Abstract
Prima che inizi l’esame incrociato il giudice avverte il testimone dell’obbligo di dire la verità e lo informa della conseguente responsabilità penale. Quindi, il testimone legge la formula con la quale si impegna a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a sua conoscenza. Nonostante assuma tale impegno, egli può rendere dichiarazioni false ovvero può essere reticente o renitente. Il codice, pertanto, contiene una puntuale regolamentazione del procedimento che deve essere seguito quando appare che il testimone violi l’obbligo di rispondere secondo verità. Rispetto al codice previgente, la attuale disciplina del trattamento dei testimoni sospettati di falsità, di reticenza o renitenti presenta dei tratti notevolmente innovativi. Infatti, nel codice di rito penale abrogato il testimone (presunto) falso o reticente oppure il testimone che si rifiutava di rispondere poteva essere assoggettato ad arresto provvisorio e nel contempo, se la testimonianza era resa in istruzione, il processo verbale dell’arrestato veniva trasmesso al pubblico ministero per il relativo procedimento penale. Se, invece, la testimonianza era resa in dibattimento oltre all’arresto provvisorio si poteva procedere al giudizio immediato. Nell’attuale codice di rito penale sono stati abbandonati tali metodi coercitivi ed è stata introdotta la distinzione tra i casi di renitenza e i casi di sospetto di falsità o reticenza. Qualora un testimone si rifiuti di deporre fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, in cui è legittimato o addirittura obbligato ad astenersi, il giudice provvede ad avvertirlo sull’obbligo di deporre secondo verità. Se il testimone persiste nel rifiuto, il giudice «dispone l’immediata trasmissione degli atti al pubblico ministero perché proceda a norma di legge». Allorché, invece, il testimone renda «dichiarazioni contraddittorie, incomplete o contrastanti con le prove già acquisite», il giudice, su richiesta di parte o d’ufficio, gli rinnova l’avvertimento dell’obbligo di dire la verità. Ove il pubblico ministero non si attivi immediatamente, chiedendo copia del verbale di udienza, il giudice potrà attivarsi soltanto al temine del dibattimento. Infatti, l’art. 207, co. 2, c.p.p. dispone che «con la decisione che definisce la fase processuale in cui il testimone ha prestato il suo ufficio, il giudice, se ravvisa indizi del reato previsto dall’articolo 372 del codice penale, ne inforna il pubblico ministero trasmettendogli i relativi atti». Ovviamente perché la disciplina relativa al testimone sospettato di falsità o di reticenza oppure renitente trovi applicazione occorre che il dichiarante abbia acquisito la qualità di testimone. Ne consegue che essa è destinata ad operare negli ambiti “processuali”, ossia in quegli ambiti che seguono al formale esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero.
Prima che inizi l’esame incrociato il giudice avverte il testimone dell’obbligo di dire la verità e lo informa della conseguente responsabilità penale. Ai sensi dell’art. 497 c.p.p., il testimone legge la formula con la quale si impegna a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a sua conoscenza. Nonostante assuma tale impegno, il testimone può rendere dichiarazioni false ovvero può essere reticente o renitente. Il codice, pertanto, contiene una puntuale regolamentazione del procedimento che deve essere seguito quando appare che il testimone violi l’obbligo di rispondere secondo verità. La disciplina del trattamento dei testimoni sospettati di falsità, di reticenza o renitenti presenta certamente dei tratti notevolmente innovativi rispetto al codice previgente. Infatti, nel codice di rito penale abrogato il testimone (presunto) falso o reticente oppure il testimone che si rifiutava di rispondere poteva essere assoggettato ad arresto provvisorio e nel contempo, se la testimonianza era resa in istruzione, il processo verbale dell’arrestato