente. L’analisi ha distinto un’opera, preliminare, di coordinamento normativo, finalizzato alla ricognizione della disciplina vigente; ed un’opera, successiva, di coordinamento sia linguistico, finalizzato all’attribuzione agli organi ed istituti del loro nome corrente, sia sistematico, finalizzato all’individuazione della corretta articolazione della regolazione e del suo ordine interno (Pagano, R., Introduzione alla legistica, cit., 73 ss.; Mautino, F. - Pagano, R., Testi unici. La teoria e la prassi, Milano, 2000, 129 ss.; Malo, M., Manutenzione delle fonti, cit., 78 ss.). Nel loro insieme, queste attività redazionali valgono ad attestare la realtà del fatto che il testo unico provvede a riformulare le norme riprodotte, cosicché risulta incontestabile la modificazione del testo di quelle anteriori. In ragione della funzione tipica dell’atto, però, la modifica viene disposta non tanto per innovare, quanto piuttosto per ripristinare la corrispondenza fra testo e significato della disciplina riprodotta. Il fine è appunto quello di rispecchiare il contenuto attuale della disciplina dovuto tanto all’incessante opera del legislatore, intervenuto a più riprese sulla materia; quanto all’altrettanto incessante opera di coloro che, nel tempo, si accostano ai relativi testi normativi per dedurre da essi la volontà legislativa nelle svariate evenienze concrete. Quando il testo unico modifica, nell’unificarli, i testi delle norme anteriori, ciò, dunque, non fa per l’introduzione di un nuovo diritto, ma per la più esatta conoscenza di quello vigente (cfr. Malo, M., Manutenzione delle fonti, cit., 19, 20, per la conclusione che si tratta di «potere che incide sulle disposizioni ma non sulle norme”, attraverso operazioni “circa la vigenza e il significato normativo del testo che … nessuno può fissare testualmente attraverso modifiche alle disposizioni, valevoli erga omnes, se non è dotato di adeguato potere normativo»).
In particolare occorre ricordare che innovazioni normative possono essere determinate dal legislatore sia operando sui preesistenti testi legislativi, sia operando sui relativi significati normativi. La distinzione segna il confine fra ricognizione della disciplina vigente ad opera della redazione privata, e ricognizione compiuta invece, con effetti autoritativi e pubblici, dal redattore del testo unico. Laddove le edizioni private del diritto vigente – indefettibili ai fini della concreta fruizione dei testi di cui l’ordinamento consiste – sono tenute a riprodurre fedelmente i testi normativi come dichiarati dal legislatore, essendo abilitati soltanto a stralciare dalle raccolte quelli espressamente abrogati, il testo unico invece, in forza appunto dei poteri autoritativi di cui dispone il redattore, è chiamato a sostituire senz’altro (e, quindi, ad abrogare egli stesso) i testi anteriori attraverso l’introduzione di un testo nuovo, cui rimane affidato il compito della conoscenza della disciplina normativa vigente nella materia.
Che si tratti di intervento limitato soltanto ai testi di conoscenza, sarebbe dimostrato dal primo ed indefettibile compito dello stralcio delle norme implicitamente abrogate, che è modo sintetico di indicare il compito della esclusiva riproduzione dei testi di conoscenza di quelle volontà normative non divenute incompatibili con una diversa volontà manifestata nel frattempo dal legislatore.
Particolarmente rilevante, nel contesto della formulazione linguistica dei significati deducibili dai testi anteriori, è il riconoscimento degli effetti della giurisprudenza costituzionale, ed in particolare delle decisioni di accoglimento c.d. interpretative, in quanto operanti sul significato e non sul testo della legge oggetto del giudizio. Si tratta del caso emblematico di una modificazione puramente normativa (e quindi non testuale), che aspira però, per propria natura, in quanto efficace erga omnes, a venir riformulata alla stregua di un vero e proprio nuovo testo della norma (cfr. sul punto del rapporto fra testo legislativo e testo della decisione costituzionale, le considerazioni di Modugno, F., Scritti sull’interpretazione costituzionale, Napoli, 2008, 298).
Anche per quanto attiene alla trasposizione sul piano testuale di istituti definibili come di “origine giurisprudenziale”, non mancano nell’ordinamento casi di redazione di un nuovo ed apposito testo di conoscenza di norme caratterizzate, in quanto prodotto di interpretazione giudiziale, da una marcata divaricazione dal testo letterale della originaria disposizione di legge (come avvenuto per il caso della cd. “acquisizione sanante”, di cui all’art. 43 del testo unico sull’espropriazione emanato con il d.P.R. n. 327/2001, disposizione dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, sentenza 8.10.2010, n. 292, proprio per il fatto di non aver rispettato il contenuto degli istituti dedotti dalla giurisprudenza sulla base dei testi anteriori: al riguardo, Malo, M., Manutenzione delle fonti, cit., 45, ipotizza come «consolidamento dell’interpretazione conforme» la recezione della «costante e non controversa interpretazione» dei testi normativi da parte dei giudici).
Attraverso queste forme di ricostruzione testuale, il testo unico finisce per attestare il rapporto circolare esistente fra testo e norma, in forza del quale se è vero che il testo è riferimento ineliminabile per l’individuazione della norma giuridica, risulta vero anche il contrario, e cioè che la norma giuridica costituisce riferimento indefettibile per la necessaria e ricorrente opera di attualizzazione dei testi.
L’istituto vale dunque a dimostrare che la produzione del diritto, originando dalla dichiarazione della volontà legislativa, prosegue attraverso la conoscenza dei relativi testi per aspirare poi, in ultima analisi, ad essere “restituita” al medesimo piano testuale da cui essa viene continuamente tratta. Il testo unico riconosce come volontà propria del legislatore la conoscenza dichiarata dai destinatari dei testi normativi ed in tal modo chiude, per così dire, il cerchio della volontà normativa, riaprendolo nel punto di partenza.
Sembra derivare allora da queste conclusioni che il carattere problematico dell’istituto non starebbe tanto nella peculiare natura innovativa dell’atto, in quanto meramente confinata al piano dei testi quale strumento di conoscenza del diritto vigente, quanto piuttosto starebbe nei limiti che esso incontra sul medesimo piano della conoscenza del diritto che intende favorire.
La conoscenza della disciplina assicurata dal testo unico, infatti, sebbene da un lato aspiri a possedere i caratteri della compiutezza e della sistematicità, dall’altro lato non può dirsi ancora autosufficiente, in quanto esposta, per tutti i motivi sin qui detti, al controllo di conformità rispetto ai testi anteriori.
Grado formale della disciplina e tempo dell’entrata in vigore, inoltre, sono elementi che la mediazione operata dal testo unico vale non tanto a far meglio conoscere, quanto piuttosto, per così dire a celare, dovendosi, anche a questi fini, ricorrere ai testi prodotti degli atti anteriori.
Cosicché, in ultima analisi, la questione del ricorso al testo unico sembra doversi porre non tanto in termini di legittimità dell’atto del Governo incaricato della unificazione in un testo solo della normativa già prodotta da leggi anteriori, quanto piuttosto in termini di opportunità alla luce dei costi e dei benefici che l’atto comporta sul piano della conoscenza della disciplina che esso provvede a dotare di un nuovo testo unitario.
Fonti normative
R.d. 26.6.1924 (Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato), art. 16; l. 23.8.1988, n. 400 (Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), artt. 13 bis, 17 bis e 23; l. 15-3-1997 n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), art. 20, co. 11 e ss.mm.; l. 15.5.1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo), art. 17, co. 25; l. 8.3.1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1998), art. 7, co. 2 e co. 4, e ss.mm.
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