veniva trasmesso al pubblico ministero per il relativo procedimento penale. Se, invece, la testimonianza era resa in dibattimento oltre all’arresto provvisorio si poteva procedere al giudizio immediato. In tale ipotesi il procedimento principale veniva sospeso e si procedeva con il giudizio incidentale sulla presunta falsità della testimonianza. Qualora ciò non fosse stato possibile, si trasmetteva il verbale al pubblico ministero e si poteva sospendere il dibattimento in attesa della decisione sulla presunta falsità o reticenza della testimonianza. Appare evidente che si trattava di disposizioni deprecabili perché potevano indurre un teste a ritrattare dichiarazioni veritiere, sebbene ritenute erroneamente false o reticenti dal giudice procedente, al fine di evitare una immediata restrizione della libertà personale e assicurarsi la non punibilità (Lozzi, G., Lezioni di procedura penale, IX ed., Torino, 2014, 244, nonché Cordero, F., Procedura penale, IX ed., Milano, 2012, 699, che nota «quanto pericolosi fossero pungoli ed esca, in mano al giudice dogmaticamente convinto d’una sua ipotesi»). Tali metodi coercitivi, destinati ad agire come un formidabile strumento di pressione psicologica sul teste, nell’attuale codice di rito penale, sono stati abbandonati. D’altronde, anche nel vigore del codice di procedura penale abrogato, erano stati aspramente criticati dalla dottrina, sotto il profilo della loro conformità, sia al principio costituzionale della naturalità del giudice, dal momento che il giudice designato ad occuparsi del testimone secondo le cadenze dell’art. 458 c.p.p. 1930, avrebbe visto compromessa la propria imparzialità, sia a quello dell’effettività del diritto di difesa, per i riflessi sfavorevoli che sarebbero venuti a determinarsi sulle effettive chances di difesa riservate ad un giudicabile, trasformatosi da teste ad imputato e per di più in vinculis (Galati, A., Arresto del falso teste e giudizio immediato, in AA.VV., La testimonianza nel processo penale, Milano, 1974, 208).
«Residuano, invece, l’intervento del giudice mirato a segnalare alla persona esaminata l’illegittimità del rifiuto della deposizione ovvero l’incongruenza della stessa, e la susseguente (con eventuale reiterazione dell’avvertimento di rito) trasmissione degli atti al pubblico ministero» (Scarpelli, M., Sub. art. 207, in Codice di procedura penale ipertestuale, a cura di A. Gaito, I, Torino, 2008, 1058). In particolare, l’art. 476, co. 2, c.p.p. dispone che non è consentito l’arresto del testimone in udienza «per reati concernenti il contenuto della deposizione», mentre «con l’art. 207 c.p.p. è stata introdotta una netta separazione fra la valutazione della testimonianza ai fini della decisione nel processo in cui è stata resa e l’eventuale persecuzione penale del testimone che abbia deposto il falso, sia stato reticente o si sia rifiutato di rispondere» (Triggiani, N., Testimonianza, in Ferrua, P.-Marzaduri, E.-Spangher, G., a cura di, La prova penale, Torino, 2013, 235). In altri termini, il legislatore del 1988, piuttosto che far leva su strumenti di intimidazione del testimone, ovvero sulla minaccia di usare la forza contro il dichiarante, ha preferito collegare al metodo dell’esame incrociato l’affidabilità della conoscenza acquisita attraverso la prova dichiarativa (Menna, M., Prove dichiarative, in Trattato di procedura penale, a cura di G. Spangher, II.1, Le prove, a cura di A. Scalfati, Torino, 2009, 166). Tuttavia, l’art. 207, co. 2, c.p.p. è stato sospettato di illegittimità costituzionale in relazione all’art. 101, co. 2, Cost., perché si è ritenuto che, non potendo il giudice del processo principale, ove ravvisi indizi di reato di cui all’art. 372 c.p., disporre la immediata trasmissione del verbale di udienza al pubblico ministero e sospendere il dibattimento in attesa della pronuncia definitiva del giudice competente a conoscere del reato di falsa testimonianza, il principio di soggezione del giudice soltanto alla legge risulterebbe travolto dall’obbligo per il giudice del processo in corso di definire il giudizio sulla base non di una prova ma di un fatto penalmente illecito, quale appunto la falsa testimonianza (Pret. Firenze, Sez. Pontassieve, 1.4.1993, Ianuese, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 546 ss.). E, del pari, ritenuto che, entrando in vigore il nuovo codice di rito penale, caratteristica del sistema accusatorio era che il giudice potesse fondare la propria decisione solo sulle dichiarazioni rese dai testimoni nel dibattimento e non anche su quelle rilasciate in segreto al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria nella fase delle indagini preliminari, con la conseguenza che l’imputato, chiamato in giudizio in base alla dichiarazione resa in suo danno da un testimone nelle indagini preliminari, doveva essere prosciolto se quest’ultimo non confermava in dibattimento la precedente deposizione, il Tribunale di Savona, trovatosi di fronte un testimone a carico che aveva ritrattato in dibattimento l’accusa mossa all’imputato nel corso delle indagini preliminari, dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 207, co. 2, c.p.p., ritenendo che con l’imporre al giudice del giudizio – il quale ravvisasse in una deposizione testimoniale gli indizi del reato di falsa testimonianza – di informarne il pubblico ministero solo con la pronuncia conclusiva del giudizio, impedendogli di sospendere il processo in attesa del giudizio sulla falsità, la norma lo costringesse a decidere circa la fondatezza dell’imputazione sulla base di una dichiarazione della cui veridicità egli aveva ragione di dubitare, e quindi «impedisce un corretto esercizio della funzione giurisdizionale», in possibile violazione dell’art. 101, co. 2, Cost. (Trib. Savona, 19.6.1991, Faraci, in Arch. nuova proc. pen., 1992, 53 ss.). La Corte costituzionale, però, ha ritenuto infondata la questione di costituzionalità, osservando che il giudice del processo principale, se a norma dell’art. 207, co. 2, c.p.p. non può sospendere il dibattimento in attesa della pronuncia definitiva del giudice competente a conoscere del reato di falsa testimonianza, resta libero di valutare la deposizione della cui veridicità egli dubiti; d’altro canto, il consentirgli di sospendere il processo in attesa di tale pronuncia non sarebbe risolutivo, giacché, secondo i principi generali, egli non ne sarebbe comunque vincolato. Pertanto, l’art. 207, co. 2, c.p.p. non restringe la soggezione del giudice soltanto alla legge e dunque la sua libertà di giudizio (C. cost., 2.6.1994, n. 208, in Cass. pen., 1994, 2626 ss.). A parere di certa dottrina, a suggerire la pronuncia d’infondatezza può aver concorso la considerazione che, in conseguenza dell’interpretazione estensiva nel frattempo data all’art. 507 c.p.p. sia dalla Corte di cassazione (Cass. pen., S.U., 6.11.1992, n. 11227, Martin, in Cass. pen., 1993, 280 ss.), sia con sentenza interpretativa di rigetto, della Corte costituzionale (C. cost., 26.3.1993, n. 111, in Foro it., 1993, I, 1356 ss.), il giudice del dibattimento ha oggi ampi poteri di acquisizione ufficiosa della prova e, quindi, ampia possibilità di vagliare autonomamente la veridicità della deposizione a lui resa dal testimone (Scaparone, M., Falsa testimonianza e divieto di sospensione del dibattimento, in Giur. cost., 1994, 1767 ss.).
Dell’obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte, la persona deve essere avvertita sia inizialmente, sia quando sia sospettata di falsità o reticenza, senza che, in seguito a questo sospetto e al conseguente avvertimento, mutino le forme dell’assunzione e diventi necessario procedere considerando la persona come sottoposta alle indagini (Cass. pen., 20.1.1993, n. 215, De Prisco, in Cass. pen., 1994, 2482 ss.). La nuova ammonizione non comporta né il reato di cui all’art. 372 c.p., né l’obbligo di invito a scegliersi un difensore. Al testimone può essere rivolto l’ammonimento a rispettare l’obbligo di rispondere secondo verità soltanto dal giudice. Tuttavia, in giurisprudenza, si è rilevato che l’omesso avvertimento al teste sospettato di falsità non comporta la nullità della deposizione (Cass. pen., 6.7.2004, n. 31384, in C.E.D. Cass., n. 229730). Le parti non possono ammonire il testimone, mentre possono sollecitare il giudice ad esercitare tale potere. Un ammonimento rivolto direttamente dalla parte potrebbe configurare una domanda vietata in quanto potrebbe nuocere alla sincerità della risposta, come ammonisce l’art. 499, co. 2, c.p.p. (Tonini, P., La prova penale, Padova, 2000, 58). Il codice distingue opportunamente tra i casi di renitenza e i casi di sospetto di falsità o reticenza. Qualora un testimone si rifiuti di deporre fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, in cui è legittimato o addirittura obbligato ad astenersi, il giudice provvede ad avvertirlo sull’obbligo di deporre secondo verità. Se il testimone persiste nel rifiuto, il giudice «dispone l’immediata trasmissione degli atti al pubblico ministero perché proceda a norma di legge». Quest’ultimo, ricevuta la copia del verbale di udienza, darà inizio alle indagini preliminari per accertare se sussiste la falsa testimonianza nella forma della reticenza; inoltre potrà chiedere al giudice l’applicazione di una misura cautelare, ove ne sussistano i presupposti (Tonini, P., Manuale di procedura penale, XVII ed., Milano, 2016, 303-304). Allorché, invece, il testimone renda «dichiarazioni contraddittorie, incomplete o contrastanti con le prove già acquisite», il giudice, su richiesta di parte o d’ufficio, gli rinnova l’avvertimento dell’obbligo di dire la verità. Ove il pubblico ministero non si attivi immediatamente, chiedendo copia del verbale di udienza, il giudice potrà attivarsi soltanto al temine del dibattimento. Infatti, l’art. 207, co. 2, c.p.p. dispone che «con la decisione che definisce la fase processuale in cui il testimone ha prestato il suo ufficio, il giudice, se ravvisa indizi del reato previsto dall’articolo 372 del codice penale, ne informa il pubblico ministero trasmettendogli i relativi atti». Ovviamente, perché la disciplina relativa al testimone sospettato di falsità o di reticenza oppure renitente trovi applicazione occorre che il dichiarante abbia acquisito la qualità di testimone. Ne consegue che essa è destinata ad operare negli ambiti “processuali” ossia in quegli ambiti che seguono al formale esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero. Pertanto, nessun dubbio sulla sua operatività nell’ipotesi di assunzione della prova dichiarativa dinanzi al giudice dell’udienza preliminare, ex art. 422 c.p.p., mentre ne appare più problematica la operatività all’esito dell’incidente probatorio. L’art. 207, co. 2, c.p.p. fa riferimento esplicito al processo e, pertanto, anche se il giudice dovesse ravvisare estremi di falsità o reticenza della deposizione assunta nella fase delle indagini preliminari con il mezzo tipico di anticipazione della formazione della prova, sembra opportuno che egli trasmetta gli atti al pubblico ministero, perché proceda per il delitto di falsa testimonianza, soltanto allorché venga emessa la decisione conclusiva dell’udienza preliminare o del giudizio abbreviato oppure venga pronunciata la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti. Ossia, solamente all’esito della fase processuale in cui venga utilizzata la dichiarazione assunta (presunta) falsa o reticente. In caso di testimone renitente, invece, anche il giudice per le indagini preliminari, indipendentemente dall’esercizio dell’azione penale, é tenuto a trasmettere gli atti al pubblico ministero, a norma dell’art. 207, co. 1, c.p.p. (Ruggieri, F., I testimoni falsi o reticenti, in Galantini, N. – Ruggieri, F., Scritti inediti di procedura penale, Trento, 1998, 79 e 81).
Nella «Relazione al progetto preliminare del c.p.p.» viene osservato che, anche in assenza di una notitia criminis, che inerisca ad indizi del delitto di falsa testimonianza, ex art. 372 c.p., il pubblico ministero potrà esercitare l’azione penale contro il testimone in virtù di una propria autonoma valutazione circa la falsità della deposizione, in qualsiasi momento, ossia anche prima che il processo in cui il teste ha deposto si sia concluso con sentenza irrevocabile oppure anche mentre è ancora in corso il dibattimento medesimo («Relazione al progetto preliminare del c.p.p.», in G. U., 24.10.1988, n. 250, serie gen., suppl. ord., n. 2, 64). Anche la dottrina, in generale, si è espressa in tal senso, ritenendo che non sia precluso al pubblico ministero di agire autonomamente contro il teste sospettato di falsità o reticenza, attraverso la richiesta al giudice di trasmissione della copia del verbale di udienza e di ogni altro atto ritenuto utile al fine di promuovere l’azione penale (Grevi, V., Prove, in Conso, G.-Grevi, V.-Bargis, M., a cura di, Compendio di procedura penale, VIII ed., Padova, 2016, 317; Menna, M., Prove dichiarative, cit., 167; Ruggieri, F., I testimoni falsi o reticenti, cit., 68; Scomparin, L., Testimonianza, in Le prove, a cura di E. Marzaduri, II.2, Torino, 1999, 71; Id., La tutela del testimone nel processo penale, Padova, 2000, 62; Tonini, P.-Conti, C., Il diritto delle prove penali, II ed., Milano, 2014, 217). Anzi, è stato sostenuto che il giudice in qualità di pubblico ufficiale avrebbe l’obbligo, ex art. 331 c.p.p., di informare senza ritardo il pubblico ministero di una notizia di reato appresa nell’adempimento delle funzioni, e, pertanto, delle dichiarazioni false o reticenti particolarmente evidenti (Perduca, A., Sub art. 207, in Comm. c.p.p. Chiavario, II, Torino, 1990, 485). Tuttavia, non manca chi sostiene che il pubblico ministero non possa promuovere l’azione penale contro un teste ritenuto falso o reticente prima che sia conclusa la fase processuale in cui egli ha reso la deposizione, ritenendo che altrimenti anche nel nuovo codice rivivrebbe il rischio di un uso distorsivo dell’invito a ritrattare (Casiraghi, R., La prova dichiarativa: testimonianza ed esame delle parti eventuali, in Ubertis, G.-Voena, G.P., diretto da, Trattato di procedura penale, XVI, Milano, 2011, 116 ss.). In senso contrario, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che costituisce causa di ricusazione, ex art. 37, co. 1, lett. b) c.p.p., per indebita manifestazione da parte del giudice del proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione, la immediata trasmissione da parte del giudice al pubblico ministero dei verbali di deposizioni testimoniali sospettate di falsità o reticenza senza attendere, come previsto dall’art. 207, co. 2, c.p.p., la decisione della fase processuale nella quale il testimone ha deposto. È contrario, infatti, al principio del giusto processo, che impone la netta distinzione tra il momento di acquisizione e quello della valutazione della prova, consentire al giudice di anticipare il convincimento ad un momento anteriore alla completa acquisizione probatoria ed alla fase deliberativa (Cass. pen., 26.1.1999, n. 475, Iacopini, in Cass. pen., 2000, 3074 ss.). La similitudine di significato tra il termine “contraddittorie” e quello “contrastanti”, nonché la separazione operata dal segno di interpunzione tra quest’ultimo ed il secondo, delimita la categoria della falsità, consentendo di riconoscere come contrastanti e contraddittorie tutte le dichiarazioni segnate dal comune dato dell’incoerenza. Sennonché, mentre nel primo caso il vizio emerge nell’ambito del dictum, e cioè dal confronto tra i vari segmenti di esso, nell’altro l’antinomia scaturisce dalla contrapposizione del contenuto, complessivo o parziale, della testimonianza con quello di altre prove già acquisite. La seconda categoria, quella della reticenza è esauribile nell’ipotesi in cui le informazioni siano incomplete (Scarpelli, M., Sub art. 207, cit., 1059). Ed incomplete sono le dichiarazioni mancanti di qualche elemento, la cui lacunosità può emergere sia attraverso l’esame interno della deposizione, che mediante il confronto della stessa con altri elementi di prova (Perduca, A., Sub art. 207, cit., 486).
In tema di valutazione della testimonianza, il sistema introdotto dal codice di rito penale separa nettamente la valutazione della testimonianza ai fini della decisione del processo in cui è stata resa e la persecuzione penale del testimone che abbia eventualmente deposto il falso, attribuendo al giudice il solo compito di informare il pubblico ministero della notizia di reato, quando ne ravvisi gli estremi, in sede di valutazione complessiva del materiale probatorio raccolto. Ne consegue che la deposizione dibattimentale del teste, pur se falsa, rimane parte integrante nel processo dibattimentale in cui è stata resa e costituisce prova utilizzabile e valutabile in relazione all’altro materiale probatorio legittimamente acquisito – anche sulla base del meccanismo disciplinato dall’art. 500, co. 4, c.p.p. – ( Cass. pen., 23.11.2011, n. 18065, in C.E.D. Cass., n. 252531, che ha ritenuto non sanzionabile, né ininfluente sulla valutazione della prova testimoniale, ma solo frutto di un’irregolarità, la scelta operata dal giudice nel disporre la trasmissione al pubblico ministero degli atti relativi ad ogni deposizione testimoniale sospettata di falso, non con la decisione che ha definito la fase processuale in cui essi hanno prestato il loro ufficio, ma subito dopo ogni singola deposizione. Nello steso senso, ma più risalenti, Cass. pen., 9.7.1990, n. 15437, Fontemurato, in Arch. nuova proc. pen., 1991, 469 ss., che, ponendo attenzione ai criteri di valutazione della prova dell’art. 192 c.p.p. e, specificatamente dell’ultimo capoverso, che afferma l’applicabilità dei principi generali anche al caso in cui la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un’altra circostanza, ha affermato che tali principi generali vanno contemperati con tutti gli altri principi, aventi anche valenza di diritto sostanziale, presenti nel nostro ordinamento, mentre le prescrizioni dell’art. 192, co. 3 e 4, c.p.p. costituiscono eccezioni ai più generali principi dei commi 1 e 2, e la loro rilevanza va rapportata al momento iniziale dell’assunzione della qualità di teste e non può trovare causa in eventi che si verifichino nel corso della deposizione testimoniale; Cass. pen., 29.5.1990, n. 16661, Penna, in Cass. pen., 1991, II, 642 ss.).
Ai sensi dell’art. 376 c.p. non è punibile il reato di falsa testimonianza se il teste «nel procedimento penale in cui ha … reso le sue dichiarazioni, ritratta il falso e manifesta il vero non oltre la chiusura del dibattimento». La disposizione si applica anche ai reati di false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis c.p.), false dichiarazioni al difensore (art. 371-ter c.p.), falsa perizia e falsa interpretazione (art 373 c.p.). La ratio dell’istituto è da ravvisare nell’esigenza che la legge offra «un’ultima chance di salvezza, cioè l’impunità, consistente nel dichiarare il vero ritrattando la deposizione falsa», prima che il giudice del dibattimento emetta un provvedimento conclusivo del giudizio, cercando, di tal guisa, «di recuperare, in punto di veridicità, i fatti oggetto del processo principale» (Garofoli, V., Prova testimoniale, in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, 795). Per una completa lettura della norma, mette conto di rilevare che la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 376, co. 1, c.p., «nella parte in cui non prevede la non punibilità di chi ritratta le false o reticenti dichiarazioni rese su richiesta della polizia giudiziaria delegata a norma dell’art. 370 c.p.p.» (C. cost., 30.3.1999, n. 101, in Giur. cost., 2000, 3181 ss.), mentre con una successiva decisione ha rifiutato di emettere analoga dichiarazione di incostituzionalità in rapporto a chi sia richiesto di fornire informazioni alla polizia giudiziaria agente di propria iniziativa, argomentando che, in tal caso, le false o reticenti dichiarazioni compromettono la tempestività e l’efficacia delle indagini, sicché l’eventuale ritrattazione non recherebbe alcun vantaggio alla giustizia stessa (C. cost., 16.10.2000, n. 424, in Dir. pen. e processo, 2000, 1604 ss.).
Art. 207 c.p.p.
Avola Faraci, R.M., Giudice ricusabile per aver trasmesso anticipatamente al p.m. verbali di prova, in Dir. pen. e processo, 1999, 1535 ss.; Casiraghi, R., La prova dichiarativa: testimonianza ed esame delle parti eventuali, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Ubertis – G.P. Voena, XVI, Milano, 2011; Conso, G., L'arresto del teste in aula, in Arch. pen., 1979, I, 142 ss; Cordero, F., Procedura penale, IX ed., Milano, 2012; De Vero, G., Rifiuto di uffici legalmente dovuti, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 831 ss.; Di Bitonto, M.L., Sub art. 207, in Comm. breve c.p.p. Conso-Grevi, Padova, 2005, 650 ss.; Di Giovine, O., Testimonianza (falsità di), in Dig. pen., XIV, Torino 1999, 298 ss.; Dominioni, O., I limiti cronologici della ritrattazione, in AA.VV., La testimonianza nel processo penale, Milano, 1974, 241 ss.; Fioravanti, L., Rifiuto di uffici legalmente dovuti, in Dig. pen., XII, Torino, 1997, 292 ss.; Galati, A., Arresto del falso teste e giudizio immediato, in AA.VV., La testimonianza nel processo penale, Milano, 1974, 197 ss.; Garofoli, V., Prova testimoniale (diritto processuale penale), in Enc. dir., XXXVII, Milano 1988, 649 ss.; Giannone, A., Il divieto di arresto in flagranza per i delitti di false informazioni, calunnia, favoreggiamento in dichiarazioni rese al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria, in AA.VV., Commento alle nuove norme sulla custodia cautelare (l. 8 agosto 1995, n. 332), Bologna, 1996, 245 ss.; Grevi, V., Prove, in Conso, G.-Grevi, V.-Bargis, M., a cura di, Compendio di procedura penale, VIII ed., Padova, 2016; Guarneri, G., La ritrattazione della falsa testimonianza, in AA.VV., La testimonianza nel processo penale, Milano 1974, 221 ss.; La Cute, G., Falsa testimonianza, in Enc. giur. Treccani, Roma 1989, 1 ss.; Longobardo, C., Le false dichiarazioni al difensore, in Il nuovo ruolo del difensore nel processo penale, a cura di M. Ferraioli, Milano, 2002, 383 ss.; Lozzi, G., Lezioni di procedura penale, IX ed., Torino, 2014, Marandola, A., False dichiarazioni al pubblico ministero e arresto in flagranza, in Cass. pen., 1995, 1868 ss.; Masiello, A., Dubbi sulla legittimità dell’arresto in flagranza ordinato dal pubblico ministero, in Giur. it., 1994, II, 645 ss.; Menna, M., Prove dichiarative, in Trattato di procedura penale, a cura di G. Spangher, II.1, Le prove, a cura di A. Scalfati, Torino, 2009, 109 ss.; Perduca, A., Sub art. 207, in Comm. c.p.p. Chiavario, II, Torino, 1990, 482 ss.; Preziosi, S., Falsa testimonianza e false informazioni al pubblico ministero, in I delitti contro l'amministrazione della giustizia, a cura di F. Coppi, Torino, 1996, 215 ss.; Procaccianti, T., Testimonianza, in Dig. pen., Aggiornamento III, Torino, 2005, 1648 ss.; Ramajoli, S., La prova nel processo penale, Padova, 1995; Ravagnan, L., La nuova disciplina per il testimone falso o reticente, in Giur. mer., 1989, IV, 1024 ss.; Id., L’art. 371 bis c.p. e l’arresto della persona informata sui fatti di indagine, in Riv. pen., 1993, 897; Id., Illegittimo l'arresto della persona informata sui fatti asseritamente falsa o reticente, in Riv. pen., 1995, 166 ss.; Ruggieri, F., I testimoni falsi o reticenti, in Galantini, N.-Ruggieri, F., Scritti inediti di procedura penale, Trento, 1998, 63 ss.; Scaparone, M., Falsa testimonianza e divieto di sospensione del dibattimento, in Giur. cost., 1994, 1767 ss.; Scomparin, L., Testimonianza, in Le prove, II.2, a cura di E. Marzaduri, Torino, 1999, 1 ss.; Id., La tutela del testimone nel processo penale, Padova, 2000; Scarpelli, M., Sub art. 207, in Codice di procedura penale ipertestuale, a cura di A. Gaito, I, Torino, 2008, 1057 ss., Sturla, M.T., Prova testimoniale, in Dig. pen., X, Torino 1995, 405 ss.; Tonini, P., La prova penale, Padova 2000; Id., Manuale di procedura penale, XVII ed., 2016; Triggiani, N., Testimonianza, in Ferrua, P.-Marzaduri, E.-Spangher, G., a cura di, La prova penale, Torino, 2013, 149 ss.; Ubertis, G., Assunzione di informazioni, divieto di arresto e nemo tenetur se detegere, in Id., Verso un «giusto processo» penale, Torino 1997, 117 ss.; Zacchè, F., Falsa testimonianza, valutazione anticipata e iudex suspectus, in Dir. pen. e processo, 1999, 1417 ss.